I SOLDATI
...Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel Pretorio, e convocarono tutta la coorte. Lo rivestirono di porpora e, dopo avere intrecciata una corona di spine, gliela misero sul capo. E cominciarono a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna e gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, gli facevano riverenza (...). Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse... (Marco, 15, 15-24)
L'Innocente che non aveva lasciato che una spada lo difendesse nel momento dell'estremo pericolo, colui che si definiva «mite e umile di cuore», che si era sempre rifiutato di proclamarsi re, viene ora consegnato ai soldati.
All'inizio della sua vita, quelli di Erode lo avevano mancato; ora, attraverso le torture che gli vengono inflitte dalla violenza "legale", egli si riunisce ai suoi piccoli fratelli uccisi a Betlemme. Ma non è solo a quei bambini ormai lontani nel tempo che egli si ricollega. Basta leggere le pagine della sua passione esaminando il comportamento dei militi romani per vedere che il Cristo è incardinato nella storia d'oggi. Come non riconoscerlo in ogni uomo che sulla strada della libertà, della giustizia si scontra con la repressione armata? Se il Vangelo ci è stato lasciato non solo come storia di «un» uomo ma come storia «dell'» uomo e se Gesù ha voluto identificarsi con i più poveri, noi dobbiamo avere il coraggio di guardarci intorno e di vedere che attraverso la violenza dei soldati contro l'uomo che «turba l'ordine costituito» (questa violenza che permane identica lungo i secoli) Gesù è intimamente congiunto al martirio degli operai spagnoli e degli intellettuali greci e cecoslovacchi, dei preti e degli studenti brasiliani, dei patrioti vietnamiti di tutti gli uomini sfigurati dalle sevizie così come nel Vangelo, versetto dopo versetto, il volto del Cristo va sfigurandosi sino a strappargli un grido di disperazione e a lasciare sulla Sindone la povera immagine di un uomo che ha il naso tumefatto dai pugni e la fronte sporca di sangue.
Credo che a questa pagina - la tortura del Cristo storico e la tortura del Cristo presente in tutti i secoli nella carne degli uomini che patiscono persecuzione per la libertà - noi dovremmo essere attentissimi come a una terribile lezione di metodologia del sadismo: di quello che fermenta nei regimi più putridi dell'umanità ma anche di quello che fermenta nei nostri cuori di galantuomini.
Primo tempo. L'uomo va degradato, ridotto a un abominevole oggetto. Come si può colpire il nostro volto in un volto altrui? Occorre istituire delle profonde differenze fisionomiche che ci impediscano di vederci simili. Pilato fa flagellare il Cristo per esorcizzare la sua inquietudine. Un uomo sottoposto alla tortura (alle sevizie o alla fame o alla completa frustrazione sociale) ha le spalle più chine, il passo più goffo, l'occhio più spento. Inquieta meno della persona diritta che ti guarda negli occhi senza timore. Ti permette di proseguire il tuo lavoro di giudice senza tremare dinanzi a lui. La sua debolezza fisica esalta la tua debolezza morale. Sporca di sangue o di fango o di fame, carne di eretico inquisito dalle Chiese sante e da quelle atee, carne di emigrante meridionale nelle città del Nord, carne di ebreo tra gli uomini dell'Herrenvolk, carne di arabo nell'Israele di oggi, carne di negro davanti ai capi arabi del Sudan, carne di bambini biafrani o di lavoratori italiani immolati nelle guerre «industriali», carne di vaqueiro nel Nordest, scimmie senza coda davanti ai neocolonialisti - questa carne appare finalmente diversa e spregevole. E allora è più facile passare al secondo tempo.
Secondo tempo. All'uomo torturato si nega ogni dignità. Non basta averlo fisicamente annichilito: è oggetto di ludibrio. Il carnefice non vuole spegnere la voce del martire nel sangue senza averla spenta prima nel ridicolo.
I soldati fanno quadrato intorno a Gesù, nel cortile della caserma. Lo rivestono di uno straccio di porpora e gli mettono sul capo una corona di spine. Gli si inchinano buffonescamente davanti, lo picchiano, gli sputano addosso. Più che un istinto malvagio è descritta in questa pagina, come in quelle dei giornali di oggi, una tetra volontà di demolizione dell'uomo. I carnefici sono sempre stranei alle diatribe teologiche o culturali. Ciò che li rende così preziosi ai potenti è la loro ignoranza, la convinzione tenace che solo ai ricchi spettino gli strumenti del pensiero. Per i soldati romani, lo scandalo del Cristo è un affare di ebrei. Ma è necessario al loro lavoro, perché essi possano aderirvi con impegno, prendere posizione, ideologicamente, a fianco della classe dirigente. Non importa se, come in questo caso, si tratti di una casta sottomessa ad altri. E' l'antichissima e sempre ricorrente storia dei colonialismi di tutti i tempi in cui fra i capi dei vincitori e i capi dei vinti, come fra Pilato ed Erode, si stabilisce un'amicizia che è soprattutto solidarietà contro il grido degli umili, contro la possibilità che il popolo si ribelli. Così i romani, padroni del mondo, si trovano inseriti, senza volerlo ma solo perché i ricchi sono sempre legati fra loro, al di là delle contingenze della storia, nel fondo di una vicenda misteriosa e il Messia di Israele muore su un patibolo straniero, unendo per sempre la sua carne a tutti i patiboli eretti dai conquistatori in nome dell'ordine pubblico.
