Sono tanti i motivi che ogni tanto saltano agli occhi, così all'improvviso e raggelano l'anima, come una ventata diaccia che arriva fino al midollo delle ossa. Te ne stai tranquillo e vivacchi in una sonnolenza pacioccona perchè ti pare che in fondo tutto vada avanti, assai passabilmente. Rimane un fondo di scontentezza ma, si sa, questo è normale, anzi è forse addirittura grazia di Dio e al massimo costringe a non ripiegarsi sopra se stessi affogando in brodo di giuggiole, ma invece a guardare almeno al di là del proprio naso.
Tutt'a un tratto eccoti la mazzata sulla testa. Un mezzo terremoto scuote tutto dalle fondamenta. Scroscia all'improvviso un acquazzone da diluvio universale e ti ritrovi, nudo bruco, quasi alla disperazione.
Oppure è come svegliarsi all'improvviso e tutto quello che è stato fin lì, ecco che lo senti come un sogno strano e sciocco. Una costruzione fittizia, un mondo fasullo. Non conta proprio niente. Non vale nulla. Bisogna ricominciare da capo.
Penso che sia terribile alla fine della vita, se ci sarà dato spazio di tempo e lucidità di visione: a quella luce nuova e vera (l'ultima è sicuramente la più nuova e la più vera, quella attraverso la quale mai abbiamo visto, le cose) tutto ci apparirà con contorni veri, snebbiato e perfettamente a fuoco, liberato dai tentativi pazienti e tenaci di travisamento soggettivo e interessato, nudo e scoperto in tutta la spietata realtà: allora penso che sarà terribile. Perchè la Verità oggettiva dev'essere ciò che di più meraviglioso e spaventoso esiste.
Ma ogni tanto, anche prima di quell'ultima esperienza, capitano ventate che spazzano via dall' anima ogni nebbia, momenti di luce da abbacinare gli occhi. Qualcosa che è come una pedata che ti spinge a uscire di dietro le quinte di nascondimenti più o meno interessati e ti getta là in mezzo, alla ribalta, a sostenere coraggiosamente la tua parte, anche se ti viene da morire di paura.
Trattandosi di problemi di povertà cristiana, questi colpi in testa, capitati all'improvviso, ti svegliano e ti sgomentano nello stesso tempo.
Lo so che non sono povero e forse non lo sarò mai. Quella vita di lavoro manuale, nella condizione di necessità assoluta per il mangiare e il vestire, non mi sarà possibile, anche se me ne ha dato esempio e insegnamento Gesù che credo Figlio dì Dio fatto Uomo. E di quella vita di testimonianza della Verità e della sua predicazione fatta di esistenza e di parole che l'ha portato e costretto a non avere un sasso dove posare il capo, meno degli uccelli che hanno un nido e delle volpi che hanno una tana, anche quella vita dì povertà assolata non mi sarà concesso che di sognarla e di adorarla. Ma poi rimarrà come una impossibilità anche se non una vera e propria assurdità.
Pure però quando capita qualcosa che ti dà la certezza di una smentita fino a non poterla nemmeno attenuare o minimizzare, allora è proprio cosa tremenda.
Già da un pezzo avvertivo il problema che l'abitare una casa non in affitto, ma in proprietà era qualcosa che non andava d accordo con la povertà secondo il Vangelo. Poi all'improvviso il colpo di fulmine nel più profondo dell'anima e la convinzione chiara e sicura.
Tempo fa è successo seguendo da vicino esperienze di amici. Ultimamente è successo conversando con degli operai. Parlavano di case e naturalmente di affitti. E lunghe storie di sloggiamenti più o meno improvvisi. Traslochi a non finire. Oggi qui, domani là. E mai la tranquilla sicurezza di una stabilità. Il continuo timore di un aumento dell' affitto e è già così grosso il buco che ogni mese il pagare l'affitto fa nella busta paga.
Hai lavorato e lavorato per tutti quei giorni e gran parte di quella fatica, di quel logorarsi di tempo, di salute, d'esistenza è per pagarti il dormire la notte, dove rifugiare tua moglie e i tuoi figli e quei quattro mobili di casa.
Non sai nemmeno chi è quel tale che è padrone dove dormi la notte e mangi a mezzogiorno. Se domani gli viene in mente, ti manda lo sfratto. Se niente, niente ritardi a pagare, un avvocato ti manda un foglio carico di minacce. E il tribunale è sempre lì pronto a far funzionare la legge che butta per la strada chi non possiede una casa dove dormire, per fare un favore a chi possiede non una ma dieci, venti case, dove il bisogno del dormire degli altri sotto un tetto gli dà la possibilità di fare vita da signore.
