Un'utopia per la Chiesa

Un'utopia per la Chiesa
Ho sempre tenuto presente il suo ultimo scritto in Lotta come Amore uscito nel dicembre 1987. Due
mesi dopo morirà a seguito di un intervento di sostituzione di una valvola cardiaca nel suo corpo
ormai consunto e martoriato. Sono per me parole consacrate dalla visione chiara del suo destino e dalla dichiarata volontà di accettazione.
Lo scritto inizia con un preambolo al plurale cui sento di appartenere pur nella fragilità del mio
incerto procedere:
Per noi, ma non sto qui a chiarire chi siamo questi noi, pensare, riflettere, lavorare
d'intelligenza, fare cultura; ricerca teologica, coinvolgersi politicamente, lottare
socialmente ecc. ecc. in fondo è sempre unicamente raccontare.
È vivere cioè la grande avventura prima di tutto nel proprio mondo interiore, in quella
spaziosità dell'immaginario assai più vasto della volta del cielo dove perfino le galassie
ridimensionano la loro immensità e ugualmente nella profondità del mistero umano e
della storia che inizia prima dell'inizio e continua ad esaltare e sgomentare, fino alle
misure che sembrerebbero estreme, di questo nostro tempo.
Non è come sembrerebbe, eccezionalità questo vivere nella propria interiorità,
l'universo: è semplicemente saper guardare la realtà, qualunque essa sia e
l'immaginario, pazzo quanto si vuole, dentro di se, come in uno specchio. Portiamo tutti
la capacità e insieme, quando non viene annebbiata, la trasparenza, perché la realtà
dell'esistenza si rifletta in noi donandoci la possibilità di raccontare.
E qui, con un breve passaggio, Sirio inizia a scrivere parlando di sé in prima persona: è il racconto
della sua fedeltà a Dio in Gesù in un cambiamento continuo senza interruzioni, senza parentesi,
senza sosta. Lasciandosi fare da Dio in una fiducia incondizionata anche quando è la chiesa a
metterlo in croce.
È questo raccontare, la vera e propria narrazione, che svela e manifesta i pensieri, le
idee, i progetti, quest'animazione invisibile eppure determinante delle scelte, delle
vicende, dello svolgersi, del dipanarsi del vivere la vita.
Il racconto della propria storia, insignificante o interessante che sia, significa che
niente è avvenuto per caso ma per una preordinazione maturatasi dentro di noi, fino ad
imporsi, a diventare inevitabile perché identificatasi con noi stessi.
L'occasione è data dalla VII Assemblea Generale Ordinaria dei Vescovi che si tenne a Roma dal 1 al
30 ottobre 1987 con il tema "La vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo".
Questo sinodo non produrrà novità di alcun genere tranne la riproposizione della dottrina
tradizionale. Sirio segue come può l'andamento dei lavori, ma proprio la sua condizione ultima non
gli permette nessuna illusione e nello stesso tempo lo provoca a raccontare la storia che la chiesa si
ostina a tenere fuori della porta invece di farne motivo di profonda revisione di sé.
Pensavo e rigiravo dentro di me queste riflessioni che del resto mi sono molto familiari
direi quasi come il mio respirare, nei giorni passati, durante il Sinodo dei Vescovi, a
Roma, sul ruolo dei laici nella Chiesa.
Non ho nessuna intenzione di entrare in questo assurdo problema che
fondamentalmente non dovrebbe essere nemmeno posto se la incontenibile e incessante
sopraffazione del clero non l'avesse reso e con questa precisa programmazione, una
impossibilità di soluzione.
Tanto meno avrei voglia di tentare chiarimenti teologici, più ancora evangelici,
motivazioni intelligenti - un po' più intelligenti - pastorali, dati anche i tempi ecc.
Ho letto più che è stato possibile alla mia disponibilità, le prolusioni gli interventi, i
documenti ecc. Ho seguito lo "spettacolo" delle cerimonie, così miseramente
intenzionate, liturgiche e assembleari ecc. Discorsi, qualche piccolo, fraterno scontro,
accenni di perplessità e insoddisfazione su tutto e su tutti la dolce nebbiolina ad
ovattare ogni novità, ad arrotondare qualche angolo, a ristabilire con fermezza
carismatica, come si conviene, la permanenza immutabile della Dottrina della
Tradizione, da parte del Papa.
