Come già si diceva nel primo numero, ci siamo decisi a riprendere una vecchia pubblicazione che stava ormai agonizzando, per evitarci tutto quell'insieme di pratiche burocratiche indispensabili per una nuova pubblicazione. D'altra parte la testata «voce dei poveri» si addice assai a tutta una ricerca d'impegno religioso e cristiano che noi intendiamo fare sul piano concreto della vita, in ordine ad una testimonianza di pensiero, di parola, di pastorale sacerdotale, di presenza viva e vivente nella Chiesa.
E' di qui che ci nasce la voglia di comunicare con tutti i nostri cari amici o comunque con chi è contento di trovare sulla sua strada una comunità cristiana e sacerdotale che cammina nella comune fatica di ogni giorno, anche con pagine stampate.
Lo sappiamo bene che di stampa e di periodici e di periodichetti ce n'è anche troppa. Ma anche del parlare ce n'è anche troppo e per noi scrivere è come parlare, è una semplice espressione del vivere.
D'altra parte non ci basta leggere, ci interessa anche scrivere. Ci piace gridare sui tetti.
Siamo contenti che ci siano i settimanali diocesani, ma ci piace che ci sia anche una tavola in casa nostra apparecchiata e un piatto di minestra da offrire, guadagnato e offerto dalla nostra comunità. Non chiediamo niente a nessuno, nemmeno di essere letti, tanto meno ben accetti: ciascuno ha sempre il suo cestino che lo libera dall'ingombro della posta. E' una minima fatica, quella del cestino, che pensiamo non disturba nessuno. E permette a noi (e a chi sente il problema come noi di sentirci non soltanto liberi (che sarebbe già molto) come persone umane, ma di sentirci più liberamente coinvolti nella ricerca di una sincerità cristiana e di un'offerta di testimonianza, in quella coscienza di responsabilità che il credere in Dio, in Gesù Cristo, suscita, ravviva e accende sempre più in noi e nella nostra comunità.
Abbiamo accesa (e ci dà gioia indicibile pensare che è opera misteriosa e meravigliosa dello Spirito di Dio) un po' di luce in noi: desideriamo soltanto che non rimanga sotto il moggio e preghiamo vivamente che non ci venga soffiato sopra a spengerla, anche quando può dare un po' fastidio perchè piacerebbe assai di più che tutto fosse al buio o almeno nella penombra.
Quello che chiediamo subito (e cioè a questo secondo numero) è di non venire giudicati malamente, con troppa facilità.
Sappiamo bene che c'è, nella sensibilità della coda di paglia di troppa religiosità, il gridare con zelante facilità «al fuoco, al fuoco», e vedere subito ribellioni, disobbedienze, eresie, indisciplina, disorientamenti e diavolerie del genere, al solo leggere cose non perfettamente all'unisono, o all'imbattersi in discorsi mai prima ascoltati, o allo scoprire ricerche ed esperienze semplicemente diverse.
Il sospetto non è certamente una virtù; quando poi è metodo, è sicuramente vizio. E il pregiudizio non è condizione adatta per la ricerca serena ed aperta della verità.
Ci permettiamo tranquillamente e coscientemente di considerarci al di là di ogni possibilità di sospetto e respingiamo di essere giudicati in base a pregiudiziali a criterio fisso. Conosciamo molto bene il sistema e quindi dichiariamo molto serenamente, ma con fermezza, che non raccogliamo né tanto ne poco diffidenze, paure, insinuazioni, malevolenze, pettegolezzi da ghetto cattolico e da sistema ecclesiastico.
Con tutto questo non vuol dire che non intendiamo pensare quello che pensiamo, parlarne ad alta voce e quindi anche scriverlo, per il semplice motivo che tutto in noi, prima che pensiero, parola, pagina stampata, è vita vissuta.
Quindi accogliamo con gran gioia la verifica concreta, il vedere con gli occhi, il toccare con mano: è qui che desideriamo e intendiamo essere giudicati (e se è il caso condannati). Perchè tutto il resto (parlare, scrivere, ecc.) è espressione, segno, e forse povero e faticoso tentativo e quindi necessariamente limitato e sbriciolato, di chiarimento e di offerta di vita vissuta e quotidianamente pagata.
Possiamo risultare dei presuntuosi: ma non ci dispiace perchè non è presunzione riconoscere il Dono di Dio e tentare, sia pure tanto vigliaccamente, una sua fruttificazione.
