Anno LXI N°1 - MAGGIO 2016 VIAREGGIO
Preti e parrocchie
a servizio
del sacerdozio di tutti
Cinquanta anni di in-fedeltà
Alcune celebrazioni diocesane mi stanno ricordando che, alla fine del giugno prossimo, saranno 50
anni dalla mia ordinazione sacerdotale. Non ho mai dato peso a questi anniversari per la semplice
ragione che non vivo la mia esperienza sacerdotale (più in generale la vita, credo) come un
cammino continuo che si srotola nel passare del tempo. Piuttosto sento la vita come un susseguirsi
di "provocazioni", in alternanza di ritmo e di intensità, cui seguono da parte mia risposte diverse, a
volte così diverse tra loro da poter essere riferite ad una stessa storia unicamente in quanto il
"protagonista" è lo stesso.
Così non ho nessuna intenzione di festeggiare (che cosa?), salvo quelle semplici iniziative che
venissero dai miei due compagni di ordinazione, dalla loro sensibilità e dal desiderio di rispettare in
loro un'amicizia e un affetto cresciuto negli anni.
Tuttavia la mia storia mi incuriosisce.
Non credo affatto che abbia un particolare valore. La sento come una storia comune a tante che si
sono snodate nel corso del tempo e che meritano l'unico ricordo nella pietra di questo mondo dov'è
incisa la parola "umanità".
Mi incuriosisce rileggerla, la mia storia, sia pure per sommi capi, e provare la sorpresa di far
riemergere pezzi di vita non dimenticati, ma solo messi da parte perché tante (ancora troppe!) sono
le avventure che ogni giorno mi si affollano intorno. E lo faccio con un riferimento ambizioso,
quello di Sirio (don Sirio Politi), cui devo tanto, per aver goduto nella sua amicizia, di tanta libertà,
di un infinito rispetto da parte sua nei confronti del mio percorso di vita, di una grande pazienza
verso di me.
Per certi versi la storia sacerdotale di Sirio e la mia possono sembrare procedere in direzioni
opposte e contrarie: lui, inizialmente parroco (Bargecchia, negli anni durissimi dell'immediato
dopoguerra) fino ad essere sacerdote della e nella vita. Io, inizialmente "bloccato" per anni in una
condizione sacerdotale sospesa e vissuta nel lavoro e nella quotidianità, e ora, in fine vita, parroco
"a distanza" nello snodo (ancora tutto da costruire) di una realtà ecclesiale che deve fare i conti con
la rarefazione delle figure sacerdotali.
Eppure mi pare che - nelle reciproche marcate differenze - abbiamo continuato a camminare senza
perderci di vista. E per me Sirio è ben più che una stella!
Un'utopia per la Chiesa
Ho sempre tenuto presente il suo ultimo scritto in Lotta come Amore uscito nel dicembre 1987. Due
mesi dopo morirà a seguito di un intervento di sostituzione di una valvola cardiaca nel suo corpo
ormai consunto e martoriato. Sono per me parole consacrate dalla visione chiara del suo destino e
dalla dichiarata volontà di accettazione.
Lo scritto inizia con un preambolo al plurale cui sento di appartenere pur nella fragilità del mio
incerto procedere:
Per noi, ma non sto qui a chiarire chi siamo questi noi, pensare, riflettere, lavorare
d'intelligenza, fare cultura; ricerca teologica, coinvolgersi politicamente, lottare
socialmente ecc. ecc. in fondo è sempre unicamente raccontare.
È vivere cioè la grande avventura prima di tutto nel proprio mondo interiore, in quella
spaziosità dell'immaginario assai più vasto della volta del cielo dove perfino le galassie
ridimensionano la loro immensità e ugualmente nella profondità del mistero umano e
della storia che inizia prima dell'inizio e continua ad esaltare e sgomentare, fino alle
misure che sembrerebbero estreme, di questo nostro tempo.
Non è come sembrerebbe, eccezionalità questo vivere nella propria interiorità,
l'universo: è semplicemente saper guardare la realtà, qualunque essa sia e
l'immaginario, pazzo quanto si vuole, dentro di se, come in uno specchio. Portiamo tutti
la capacità e insieme, quando non viene annebbiata, la trasparenza, perché la realtà
dell'esistenza si rifletta in noi donandoci la possibilità di raccontare.
E qui, con un breve passaggio, Sirio inizia a scrivere parlando di sé in prima persona: è il racconto
della sua fedeltà a Dio in Gesù in un cambiamento continuo senza interruzioni, senza parentesi,
senza sosta. Lasciandosi fare da Dio in una fiducia incondizionata anche quando è la chiesa a
metterlo in croce.
È questo raccontare, la vera e propria narrazione, che svela e manifesta i pensieri, le
idee, i progetti, quest'animazione invisibile eppure determinante delle scelte, delle
vicende, dello svolgersi, del dipanarsi del vivere la vita.
Il racconto della propria storia, insignificante o interessante che sia, significa che
niente è avvenuto per caso ma per una preordinazione maturatasi dentro di noi, fino ad
imporsi, a diventare inevitabile perché identificatasi con noi stessi.
L'occasione è data dalla VII Assemblea Generale Ordinaria dei Vescovi che si tenne a Roma dal 1 al
30 ottobre 1987 con il tema "La vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo".
Questo sinodo non produrrà novità di alcun genere tranne la riproposizione della dottrina
tradizionale. Sirio segue come può l'andamento dei lavori, ma proprio la sua condizione ultima non
gli permette nessuna illusione e nello stesso tempo lo provoca a raccontare la storia che la chiesa si
ostina a tenere fuori della porta invece di farne motivo di profonda revisione di sé.
Pensavo e rigiravo dentro di me queste riflessioni che del resto mi sono molto familiari
direi quasi come il mio respirare, nei giorni passati, durante il Sinodo dei Vescovi, a
Roma, sul ruolo dei laici nella Chiesa.
Non ho nessuna intenzione di entrare in questo assurdo problema che
fondamentalmente non dovrebbe essere nemmeno posto se la incontenibile e incessante
sopraffazione del clero non l'avesse reso e con questa precisa programmazione, una
impossibilità di soluzione.
Tanto meno avrei voglia di tentare chiarimenti teologici, più ancora evangelici,
motivazioni intelligenti - un po' più intelligenti - pastorali, dati anche i tempi ecc.
Ho letto più che è stato possibile alla mia disponibilità, le prolusioni gli interventi, i
documenti ecc. Ho seguito lo "spettacolo" delle cerimonie, così miseramente
intenzionate, liturgiche e assembleari ecc. Discorsi, qualche piccolo, fraterno scontro,
accenni di perplessità e insoddisfazione su tutto e su tutti la dolce nebbiolina ad
ovattare ogni novità, ad arrotondare qualche angolo, a ristabilire con fermezza
carismatica, come si conviene, la permanenza immutabile della Dottrina della
Tradizione, da parte del Papa.
Molto bene, cioè non ne discutiamo, non solo perché è inutile data l'impossibilità,
almeno attualmente di una qualsiasi novità, ma anche perché è dolorosamente chiaro,
nonostante il Concilio Vaticano II, che i tempi, "i segni dei tempi". non hanno alcun
potere nei confronti del clero, un mondo arroccato con ponti levatoi ovviamente
manovrati dall'interno, come il sinodo recente ha ampiamente dimostrato.
Quindi niente ricerca culturale, assolutamente nemmeno l'ombra di una polemica, tanto
meno l'ardire o la sciocchezza di avanzare idee, proposte ecc.
