nelle parrocchie
La Chiesetta del Porto ritorna ad essere, alla fine del 1971, il "convento" di una comunità la cui
storia ideale è raccontata da Sirio nel suo ultimo libro "Antico Sogno Nuovo" (1983). "Convento"
non nel senso giuridico perché mai è affiorato in Sirio e nei suoi compagni l'idea di formalizzare
quel rapporto nato unicamente perché è stata tenuta aperta la porta del cuore nella accoglienza di
Dio nella vita di ciascuno e, come ci si è incontrati potevamo sempre liberamente lasciarci in
quell'unica libertà che nasce dalla fedeltà a Dio.
"Convento" nel senso etimologico della parola che implica un "convenire", l'incontrarsi di persone
che libere nella vita, mettono insieme il raccolto di ogni giornata per la semina di amore del giorno
seguente.
E cerca di esserlo tuttoggi.
Così negli anni seguenti gli abitanti della chiesetta dicono di sì, tra i loro impegni - ognuno nel
proprio ruolo -, alla responsabilità di altre parrocchie. Parrocchie per più ragioni scartate da altri
preti e quindi poco interessanti come lo sono in genere le persone che vivono sulla strada. Di questi
impegni tratteggio la storia specie nella fase dell'incontro mai cercato e tuttavia sempre accolto.
La parrocchia di Casoli di Camaiore
Una fredda sera d'inverno verso il Natale del 1981, bussano alla porta della chiesetta. Sirio e io
siamo in casa e ci troviamo a parlare alla grande tavola dell'ingresso con tre uomini.. Vengono da
Casoli di Camaiore, un paese attestato sul fianco delle prime Apuane, tra il Gabberi, il Matanna e il
Prana. Diversi uomini del paese lavorano nei cantieri del porto. Ci conoscono. Sono mandati dal
paese, cercano un prete e sanno che lì ce ne stanno tre. Dopo una esperienza poco felice con un
parroco che ha lasciato l'incarico, il vescovo ha proposto uno che poco dopo si rivelerà portatore di
un incerto percorso vocazionale. La gente protesta con il vescovo che impazientito dice loro di
andarselo a cercare un prete. Gente semplice, lo prende in parola e si mette in cerca.
Rispondiamo che accogliamo seriamente la loro richiesta, ma ne dobbiamo parlare insieme a don
Beppe e a don Rolando perché condividiamo con loro gli impegni di specifico carattere sacerdotale.
Una volta usciti, Sirio sentenzia che se fosse stato il vescovo a fare la richiesta si poteva anche
pensare di poter rifiutare in qualche modo, ma che trattandosi di un gruppo di persone - "vox
populi, vox Dei" - occorreva trovare il modo concreto per poter dire di sì...
Beppe accoglie con favore l'indicazione di uno spazio sia di relazione umana che abitativo (una
grande canonica) che può aiutarlo a maturare rinnovati impegni di vita al termine di 10 anni di
accudimento dei quattro fratellini di cui era diventato temporaneo tutore in attesa del ritorno in
libertà dei loro genitori. Noi gli assicuriamo fraterna e stretta collaborazione Rimaniamo, sia ben
chiaro, a Viareggio con tutti i nostri impegni di lavoro quotidiano, di ideali, di relazioni.
Facciamo sapere ai nostri tre interlocutori del paese che possono andare dal vescovo portando il
nome di don Beppe come parroco e la nostra dichiarata compresenza.
Dopo alcuni giorni vengo chiamato dal vescovo che mi dice senza troppi preamboli che don Beppe
(da undici anni inserito in Viareggio, conosciuto a livello cittadino per la sua testimonianza
esemplare...) per lui non esiste perché non ha mai chiesto l'incardinazione (vecchia procedura del
codice di diritto canonico, attualmente snellita e ridotta ad una semplice presa d'atto della presenza
di un sacerdote proveniente da altra diocesi nella pastorale ordinaria della diocesi di attuale
residenza) e quindi di nominarlo parroco non se ne parla neppure. A quel punto azzardo: "Non
potrei allora essere nominato io parroco?". Il vescovo: "Certo.".
Torno alla chiesetta e dico a Beppe che io ho la nomina a parroco di Casoli, ma che lui - secondo i
nostri accordi - sarà il parroco effettivo.
Quando nel 1988 Sirio morì, furono molti i casolini che parteciparono al suo funerale perché Sirio
era uno dei loro preti. E quando nel 1998 morì Beppe, tantissimi di loro furono presenti perché era
morto il loro parroco.