Perchè non soltanto è permesso, ma è doveroso gloriarci della Fede. E è giusto sentircisi attaccati come alla ragion d'essere della propria vita. Fin quasi alla impossibilità di perderla o dì annebbiarla.
La nostra Fede in Dio. In Gesù Cristo, e l'Amore a tutto il suo Mistero di vero Dio e di vero Uomo. La Chiesa continuità di Lui, vivo e vivente nella storia. Il Papa, i Vescovi, il Popolo di Dio. Il Mistero del mondo spiegabile soltanto con Gesù Cristo. Il Sacerdozio... i Sacramenti... la Madonna, e potremmo continuare fino alla sottoscrizione di tutto il Concilio Vaticano Il non con una firma fatta con la biro, ma a carne e sangue vivo.
Tutta la Fede della Chiesa è la nostra Fede.
Soltanto che forse crediamo molte altre cose che la Chiesa gerarchica non crede, ci angosciamo per problemi che forse non sfiorano nemmeno lontanamente tanta parte del popolo di Dio, sogniamo valori che non interessano perchè nemmeno sono avvertiti come fondamentali nel Regno di Dio...
Ma non che pensiamo che noi siamo quelli che finalmente sistemeranno le cose: vogliamo essere semplicemente fedeli che sono terra buona e intendono quindi dare qualcosa, sia pure una percentuale minima, al Regno di Dio nel mondo per tutto quello che appartiene alla Chiesa - e quindi anche a noi - nel contribuirvi.
A questo punto, fra i tanti problemi che saltano su, viene a galla quello della disciplina necessaria, indispensabile al buon andamento della Chiesa. E' il gravissimo problema della corresponsabilità che investe tutta la Chiesa e che non si risolve scaricandola in gradualità gerarchiche che inevitabilmente comportano la spaventosa indisciplina della passività, dell'indifferenza, ma che invece carica del peso dell'umanità intera ogni fedele fino alle misure terribili di Cristo e della salvezza del mondo, chiunque accetta e intende vivere responsabilmente la propria scelta cristiana.
Detestiamo la disciplina che crea la spaventosa e disumana indisciplina della irresponsabilità personale. La soppressione della coscienza personale e della sua responsabilità attraverso l'autorità o meglio ancora lo autoritarismo.
Non è un bisticcio di parole chi è il primo sarà l'ultimo e l'ultimo il primo e che chi comanda sia come colui che serve.
Ci prendiamo sempre più col passar degli anni (e speriamo che questo avvenga realmente) il nostro posto nella Chiesa che non ha affatto bisogno di particolari autorità per realizzare l'obbedienza che sappiamo bene dovrebbe essere quella come di «colui che si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce».
Per chi ha voglia di questa obbedienza c'è il Padre e l'umanità intera a manifestare una volontà così assoluta e terribile da averne paura e sicuramente offre possibilità di disciplina di una richiesta spietata, molto chiaramente indicata a leggere fedelmente tutte le pagine del Vangelo.
E' per aiutarci vicendevolmente tutti (dalle supreme autorità agli ultimi fedeli: che cosa strana però per doverci intendere dover usare una frase del genere) alla comune obbedienza in una disciplina seria e operante che la libertà, di scocciarci gli uni gli altri è indispensabile: quindi la necessità di cercare concretezze seriamente vissute, un parlarci chiaro e senza falsi e assurdi pudori, anche di scontrarci sia pure sempre con Amore e quindi anche violentemente.
Non è mancare di rispetto, non è disordine, indisciplina, non si è degli eretici, dei contestatori, non sono mancanze di carità: è essere uomini vivi, cristiani coscienti, è angosciarsi di problemi-destino dell'umanità, è sognare un po' d'esistenza terrena dove nasca la voglia del Paradiso, tanto porta via la passione a Cristo per la gloria di Dio.
Null'altro.
Quello che ci appartiene è pagare di persona, è offrire tutto, è rimanere sempre più poveri fino alla sparizione di se stessi perchè sempre più si compie fa Sua sopraffazione e rimane Lui solo.
E' per questa Fede che preghiamo chi legge queste pagine di sentirci dei fedeli, veramente al di là di ogni sospetto e di ogni timore.
La Redazione
in La Voce dei Poveri: La VdP marzo 1971, Marzo 1971
Luigi Sonnenfeld
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