Molto bene, cioè non ne discutiamo, non solo perché è inutile data l'impossibilità,
almeno attualmente di una qualsiasi novità, ma anche perché è dolorosamente chiaro,
nonostante il Concilio Vaticano II, che i tempi, "i segni dei tempi". non hanno alcun
potere nei confronti del clero, un mondo arroccato con ponti levatoi ovviamente
manovrati dall'interno, come il sinodo recente ha ampiamente dimostrato.
Quindi niente ricerca culturale, assolutamente nemmeno l'ombra di una polemica, tanto
meno l'ardire o la sciocchezza di avanzare idee, proposte ecc.
Il racconto
Però non può non essermi concesso il racconto, il raccontare.
Cioè quel ritornare indietro seguendo un filo conduttore, raggomitolandolo, a poco a
poco, fino ad arrivare all'inizio, al punto di partenza. Può essere che ritornando a quel
punto sia possibile capire tutto il racconto, per quanto strano possa apparire.
Ciò di cui vorrei raccontare è come è successo che io prete (era il 2 maggio 1943) a
poco a poco, ma progressivamente, mi sono ritrovato ad essere sempre meno prete. Non
so se questa patina ecclesiastica mi si è incrostata addosso. Forse nei primissimi tempi
del fervore novello, ma i tedeschi del '44 fecero un buon lavoro di riduttività di ogni
privilegio clericale. Poi subito dopo la parrocchia e la parrocchialità è sempre
micidiale per rendere clero anche i sacrestani. La responsabilità delle anime, la
disponibilità del Cielo e della Terra e quindi l'autorità.
Ho una memoria angosciosa dell'autorità per il semplice motivo che mi dovevo sforzare
per sentirmi un'autorità e gestirla quest'autorità comportandomi come uno che conta,
sa le cose, può e deve dare consigli, programmare e vigilare. Questa storia del vigilare
mi era praticamente impossibile, diventava tutto un artificio che metteva in gioco la
mia sincerità.
Non sto a raccontare la devozione per me della gente. Quella considerazione profonda,
l'ascoltarmi con assoluta fiducia, l'affidarsi, quasi consegnarsi a me, perche io avevo in
me, nelle mie mani, il potere, il potere sacro, sacramentale, il potere della parola, il
potere della cultura, il potere politico... Ero uomo da piedistallo e poggiavo i piedi
sull'umano e sul divino. Prete, sacerdote, ecclesiastico, chiesa... Così tanto che sotto
tutte queste bardature civili, ecclesiastiche, spirituali, liturgiche ecc. spesso non
avvertivo l'uomo semplice, libero, immediato, fatto di carne e di sangue, come tutti.
Avevo profonda la sensazione di essere uomo di Dio e non quella, o almeno anche
quella di essere uomo, concreto, pratico, fatto di quotidianità e di progetto.
Prete sì oppure prete no
Dunque mi trovavo profondamente a disagio, come fuori dalla mia strada, a fare il
prete perfettamente in linea (o quasi) con il mondo ecclesiastico, dentro quelli schemi
obbligati, quelle vie segnate e inconfondibili del Diritto Canonico, della Pastorale
stabilita.
Prete o per essere più chiaro, sacerdote, sì, e a gran cuore, dal più profondo dell'anima,
sicuro, sempre, che questa realtà di vita, era la mia unica vera ragion d'essere, il mio
caro, adorabile destino.
A un certo punto (la mia maturazione si è andata poco per volta, assolutizzando) è stato
inevitabile, si è imposta la necessità, prima e poi logicamente nella realtà pratica, di
smontare pezzo per pezzo, la mia costruzione ecclesiastica. Il prete si è andato
dissolvendo, il prete ecclesiastico e nel frattempo è andato costruendosi il prete-uomo o
se si vuole, l'uomo-prete. È il tempo della decisione, chiara e netta, senza eroismo e
bisogni di eccezionalità, di fare il prete-operaio.
