Storie di lavoro: pesce e pane

Il mio lavoro è antico quanto l'uomo e quindi ha conservato - pur nell'evoluzione storica dei mezzi tecnici - un suo carattere «primitivo», che gli deriva dal suo rapporto con le forze della natura: il vento, la pioggia, il giorno e la notte, la bonaccia e il «marettone». Questo fatto lo rende duro e spesso incerto.
Lavoro da circa un mese su un motopeschereccio (il «Libeccio») per la pesca mediterranea: è una grossa barca di 143 tonnellate di stazza, lunga 31 metri e larga 6, con la «coperta» tutta ingombra delle attrezzature necessarie al mestiere. C'è un grosso verricello, per la trazione del cavo d'acciaio della rete; ci sono le tre piccole imbarcazioni indispensabili per la pesca notturna (due «lampare» e una «stazza») e, in fondo, sul piano di poppa, la grande rete (circa 700 m.), con tutti i suoi ornamenti di sugheri, piombi, corde e anelli di ferro.
Quella rete raccoglie tutte le speranze e le faticose attese del pescatore, perché è nel suo grembo, fra quelle piccolissime maglie scure che nasce il pane quotidiano.
Sotto coperta, come a dire nel «ventre» della barca, è sistemato il potente motore (600 H.P.) e una grande «ghiacciaia» adatta a conservare il pesce.
A prua, ci sono le cuccette dei marinai, in una piccola sala che serve anche per i pasti (più frugali e austeri che in un convento); e sopra, in alto, a dominare l'orizzonte e la distesa del mare, la cabina di comando.
E' da lì che il capitano organizza e dirige la pesca di ogni notte: pesca chiamata del «pesce azzurro» o del «cianciolo», perché è diretta ad un tipo di pesce particolarmente sensibile alla luminosità e che quindi bisogna prendere di notte (sono sardine, boghe, acciughe, sauri, sgombri...).
La battaglia inizia perciò appena fu buio: l'occhio luminoso dello scandaglio scruta il fondale, seguito dall'occhio attento del capo-pesca. Tutto viene deciso in base alla quantità di pesce avvistato da questo importantissimo strumento elettronico: quando si incontra un banco buono, allora cominciano le varie fasi della lotta.
Vengono calate in mare le due lampare, munite di un grosso generatore elettrico: le potenti lampade riflettono il loro chiarore sul pelo dell'acqua ed è la loro luce che costituisce l'esca per il pesce e lo attira piano piano nella trappola: il pesce, se «lavora bene», comincia a salire verso la superficie e a radunarsi nella zona dove sono ancorate le lampare.
L'attesa dura finché non c'è pesce sufficiente a giustificare la «cala» della rete: la barca gira intorno alla zona illuminata e segue, come una sentinella sempre all'erta, il movimento del «nemico». Può essere a mezzanotte, o poco prima dell'alba (tutto dipende dalla stagione, dal vento o dalla luna...) che si cala la rete: è un largo giro che viene tracciato all'intorno delle lampare, come a stringere in un cerchio di morte i piccoli esseri ingannati dalla luce.
Appena scesa completamente in mare, il grosso cavo d'acciaio che regge la rete comincia a fischiare intorno al verricello che lo riporta a bordo, costringendo la rete a chiudersi e a diventare come una grossa mano che lentamente stringe la sua preda, fino a rinserrarla nell'ultima «sacca» dalla quale verrà issata a bordo e messa a riposare - per breve tempo - nella ghiacciaia.
Per riportare la rete sulla barca, se tutto procede senza incidenti particolari, ci vuole circa un'ora: un grosso rullo idraulico, sospeso in alto sulla poppa, aiuta la fatica dei pescatori che a forza di braccia, messi a semicerchio, tirano senza tregua la rete e la distendono regolarmente al suo posto.
E' un'operazione assai faticosa, perché è senza respiro: bisogna far presto, prevenendo ogni possibile cambiamento del tempo. Quest'ora di fatica, sotto l'acqua che scende addosso dalla rete che ritorna «a casa», è tutta rivolta al momento in cui comincia ad affiorare il pesce rimastovi chiuso.
L'acqua comincia a punteggiarsi di mille squame d'argento, di pinne piccolissime che fremono, si dibattono, si urtano in una danza finale di lotta contro la morte: chiuso nella sacca, sotto il fianco della barca, il pesce viene trasportato nelle grandi vasche della ghiacciaia con un grosso retino - il «presacchio» - e lì, coperto dal ghiaccio, termina la sua corsa.
A operazione finita, c'è un quarto d'ora, venti minuti di riposo: si mangia qualcosa, si riprende fiato un momento e poi si scende «a basso».
E' il secondo tempo della battaglia: come ad una catena di montaggio, il pesce va velocemente incassettato (sono cassette di circa 10 Kg.), naturalmente scegliendolo secondo la qualità.
Si lavora nell'umido, in piedi (se non c'è mare mosso, è già una fortuna). Se il pesce è abbondante, si lavora fino all'arrivo in banchina e anche dopo.