Tra noi non c'era "parroco" e quello di noi che era presente in quel momento nella parrocchia
ascoltava e decideva. E non c'è stata mai confusione tra noi, ma una comunicazione essenziale e
soprattutto una grande fiducia e stima reciproca.
La parrocchia dei Sette Santi Fondatori in Darsena
Nell'ultima parte del 1987 eravamo intorno a Sirio le cui condizioni stavano precipitando tra un
ricovero e l'altro in ospedale.
Quattro anni prima, il vescovo aveva deciso di fondare la parrocchia della Darsena. Fino ad allora la
piccola comunità della Darsena (luogo sempre meno abitato da persone e sempre più attrezzato per
il lavoro cantieristico, gli uffici delle compagnie, gli appartamenti destinati al turismo nautico)
aveva il suo punto di riferimento nella "Chiesina", ai margini della pineta di levante, gestita dai
Padri Servi di Maria e parte della parrocchia di S. Andrea la cui basilica era stata costruita nella
Viareggio vecchia, al di là del porto canale che separava la Darsena dalla città. Si andò quindi ad un
distacco della porzione della Darsena dalla parrocchia madre di S. Andrea. Fu nominato parroco un
prete con esperienza di missione e visione pastorale centrata sull'evangelizzazione. Quando si
procedette alle pratiche per la formalizzazione della nuova parrocchia, la curia si accorse che gli
abitanti non raggiungevano il numero di mille, minimo per la costituzione secondo gli accordi
concordatari con lo Stato. In fretta fu ritagliata una ulteriore fetta di caseggiati popolari per contare
in circa 1.200 gli abitanti residenti nella parrocchia intitolata, per rispetto alla sua storia, ai Sette
Santi Fondatori.
A essere sinceri, non la prendemmo bene. Eravamo affezionati ai Servi di Maria che venivano a
celebrare alla Chiesina. Non siamo mai entrati in conflitto con loro. L'assenza di opere pastorali alla
nostra chiesetta, aperta a tutti i bisogni e non finalizzata alla costituzione di un gruppo organizzato,
faceva sì che non ci sentissimo concorrenti, ma attivi nell'immenso campo della solidarietà umana.
Non riuscivamo a capire la logica di questa operazione e ci chiedevamo perché il vescovo era
andato a cercare un prete che poteva legittimamente ambire a ben altro incarico nell'interesse di
tutta la diocesi, fosse stato destinato lì dove vivevano altri preti in grado di occuparsi di una piccola
parrocchia quale la Darsena. Non riuscivamo a non sentirlo un atto in qualche modo provocatorio
nei nostri confronti.
Dopo solo quattro anni il parroco fu chiamato ad altro incarico più legittimo per le sue capacità.
A quel punto fummo interpellati.
Sirio, nel suo letto di ospedale, si commosse. Lo avvertiva come un atto sia pure tardivo di
riconoscimento della nostra storia e presenza in Viareggio. Finalmente non ci veniva chiesto di
separarci, ma venivamo rispettati nelle scelte e nella conduzione della nostra vita.
Andammo dal vescovo rispondendo a una sua convocazione, Rolando, Beppe e io. Il vescovo
espose brevemente il proposito di affidarci la parrocchia della Darsena. Non pose condizioni.
Ricordando il suo atteggiamento negativo nei confronti di Beppe, sei anni prima, Rolando si
propose come parroco, rimanendo responsabile dell'adiacente parrocchia di Bicchio. Io - pur
essendo impegnato in Etiopia per lavoro - mi proposi contando su una nostra comune responsabilità
in solido. Alla fine fu chiaro che il vescovo pensava a Beppe, ma non riusciva a dirlo per quanto fu
duro e sprezzante in precedenza. Lo dicemmo noi per lui: "Allora non resta che Beppe!". Il silenzio
del vescovo questa volta fu di conferma!
"Entrammo" in parrocchia - come si dice nel gergo dei preti - il giorno stesso del funerale di Sirio.
Avevamo concordato la data e non ci tirammo indietro. La mattina di quella domenica andammo a
celebrare Beppe, io e il nostro amico fraterno Padre Dalmazio Mongillo. Dalmazio ci fece la grazia
di parlare per noi al vangelo. Scambiammo pochi saluti con la gente e li invitammo a partecipare al
funerale nel pomeriggio. Le strade, le banchine del porto, si riempirono di gente. Incontenibile. A
fianco di Padre Turoldo aprii il corteo dalla chiesetta al nuovo mercato del pesce inaugurato per
l'occasione, unico locale coperto in grado di raccoglierci tutti. Sentii dentro di me che l'impegno
parrocchiale non sarebbe più stato limitato dai confini, ma la concretizzazione della vita
dell'umanità accolta nel piccolo alveo della mia vita.