È chiaro che a 36 anni, uscire dalla canonica, dalla parrocchia, dalla sicurezza a tutti i
livelli del mondo ecclesiastico, dal circolo chiuso e ben difeso dei privilegi ecc. e
andare a fare il manovale specializzato in un cantiere navale, la rottura fu totale. Il
prete scomparve e così tanto che non era facile ritrovarne i segni caratteristici se non
leggendo in fondo all'anima e scoprirne le profondità dove è sempre facile e possibile
incontrare il Mistero di Dio.
È così la continuità della storia, un raccontare che investe e coinvolge Dio, Gesù
Cristo, la Chiesa, il Regno di Dio, e quindi la libertà, la giustizia, l'uguaglianza: cioè il
vivere insieme, dove la distinzione, la separazione, la differenza non esiste e è
sacrilegio, tradimento che esista.
Il mio raccontare in fondo è raccontare camminando per la stessa strada di tutti,
vivendo l'identica avventura, pagando gli stessi prezzi, lottando per le stesse
liberazioni.
Ciò che accomuna appassionatamente è la Fede in Gesù Cristo e l'Amore per
l'umanità. Il prete che è soltanto prete non può essere cristiano, sarà sempre e soltanto
un prete.
Il gran problema che opprime e soffoca la Chiesa, Popolo di Dio, è soltanto questo che
i preti (leggi anche Vescovi, Cardinali, Papa) non sanno, non possono, non vogliono
essere che preti, vescovi papi. E perché questa possibilità-volontà non incontri
complicazioni o possibili difficoltà, i laici, cioè gli uomini e le donne, non devono
(ragioni divine o no) avere poteri, privilegi o tanto meno l'immagine del prete, l'uomo
consacrato ad essere diverso, inimitabile, al di sopra, chiuso e ravvolto di mistero...
Clero e laici
In questa realtà tipicamente propria di una religione (il cristianesimo non doveva
essere una religione) la distinzione fra laici e clero è indispensabile.
Così la separazione, la differenza. Anzi tutta la forza, la potenza dell'istituzione è
direttamente proporzionale alla solidità di questi piani e alla loro scrupolosa
organizzazione. È così anche l'esercito, per l'organizzazione dello stato, in una azienda,
per esempio una multinazionale ben organizzata ecc. ecc.
Gesù forse pensava e immaginava (sognava con adorabile utopia) che la sua Chiesa
sarebbe stata fondata sul servizio non sull'autorità, sui piccoli non sui potenti, sugli
ultimi e non sui primi ecc. Lo so che sono aspirazioni come sospiri di nostalgia, sogni
antichi, anche se sempre nuovi, utopie pazze, ideali assurdi...
Va bene, ma io ho il mio racconto pratico, la mia follia concreta, scelte, fatti, vicende
avventure, realizzazioni, vita vissuta, duramente pagata... e questo racconto è tutto un
progetto: un progetto assurdo, d'accordo, come tentativo di concludere una storia e
iniziarne un' altra, rovesciare posizioni e sistemi ormai assolutizzati, credere che
l'impossibile diventi possibile.
Da qui la proposta che il racconto di una vita, quella di Sirio, offre alla attenzione della chiesa che si
interroga sul rapporto tra clero e laici. Utopia di una soluzione da cui ci si è sempre difesi e che
anche ora viene tenuta lontana benché ci si affanni, sul piano teologico, a ri-valutare il comune
sacerdozio che ci viene dal Battesimo.
Il mio racconto, assai più scarno e anonimo di quello di Sirio
A quel tempo il mio racconto non era solamente più breve nell'arco temporale, ma anche più scarno
e anonimo. Sono stato ordinato prete nel giugno del 1966. Il mio primo incarico pastorale da parte
della diocesi è del febbraio 1982. E anche allora, la mia nomina a parroco di Casoli di Camaiore fu
dovuta al fatto che, tra noi (Sirio, Rolando, Beppe e io) avevamo deciso che l'esperienza
parrocchiale avrebbe giovato a Beppe che emergeva in quel tempo da dieci anni di impegno con i
ragazzi che gli erano stati affidati e che avrebbe potuto allargare (come di fatto avvenne) l'ambito di
relazione familiare con l'intero paese. Solo l'eccesso di burocrazia del vescovo pro tempore non
riconobbe Beppe che proveniva senza documenti dalla diocesi di Firenze e accettò me a farne le
veci.