Il racconto
Però non può non essermi concesso il racconto, il raccontare.
Cioè quel ritornare indietro seguendo un filo conduttore, raggomitolandolo, a poco a
poco, fino ad arrivare all'inizio, al punto di partenza. Può essere che ritornando a quel
punto sia possibile capire tutto il racconto, per quanto strano possa apparire.
Ciò di cui vorrei raccontare è come è successo che io prete (era il 2 maggio 1943) a
poco a poco, ma progressivamente, mi sono ritrovato ad essere sempre meno prete. Non
so se questa patina ecclesiastica mi si è incrostata addosso. Forse nei primissimi tempi
del fervore novello, ma i tedeschi del '44 fecero un buon lavoro di riduttività di ogni
privilegio clericale. Poi subito dopo la parrocchia e la parrocchialità è sempre
micidiale per rendere clero anche i sacrestani. La responsabilità delle anime, la
disponibilità del Cielo e della Terra e quindi l'autorità.
Ho una memoria angosciosa dell'autorità per il semplice motivo che mi dovevo sforzare
per sentirmi un'autorità e gestirla quest'autorità comportandomi come uno che conta,
sa le cose, può e deve dare consigli, programmare e vigilare. Questa storia del vigilare
mi era praticamente impossibile, diventava tutto un artificio che metteva in gioco la
mia sincerità.
Non sto a raccontare la devozione per me della gente. Quella considerazione profonda,
l'ascoltarmi con assoluta fiducia, l'affidarsi, quasi consegnarsi a me, perche io avevo in
me, nelle mie mani, il potere, il potere sacro, sacramentale, il potere della parola, il
potere della cultura, il potere politico... Ero uomo da piedistallo e poggiavo i piedi
sull'umano e sul divino. Prete, sacerdote, ecclesiastico, chiesa... Così tanto che sotto
tutte queste bardature civili, ecclesiastiche, spirituali, liturgiche ecc. spesso non
avvertivo l'uomo semplice, libero, immediato, fatto di carne e di sangue, come tutti.
Avevo profonda la sensazione di essere uomo di Dio e non quella, o almeno anche
quella di essere uomo, concreto, pratico, fatto di quotidianità e di progetto.
Prete sì oppure prete no
Dunque mi trovavo profondamente a disagio, come fuori dalla mia strada, a fare il
prete perfettamente in linea (o quasi) con il mondo ecclesiastico, dentro quelli schemi
obbligati, quelle vie segnate e inconfondibili del Diritto Canonico, della Pastorale
stabilita.
Prete o per essere più chiaro, sacerdote, sì, e a gran cuore, dal più profondo dell'anima,
sicuro, sempre, che questa realtà di vita, era la mia unica vera ragion d'essere, il mio
caro, adorabile destino.
A un certo punto (la mia maturazione si è andata poco per volta, assolutizzando) è stato
inevitabile, si è imposta la necessità, prima e poi logicamente nella realtà pratica, di
smontare pezzo per pezzo, la mia costruzione ecclesiastica. Il prete si è andato
dissolvendo, il prete ecclesiastico e nel frattempo è andato costruendosi il prete-uomo o
se si vuole, l'uomo-prete. È il tempo della decisione, chiara e netta, senza eroismo e
bisogni di eccezionalità, di fare il prete-operaio.
È chiaro che a 36 anni, uscire dalla canonica, dalla parrocchia, dalla sicurezza a tutti i
livelli del mondo ecclesiastico, dal circolo chiuso e ben difeso dei privilegi ecc. e
andare a fare il manovale specializzato in un cantiere navale, la rottura fu totale. Il
prete scomparve e così tanto che non era facile ritrovarne i segni caratteristici se non
leggendo in fondo all'anima e scoprirne le profondità dove è sempre facile e possibile
incontrare il Mistero di Dio.
È così la continuità della storia, un raccontare che investe e coinvolge Dio, Gesù
Cristo, la Chiesa, il Regno di Dio, e quindi la libertà, la giustizia, l'uguaglianza: cioè il
vivere insieme, dove la distinzione, la separazione, la differenza non esiste e è
sacrilegio, tradimento che esista.
Il mio raccontare in fondo è raccontare camminando per la stessa strada di tutti,
vivendo l'identica avventura, pagando gli stessi prezzi, lottando per le stesse
liberazioni.
Ciò che accomuna appassionatamente è la Fede in Gesù Cristo e l'Amore per
l'umanità. Il prete che è soltanto prete non può essere cristiano, sarà sempre e soltanto
un prete.
Il gran problema che opprime e soffoca la Chiesa, Popolo di Dio, è soltanto questo che
i preti (leggi anche Vescovi, Cardinali, Papa) non sanno, non possono, non vogliono
essere che preti, vescovi papi. E perché questa possibilità-volontà non incontri
complicazioni o possibili difficoltà, i laici, cioè gli uomini e le donne, non devono
(ragioni divine o no) avere poteri, privilegi o tanto meno l'immagine del prete, l'uomo
consacrato ad essere diverso, inimitabile, al di sopra, chiuso e ravvolto di mistero...
Clero e laici
In questa realtà tipicamente propria di una religione (il cristianesimo non doveva
essere una religione) la distinzione fra laici e clero è indispensabile.
Così la separazione, la differenza. Anzi tutta la forza, la potenza dell'istituzione è
direttamente proporzionale alla solidità di questi piani e alla loro scrupolosa
organizzazione. È così anche l'esercito, per l'organizzazione dello stato, in una azienda,
per esempio una multinazionale ben organizzata ecc. ecc.
Gesù forse pensava e immaginava (sognava con adorabile utopia) che la sua Chiesa
sarebbe stata fondata sul servizio non sull'autorità, sui piccoli non sui potenti, sugli
ultimi e non sui primi ecc. Lo so che sono aspirazioni come sospiri di nostalgia, sogni
antichi, anche se sempre nuovi, utopie pazze, ideali assurdi...
Va bene, ma io ho il mio racconto pratico, la mia follia concreta, scelte, fatti, vicende
avventure, realizzazioni, vita vissuta, duramente pagata... e questo racconto è tutto un
progetto: un progetto assurdo, d'accordo, come tentativo di concludere una storia e
iniziarne un' altra, rovesciare posizioni e sistemi ormai assolutizzati, credere che
l'impossibile diventi possibile.
Da qui la proposta che il racconto di una vita, quella di Sirio, offre alla attenzione della chiesa che si
interroga sul rapporto tra clero e laici. Utopia di una soluzione da cui ci si è sempre difesi e che
anche ora viene tenuta lontana benché ci si affanni, sul piano teologico, a ri-valutare il comune
sacerdozio che ci viene dal Battesimo.
Il mio racconto, assai più scarno e anonimo di quello di Sirio
A quel tempo il mio racconto non era solamente più breve nell'arco temporale, ma anche più scarno
e anonimo. Sono stato ordinato prete nel giugno del 1966. Il mio primo incarico pastorale da parte
della diocesi è del febbraio 1982. E anche allora, la mia nomina a parroco di Casoli di Camaiore fu
dovuta al fatto che, tra noi (Sirio, Rolando, Beppe e io) avevamo deciso che l'esperienza
parrocchiale avrebbe giovato a Beppe che emergeva in quel tempo da dieci anni di impegno con i
ragazzi che gli erano stati affidati e che avrebbe potuto allargare (come di fatto avvenne) l'ambito di
relazione familiare con l'intero paese. Solo l'eccesso di burocrazia del vescovo pro tempore non
riconobbe Beppe che proveniva senza documenti dalla diocesi di Firenze e accettò me a farne le
veci.