La sera dopo, lunedì, Beppe andò a celebrare la messa feriale quotidiana. Poche persone ci si
riunivano. Proseguì per poche settimane e, appena possibile, annunciò che avrebbe celebrato solo
una messa feriale settimanale il giovedì. La gente del quartiere lo vedeva girare per le strade all'ora
della messa feriale e presto si sparse la voce che se Beppe non aveva cose da fare e stava in giro
perché non diceva la messa in chiesa? Durò poco quella maldicenza e cessò da sé senza bisogno di
far niente. La gente si rese presto conto che quello che faceva Beppe ogni giorno era più di una
liturgia...
don Luigi va in pensione...
La morte di Beppe, nel gennaio del 1998, colse tutti impreparati, all'improvviso. Me, per primo.
Mi resi conto che non avrei potuto -da solo - portare avanti la responsabilità della parrocchia di
Casoli e insieme della Darsena, mantenendo il mio lavoro sempre assai impegnativo. Oltretutto,
dopo 16 anni, mi pareva che si dovesse fare un tentativo per inserire di nuovo la parrocchia di
Casoli in un "piano" pastorale in continuità con le parrocchie vicine e i loro parroci. Per cui ritenni
di salutare il paese in una forma molto semplice, senza il minimo cenno di festa d'addio. Le ragioni
di questo abbandono erano così evidenti a tutti e nello stesso tempo i rapporti si erano costruiti su
basi di fiducia e di amicizia talmente semplici che il fatto di essere o non essere parroco cambiava
poco dal momento che rimanevo comunque in un ambito territoriale prossimo, ma soprattutto
rimanevo "di famiglia". Il vescovo non batté ciglio.
Lo stesso atteggiamento da parte sua, quando sette anni dopo gli dissi che avrei lasciato la
responsabilità della parrocchia della Darsena. Nemmeno un tentativo formale per indurmi a una
riflessione. Eppure la mancanza di preti cominciava a farsi sentire in diocesi. Lì per lì la cosa favorì
la scelta che avevo fatto con trepidazione e ansietà, come ogni scelta che mette in discussione pezzi
forti della vita personale. Poi ripensandoci la cosa mi parve strana e mi ha sempre lasciato un gusto
di amaro in bocca, come se mi fossi finalmente levato di giro e non si aspettasse altro.
Noto ora che parlo del vescovo come se lungo tutta la mia storia avessi avuto a che fare con la
stessa persona. Invece sono cinque i vescovi che, fino ad ora, si sono avvicendati nella diocesi di
Lucca. Evidentemente per me non c'è stata differenza e tutto è andato avanti come nei lunghi anni
iniziali. Una relazione a distanza, come se appartenessi ad un'altra "organizzazione"... Rapporti
formalmente corretti, ma come se fossimo su due binari paralleli. Per fortuna ho imparato subito a
muovermi in autonomia senza entrare mai in conflitto. Probabilmente perché i piani interessati
erano diversi: ai superiori interessava la "fede", a me la vita. Alle loro proposte ho sempre risposto
di sì, con sincerità. Sono stati loro a ripensarci e a ritirare quanto richiestomi. Non gli bastava il mio
sì, volevano che mi spogliassi della mia storia e della mia fede (senza virgolette, questa volta). E
forse credevano che questo sarebbe stato per il mio bene. Per questo anch'io ho sempre voluto bene
a loro.
Al compimento dei 65 anni, feci domanda per la pensione di vecchiaia mettendo insieme i pezzi
sparsi dei miei lavori da manovale. L'anno dopo lasciai la parrocchia ripartendo dalla chiesetta:
prete di strada, prete per i tempi feriali... prete?
La parrocchia di S. Pietro a Vico
In quegli anni, essendo libero da impegni parrocchiali, mi offrii per alcuni "servizi" in situazioni
nelle quali veniva a mancare un prete e non era disponibile - per più ragioni - una sostituzione
definitiva. Lo feci in modo libero, sulla parola, e - nello stesso tempo - senza mettere nulla in
discussione della pastorale esistente. Fedele a un modo mutuato da confronti della prima ora con
Sirio: per un anno almeno non si cambia niente quando si entra in una parrocchia. Cercavo di
alimentare una fede semplice e essenziale collegandola alle vicende della vita quotidiana e
all'esperienza di vita delle persone. Mi piaceva spogliare il gesto religioso da tutta una ampollosità
sacrale e insieme restituire il sapore buono di un senso di fiducia e di speranza nella condivisione di
Dio della fatica di seminare il meglio di sé nelle vicende di questo mondo. La semplicità delle
persone, i rapporti fiduciosi e privi di interesse che non fosse normale amicizia, erano per me il
meglio che mi potevo aspettare e mi facevano sentire che non mangiavo il pane a ufo.
