lettera aperta al mio vescovo
Eccellenza,
ho partecipato, mescolato fra la gente, alla S. Messa che lei ha celebrato seguendo le nuove norme liturgiche, l'altra sera in una chiesa della mia città.
Era la mia prima esperienza delle innovazioni che la Costituzione Conciliare sulla Liturgia ha apportato in tutto quello che riguarda la celebrazione della S. Messa. Ho cercato quindi di porre tutta una particolare attenzione non soltanto, evidentemente, alla S. Messa, ma specialmente alla nuova sistemazione liturgica dalla quale dovrà nascere una più profonda e totale partecipazione del popolo: è questa partecipazione, che vuole ottenere una vera e propria unione fino a realizzare la comunità dei figli di Dio, fatti una cosa sola con Gesù, e quindi fra loro, che ho cercato di vivere e anche di osservare se veniva sentita e vissuta dalla gente intorno a me.
Quindi più che altro, a cuore aperto e con vivissimo desiderio, ho cercato quanto la nuova liturgia realizzasse un clima di unione, di partecipazione fra i celebranti il rito e il popolo, quanto di avvicinamento e di attiva unificazione ottenesse fra il popolo, superando tutto ciò che può essere motivo di lontananza, occasione di separazione, di distacco.
Mi perdoni se le dico con franchezza che mi sono venute in mente le parole di Gesù del pezzo di stoffa nuova su un vestito vecchio.
Perchè il vestito, per diversi motivi, è rimasto troppo quello vecchio perchè le innovazioni possano averlo interamente rifatto.
Mi dava noia la chiesa piena di lampadari sfolgoranti e più ancora lo sfolgorio di luce lassù, dove si svolgeva l'azione liturgica.
Tutti quei cerimonieri che andavano e venivano, continuando a fare tutte quelle cose inutili che hanno sempre fatto.
Tutto quel muoversi dà tanto l'impressione di un'impostazione scenica e diventa inevitabile, per il povero popolo che guarda, la sensazione dello stare ad assistere.
E mi veniva la voglia - lo so che sto dicendo delle grosse sciocchezze, ma so che il mio Vescovo sa compatirmi - mi veniva la voglia di vedere meno tuniche bianche e cotte e trine e paramenti sia pure di stile antico, e più assai semplici abiti di laici, come quelli che porta la gente che sta partecipando.
Guardavo lei che celebrava e mi era di gran pena non vedere il mio Vescovo - la prima volta che partecipavo alla celebrazione della nuova liturgia - come un semplice sacerdote per dare risalto più che era possibile alla nuova e più attiva presenza del popolo.
Mi veniva da contare tutte le volte che le mettevano, Eccellenza, e le toglievano la mitra e che le porgevano o le riprèndevano il pastorale,
All'«Omelia» tutto l'insieme conferiva particolare autorità e solennità alle sue parole, ma io avrei preferito un dolce, affettuoso discorrere del padre con i suoi figli: a cuore a cuore, come si parla intorno alla tavola di una famiglia riunita.
Mi perdoni, ma io devo essere sempre sincero e specialmente col mio Vescovo: l'altra domenica ho sentito ancora la liturgia come uno spettacolo, sicuramente meglio congegnato e più dialogato, ma sempre però uno spettacolo. E vedevo la gente intorno a me che assisteva ad uno spettacolo: è vero, non era sicuramente gente preparata alla nuova liturgia (e probabilmente nemmeno a quella vecchia), ma non posso non pensare che la liturgia dovrebbe essere capace di avvincere e convincere ad un contatto con Dio anche chi non ha altra preparazione che quella di essere una povera esistenza bisognosa di Dio. E' per questo che non riesco più ad accettare e a sopportare tutto ciò che nella liturgia mi sa di spettacolo.
Ho tanto sperato che la nuova liturgia si fosse liberata da tutto ciò che è spettacolare - o almeno più che era possibile: per questo l'altra sera è stata tanta, tanta sofferenza, per niente mitigata dalle lodevoli novità apportate, compresa quella dell'uso della lingua italiana.
E a questo punto, Eccellenza, mi permetta di ricordarle, sempre a cuore aperto e con serena confidenza come quando un figlio ricorda a suo padre un bellissimo giorno di gioia vissuto insieme, mi permetta di ricordarle una altra Messa che lei celebrò anni fa.
Era la vigilia di Natale e io le avevo chiesto se le era possibile venire a celebrare la S. Messa in un grande cantiere navale della città.
Erano nemmeno due mesi che io avevo cessato di essere prete operaio, ma ancora i miei rapporti con gli operai erano vivissimi, rapporti di profonda amicizia.
