Digiuno in Piazza S. Pietro

Siamo andati a Roma, alcuni di noi, l'altra domenica, quella nella quale il Papa aveva indetto per tutta la cristianità una giornata di digiuno, di preghiera, di raccolta di offerte per i profughi del Pakistan dell'est.
Sappiamo bene che si poteva stare a casa nostra a fare il digiuno e a raccogliere offerte.
E non pensiamo affatto che l'avere digiunato in piazza S. Pietro abbia aiutato di più quei milioni di disgraziati che una orribile guerra civile ha spinto ad andare a morire di fame e di epidemie nell'India.
Non siamo andati nemmeno, anzi tanto meno, a protestare perché ci sembravano pochi i ventimila dollari dati dal Papa insieme ad una preziosissima croce pettorale e perché ne donasse centomila o un milione e tutte le croci d'oro e di pietre preziose che potrà avere a sua disposizione.
Siamo andati a protestare contro il sistema della carità che si ferma all'elemosina (che poi in fondo sono sempre le briciole: briciole per chi offre e tanto più briciole per chi riceve) e dell'elemosina si contenta e si acquieta. Ci si ammanta come di sacro paludamento, se ne fa una giustificazione, come qualcosa che conclude tutto un problema.
Di fronte alla fame che imperversa nel mondo e alla guerra che dilania popoli e continenti, la chiesa deve trovare ancora - e è terribile il constatarlo - la sua giusta collocazione.
Non è possibile perché assolutamente non cristiana una posizione di centro. L'equidistanza è disonestà. L'anello di congiunzione è un assurdo. Il prendere da una parte e dare dall'altra - rapporto così caro alla diplomazia della carità - è autentico tradimento. E' approfondire l'abisso divisorio, anche se a tutto vantaggio del ponte sul quale può correre l'elemosina.
Fra i poveri e i ricchi vi è ben altro di separazione che la ricchezza. E se anche le briciole crescessero fino a capitali enormi, la separazione rimane, anzi addirittura aumenterebbe.
Come aumentano la separazione fra il Vaticano e i pakistani i ventimila dollari e le somme che la cristianità potrà inviare a sollievo di quella fame.
Perché quando si affronta il problema dell'Amore non qualcosa bisogna dare, ma tutto. Diversamente non è questione di dare poco Amo re, ma è un darne niente. E qui non vale: meglio poco che niente. Nessuno di noi difatti si contenta di un po' d'Amore, ma tutto lo vorrebbe e è esigenza implacabile, di fronte alla quale ci si arrende, quando va bene, soltanto di fronte alla impossibilità del tutto.
Del resto il comandamento dell'Amore gioca la sua precisazione di misura su quella semplice eppur tanto terribile parola: tutto.
E non basta nemmeno dare tutto quello che si ha, per essere esatti e precisi, dato che si tratta di problema fondamentale e decisivo nel Cristianesimo e quindi nella Chiesa, e sembrerebbe già così tanto Amore. Ma sarebbe in fondo una semplice restituzione dare via tutto quello che si ha. Anche la Chiesa, donando tutte le sue ricchezze, forse restituirebbe semplicemente molto di quello che è stato rubato, ottenuto con l'inganno, offerto da chi doveva riparare furti molto più grossi.
Sotto la ricchezza accumulata vi è sempre la coda del diavolo. E non c'è mare d'acqua santa che possa lavarla.
Tanto più quando la ricchezza diventa proprietà, sicurezza di possedimento, affermazione del mio, ben tagliato e separato dal tuo, a base di leggi, di codici fatti risalire nientemeno che alla volontà di Dio.
Dare via tutto fino alla pietra dove posare il capo e la tana dove rifugiarsi, è un semplice atto di giustizia, a ben pensarci.
E' creare semplicemente le condizioni perché dove la giustizia conclude il suo cammino, possa iniziarsi quello dell'Amore.
Il quale Amore nasce al momento della scelta chiara e coraggiosa: quella di mettersi interamente e totalmente da una parte, condividerla fino in fondo e lottarvi e morirvi.
La Chiesa deve dare all'umanità e ai poveri in particolare, quello che le appartiene come sua unica ricchezza: l'inquietare il mondo e turbarlo profondamente per le sue spaventose ingiustizie. Il separarsi, come realtà di condanna, dalla ragione economica che imperversa sull'umanità e stabilisce privilegi intollerabili e miserie da infinita, irrimediabile disperazione. Liberarsi da ogni validità temporalistica purificandosi da ogni e qualsiasi rapporto di potenza. Per essere segno e realtà e sacramento di Cristo fra gli uomini. La sua lotta viva e vivente di liberazione e di redenzione. Giudizio di Dio incombente sempre sulla storia.
Vi sarà sempre chi avrà fame. E chi sarà schiacciato dalla guerra. Mangiato dall'ingiustizia e dalla prepotenza. Continuerà ad andare avanti questo mondaccio infame, ecc..
Ma non vi sarà un sinedrio a ipotecare Dio. Sommi sacerdoti a mascherarlo. Sinagoghe dove venderlo. Una religione cultuale e devozionalistica...
Vi sarà invece Gesù Cristo della vita a Nazareth, della montagna delle Beatitudini, del capitolo 23 del Vangelo di Matteo, Gesù Cristo condannato da tutti i tribunali religiosi e civili, Gesù Cristo del Calvario e della Croce, a morire fra due ladroni...
Sognare la Chiesa così, modellata su Gesù Cristo, continuità storica di Lui, non è mettere in dubbio le sue motivazioni soprannaturali, profondamente religiose, sacramentali e sacerdotali, ma è semplicemente sognare che il Figlio di Dio continuamente si fa uomo, rischiando tutto e pagando ogni prezzo, perché l'uomo sia responsabilmente aiutato a diventare figlio di Dio.
E questa è la Chiesa, il popolo di Dio comprendente ogni chiamato, ogni eletto con il suo carisma personale, come luce accesa che illumina, come pietra angolare che regge tutta la storia come sale che dia sapore a questo vivere, a volte così maledettamente insipido e assurdo, come è quello dell'umanità.
Per questa volta ci siamo conquistati un angoletto ai piedi dell'obelisco dove sta scritto «in hoc signo vinces» perché porta una croce sulla sommità, in Piazza S. Pietro.
E non è stato facile, con tutta quella polizia a gironzolare in quella piazza, cuore della Chiesa,, come mi hanno sempre detto, e dove un poliziotto gridava che lì non vi era libertà di parola, non è stato facile rizzare due grossi cartelli dove era semplicemente scritto che a noi cristiani, alla Chiesa, è richiesto molto di più del digiunare e dare le briciole, ma è richiesto invece dalla Sua Parola: vai vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e vieni e seguimi.
E per tutto il giorno non ha pesato il digiuno, il sole, l'essere guardati dalla folla come dei poveri sciocchi, la sopportazione a denti stretti della polizia, le discussioni senza fine con chi voleva parlare, ecc., ma pesava terribilmente che avere Fede e prendere sul serio Gesù Cristo è una sconcertante assurdità, nella Chiesa.


don Sirio


in La Voce dei Poveri: La VdP ottobre 1971, Ottobre 1971

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