Nelle pieghe di queste presenze nella zona di Viareggio, mi avvicinai ad un vecchio amico prete,
don Beppe Giordano, da ora in poi Beppone (vista la sua stazza) per non confonderlo con don
Beppe della chiesetta (lui sarebbe stato Beppino). Era parroco vicino Lucca, a S. Pietro a Vico
(territorio di periferia abitato da circa 4000 persone). Presto stringemmo rapporti quasi quotidiani e
spesso ci vedevano insieme alle riunioni dei preti, ai convegni dei preti operai (era stato fabbro
come me), agli incontri estivi alla cascina di don Gino a Casale Monferrato, ecc. "Attenti a quei
due!", diceva il vescovo.
Nel 2008 Beppone fu nominato cappellano della Casa Circondariale di S. Giorgio a Lucca e io
divenni di fatto il vice cappellano. Sono stati cinque anni di esperienza diretta del carcere. Beppone
faceva da apripista e si accollava la gran parte del lavoro. Io ne condividevo le motivazioni, le
problematiche, i nodi spesso davvero intricati e stretti tra slanci di umanità e precipizi di
disumanità. All'inizio del 2013 lo accompagnai in ospedale per una visita che si trasformò in un
ricovero la sera stessa. Poco dopo più di un mese celebrammo il suo funerale in una chiesa
parrocchiale gremita all'inverosimile. Fin da subito andai in parrocchia per le messe dl sabato e
della domenica. Lunedì, mercoledì e venerdì in carcere a Lucca. Così per tre anni. Aggrappato alla
chiesetta come ad uno scoglio per il riposo notturno, mi sentivo sempre più spazzato via.
Per fortuna si avvicinò un giovane prete interessato alla vita del carcere. Lo accolsi come una
benedizione e lo devo a lui se ho resistito nel compito parrocchiale. Abbiamo fatto una compresenza
di mesi. Gli ho "insegnato" quello che sapevo. Sono felice di Simone, della sua amicizia e del suo
lavoro in carcere.
Fino al settembre scorso ho cercato di fare del mio meglio per consegnare la parrocchia a chi il
vescovo avrebbe mandato per sostituire Beppone. Avvicinandosi la data da me stesso fissata come
limite e fine mandato (tutto quello che era stato possibile "recuperare" dopo la morte praticamente
improvvisa e traumatica di Beppone che aveva la cura della parrocchia da trent'anni), mi resi conto
che sarei stato un illuso se credevo che sarei stato lasciato in pace a leccarmi le ferite di quei pochi
anni vissuti in continua ansia, senza soste, con la sofferenza nel cuore per il rimanere in una
solitudine ormai senza scampo. Con la crescente scarsità del clero sarei stato sollecitato a tappar
buchi ad ogni pié sospinto.
Meglio rimanere legato a S. Pietro a Vico, alle amicizie e agli affetti di lunga data. Ho preso un
foglio di carta e con una riga l'ho diviso in due in verticale. Da una parte ho scritto quello che
facevo in parrocchia e, se non lo facevo io, ci sarebbe voluto, a cose pari, un altro prete. E dall'altra
quello che facevo in parrocchia ma non occorreva che fosse un prete a farlo. Ho mostrato il foglio
alla ventina di persone della parrocchia con cui ormai collaboravo nella "conduzione" e ho chiesto
loro se se la sentivano a dividersi tra loro quei compiti. Detto e fatto, siamo andati avanti con presa
d'atto del vescovo. Io vado a celebrare con la gente due messe la domenica. Torno in parrocchia
ogni 15 giorni per una riunione di programma dal tardo pomeriggio alla notte e ogni tanto per
qualche emergenza. Andiamo avanti.
Vivo alla chiesetta e mi nutro delle sue radici e della sua storia. E nella vita della chiesetta ho
raccolto anche questo impegno della parrocchia di S. Pietro a Vico. Parroco "a distanza" nella
continuità di un lavoro da sempre volto a far sì che il mio essere prete sia al servizio del sacerdozio
di tutti.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA maggio 2016, Maggio 2016
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455