Ci sono certo più motivi per cui sono stato lasciato a bagnomaria dai superiori diocesani per quasi
16 anni. Ma, al di là dei motivi e della mia parte di responsabilità, resta il fatto di una esperienza di
vita sacerdotale che per anni si è nutrita di una ricerca di fede molto vicina a quella di un qualsiasi
giovane uomo alle prese con il formarsi di una identità personale, della riconversione lavorativa
rispetto alla preparazione scolastica, delle scelte di modalità relazionali e di vita condivisa.
Quegli anni mi hanno abituato a vivere alla pari degli altri, senza bisogno non solo di segni
distintivi, ma anche nel pensarmi portatore di particolari diritti. Al contrario, mi sono sentito come
uno che cammina un po' più indietro agli altri semplicemente per aver dovuto ripetere quei tratti di
vita (per altri affrontati da subito) in cui si cresce laicamente nella responsabilità e nella autonomia.
E così condivido non solo il pensiero, ma anche il linguaggio di Sirio in questo suo scritto che può
sembrare farsi pesante strumento di sprezzante giudizio mentre sottolinea una mentalità ancora ben
presente per cui il prete si sente esente da tutto ciò che regola la responsabilità e la libertà di
cittadini. E Sirio trova la soluzione del problema del rapporto tra clero e laicato non tanto in una
doverosa assunzione di responsabilità del laicato, quanto in un necessario cambiamento radicale del
clero.
L'utopia
Perché è qui il mio racconto, io ho creduto, umilmente e ingenuamente, che il gran
problema del rapporto fra il clero e il laicato potesse essere affrontato e in parte
risolto, attraverso un cambiamento radicale del clero.
Abbreviarne le distanze, cancellare le differenze, spazzar via i privilegi, camminare
sulla stessa strada, essere uguali o meglio ancora sotto i piedi di tutti, essere gli ultimi,
senza diritti e solo con infiniti doveri... non essere più preti, clero, mondo ecclesiastico,
ma semplicemente degli accattoni della bontà altrui, dei coinvolti e possibilmente dei
travolti dalle lotte per la libertà, la giustizia, la testimonianza di una alternativa che si
chiama Regno di Dio al regno degli uomini...
Il mio racconto, insignificante ma chiarissimo di Fede e di Amore alla Chiesa. L'essere
operaio ha voluto dir questo, prima di qualsiasi altra cosa: togliere via una
qualificazione, quella di essere prete eppur rimanere serenamente prete, uomo di Dio,
fratello universale. Come lasciar cadere una maschera, un paludamento, una "divisa" e
ritrovarmi, come solo, io, allo scoperto, con tutta la mia Fede e quella misteriosa
carica di Amore fraterno, appassionata e inesauribile.
Il racconto può essere, è lungo quanto tutta la mia vita sacerdotale e il raccontarlo
richiederebbe lunghe serate intorno al caminetto come nelle novelle del nonno.
Lo so che non è stato accettato durante l'avventura e tanto meno può essere gradito il
racconto "quando ormai si fa sera" e non solo individualmente, ma anche nella Chiesa.
Allora i Sinodi per dibattere la spinosa questione del clero e del laicato: ma è perché
tutto rimanga e si solidifichi così: il clero, il clero e i laici, laici.
E cioè come dire: amici e nemici. Potere e servizio. Autorità e popolo. Il monumento e
il piedistallo. Il carro e chi sta sul carro e guida l'asino che rassegnatamente da
millenni tira il carro e tutti coloro (sono tanti) che vi stanno comodamente adagiati.
Dalla parrocchia di Bargecchia
al lavoro nella darsena di Viareggio
Don Sirio Politi, giovanissimo sacerdote, fu nominato dapprima cappellano di Bargecchia, borgo
che dalla collina si affaccia sul mare di Viareggio, nel 1944; poi parroco dopo la notizia del
ritrovamento in una fossa comune nel cimitero di Filettole (Pisa) nel marzo del 1946, del corpo di
don Giuseppe Del Fiorentino preso prigioniero e fucilato insieme ad altri dai soldati della SS
tedesca.
Nel 1955 ottiene il permesso dall'allora arcivescovo di Lucca mons. Antonio Torrini di cercare
lavoro nella Darsena di Viareggio, esteso cantiere a cielo aperto che contava allora oltre 5.000
addetti.
Questa la lettera che don Sirio lasciò ai parrocchiani in un clima emotivamente ricco di sofferenza
per il distacco e di fiducia che tutto avvenga per amore di Dio.
"Carissimi,
Vi scrivo queste poche righe per salutarvi. E' come se entrassi in ogni famiglia e
salutarvi uno per uno. Non posso farlo e non ne avrei nemmeno il coraggio e la forza:
la commozione certamente mi vincerebbe...
Sono stato qui finché sono stato sicuro che Dio lo voleva, ora so che me ne devo andare
anche se andar via di qui per me vuol dire andarmi a "perdere" chissà dove e chissà
come. Conosco bene quello che lascio e mi pare di sapere assai anche quello a cui vado
incontro. Sarà quello che sarà, l'importante è fare la volontà di Dio. Lui conta
infinitamente di più di qualsiasi altra cosa, anche della nostra stessa vita. Tutto questo
sapete che è la Verità e allora bisogna farci coraggio e andare avanti...
Ora poi mi sembra di essere come un attrezzo fuori uso o come una macchina smontata.
Non potevo sopportare la responsabilità di rimanere ancora qui sapendo di non
riuscire a fare tutto quello che è necessario per il buon andamento di una parrocchia.
Ormai, da anni, la mia mentalità è molto cambiata: ormai per voi potevo soltanto
pregare: cosa che posso fare e che farò dovunque mi trovi...
Sono convinto che per me sarà anche troppo poter fare il povero prete capace soltanto
di dire una parola buona, paternamente, a chi forse non ha nessuno che gliela dica:
poter vivere silenziosamente accanto a chi lavora, a chi soffre, cercando soltanto di
essere un po' di Amore per tutti...".
"Poter vivere silenziosamente accanto a chi lavora, a chi soffre, cercando di essere un po' di Amore
per tutti...". Per Sirio è come un approfondimento della prima chiamata - in seminario - in cui
decise di prendere sul serio Dio. Le nottate passate in preghiera, i contatti durante viaggi in
lambretta specie in Francia, dove si era cominciata a scrivere la storia dei preti operai, lo portarono
su nuove sponde, mentre le strutture parrocchiali del dopoguerra spiegavano le vele per contrastare
il comunismo, il materialismo del lavoro operaio e del suo anelito verso una maggiore giustizia
sociale.
"Ormai da anni, la mia mentalità è molto cambiata..." e quando va a chiedere al vescovo Torrini il
permesso di entrare come operaio nel mondo del lavoro, manifesta al vescovo questo suo
cambiamento e l'inquietudine di una ricerca che lo spinge fuori dai percorsi già tracciati. Una
inquietudine che gli deriva in gran parte da letture che lo provocano ad un confronto serrato con la
vita che concretamente sta portando avanti. E il vescovo, paternamente, lo rimprovera: "Sirio, Sirio,
tu leggi troppi libri... specialmente quei libri francesi che possono portarti fuori strada...". E Sirio
risponde: "In verità è solo un libro quello la cui lettura mi agita davvero nel profondo, e questo libro
è il Vangelo!".
