La difficoltà più grossa per il dialogo è l'essere in posizioni diverse da quelle nelle quali si trovano quelli con i quali dobbiamo comunicare.
L'essere sullo stesso piano è fondamentale.
Per parlare con la gente della strada bisogna metterci a camminare sulla strada. E' inevitabile uscire di casa e tanto più se si tratta di un palazzo. Fuori, allo scoperto, il discorso è subito un altro. L'umiltà è più facile, la comprensione è più aperta, la sensibilità più delicata. E il parlare è come trovarci a bere alla stessa fontana.
Anche perchè se ci volessero offendere, sulla strada, possono farlo liberamente: perchè è assurdo pensare a un dialogo ed escludere già in partenza certa piega penosa che il dialogo potrebbe prendere.
Sono importanti le condizioni esterne per il dialogo.
Non potrà mai essere dialogo sereno, a cuore aperto, quando uno parla di dietro ad una scrivania sovraccarica di documenti e scartoffie importanti, con alle spalle scaffali pieni di libri, e l'altro, poverino, sta lì seduto sull'orlo di una sedia come un'anima in pena.
Non va bene per il dialogo l'aria di concessione, di benevolenza, di generosità....
Per il dialogo non si può partire dalla sicumera: io ho tutta la verità, tu sei nell'errore. Il dialogo è sempre una ricerca di verità: nessuno la possiede in misura totale, nessuno ne è completamente privo. Tutti abbiamo da imparare e tutti possono darci della verità.
Gli umili e i semplici hanno sorgenti inesauribili di verità: la verità buona, spontanea che nasce dalla rettitudine, dall'onestà, dal disinteresse. Ma ormai quasi tutti preferiamo un Coca-Cola ad un bicchier d'acqua, fresca di sorgente, un gelato Motta ad un quartino di latte appena munto. E è per questo che il dialogo diventa quasi impossibile.
E' facile fare dialogo con le persone colte, se non altro perchè con loro possiamo lasciarci andare a fiumi di parole che non dicono nulla. Perchè una persona di cultura, cioè un intellettuale, si riconosce facilmente dalla facilità di parlare e parlare, senza dire niente.
E poi perchè si possono trattare problemi molto complessi, sviscerarli profondamente e poi alzarsi, mettersi il cappello e non pensarci più. Come i dialoghi delle persone importanti durante i pranzi: discutono calorosamente, come se dai loro discorsi dipendesse l'avvenire del mondo e pel, dopo i convenevoli, ognuno ritorna ai suoi interessi perchè questi sono veramente cose serie.
Con la povera gente il dialogo invece è difficile perchè hanno il brutto vizio di ascoltare sul serio e di dare importanza alle cose. Forse è per questo che non riescono a parlare molto. Però il loro poco parlare mette terribilmente a disagio. Anche perchè nel dialogo loro parlano con gli occhi, con i gesti delle mani, con la serietà di un volto che tradisce la pena di dentro. La povera gente è già di per se stessa, tutto un serio discorso anche senza dire nemmeno una parola.
Il dialogo con la povera gente è difficile perchè con loro le parole del dialogo contengono e significano, non della cultura o della scienza, ma dei problemi vitali: in ogni parola vi è della carne, del sangue, del destino umano. Ogni parola vuol dire cuore, anima, figli, famiglia, lavoro, affitto, pace (cioè il loro vivere), guerra (cioè il loro morire) e così via. Con la povera gente le parole hanno un significato chiaro, immediato, scoperto, spietato. Sono pane al pane, vino al vino. E' vero che parlano veramente senza rispetto e poi sono spaventosamente monotoni. Un dialogo con una signora all'ora del te, nel salotto in ombra, oppure sotto il pergolato, è un'altra cosa che un dialogo con una contadina con un bimbetto attaccato alle sottane e un altro moccioso in collo, che l'unica cosa che gli interessa è prenderti gli occhiali sul naso.