Questi soldati, proletari di Roma divenuti improvvisamente ricchi di fronte alla povertà di un popolo soggiogato, tradiscono il Cristo, la causa di tutti gli altri poveri che hanno fame e sete di giustizia, degli umili che osano sperare contro ogni speranza. Essi non sono un fatto nuovo né isolato nella storia: attraverso il vincolo della disciplina militare, i ricchi continueranno a proclamare civiltà il loro privilegio e a imporne agli umili la difesa. E tuttavia questo tradimento (e la perversione dei mandanti) pare al Cristo un peccato così grave che, pure allo stremo delle sue forze, il Figlio di Dio che si era rifiutato di pregare per il «mondo», esce in una preghiera per loro, supplica il Giudice supremo di perdonarli perché «non sanno quello che fanno».
Al di là della nostra capacità di perdono, Gesù vede la disperata miseria dei soldati che hanno ricevuto come unica educazione la prontezza a demolire l'uomo, che sono convinti di valere per la perfezione con cui uccidono.
Poveri soldati! Accampati ai piedi della croce, sul Golgota e su tutte le aree infuocate dalla guerra o dall'odio, ridotti essi stessi a oggetti, a utensili, non possono che dividersi la veste del condannato a morte: miserevole bottino, che il sussulto della terra renderà ancora più esiguo. Gli altri, i potenti che si sono serviti di loro, si dividono il mondo.
Sino a quando?
E tuttavia quei soldati non sono soli. Attraverso la lettura della Passione del Cristo come attraverso la lettura dei giornali di oggi, noi siamo testimoni del comportamento dei loro discendenti, nei cortili delle caserme e accanto ai patiboli.
Noi celebriamo i riti del Venerdì Santo, ci chiniamo a baciare le piaghe dei crocifissi di gesso, contempliamo la morte dell'uomo-Dio, proclamiamo la sua Resurrezione: e tuttavia sembriamo stranamente inconsci del fatto che non è piangendo il bel Cristo maestoso di una certa pietà convenzionale che noi diventiamo - come il Figlio di Dio e Figlio dell'Uomo ci ha chiesto - «uno» fra noi e con lui: ma riconoscendo il suo volto tumefatto e sfinito nella maschera di fango e di sangue o di ottusa fatica che sfigura il volto di tanti nostri fratelli.
Come possiamo «nasconderci nelle sue piaghe», essere «lavati e redenti dal suo sangue», se continuiamo a sentire il Cristo remoto nel tempo, protagonista di un'azione di salvezza soltanto misteriosa e simbolica? Egli ha detto: «Sarò con voi sino alla fine dei secoli». Ha detto: «Ciò che avrete fatto a uno di questi minimi fra i miei fratelli lo avrete fatto a me». Così, la nostra commozione, la nostra pietà per il Cristo, lo sdegno per i suoi carnefici, il desiderio che ciò non avvenga mai più non hanno senso se non si dilatano al dramma del dolore umano, nel quale la figura del Cristo si perpetua, per volere di lui, nell'uomo che muore stritolato dalla violenza, dalla ragione di stato che crede di poter sacrificare infiniti singoli per salvare lo status quo.
E così, ancora una volta, il Vangelo non si fa alienante contemplazione di un evento miracoloso ma chiave per leggere e per vivere, sino in fondo, il dramma dei nostri fratelli più poveri (poveri perché privi di giustizia, poveri perché privi di libertà). Ancora una volta, distogliere lo sguardo dalla realtà che ci circonda e recitare il nostro «Signore! Signore!» senza sentirsi chiamati ciascuno per nome dalle croci di questa terra, significa l'ipocrisia che ci esclude dal regno di Dio.
Da «Il Vangelo secondo gli anonimi» di Ettore Masina,
Cittadella Editrice
in La Voce dei Poveri: La VdP aprile 1971, Aprile 1971
Luigi Sonnenfeld
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