La fiammata del lavoro operaio lo rende incandescente fin nel profondo e lo spirito al limite della
fusione forgia una consapevolezza nuova. La sofferenza di una chiesa che non solo lo tiene a
distanza, ma lo mantiene nell'isolamento del separato culmina nell'aut aut del 1959 quando il dettato
vaticano gli impone di decidere per una fedeltà a discapito dell'altra cui non può fare più a meno.
Deve essere stato per lui come il ferro quando passa rapidamente dal calore della forgia all'acqua
fredda e acquista la tempra che lo renderà capace di una resistenza sorprendente. Rimane fedele alla
chiesa, ma nello stesso tempo non perde nessun elemento che lo ha reso davvero uomo; si piega, ma
non si spezza.
La parrocchia di Bicchio
nella condizione
del lavoro e della vita comune
Rinasce in una storia di obbedienza che ha la trasparenza e la leggerezza di un sogno. "Una zolla di
terra" diviene un fiore che attira infaticabili cercatori dello spirito. Dopo un viaggio in Terra Santa,
nella contemplazione di Dio che si fa storia, nella mediazione possibile del vescovo Bartoletti
riprende la via di una vita parrocchiale nuova, nella periferia di Viareggio. E' il progetto di una
comunità cristiana che nasce non intorno a un novello pastore, ma una comunità parrocchiale
animata da una famiglia sacerdotale, una famiglia "a servizio" delle altre famiglie. Don Sirio ne é
responsabile di fronte al vescovo, don Rolando il parroco per la Curia, Maria Grazia la novità che
interrompe anni e anni di rigida separazione dei sessi, ritrovando per la chiesa e nella storia della
chiesa antiche e sempre nuove esperienze di integrazione delle differenze. Poco dopo insieme a loro
si unirà Mirella.
Siamo quattro povere vite che Dio ha scelto per farne segno della Sua realtà, legate
allo stesso destino di tutti coloro che sono stati prescelti dall'eternità e un giorno
chiamati. Camminiamo insieme nella ricerca del Suo Regno e quando Lui lo vorrà i
nostri sentieri si separeranno così come un giorno si sono uniti. Abbiamo messo Dio fra
noi e perciò nel Suo nome ci offriamo la nostra vita mettendo in comune tutto ciò che
può fare il Regno di Dio: siamo due ragazze e due sacerdoti, insieme abbiamo creato
questa piccola famiglia, questa povera casa. Non c'è che un ideale che ci unisce:
servire Dio, amarLo con tutto il cuore e tutte le forze fino al impossibile, cercarLo
senza fine, vederLo in ogni realtà.
Non abbiamo vincoli particolari, non ci legano promesse ne voti, tutto è nella libertà
dei figli di Dio, nella serietà di chi ha scelto come unico esempio il Figlio dell'Uomo,
nella purezza di chi crede che nel Regno di Dio non vi sarà più ne uomo né donna
perché in Dio sarà finalmente ricomposta l'unione perfetta.
Ci muove - diverso in modi, esperienze, maniere, espressioni, ma soprattutto diverso
per quel rapporto particolare di Grazia che Dio genera unico e irrepetibile con le
singole persone - ma identico come motivo dominante l'amore immenso adorante
appassionato serissimo per il nostro Dio. Per Lui tutto accettiamo, il Lui tutto mettiamo
in comune; ogni diritto lasciamo cadere e non raccogliamo più i motivi immediati. Non
vi sono privilegi se non quello di offrire ciò che si ha, e chi più ha ricevuto più deve
dare e maggiore è la sua responsabilità di servizio.
La comunità
Viviamo insieme ormai da tempo; ci eravamo conosciuti, avevamo messo in comune le
nostre ricerche e il nostro amore e il nostro Dio: è nata la casa, famiglia di tre persone,
a noi ora si è aggiunta la quarta. E poi forse qualche altro, non sappiamo, il futuro non
ci deve preoccupare.
Ci preoccupa realizzare ora, immediato, il Segno di Dio, di offrirlo agli altri, di viverlo
nella Chiesa, di amare questa povera Chiesa, piccolo gregge, luce del mondo alla quale
è legato con responsabilità così pesanti il destino degli uomini. La Chiesa è il nostro
secondo amore, nella strada di quello che porta a Dio: amiamo il suo mistero così
chiaramente svelato in tutto il piano di Dio che sceglie sempre pochi per annunciare al
mondo le meraviglie del Suo Essere; mistero che è stato già tutto vissuto nella persona
di Gesù, mistero che deve ripetere la vita del Figlio di Dio, incarnazione del Suo amore
lungo i secoli, via che congiunge gli uomini al Padre - cuore fatto unicamente di Bontà,
di comprensione, di pazienza, di speranza, di fede e di Verità.
I nostri ideali, le speranze, la sofferenza, lo svolgersi dei giorni, il nostro amore che
forse è come un sogno di chi non si vuole svegliare, viviamo tutto in un posto, un luogo
preciso, una parrocchia, una casa: la nostra casa.
Un luogo, una parrocchia, una casa, un'officina
Viviamo alla periferia di Viareggio, una zona pianeggiante fra il mare e l'Aurelia,
campagna coltivata in modo intensivo con serre, a verdura e a fiori. La parrocchia è
grande, compresa fra Viareggio e Torre del Lago, gli altri due confini sono il "padule" -
l'insieme di canali che nascono dal lago di Massaciuccoli - e il mare.
Gli abitanti sono relativamente pochi, data l'ampiezza dell'area, ma in campagna non
esistono abitati intensivi. E' gente, la nostra, buona e tranquilla, senza problemi
particolari; famiglie unite, non numerose, gente abituata al lavoro che cerca di fare
studiare i giovani perchè non debbano anche loro coltivare i campi od essere schiavi di
un lavoro che non conosce orari.
Noi abitiamo in una vecchia casa, forse una delle più antiche del luogo, che si trova -
per caso - quasi al centro della parrocchia. Tre anni fa quando il Vescovo ci diede la
parrocchia, nominando uno dei due sacerdoti parroco e permettendo che presso di loro
vivesse una piccola comunità, cominciammo a cercare la nostra casa. Non volevamo
vivere in una canonica, preferivamo essere come gli altri, confondendoci fra le
famiglie, vivere accanto a loro ed offrire a tutti la possibilità di venire da noi senza quel
timoroso ossequio che ha sempre chi entra in canonica. E:poi era bello andare ogni
mattina alla chiesa con chi voleva venire, facendo anche noi quel piccolo sacrificio.
Abbiamo trovato e preso in affitto questa abitazione, tipica del luogo, lunga e stretta, a
un piano, sei camere da letto di sopra e sotto la cucina e un'altra stanza, la sala; due
cantine, il fienile e la stalla. Davanti alla casa c'è una piccola vigna che serve per il
vino durante l'anno, accanto un orto, un fazzoletto di terra renosa che ci è utile per
tirare avanti. Come in ogni casa di campagna dietro c'è la corte, il pollaio con le anatre
e le galline, gli stabbioli per i conigli, e poi i piccioni, tortore, due caprettine, perfino
uno scoiattolo: un po' di tutto più per spirito di poesia che per convenienza.