Ci sono certo più motivi per cui sono stato lasciato a bagnomaria dai superiori diocesani per quasi
16 anni. Ma, al di là dei motivi e della mia parte di responsabilità, resta il fatto di una esperienza di
vita sacerdotale che per anni si è nutrita di una ricerca di fede molto vicina a quella di un qualsiasi
giovane uomo alle prese con il formarsi di una identità personale, della riconversione lavorativa
rispetto alla preparazione scolastica, delle scelte di modalità relazionali e di vita condivisa.
Quegli anni mi hanno abituato a vivere alla pari degli altri, senza bisogno non solo di segni
distintivi, ma anche nel pensarmi portatore di particolari diritti. Al contrario, mi sono sentito come
uno che cammina un po' più indietro agli altri semplicemente per aver dovuto ripetere quei tratti di
vita (per altri affrontati da subito) in cui si cresce laicamente nella responsabilità e nella autonomia.
E così condivido non solo il pensiero, ma anche il linguaggio di Sirio in questo suo scritto che può
sembrare farsi pesante strumento di sprezzante giudizio mentre sottolinea una mentalità ancora ben
presente per cui il prete si sente esente da tutto ciò che regola la responsabilità e la libertà di
cittadini. E Sirio trova la soluzione del problema del rapporto tra clero e laicato non tanto in una
doverosa assunzione di responsabilità del laicato, quanto in un necessario cambiamento radicale del
clero.
L'utopia
Perché è qui il mio racconto, io ho creduto, umilmente e ingenuamente, che il gran
problema del rapporto fra il clero e il laicato potesse essere affrontato e in parte
risolto, attraverso un cambiamento radicale del clero.
Abbreviarne le distanze, cancellare le differenze, spazzar via i privilegi, camminare
sulla stessa strada, essere uguali o meglio ancora sotto i piedi di tutti, essere gli ultimi,
senza diritti e solo con infiniti doveri... non essere più preti, clero, mondo ecclesiastico,
ma semplicemente degli accattoni della bontà altrui, dei coinvolti e possibilmente dei
travolti dalle lotte per la libertà, la giustizia, la testimonianza di una alternativa che si
chiama Regno di Dio al regno degli uomini...
Il mio racconto, insignificante ma chiarissimo di Fede e di Amore alla Chiesa. L'essere
operaio ha voluto dir questo, prima di qualsiasi altra cosa: togliere via una
qualificazione, quella di essere prete eppur rimanere serenamente prete, uomo di Dio,
fratello universale. Come lasciar cadere una maschera, un paludamento, una "divisa" e
ritrovarmi, come solo, io, allo scoperto, con tutta la mia Fede e quella misteriosa
carica di Amore fraterno, appassionata e inesauribile.
Il racconto può essere, è lungo quanto tutta la mia vita sacerdotale e il raccontarlo
richiederebbe lunghe serate intorno al caminetto come nelle novelle del nonno.
Lo so che non è stato accettato durante l'avventura e tanto meno può essere gradito il
racconto "quando ormai si fa sera" e non solo individualmente, ma anche nella Chiesa.
Allora i Sinodi per dibattere la spinosa questione del clero e del laicato: ma è perché
tutto rimanga e si solidifichi così: il clero, il clero e i laici, laici.
E cioè come dire: amici e nemici. Potere e servizio. Autorità e popolo. Il monumento e
il piedistallo. Il carro e chi sta sul carro e guida l'asino che rassegnatamente da
millenni tira il carro e tutti coloro (sono tanti) che vi stanno comodamente adagiati.

Sirio, Luigi


in Lotta come Amore: LcA maggio 2016, Maggio 2016

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