Maledetta la violenza

Già tempo fa, ai tempi di quell'orribile processo di Burgos, sotto il peso spaventoso di probabili condanne a morte, non mi era stato possibile starmene a casa, al caldo della nostra cucina. Avevamo appena celebrato la nostra Messa serale della comunità e ci siamo detti che qualcosa bisognava fare, fosse pure tutto inutile e assurdo. E chi poteva di noi siamo andati a intrupparci in una massa di gente urlante, dietro un agitarsi di bandiere rosse.
Sarei andato anche dietro al diavolo se lui si ribellava e manifestava contro la pena di morte per motivi politici.
E quegli urli - Franco boia - taglienti come le lame di gelo che tagliavano la faccia in quella sera, non mi dispiacevano.
Quando nel mondo c'è da piangere, bisogna piangere, altrimenti si è senz'occhi e senza cuore.
Soltanto che pochi giorni dopo è venuta fuori la condanna a morte a Leningrado di quegli ebrei che avevano intenzione di dirottare un aereo per andarsene dalla Russia in Israele. Il dirottamento, è chiaro, era perché non potevano andarvi con un aereo di linea, o in treno: ma unicamente perché chi è in Russia deve vivere e crepare in Russia. Diversamente, il plotone di esecuzione o la sentinella sulla torretta del muro che spara a chi tenta di scavalcarlo.
Nessuna dimostrazione. Nemmeno un'ombra di ribellione. E io sono stato a casa.
Poi, ad aggravare la storia, sono venuti gli scontri e gli eccidi di Polonia. E tutto quello che succede nel mondo che è sempre fiume di sangue....
Ho scoperto qualcosa di assurdo in me, come d'un vuoto. Sentito e avvertito da tanto tempo: ma poi è come affacciarsi sull'orlo di un abisso.
Certo non mi ha confortato il gesto del Papa che nemmeno riceve le mamme dei processati di Burgos (per paura che Franco gli rimproveri l'asciugare le lacrime di mamme disperate) e hanno fatto bene quelle mamme a rifiutare il Rosario che ha loro inviato, tirando fuori il loro, ormai consumato di Misteri dolorosi. Né le pressioni diplomatiche, perché contro la pena di morte ci vuol altro per combatterla nel mondo delle vesti paonazze e dei fiocchi rossi e delle parole in francese, della diplomazia vaticana.
E è morto (e quanti altri nel frattempo sono morti, dissanguati per le guerre che imperversano nel mondo, e per i regimi assolutisti che si tengono su con la forca e per i regimi militari che allagano di disgraziati le prigioni) è morto quel pover'uomo di Catanzaro, dilaniato da una bomba, mentre tornava a casa con un pacchetto di medicinali per la madre dei suoi quattro figli, ammalata.
E' chiaro che bisognava tornare sulla strada. Di fronte ai morti ammazzati, è ucciderli un'altra volta non maledire le ragioni che armano gli assassini. Diversamente è connivenza o è quella orrenda cosa che è l'indifferenza. Non piangi, non gridi, ti rinchiudi in casa e stai a guardare dalla finestra: sei più fratello degli assassini (e del sistema che dà loro le armi) che di quello che è stato ammazzato a Catanzaro, a Milano, nel Vietnam, in Giordania, in Polonia, nel Camerun, nel Sud Africa,... e si può tingere di rosso tutto il mondo per indicare dove).
Non potevo, non potevamo noi comunità di preti, non tornare sulle strade dietro bandiere rosse.
E non ci sono altri modi per gridare che il sangue dei fratelli versato ci affoga. E che l'ultimo ucciso voleva essere Dio, Gesù Cristo, perché dopo la sua morte gli uomini non si ammazzassero più, perché l'ultimo ucciso era risorto e la morte non doveva esistere più, ma la vita (perché la morte che non è un assassinio non è la morte).
Erano le processioni da fare ancora e piangere, portando una Croce, perché i fratelli vi avevano tolto Cristo per inchiodarvi un altro fratello (innumerevoli altri fratelli).
Ma ancora non esiste una Chiesa che pianga a disperazione di madre per i figli che le assassinano, una Chiesa popolo di Dio che si ribelli e respinga a costo di Calvario e di Croce i regimi che campano sul sangue versato e su quello che sono pronti a versare. I sistemi economici che costruiscono le guerre. I militarismi che ne fanno, della guerra, la gloria e della forza un diritto. La violenza come sistema, l'ammazzare come un dovere.
Un gruppo di preti che non sa cosa fare per dare una testimonianza cristiana, dire una parola in nome di Dio, suscitare un problema nella coscienza dei propri fratelli, provocare la Chiesa a vivere concretamente il momento d'incarnazione richiesto, reclamato dalla storia di disperazione che l'umanità sta vivendo.
Qualcosa che somiglia a Gesù Cristo, che abbia almeno un'ombra del suo coraggio, un accenno alla verità della sua Parola, un momento del suo essere vivente nella storia degli uomini. Un qualcosa che sia di ora ma che sia in qualche modo un po' come allora.
Qualcosa di sui tetti, sulla strada, nelle piazze, fra la folla, Amore o maledizione, beati o guai a voi.... qualcosa che sarà nulla, ma che se dev'essere, sia pure anche Croce e crocifissione.
Forse è difficile per molti della Chiesa immaginare un gruppo di sei preti a tormentarsi in angoscia fatta tutta di Amore alla Chiesa, per riuscire a trovare come si può essere vivi come preti, nel travaglio e nella spaventosa responsabilità del momento che viviamo e che dobbiamo - ma tu sai cosa vuol dire di terribile scoprire questo «dovere» nella ragione della propria vita? - cercare, pagando qualsiasi prezzo, di rendere più che sia possibile Regno di Dio e cioè esistenza redenta (fatta nuova e diversa) dalla morte e resurrezione di Cristo.
E siamo andati l'altra sera - un pomeriggio dolcissimo di sole e la Darsena aveva d'oro le barche e contro il cielo a tramonto parevano candele accese gli alberi dei pescherecci e dei panfili alla fonda - e sembravano meno rosse le bandiere, un fiume lento e solenne la folla d'operai - siamo andati a reggere due canne che sostenevano uno striscione bianco di lenzuolo dove macchiavano di rosso parole roventi, di fuoco: Maledetta la violenza che insanguina il mondo. E che quella era la Parola dei sei preti della nostra comunità era scritto sotto quella Parola e da tutti noi a camminare affiancati.
Senza chiederlo a nessuno, era una processione lunghissima d'operai dietro quella Parola.
Reggevo una delle due canne lungo la strada. E sentivo la povertà terribile di quel camminare di povera gente. Di povera gente mangiata da tutti. E che vive perché respira soltanto di speranza. E sentivo di portare una canna a nome di tutti (che cosa inimmaginabile sentirsi sacerdoti, povera carne meravigliosamente raccogliente l'universo intero per farne tutt'uno col Mistero di Dio attraverso Cristo), una canna, è vero, una debolezza fino al ridicolo, ma sentivo che somigliava a quella che misero in mano a Gesù Cristo dei soldati per burlarsi di Lui.
Ma è questo ridicolo, assurdo Cristianesimo, quello che può salvare il mondo: diversamente, la spaventosa, orrenda monotonia del sangue che continuerà ad essere versato fino a che non affogherà il mondo intero.


don Sirio


in La Voce dei Poveri: La VdP febbraio 1971, Febbraio 1971

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