Sempre dietro, un po' scostato c'è il fienile con sotto la stalla, ma il progetto di mettere
su qualche vitello è stato abbandonato da tempo per mancanza di terreno da erbaio, di
soldi e per inesperienza. Abbiamo trasformato il fienile in cappella, povera, semplice
abitazione del nostro Signore, umile stanza che da quando è abitata da Lui è diventata
il centro della nostra casa; il Suo stare fra di noi, la Sua bontà nell'abitarci accanto,
racchiuso nel ceppo di una quercia - la base della croce - ha cambiato la nostra vita. Il
Figlio di Dio è venuto ad abitare fra di noi, perché temere? La Sua pace è con noi, in
Lui la nostra sicurezza, la nostra ricchezza, dov'è il vostro tesoro lì è il vostro cuore.
Da quando è abitato da Gesù, il fienile non è più quello, è un po' il nostro simbolo,
semplice e umile contenenza di Dio, diverso, rinnovato, dilatato all'infinito, reso più
ampio dal grande vetro che sostituisce la parete di fondo e che ci dà di guardare i
campi e le case, obbligando la nostra preghiera ad essere tutta per gli altri, per il
mondo intero, la cui sagoma è dipinta di rosso sul vetro, trasparente contro i pochi
alberi e il cielo, Guardiamo il sole la mattina durante la messa e l'aria che si spenge
all'imbrunire dalla nostra finestra aperta sul mondo contro la quale si staglia la croce
col tabernacolo - le sere d'inverno quando si prega silenziosi e si vede la nebbia salire e
circondare la cappella stemperando e confondendo i contorni delle cose - pare di
lasciare il tempo e immergerci nell'eterno col nostro Dio.
E' tutta qui la nostra cappella, la croce di quercia - una quercia trovata per caso nella
pineta vicino al mare, con il ceppo allargato quasi a forma di cuore - e inchiodato sulla
croce un Cristo fatto di tralci di vite; il ceppo della quercia è stato scavato e dentro è il
tabernacolo, chiuso da una porticina di ferro che ha una grossa chiave: Gesù apre il
mistero di Dio e dell'uomo, in Lui il buio diventa chiarezza. La mensa dell'altare, una
grossa tavola di legno, poggia sul tino, le panche sono tronchi di albero tagliati a metà,
qualche sedia, un leggio, un inginocchiatoio, niente altro.
Sotto il fienile, la stalla è stata trasformata in officina del ferro battuto: la forgia, il
trapano, il banco di montaggio con le morse e la saldatrice obbligano ogni giorno don
Sirio e don Rolando al lavoro che aiuta l'economia della famiglia. Dal soffitto e sulle
pareti annerite dal fumo del carbone bruciato, i pezzi forgiati: presso la cappa della
forgia il Crocifisso che sorregge la fatica di un uomo chino sull'incudine; lì vicino, a
grandi caratteri, una frase di San Luca: "Non è costui il figlio del fabbro?".
in Popolo di Dio: PdD anno 2° aprile-maggio 1969, Aprile 1969
La "città" ribolle,
bisogno di aria nuova
La vita scorre nell'alveo di una giornata segnata dai ritmi della campagna e del lavoro artigiano. La
gente del posto si abitua al suono argentino dell'incutine su cui viene appoggiato il ferro
incandescente per poterlo forgiare fino a comporre i disegni tracciati dal gesso sulla lamiera. Nelle
serre i fiorai si abituano ad avere accanto a loro, chinati sui filari colorati, persone che vengono da
diverse parti d'Italia alla ricerca di se stessi nella semplicità della condivisione della fatica
quotidiana, di una tavola apparecchiata con cibi poveri preparati con amore, di un confronto ruvido
di sincerità, di una preghiera silenziosa fatta di ascolto con le ginocchia a terra che cercano luce.
La domenica mattina è dedicata alla chiesa parrocchiale in un incontro con Dio insieme alla gente
che abita intorno.
Nello scorrere di questi anni della seconda metà dei '60 del secolo scorso, gli effetti del boom
economico si avvertono anche nella periferia agricola. La terra lavorata si ritira per dare spazio a
nuove abitazioni che ostentano i simboli del benessere. Grandi serre coperte da vetri e sempre più
dotate di strutture e attrezzature per modificare il clima all'interno e poterci coltivare anche specie
esotiche sostituiscono le piccole serre coperte di teli di nylon. Cresce, anche se in modo per niente
uniforme, il benessere.
La piccola famiglia sacerdotale che vive nella vecchia cascina sente intorno a sé l'affetto e la stima
della gente, ma avverte il progressivo scollamento dei motivi che ne orientano l'esistenza.
Così scrive Sirio nel ciclostilato per gli amici della comunità rivolgendosi ai abitanti della
parrocchia:
Cari fratelli e sorelle della Comunità parrocchiale,
La Pasqua porti tutto il Mistero di Gesù Cristo, della sua Passione, della sua Croce e
della sua Resurrezione, nelle nostre anime, come purificazione dai peccati che sono
sempre ricerca egoistica e quindi realtà di morte e come rinnovamento di vita, la gloria
di una vita nuova, quella di figli di Dio, fratelli veri fra tutti noi.
Anche nella nostra comunità parrocchiale c'è tanto bisogno di vita nuova.
Sono già anni che noi sacerdoti siamo qui fra voi. Mescolati nella vostra vita, come
tutti voi a guadagnarci il pezzo di pane e offrendo nel frattempo tutta la nostra Fede e
tutto il nostro Ministero Sacerdotale per realizzare una comunità di famiglie, legate
insieme dalla Fede in Gesù Cristo e in ricerca di una sincerità cristiana e cioè di un
modo di vita nella quale Gesù Cristo conti veramente qualcosa e decida e determini
tutto un modo di pensare e di vivere.
Dobbiamo pero riconoscere, anche se con profonda sofferenza che il nostro modo di
vita sacerdotale per alcuni di voi, forse molto legati alle tradizioni e al come si è
sempre fatto, dato che è così particolare e diverso dal come sono sistemate e dal come
vanno avanti le altre parrocchie, non ha incontrato molto favore o se non altro
particolare comprensione e simpatia. E quindi la collaborazione è molto limitata, visto
che noi non siamo i soliti preti.
Per altri - e pensiamo che sono i più - può darsi che questo nostro modo di essere
sacerdoti e di tirare avanti una parrocchia, sia stato motivo dì simpatia, anche di
riavvicinamento alle cose religiose, ma tutto non è andato più avanti.
Non abbiamo con noi, dalla nostra parte sul serio, nemmeno un gruppetto di uomini o
di giovani. Non riusciamo a trovare qualcuno che condivida seriamente la nostra
ricerca di vita cristiana. Un accogliere Gesù Cristo nella propria vita e farne motivo di
indicazione di modo di vivere e impegno generoso di darne testimonianza intorno a se.
Ognuno nella nostra comunità parrocchiale, che pure dovrebbe essere cristiana, nei
propri interessi non va al di là di un benessere materiale, delle serre, dei campi e delle
vigne e dei propri problemi soltanto materiali.
Pochissimi si fanno un dovere serio per se e la propria famiglia della Messa la
domenica. Altri quando hanno tempo, come se Dio fosse il cenciaio che raccoglie ciò
che non serve, piuttosto che buttarlo via. Sono tanti, uomini e donne, giovani e ragazze
che lasciano come se niente fosse questo minimo di ricordo di Dio e della propria
anima, una volta la settimana e per un'ora di tempo.
