C'è stato un Vescovo indiano che al Concilio ha fatto una proposta. Ha chiesto che a Roma (ma ci vorrebbe, aggiungo io, in ogni diocesi e in ogni parrocchia) sia costituita una commissione permanente o un segretariato «che ascolti apprezzamenti e critiche da parte dei fedeli sull'opera pastorale della Chiesa».
E mi viene in mente «il timore reverenziale» che opprime ogni povero fedele che deve parlare col suo parroco per chiedere anche semplici cose. Se poi si tratta del Vescovo allora si rasenta il terrore. Misericordia, se poi uno avesse la sorte di avvicinarsi al Papa.
Vi sono già le parole da usare che intrappolano terribilmente. Reverendo, monsignore, eccellenza, eminenza, santità... a chi il lei, a chi il voi, a chi direttamente, a chi in terza persona.
E poi il rispetto, i modi ossequiosi, i toni untuosi, le maniere ricercate, studiate. Dare la mano ma solo se viene offerta, baciarla con devozione, baciare l'anello (vi è l'indulgenza mi sembra) inginocchiarsi, gli inchini rispettosi.
Poi cosa dire. E qui il problema diventa serio e spaventosamente complicato.
Cosa si può dire. Cosa si deve dire. Cosa non conviene dire. Cosa è doveroso non dire. Cosa è spiacevole dire. Cosa è pericoloso dire...
Perchè secondo cosa dici e come lo dici manchi di rispetto, riveli poca fede, o nessun Amore alla Chiesa, poca Fede in Dio. Non sei dei «nostri». Elemento su cui non si può fare affidamento. Di cui è meglio non fidarsi. Conviene tenerlo alla larga. Certamente non è da contarci su, ecc.
Il popolo, come parte attiva, nella Chiesa conta veramente, paurosamente poco. E' il povero popolo, senza stima ne considerazione, che deve soltanto ascoltare, sempre obbedire, mai avere impressioni particolari e tanto meno esprimerle. E' folla anonima, incolore, senz'altro diritto che d'avere soltanto quello che viene dato e come gli viene dato.
Il popolo nella Chiesa non ha il diritto delle proprie opinioni, non ha il diritto di farsi dei giudizi, nemmeno di pensare che questo è brutto o bello (è chiaro che non accenno, nemmeno per ombra, alla formulazione di giudizi circa il bene ed il male).
Siccome tutto è fatto sicuramente per il bene del popolo e per la gloria di Dio, i poveri devono tutto accettare senza nemmeno dubitare che vi potrebbe essere «qualcosa» di migliore per il popolo e di maggior gloria di Dio.
Non si tratta evidentemente di problemi di Fede e dì Morale in cui è certo che la Chiesa è Maestra infallibile e nemmeno degli andamenti fondamentali della vita della Chiesa nel nostro tempo e in questo mondo: soltanto la Chiesa può e deve guidare il popolo cristiano, come il Pastore guida il suo gregge ai pascoli. E l'obbedienza e la fedeltà e l'Amore sono il rapporto giusto, necessario, indispensabile che tutti i credenti e tanto più i poveri, devono avere nei confronti della Chiesa. Perchè i poveri sanno bene che l'unica ricchezza che hanno è la Fede e l'unica sicurezza che possiedono è la Bontà di Dio e non possono e non vogliono fare a meno della Chiesa, testimone e garanzia offerta così concreta, di questa Fede e di questa Bontà.
Ma il problema è completamente un altro. Si tratta di un clima di apertura, di sincerità, di accoglienza. Si tratta - e è questo il punto importante - di un problema di stima.
La Chiesa per essere Chiesa dei poveri deve cominciare a «credere» che la gente comune, il povero popolo le vuole bene. E' un problema di fiducia.
E il segno che il popolo vuole bene alla Chiesa è il manifestarsi di una esigenza sempre più urgente e stringente che la Chiesa sia di una fedeltà sempre più pura e assoluta al Vangelo, a Gesù Cristo.
Il popolo chiede della bontà, spirito fraterno, umiltà semplice e serena, libertà dalla potenza umana, dalle ricchezze, disponibilità ai valori e ai problemi umani, povertà per essere poveri cioè niente d'importante, liberi da ogni privilegio, purificati da ogni pretesa, semplici e schietti in una condizione di totale servizio, contenti di essere sotto i piedi di tutti, coinvolti nei problemi di tutti, crocifìssi nel bisogno terribile che travaglia tutti gli uomini (dal Presidente della Repubblica all'ultimo mendicante) di salvezza, di un barlume dì speranza, di un po' d'Amore.
Il popolo vero, quello povero, vuole la Chiesa così, la reclama così e ormai l'accetta soltanto se è così.
Se potessero parlarci a cuore aperto i poveri ci insegnerebbero tante cose. Se potessero venire liberamente a dirci quello che pensano scopriremmo tanto Vangelo. Perchè è vero che la voce del popolo è voce di Dio.
La Chiesa dei poveri non può avere paura del parlare franco, dello scrivere liberamente. Del manifestare con franchezza le opinioni e del formulare giudizi.
E' giusto che ognuno cerchi la Verità e la cerchi anche secondo la propria coscienza, in obbedienza allo Spirito Santo che non è ipotecato presso nessuno, ma soffia come il vento che non sai di dove venga e dove vada, come dice Gesù a Nicodemo, in S. Giovanni.
Viene in mente il gran discorso che si sta facendo sulla comunità dei fedeli. La partecipazione comunitaria alla liturgia. E sembra grande concessione da parte della Chiesa verso il popolo che un po' di liturgia finalmente sia fatta in italiano, che si cerchi una particolare, effettiva partecipazione.
Ma non si può non avere tanta paura che tutto questo gran discorrere circa la Chiesa come comunità dei fedeli, rimanga qualcosa di arido, di artificioso, di formalistico se nel frattempo non si realizzano contatti aperti o cordiali, in un clima di sincerità e di schiettezza, riguardo a tutto il problema di esistenza cristiana che vuol dire certamente «la Chiesa, comunità dei fedeli».
La comunità intorno all'altare è il portare a Dio attraverso la preghiera e tanto più in Gesù, nella Messa, una comunità vivente, concreta, fatta di vita vissuta.
Finché il popolo è chiamato soltanto ad applaudire, a dire che va tutto bene, a ossequiare, a rendere omaggio, ad ascoltare, a trovar tutto fatto, a scappellarsi, ad avere timore, a guardar da lontano o, come unico modo di partecipazione, a dare quattrini, pagando soltanto e sempre le belle o brutte idee degli altri, finendo poi di pagarla anche con l'ammirazione più o meno forzata e insincera ecc. il povero popolo è soltanto una passività, vuota, incolore, morta, non davvero una «comunità di uomini vivi».
(continua)
d. S.
in La Voce dei Poveri: La VdP dicembre 1964, Dicembre 1964
Luigi Sonnenfeld
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