L'orario di lavoro del pescatore oscilla sempre fra le 12 e le 16 ore ogni volta: quando non fa cattivo tempo e la pesca è buona, questo ritmo di lavoro può durare diversi giorni, senza interruzioni.
Mi diceva uno di loro: «il pescatore deve mangiare quando non ha fame, dormire quando non ha sonno e lavorare quando non ne avrebbe voglia».
Se il mercato è buono, se il gioco commerciale non gira troppo male, tutta questa fatica è compensata da un guadagno che visto sul piano economico può far l'impressione d'esser discreto.
Guardato sul piano dell'uomo, di quanto gli viene chiesto per portare a casa una buona «busta» (in media, 150.000 lire al mese, per questi sette o otto mesi della stagione), il pane del pescatore sa sempre d'amaro.
* * *
Ho cercato di parlare del lavoro; non ho detto niente degli uomini che lo fanno e lo subiscono.
Vorrei dire qualcosa di loro, perché essi meritano un particolare rispetto e una considerazione particolare.
Sono i miei compagni: con loro divido il pane, la fatica, la speranza che tutto vada bene. Siamo in sedici sulla nostra barca, capitano compreso.
Ad eccezione di lui e di me, gli altri sono tutti siciliani. Alcuni abitano a Viareggio da diversi anni; ma la maggior parte vengono «a fare la stagione», lasciando la casa e la famiglia e affrontando un periodo di grossi disagi. Sono degli «emigrati», anche se all'interno: stanno qui da marzo a settembre (fra tutti gli equipaggi delle lampare, sono circa 250 uomini). Molti sono giovani; ma ci sono anche uomini oltre i 40 anni, che hanno consumato tutta una vita sul mare: c'è chi è stato all'estero e tutti hanno affrontato e affrontano questa vita dura e scomoda, per cercare di farsi una casetta al paese, dare una sistemazione dignitosa ai figli, alleggerire il peso di una povertà che dura da generazioni.
A metà stagione, hanno una licenza di una decina di giorni: una corsa a casa, a rivedere la moglie o i genitori, e poi di nuovo «al pezzo», fino ai primi di Ottobre.
Quelli che continuano a fare questo mestiere, stanno a casa quattro mesi all'anno, in inverno: al paese, si arrangiano a fare qualcosa per tirare avanti fino al principio della primavera.
Sono uomini seri, che lavorano forte e sentono l'impegno di un pane guadagnato a prezzo di tanti sacrifici.
lo sono sacerdote. Essi lo hanno saputo fin dallo inizio e mi hanno accolto con sincera amicizia. Piano piano stiamo facendo conoscenza: sento bene che essi scoprono nella mia povera vita, divisa totalmente con loro, il volto di un sacerdozio (e quindi di una Chiesa-continuazione di Cristo) fino ad ora sconosciuto nella loro esperienza religiosa.
Sono certo che dividendo con loro il pane, il poco dormire, la lunga fatica di ogni notte, la povertà di questa vita - e tutto abbracciando nella Fede, tutto raccogliendo nella Eucarestia, tutto portando al Cuore di Dio attraverso il mio povero cuore d'uomo - sono certo che qualcosa del Regno di Dio cresca e maturi. E non solo in loro, dei quali conosco il nome e vivo l'amicizia; ma in tutta una realtà di esistenza umana allargata fino ai confini dell'umanità, perché l'amore cristiano sento che è una potenza universale, capace di produrre i germi della vita dentro la dispersione dei figli che Dio chiama all'unità da ogni angolo della terra.
lo sono qui non a nome mio personale, ma di tutta una comunità cristiana di cui sono parte: con i miei fratelli e le mie sorelle che raccolgono e vivono altre realtà della vita umana (la parrocchia, l'ospitalità, la vita del cantiere o della fabbrica), sento di compiere un'opera di Chiesa e quindi di rapporto serio e incarnato dell'Amore di Dio con le sue creature.
Al di là di tutto lo sforzo fisico, di tutte le rinunce che mi sono chieste, sento benissimo che la cosa essenziale è unicamente il fatto di essere una vita umana dove Dio è Tutto, dove gli altri possano incontrare unicamente i suoi Valori, la sua Presenza, Gesù Cristo vivente oggi, con loro, al loro fianco, seduto alla stessa tavola, attaccato alla stessa croce quotidiana.
Sento crescere in me la realtà autentica del sacerdozio cristiano: essere questo spazio fatto di carne e di sangue, di anima e di cuore, dove Dio prende un volto, assume e fa sua l'esistenza, il sacrificio, la speranza, la solitudine e il bisogno di luce dei suoi figli. Dove l'Amore non è una parola, un sentimento, ma la vita intera offerta per il Regno di Dio ai propri fratelli.
Sto imparando a dimenticarmi, a lasciar fare completamente a un Altro, per poter essere quel pane che Cristo vuole che siano i «suoi» per la fame del mondo.


don Beppe


in La Voce dei Poveri: La VdP aprile 1971, Aprile 1971

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