E pensare che noi siamo di quei sacerdoti che pensano - e giustamente - che la pratica
religiosa non è certamente ciò che fa cristiani sul serio. E' soltanto un cercare l'aiuto di
Dio per una realtà e sincerità, di vita cristiana.
Cerchiamo degli amici che ci chiedano di voler darsi da fare insieme a noi per una
autenticità di Fede cristiana nella propria vita personale, nella famiglia, in questo
nostro mondo e specialmente nella Chiesa per riuscire ad offrire una testimonianza
cristiana che faccia onore a Cristo e non vergogna.
Cerchiamo di questi amici fra la nostra gente. E trovarli è importante per noi oltre a
tutto, anche per poter continuare in questa fatica di esperienza nuova, sacerdotale e
parrocchiale, da offrire alla pastorale della Chiesa così tanto stanca, logora e vuota e
anche per trovare, vivi e convincenti, i motivi per continuare a rimanere fra voi ancora
senza sentirci a disagio e in pena, come quando si tende la mano per una calorosa
stretta d'intesa e di amicizia e rimane tesa a vuoto perché nessuno la stringe.
La Pasqua ci porti tutti a una vera e seria novità di vita perché la resurrezione di Gesù
è inizio per i cristiani - e dovrebbe esserlo per il mondo intero - di una storia nuova e
diversa, quella dei figli di Dio.
Sono i nostri auguri e la nostra preghiera per tutta la comunità parrocchiale.
(Popolo di Dio, marzo 1969)
La città vicina ribolle e l'agitarsi del '68 preme sempre più da vicino anche la più tranquilla
periferia. Nuovi motivi di crisi e di lotta interrogano sempre più la vita della comunità sacerdotale.
Il lavoro operaio nella Darsena dei due don Beppe e di don Mario, giovani preti in ricerca di
impegno e di senso della loro vita e della loro vocazione, porta sulla tavola della cascina un flusso
di persone, di storie, di problematiche che provocano ad un impegno nella vita sempre più diretto e
coinvolgente. La presenza di una giovane famiglia di Milano con i loro due figlioletti riempie la
vecchia cascina di completezza umana e di slanci giovanili. Sono gli anni, a cavallo tra i '60 e i '70
che vedono quel piccolo punto periferico divenire un crocevia di cercatori di nuove esperienze, di
serio e attento ascolto del Vangelo, di seminagione di nuove forme di vita comunitaria, di rinnovati
slanci per un mondo più umano e più giusto.
La parrocchia si attesta sempre più su esigenze di vita propria, la religione mostra il suo volto teso a
conservare il passato attraverso il ripetersi di riti secondo modalità che consolano e rassicurano nei
confronti di tutto il nuovo che avanza. La piccola Chiesetta del Porto, rimasta vuota per la nomina a
parroco del suo temporaneo abitante (don Miro Matteucci, divenuto parroco della nuova parrocchia
del Varignano), accoglie di nuovo don Sirio, insieme ai giovani preti che continuano a fare
comunque riferimento alla comunità di Bicchio. E' l'inizio di un movimento di ritorno che si
affermerà all'inizio del 1972 quando si ricostituisce una presenza stabile alla Chiesetta con don
Sirio, don Beppe, Maria Grazia e il sottoscritto. A Bicchio, nella vecchia cascina, responsabile della
parrocchia, rimane don Rolando, custode generoso della memoria della gente del posto che può
leggere la propria storia nella casa da lui abitata fino al 1991, che conserva con lui ancora tutto il
fascino della semplicità della vita contadina di un tempo.
Anticipa questo movimento la nascita di una nuova testata del giornalino che, in vesti diverse,
prevalentemente con il titolo "La Voce dei Poveri", affidato fin dal 1960 a Sirio dalla dirigenza della
locale S. Vincenzo de' Paoli, raccontava lo svolgersi del filo che cuciva insieme la fede e la vita,
prima solo di Sirio, poi delle sue compagne e compagni.
La censura ecclesiastica costringe la S. Vincenzo a ritirare la testata. Sirio e la comunità continuano
la pubblicazione sotto il nuovo titolo "Lotta come Amore" tuttora esistente. E' significativo il titolo
dell'articolo di presentazione scritto da Sirio: "Di nuovo sulla strada". Non è un nuovo distacco
dalla esperienza della parrocchia, ma la convinzione di una libertà di ricerca e di testimonianza che
solo la dimensione personale ravvivata nel piccolo gruppo può offrire.
Dalla Chiesetta del Porto
l'impegno nelle parrocchie
La Chiesetta del Porto ritorna ad essere, alla fine del 1971, il "convento" di una comunità la cui
storia ideale è raccontata da Sirio nel suo ultimo libro "Antico Sogno Nuovo" (1983). "Convento"
non nel senso giuridico perché mai è affiorato in Sirio e nei suoi compagni l'idea di formalizzare
quel rapporto nato unicamente perché è stata tenuta aperta la porta del cuore nella accoglienza di
Dio nella vita di ciascuno e, come ci si è incontrati potevamo sempre liberamente lasciarci in
quell'unica libertà che nasce dalla fedeltà a Dio.
"Convento" nel senso etimologico della parola che implica un "convenire", l'incontrarsi di persone
che libere nella vita, mettono insieme il raccolto di ogni giornata per la semina di amore del giorno
seguente.
E cerca di esserlo tuttoggi.
Così negli anni seguenti gli abitanti della chiesetta dicono di sì, tra i loro impegni - ognuno nel
proprio ruolo -, alla responsabilità di altre parrocchie. Parrocchie per più ragioni scartate da altri
preti e quindi poco interessanti come lo sono in genere le persone che vivono sulla strada. Di questi
impegni tratteggio la storia specie nella fase dell'incontro mai cercato e tuttavia sempre accolto.
La parrocchia di Casoli di Camaiore
Una fredda sera d'inverno verso il Natale del 1981, bussano alla porta della chiesetta. Sirio e io
siamo in casa e ci troviamo a parlare alla grande tavola dell'ingresso con tre uomini.. Vengono da
Casoli di Camaiore, un paese attestato sul fianco delle prime Apuane, tra il Gabberi, il Matanna e il
Prana. Diversi uomini del paese lavorano nei cantieri del porto. Ci conoscono. Sono mandati dal
paese, cercano un prete e sanno che lì ce ne stanno tre. Dopo una esperienza poco felice con un
parroco che ha lasciato l'incarico, il vescovo ha proposto uno che poco dopo si rivelerà portatore di
un incerto percorso vocazionale. La gente protesta con il vescovo che impazientito dice loro di
andarselo a cercare un prete. Gente semplice, lo prende in parola e si mette in cerca.
Rispondiamo che accogliamo seriamente la loro richiesta, ma ne dobbiamo parlare insieme a don
Beppe e a don Rolando perché condividiamo con loro gli impegni di specifico carattere sacerdotale.
Una volta usciti, Sirio sentenzia che se fosse stato il vescovo a fare la richiesta si poteva anche
pensare di poter rifiutare in qualche modo, ma che trattandosi di un gruppo di persone - "vox
populi, vox Dei" - occorreva trovare il modo concreto per poter dire di sì...
Beppe accoglie con favore l'indicazione di uno spazio sia di relazione umana che abitativo (una
grande canonica) che può aiutarlo a maturare rinnovati impegni di vita al termine di 10 anni di
accudimento dei quattro fratellini di cui era diventato temporaneo tutore in attesa del ritorno in
libertà dei loro genitori. Noi gli assicuriamo fraterna e stretta collaborazione Rimaniamo, sia ben
chiaro, a Viareggio con tutti i nostri impegni di lavoro quotidiano, di ideali, di relazioni.