C'è una buona differenza fra un dialogo con l'ingegnere politicone nell'ufficio dai mobili splendenti, con l'aperitivo conciliante e deferente e il dialogo con l'operaio quando esce dal cantiere, stanco e depresso, che in bicicletta si avvia verso casa, dove l'aspettano i lamenti della moglie e l'esame andato male del ragazzo. Allora il discorso diventa pesante, duro, a denti stretti e ci s'accorge che ì discorsi non fanno veramente farina.
E' un dialogo per modo di dire quello che avviene nella casa delle opere parrocchiali, con il gruppo delle Donne o degli Uomini Cattolici.
Stanno lì seduti, buoni buoni, un po' per l'età e un po' per la lunga abitudine al rispetto e alla devozione e ascoltano il bel discorsino che è sempre una esortazione tranquilla e pacioccona ad essere buoni cristiani e anche quando si illustrano iniziative di bene, approvano sempre con entusiasmo, accennano sempre di sì col capo, come quando uno sonnecchia e poi si rallegrano fra loro e con chi ha parlato, perchè è bello sentirsi buoni e un gruppo di buone persone, oggetto di compiacenza e motivo di consolazione.
Certo il dialogo con quel gruppaccio di uomini che son lì seduti intorno ai tavoli del bar, con quelle ideacce ormai indurite nel cervello, che quando entri non ti dicono «buon giorno, reverendo» e non si alzano in piedi, togliendosi il cappello, ma ti guardano, zitti e staccati, come se tu fossi uno zero... lì il dialogo ha bisogno di un po' di coraggio. Potrebbe però essere dialogo vero. Perchè sono uomini veri e hanno da dire qualcosa anche se è tutta contro di me e all'opposto del mio parlare.
La predicazione ormai non è più nemmeno per ombra un dialogo. E non soltanto perchè nessuno ormai va più alle prediche, meno che quelle quattro vecchiette che nel frattempo dicono il rosario.
E' un monologo ormai la predica, più o meno gridato. Specialmente poi le prediche d'occasione che riescono a essere qualcosa di religioso come la banda musicale in processione. Col mondo che ormai è quello che è e che di discorsi ne è pieno fin sopra gli occhi e con l'altisonante predicazione fatta di ricercatezze teologiche, di raffinatezza biblico-liturgiche e assai più spesso di piatteria formalistica, tratta fuori dagli schemi dei Vangeli festivi delle riviste e dei libri ad uso dei predicatori, il nostro dialogo nelle chiese è andato spengendosi.
Ora la grande speranza - veramente fondata e giustificata - è nel dialogo che la liturgia propone e offre: tutto sta a che non diventi un dialogo formalizzato, eccessivamente stabilito e completamente sistemato. Un dialogo insomma nel quale tutto il parlare è da una parte e dall'altra è tutto e sempre un rispondere.
In ogni modo se vogliamo che il dialogo sia parlare con gli altri, bisognerebbe andare là dove gli altri stanno parlando e cominciare a parlare con quelli che parlano, che stanno parlando, con quelli che tengono conferenze, corsi di studi, cultura popolare e cose del genere. Entrare nelle discussioni, prendere parte alle loro ricerche, interessarsi ai loro interessi...
Parlare con quelli che parlano: è un dialogo a cui non siamo né preparati ne ben disposti. Forse perchè siamo stati troppo abituati a essere sempre noi a parlare e a parlare con quelli che non parlano, o se parlano è per dire sempre e soltanto che è cotta.
Il dialogo con chi ha Fede e crede nello stesso Dio, nel medesimo Gesù. Vive della identica Verità, appartiene alla stessa Chiesa, ha gli stessi sentimenti ecc., non è un dialogo. E' adorazione. E' preghiera. E' gioia indicibile. E' un cuore solo e un'anima sola. E' comunione dei santi. E" Corpo Mistico di Cristo. E la parola colla quale ci parliamo è la stessa identica parola, la Parola di Dio.
Il dialogo è con chi non ha Fede, con chi non sa nulla di Dio e non sente bisogno di Gesù Cristo. Con chi è «diverso» da noi. Con chi è staccato, lontano da noi. Con chi ha un pensiero diverso dal nostro, punti di vista all'opposto, ricerche contrastanti.
