Parlare di una condizione di lavoro manuale del prete, significa - prima o poi - arrivare ad un punto in cui si vuole distinguere i preti a tempo pieno da quelli a metà tempo, a mezzo servizio, o addirittura «a ore». La sensibilità sacerdotale dei cristiani, e ancora di più dei preti e dei vescovi, sembra essere infatti ancora saldamente ancorata ad una figura di sacerdozio ben delineata, dal compiti ormai precisati al punto da richiedere unicamente una fedeltà a tutta prova alle direttive sancite da una tradizione di secoli: il prete che spiega il Vangelo, insegna i comandamenti di Dio, dirige e organizza quel fatto cristiano che si chiama parrocchia, senza mai compromettervi la propria vita, badando solo alla regolarità amministrativa della pratica religiosa.
Ed è logico, in questa visione, pensare a questo funzionario di Dio come uomo attento al proprio lavoro di divulgatore della volontà del Signore, lontano da ogni distrazione che le responsabilità della vita possono portare, pago di vivere del proprio annuncio e del proprio sacerdozio.
Giusto premio di questo impiego svolto spesso con zelo generoso, viene allora la congrua o lo stipendio della scuola di religione, le offerte per i sacramenti, ed infine la pensione e la cassa malattie: i tipici segni, nella nostra società, di una sistemazione di classe.
E come è assurdo pensare ad un impiegato di banca che diviene contadino per meglio svolgere nei campi il suo lavoro di bancario, così non si capisce come un prete possa essere tale lavorando e guadagnando il pane con le proprie mani: si aprirebbe una parentesi nella vita sacramentalmente ordinata a Dio, una parentesi per interesse personale anche apprezzabile, ma che non ha niente a che fare con l'annuncio del Vangelo.
Nasce così chiaramente la distinzione tra il prete a pieno tempo e il prete che lavora ed è quindi prete a metà tempo (quando non sia prete affatto), qualunque sia il motivo del lavoro (necessità, libera scelta, hobby o vocazione, il motivo non ha importanza).
Ora questo modo di affrontare un problema di seria ricerca cristiana e sacerdotale è quantomeno superficiale e quindi penosamente offensivo.
La visione del sacerdozio, benché sempre molto nebulosa, non può rinunziare a ciò che comporta l'entrare di Dio nella vita di uomini, da lui liberamente scelti, fino al punto da trasformare il loro essere, per un seguirlo nella misura piena di chi lascia tutto.
Lasciarsi coinvolgere dalla storia dell'amore di Dio .Consentire liberamente perché Lui sia tutto. Allargare il cuore in piena accoglienza di tanta realtà umana perché vi incontri il suo Signore: queste le indicazioni di un sacerdozio tanto vicino a quello di S. Paolo. Sacerdozio apostolico che non ha niente da spartire con un sacerdozio funzionale, chiuso nell'ambito di una presidenza liturgica e di una più o meno illuminata distribuzione sacramentale.
Questo il vero sacerdozio a tempo pieno, proprio perché neppure una briciola di vita può sfuggire all'offerta di mediazione che è quella di Cristo da cui ci si lascia sopraffare fino ad affogare nel mistero della Sua Vita.
Il vivere una normalità di esistenza guadagnando il pane col sudore della fronte diviene allora essenziale per condividere in pieno la condizione umana ed obbedirvi serenamente. Vivere una autentica realtà di verginità è semplice condizione perché si possa accogliere quel respiro universale che è la presenza di Dio. Vivere da poveri è assolutamente necessario per obbedire in pienezza alla vita ed accogliere, senza riserve, la Presenza di Colui che è Tutto. Vivere da poveri senza nulla pretendere, perdendo addirittura tutto purché viva in noi Cristo, mistero di incarnazione e di incontro tra Dio e l'umanità.
E siamo chiamati a seguire questa strada della voce del Padre che risuona, immensa eco, nelle mille condizioni della vita umana. Presi dalla vita per esservi ancora più profondamente coinvolti: seme che muore e porta frutto, luce che non teme le tenebre, acqua che scorre senza conoscere ostacoli.
Seguire questa strada vuol dire abbandonare il vicolo a fondo cieco di un sacerdozio in funzione puramente catechetica e cultuale, per allargarsi alle misure dell'«uomo di Dio» che porta nella vita i segni della Presenza del Signore.
Perché l'annunciare il Vangelo a tutte le creature non vuol dire soprattutto insegnare le cose di Dio, quanto, radicalmente, accoglierle nella propria esistenza, come scelta sua per un'offerta a tutto il mondo. Cercare nella propria vita alcuni valori che siano i segni della Risurrezione di Gesù: ecco lo sforzo serio, sacerdotale, del vero Annuncio. Cercarli e tentare di viverli nella fede di Dio che crea la vita in noi e ce ne dà tanta forza e tanta capacità.
Si è insegnato tanto, specialmente ai bambini. Si è tanto approfittato di situazioni dolorose per poter «collocare» la nostra parola su Dio. Si è tanto soffocato un sacerdozio dietro queste indicazioni così limitate e intristite dal puro senso del dovere. Perché tanto insistervi sopra, tanto temere che cadano, che non vengano più raccolte?
Gesù non è venuto per insegnare cose meravigliose, o aumentare dei discepoli: è venuto a portare la vita, e la vita di Dio nell'esistenza del mondo. E questa vita la portiamo anche noi, fin nel profondo di questo nostro mondo, fino a morirvi dentro, quasi a fecondare ogni realtà di esistenza umana, seme di Dio che dona la vita.
Il lavoro, le preoccupazioni della casa, il peso della vita non ci distolgono affatto da Dio. No, veramente. E' il dolce peso di un amore che abbraccia tutta la realtà umana senza niente lasciare; perché tutto sia sostenuto e nulla si perda.
Dietro Gesù e il suo dolce legno.
don Luigi
in La Voce dei Poveri: La VdP marzo 1971, Marzo 1971
Luigi Sonnenfeld
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