Facciamo sapere ai nostri tre interlocutori del paese che possono andare dal vescovo portando il
nome di don Beppe come parroco e la nostra dichiarata compresenza.
Dopo alcuni giorni vengo chiamato dal vescovo che mi dice senza troppi preamboli che don Beppe
(da undici anni inserito in Viareggio, conosciuto a livello cittadino per la sua testimonianza
esemplare...) per lui non esiste perché non ha mai chiesto l'incardinazione (vecchia procedura del
codice di diritto canonico, attualmente snellita e ridotta ad una semplice presa d'atto della presenza
di un sacerdote proveniente da altra diocesi nella pastorale ordinaria della diocesi di attuale
residenza) e quindi di nominarlo parroco non se ne parla neppure. A quel punto azzardo: "Non
potrei allora essere nominato io parroco?". Il vescovo: "Certo.".
Torno alla chiesetta e dico a Beppe che io ho la nomina a parroco di Casoli, ma che lui - secondo i
nostri accordi - sarà il parroco effettivo.
Quando nel 1988 Sirio morì, furono molti i casolini che parteciparono al suo funerale perché Sirio
era uno dei loro preti. E quando nel 1998 morì Beppe, tantissimi di loro furono presenti perché era
morto il loro parroco.
Tra noi non c'era "parroco" e quello di noi che era presente in quel momento nella parrocchia
ascoltava e decideva. E non c'è stata mai confusione tra noi, ma una comunicazione essenziale e
soprattutto una grande fiducia e stima reciproca.
La parrocchia dei Sette Santi Fondatori in Darsena
Nell'ultima parte del 1987 eravamo intorno a Sirio le cui condizioni stavano precipitando tra un
ricovero e l'altro in ospedale.
Quattro anni prima, il vescovo aveva deciso di fondare la parrocchia della Darsena. Fino ad allora la
piccola comunità della Darsena (luogo sempre meno abitato da persone e sempre più attrezzato per
il lavoro cantieristico, gli uffici delle compagnie, gli appartamenti destinati al turismo nautico)
aveva il suo punto di riferimento nella "Chiesina", ai margini della pineta di levante, gestita dai
Padri Servi di Maria e parte della parrocchia di S. Andrea la cui basilica era stata costruita nella
Viareggio vecchia, al di là del porto canale che separava la Darsena dalla città. Si andò quindi ad un
distacco della porzione della Darsena dalla parrocchia madre di S. Andrea. Fu nominato parroco un
prete con esperienza di missione e visione pastorale centrata sull'evangelizzazione. Quando si
procedette alle pratiche per la formalizzazione della nuova parrocchia, la curia si accorse che gli
abitanti non raggiungevano il numero di mille, minimo per la costituzione secondo gli accordi
concordatari con lo Stato. In fretta fu ritagliata una ulteriore fetta di caseggiati popolari per contare
in circa 1.200 gli abitanti residenti nella parrocchia intitolata, per rispetto alla sua storia, ai Sette
Santi Fondatori.
A essere sinceri, non la prendemmo bene. Eravamo affezionati ai Servi di Maria che venivano a
celebrare alla Chiesina. Non siamo mai entrati in conflitto con loro. L'assenza di opere pastorali alla
nostra chiesetta, aperta a tutti i bisogni e non finalizzata alla costituzione di un gruppo organizzato,
faceva sì che non ci sentissimo concorrenti, ma attivi nell'immenso campo della solidarietà umana.
Non riuscivamo a capire la logica di questa operazione e ci chiedevamo perché il vescovo era
andato a cercare un prete che poteva legittimamente ambire a ben altro incarico nell'interesse di
tutta la diocesi, fosse stato destinato lì dove vivevano altri preti in grado di occuparsi di una piccola
parrocchia quale la Darsena. Non riuscivamo a non sentirlo un atto in qualche modo provocatorio
nei nostri confronti.
Dopo solo quattro anni il parroco fu chiamato ad altro incarico più legittimo per le sue capacità.
A quel punto fummo interpellati.
Sirio, nel suo letto di ospedale, si commosse. Lo avvertiva come un atto sia pure tardivo di
riconoscimento della nostra storia e presenza in Viareggio. Finalmente non ci veniva chiesto di
separarci, ma venivamo rispettati nelle scelte e nella conduzione della nostra vita.
Andammo dal vescovo rispondendo a una sua convocazione, Rolando, Beppe e io. Il vescovo
espose brevemente il proposito di affidarci la parrocchia della Darsena. Non pose condizioni.
Ricordando il suo atteggiamento negativo nei confronti di Beppe, sei anni prima, Rolando si
propose come parroco, rimanendo responsabile dell'adiacente parrocchia di Bicchio. Io - pur
essendo impegnato in Etiopia per lavoro - mi proposi contando su una nostra comune responsabilità
in solido. Alla fine fu chiaro che il vescovo pensava a Beppe, ma non riusciva a dirlo per quanto fu
duro e sprezzante in precedenza. Lo dicemmo noi per lui: "Allora non resta che Beppe!". Il silenzio
del vescovo questa volta fu di conferma!
"Entrammo" in parrocchia - come si dice nel gergo dei preti - il giorno stesso del funerale di Sirio.
Avevamo concordato la data e non ci tirammo indietro. La mattina di quella domenica andammo a
celebrare Beppe, io e il nostro amico fraterno Padre Dalmazio Mongillo. Dalmazio ci fece la grazia
di parlare per noi al vangelo. Scambiammo pochi saluti con la gente e li invitammo a partecipare al
funerale nel pomeriggio. Le strade, le banchine del porto, si riempirono di gente. Incontenibile. A
fianco di Padre Turoldo aprii il corteo dalla chiesetta al nuovo mercato del pesce inaugurato per
l'occasione, unico locale coperto in grado di raccoglierci tutti. Sentii dentro di me che l'impegno
parrocchiale non sarebbe più stato limitato dai confini, ma la concretizzazione della vita
dell'umanità accolta nel piccolo alveo della mia vita.
La sera dopo, lunedì, Beppe andò a celebrare la messa feriale quotidiana. Poche persone ci si
riunivano. Proseguì per poche settimane e, appena possibile, annunciò che avrebbe celebrato solo
una messa feriale settimanale il giovedì. La gente del quartiere lo vedeva girare per le strade all'ora
della messa feriale e presto si sparse la voce che se Beppe non aveva cose da fare e stava in giro
perché non diceva la messa in chiesa? Durò poco quella maldicenza e cessò da sé senza bisogno di
far niente. La gente si rese presto conto che quello che faceva Beppe ogni giorno era più di una
liturgia...
don Luigi va in pensione...
La morte di Beppe, nel gennaio del 1998, colse tutti impreparati, all'improvviso. Me, per primo.
Mi resi conto che non avrei potuto -da solo - portare avanti la responsabilità della parrocchia di
Casoli e insieme della Darsena, mantenendo il mio lavoro sempre assai impegnativo. Oltretutto,
dopo 16 anni, mi pareva che si dovesse fare un tentativo per inserire di nuovo la parrocchia di
Casoli in un "piano" pastorale in continuità con le parrocchie vicine e i loro parroci. Per cui ritenni
di salutare il paese in una forma molto semplice, senza il minimo cenno di festa d'addio. Le ragioni
di questo abbandono erano così evidenti a tutti e nello stesso tempo i rapporti si erano costruiti su
basi di fiducia e di amicizia talmente semplici che il fatto di essere o non essere parroco cambiava
poco dal momento che rimanevo comunque in un ambito territoriale prossimo, ma soprattutto
rimanevo "di famiglia". Il vescovo non batté ciglio.