Perchè il dialogo è un ponte fra due rive. E' una scala per unire il basso e l'alto. E' una lente per mettere a fuoco immagini sfocate. E' un tentativo di accendere una luce nel buio. E' tendere la mano per una stretta cordiale. E' cercare di camminare tenendosi a braccetto. E' la gioia di scoprire che in molte cose parliamo la stessa lingua. Che in fondo siamo d'accordo. E che un po' di buona volontà rimedierebbe a tante cose...
Il dialogo è finalmente uscire dalle trincee ma non con la baionetta innestata, ma agitando le braccia come quando ci si incontra fra amici dopo una lunga separazione.
Perchè il dialogo vuol dire sempre guerra finita anche se la pace non sarà ancora piena e perfetta.
Perchè il dialogo vuol dire sempre guerra finita anche se maiestatico o intendendo «i nostri», ma il plurale dell'universalità, della grande famiglia umana, il plurale come dev'essere inteso (come certamente l'ha pensato e pronunciato per la prima volta Gesù) quando diciamo: « Padre nostro.... dacci oggi il nostro pane quotidiano».
Chi è che deve iniziare il dialogo e condurlo avanti, e averne la pazienza e il dolore e la gioia?
Chi deve essere il primo a fare la pace. Chi deve cercare sempre e soltanto l'Amore. Chi deve credere sempre nella bontà. Chi sa di possedere la Verità. Colui che crede che lo Spirito Santo è quello che parla in Lui. Chi ha il dovere di essere luce accesa. Ed essere pugno di lievito.
Di dire parole di vita eterna... Colui che sa di poter avere la certezza che anche quando perde, vince. Che crede che quando dicono menzogne contro di lui, deve rallegrarsi. Che se cercano di coglierlo in fallo, non deve temere. Se lo schiaffeggiano deve ringraziare. Se lo mettono in croce deve chiedere perdono per chi lo inchioda sulla Croce (anche se è una croce fatta di parole, di falsità, di inganni e di speculazioni), perchè non sanno quello che fanno
Chi è che deve avere il coraggio del dialogo, la pazienza, la fiducia, la speranza, l'Amore, l'angoscia, la fatica, la agonia e la morte di un totale rapporto con tutta l'umanità, di un dialogo che si è iniziato il giorno della Creazione del mondo, è diventato Dio fatto Uomo nel giorno dell'Incarnazione e deve durare fino all'ultimo giorno quando Gesù tornerà a chiedere conto, a giudicarci sull'Amore, sul nostro dialogo con chi aveva fame, sete, era ignudo, carcerato, ammalato e morto?...
Non crediamo di fare una scoperta e tanto meno di sbagliare se diciamo che costui è il Cristiano, il Sacerdote, la Chiesa.
un prete
«La guerra è un periculum enorme. Per un cristiano che crede in Gesù e nel suo Vangelo un'iniquità, ed una contraddizione. Io penso che da oggi la mia responsabilità ed i miei doveri di saggezza e di moderazione di carità diventano anche più gravi. Io devo essere il Vescovo di tutti, cioè: consul Dei».
«Comunemente si crede e si approva che il linguaggio anche familiare del Papa sappia di mistero e di terrore circospetto. Invece è più conforme all'esempio di Gesù la semplicità più attraente, non disgiunta dalla prudenza dei savi e dei santi che Dio aiuta.
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La semplicità può suscitare, non dico disprezzo, ma minor considerazione presso i saccenti. Poco importa dei saccenti, di cui non si deve tenere calcolo alcuno se possono infliggere qualche umiliazione di giudizio e di tratto: tutto torna a loro danno e confusione. Il simplex rectus et timens Deum, è sempre il più degno e il più forte».
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Pregate per il vostro Papa perchè, per essere sinceri, lasciatemelo dire, io spero di vivere a lungo. Amo la vita!».
GIOVANNI XXIII
in La Voce dei Poveri: La VdP giugno 1965, Giugno 1965
Luigi Sonnenfeld
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