Lei da non molto tempo era stato consacrato Vescovo e non era molto che era venuto nella mia diocesi.
La sua venuta in cantiere fu una gran gioia per me e per gli operai, nonostante le loro non eccessive tenerezze per il clero. E ricordo che lei accettò con entusiasmo: era la sua prima esperienza diretta col grosso mondo operaio, come Vescovo.
Ricordo che io, con molta semplicità, le chiesi che era conveniente lasciar andare quelle cerimonie proprie del cerimoniale della celebrazione della Messa del Vescovo, «perchè, le dicevo, se lei si lava tre o quattro volte le mani, gli operai, quasi sicuramente, commenteranno: hai visto quante volte si lava le mani, lui che le ha sempre pulite perchè non fa nulla». E lei sorridendo disse che era ben felice di celebrare la S. Messa come un semplice prete.
Di lato ad un largo spazio, sgombrato dalle lamiere, dai ferri e dal macchinario, della grande officina navale - un immenso capannone nero di fuliggine e strabocchevole di attrezzature - avevo costruito l'altare: una spessa lamiera di ferro che poi sarebbe andata a finire nella fiancata di una nave.
Naturalmente l'altare era rivolto verso il centro per consentire la celebrazione della Messa «allo scoperto».
Suona la sirena e gli operai cominciano ad affollarsi. Saranno stati circa 400. Venivano dal lavoro, sporchi, le facce ispide, le tute sdrucite, stanchi, eppure mi sembrarono tanto felici di avere il Vescovo sotto il loro capannone, dentro il loro lavoro, a celebrare la Messa.
Li invitai a venire molto avanti, a stringersi intorno all'altare e lei li aveva lì, attenti e in un silenzio impressionante, sotto gli occhi, appena al di là dell'altare. Una folla di operai, una realtà di vita umana, un immenso problema di sofferenza e di fatica, un'esistenza bisognosa di tutto e quindi specialmente di Gesù, cioè di redenzione, di liberazione, di salvezza. Una richiesta, un'esigenza, un diritto all'Incarnazione, Passione e Morte e Resurrezione da offrirsi subito, da attuarsi immediatamente.
E cominciò la Messa. Gliela servivano due di loro e ricordo quelle mani nere, pesanti, sulla tovaglia bianca dell'altare e le risposte biascicate che io cercavo di aiutare e sostenere.
Vedevo bene che lei dal più profondo stava provando un'impressione enorme, come di un Mistero infinito, come di una realtà suprema.
Letto il Vangelo, mi accennò se era il caso che dicesse qualcosa e io le dissi che sarebbe stata sicuramente una felicità per tutti.
E lei alzò gli occhi su quella massa di operai e dopo alcuni istanti, disse: vi prego di credere a quello che vi dico, è la pura verità, questo è il mio primo vero Natale che celebro da quando sono al mondo.... è continuò a lungo a parlare così. Non cercai di nascondere le lacrime di profonda commozione, anche perchè vedevo occhi lucidi dovunque e qualcuno che si asciugava gli occhi col dorso della manica.
Io avevo letto in italiano l'epistola e il Vangelo e ricordai al Memento tutti gli operai del mondo, specialmente quelli più oppressi dalla pesantezza del lavoro e dall'ingiustizia degli uomini. E poi gli operai morti sul lavoro e i morti che non li ricorda nessuno. E poi silenzio chiaro, sereno, profondo, immenso. L'Ostia consacrata, Gesù, in alto, sotto la volta nera del capannone, il Calice del Suo Sangue, levato in alto come unica speranza.
Nessuno fece la Comunione di quella massa di operai, ma io non ne soffrii per niente perchè la Comunione l'aveva fatta il Vescovo e nel suo cuore ero certissimo che Gesù vi aveva trovato tutti quelli operai e ogni loro problema e tutta la loro esistenza umana così bisognosa di Dio.
E ero felice, infinitamente felice che gli operai si fossero incontrati con Gesù nel cuore del loro Vescovo cioè nel cuore della Chiesa.
Ecco, fu una stupenda liturgia quel giorno, un Mistero di Natale vissuto meravigliosamente, una Messa accolta e partecipata da una realtà d'esistenza.
E se ricordo, Eccellenza, anche lei uscì dal cantiere con in mano un panettone, uno dì quelli distribuiti dalla Direzione e che gli operai portavano a casa per il Natale dei loro bambini.
don Sirio
in La Voce dei Poveri: La VdP febbraio 1965, Febbraio 1965
Luigi Sonnenfeld
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