Lo stesso atteggiamento da parte sua, quando sette anni dopo gli dissi che avrei lasciato la
responsabilità della parrocchia della Darsena. Nemmeno un tentativo formale per indurmi a una
riflessione. Eppure la mancanza di preti cominciava a farsi sentire in diocesi. Lì per lì la cosa favorì
la scelta che avevo fatto con trepidazione e ansietà, come ogni scelta che mette in discussione pezzi
forti della vita personale. Poi ripensandoci la cosa mi parve strana e mi ha sempre lasciato un gusto
di amaro in bocca, come se mi fossi finalmente levato di giro e non si aspettasse altro.
Noto ora che parlo del vescovo come se lungo tutta la mia storia avessi avuto a che fare con la
stessa persona. Invece sono cinque i vescovi che, fino ad ora, si sono avvicendati nella diocesi di
Lucca. Evidentemente per me non c'è stata differenza e tutto è andato avanti come nei lunghi anni
iniziali. Una relazione a distanza, come se appartenessi ad un'altra "organizzazione"... Rapporti
formalmente corretti, ma come se fossimo su due binari paralleli. Per fortuna ho imparato subito a
muovermi in autonomia senza entrare mai in conflitto. Probabilmente perché i piani interessati
erano diversi: ai superiori interessava la "fede", a me la vita. Alle loro proposte ho sempre risposto
di sì, con sincerità. Sono stati loro a ripensarci e a ritirare quanto richiestomi. Non gli bastava il mio
sì, volevano che mi spogliassi della mia storia e della mia fede (senza virgolette, questa volta). E
forse credevano che questo sarebbe stato per il mio bene. Per questo anch'io ho sempre voluto bene
a loro.
Al compimento dei 65 anni, feci domanda per la pensione di vecchiaia mettendo insieme i pezzi
sparsi dei miei lavori da manovale. L'anno dopo lasciai la parrocchia ripartendo dalla chiesetta:
prete di strada, prete per i tempi feriali... prete?
La parrocchia di S. Pietro a Vico
In quegli anni, essendo libero da impegni parrocchiali, mi offrii per alcuni "servizi" in situazioni
nelle quali veniva a mancare un prete e non era disponibile - per più ragioni - una sostituzione
definitiva. Lo feci in modo libero, sulla parola, e - nello stesso tempo - senza mettere nulla in
discussione della pastorale esistente. Fedele a un modo mutuato da confronti della prima ora con
Sirio: per un anno almeno non si cambia niente quando si entra in una parrocchia. Cercavo di
alimentare una fede semplice e essenziale collegandola alle vicende della vita quotidiana e
all'esperienza di vita delle persone. Mi piaceva spogliare il gesto religioso da tutta una ampollosità
sacrale e insieme restituire il sapore buono di un senso di fiducia e di speranza nella condivisione di
Dio della fatica di seminare il meglio di sé nelle vicende di questo mondo. La semplicità delle
persone, i rapporti fiduciosi e privi di interesse che non fosse normale amicizia, erano per me il
meglio che mi potevo aspettare e mi facevano sentire che non mangiavo il pane a ufo.
Nelle pieghe di queste presenze nella zona di Viareggio, mi avvicinai ad un vecchio amico prete,
don Beppe Giordano, da ora in poi Beppone (vista la sua stazza) per non confonderlo con don
Beppe della chiesetta (lui sarebbe stato Beppino). Era parroco vicino Lucca, a S. Pietro a Vico
(territorio di periferia abitato da circa 4000 persone). Presto stringemmo rapporti quasi quotidiani e
spesso ci vedevano insieme alle riunioni dei preti, ai convegni dei preti operai (era stato fabbro
come me), agli incontri estivi alla cascina di don Gino a Casale Monferrato, ecc. "Attenti a quei
due!", diceva il vescovo.
Nel 2008 Beppone fu nominato cappellano della Casa Circondariale di S. Giorgio a Lucca e io
divenni di fatto il vice cappellano. Sono stati cinque anni di esperienza diretta del carcere. Beppone
faceva da apripista e si accollava la gran parte del lavoro. Io ne condividevo le motivazioni, le
problematiche, i nodi spesso davvero intricati e stretti tra slanci di umanità e precipizi di
disumanità. All'inizio del 2013 lo accompagnai in ospedale per una visita che si trasformò in un
ricovero la sera stessa. Poco dopo più di un mese celebrammo il suo funerale in una chiesa
parrocchiale gremita all'inverosimile. Fin da subito andai in parrocchia per le messe dl sabato e
della domenica. Lunedì, mercoledì e venerdì in carcere a Lucca. Così per tre anni. Aggrappato alla
chiesetta come ad uno scoglio per il riposo notturno, mi sentivo sempre più spazzato via.
Per fortuna si avvicinò un giovane prete interessato alla vita del carcere. Lo accolsi come una
benedizione e lo devo a lui se ho resistito nel compito parrocchiale. Abbiamo fatto una compresenza
di mesi. Gli ho "insegnato" quello che sapevo. Sono felice di Simone, della sua amicizia e del suo
lavoro in carcere.
Fino al settembre scorso ho cercato di fare del mio meglio per consegnare la parrocchia a chi il
vescovo avrebbe mandato per sostituire Beppone. Avvicinandosi la data da me stesso fissata come
limite e fine mandato (tutto quello che era stato possibile "recuperare" dopo la morte praticamente
improvvisa e traumatica di Beppone che aveva la cura della parrocchia da trent'anni), mi resi conto
che sarei stato un illuso se credevo che sarei stato lasciato in pace a leccarmi le ferite di quei pochi
anni vissuti in continua ansia, senza soste, con la sofferenza nel cuore per il rimanere in una
solitudine ormai senza scampo. Con la crescente scarsità del clero sarei stato sollecitato a tappar
buchi ad ogni pié sospinto.
Meglio rimanere legato a S. Pietro a Vico, alle amicizie e agli affetti di lunga data. Ho preso un
foglio di carta e con una riga l'ho diviso in due in verticale. Da una parte ho scritto quello che
facevo in parrocchia e, se non lo facevo io, ci sarebbe voluto, a cose pari, un altro prete. E dall'altra
quello che facevo in parrocchia ma non occorreva che fosse un prete a farlo. Ho mostrato il foglio
alla ventina di persone della parrocchia con cui ormai collaboravo nella "conduzione" e ho chiesto
loro se se la sentivano a dividersi tra loro quei compiti. Detto e fatto, siamo andati avanti con presa
d'atto del vescovo. Io vado a celebrare con la gente due messe la domenica. Torno in parrocchia
ogni 15 giorni per una riunione di programma dal tardo pomeriggio alla notte e ogni tanto per
qualche emergenza. Andiamo avanti.
Vivo alla chiesetta e mi nutro delle sue radici e della sua storia. E nella vita della chiesetta ho
raccolto anche questo impegno della parrocchia di S. Pietro a Vico. Parroco "a distanza" nella
continuità di un lavoro da sempre volto a far sì che il mio essere prete sia al servizio del sacerdozio
di tutti.
Luigi
Scarica edizione in formato PDF: 160 K
visualizza l'intera pubblicazione
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455