Un chiodo, che è un chiodo, non lo puoi piantare, Di una stanza più grande è impossibile farne due più piccole e sarebbero risolti tanti problemi a volte tanto spinosi. Qui ci vorrebbe una finestra per raccogliere quel po' di sole al mattino e qua una porta a vetri darebbe un po' di luce dove c'è la macchina da cucire e il tavolo dove il bambino fa la lezione.
La sera, chiudiamo la porta, ma non siamo in casa nostra. Qualcuno è lì, sempre presente, anche quando la luce è spenta, a dire senza parole: qui c'è mio. Gira per le stanze e guarda le pareti, apre e chiude le finestre e le porte, per ricordarci che non siamo in casa nostra. E bisogna pulire e tenere ordine perchè c'è suo. Questo fantasma che gira sempre per la casa, di notte e di giorno. L'imbiancatura è quella che è perchè così è piaciuta a lui. Quelle finestre sono lì perchè gli tornavano bene nella sistemazione di tutti gli appartamenti. E devo abitare con questi vicini, trovarmi con quella gente sulle scale: è chiaro che non sono di mio gusto e mi viene spesso da maledire il giorno che sono venuto ad abitare qui.
Ma dove dobbiamo andare? Conviene lasciare un calvario per andare a morire su un altro?
E' triste, dev'essere spaventosamente triste, per un marito non poter dire a sua moglie: sei in casa tua. E umiliante dev'essere per un padre allevare i figli in un nido preso a prestito, dietro pagamento mensile, concesso solo per interesse. Dover abitare in una casa e lì vivere l'Amore, donare sé stesso, partecipare ogni gioia e ogni dolore, alimentare speranze e sopportare sventure... e tutto in casa di un estraneo che consente che tutto un mondo meraviglioso si svolga dentro quelle mura e sotto quel tetto, soltanto per guadagno, per interesse, per speculazione.
Mi pare - e non dite, per favore, che l'abitudine aggiusta tutto, questa maledetta abitudine che spesso è soltanto un uccidere sensibilità e valori umani tanto preziosi - che in una casa d'affitto nemmeno si possa ridere spensieratamente e liberamente, non può non aggravarsi la solitudine e l'angoscia di chi piange. Tutto viene fatto necessariamente a pigione. Provvisoriamente. In affitto. Dietro pagamento, Pena il trasloco. E sempre all'ombra del tribunale. In ogni modo sempre dentro gli interessi di un tale qualsiasi e per via dell'egoismo altrui.
Ricordi il girare affannoso e preoccupato alle agenzie di affitti? Vogliono sapere chi sei, cosa fai, che conoscenze hai, il lavoro, quanto guadagni e ti guardano come sei vestito e come cammini...
Ricordi, quando sei ancora in casa, ma ormai devi andartene, quelli che vengono a vedere perchè hanno intenzione di comprare quella casa dove tu hai vissuto per anni? Vogliono vedere di qui e di là. Entrano in camera, guardano fin nei ripostigli, aprono e chiudono le porte... e stai lì a guardare e è come se ti palpassero tutto il corpo e ti frugassero dentro il midollo delle ossa. Ne viene uno, due, tre e quegli ultimi giorni sono angoscia spaventosa.
Ricordi quanto ti sei sentito zingaro e animale senza tana, quando calavi i mobili dalla finestra e giù per le scale e li seguivi dietro il carro traslochi, a testa bassa, quasi vergognandoti o come andando dietro un funerale?
Non sono povero. E' chiaro. Soltanto loro sono poveri, questa gente che vive a pigione, in affitto.
Quando sono andato a parrocchia ho avuto una casa. Non era mia proprietà eppure era mia. Il diritto canonico perchè il parroco non sia povero dichiara che è inamovibile: non è sul suo, però nessuno - nemmeno il Vescovo - può rimuoverlo di dove é: vi ha messo le radici fino alla tomba. Era povera e vecchia e brutta quella casa parrocchiale, ma era bella perchè era mia. E vi facevo i lavori che credevo e la sistemavo come meglio mi sembrava e la guardavo con amore, come una persona amica, come braccia e cuore sempre aperto.
E' molto bello dormire la sera distesi nel proprio letto, ben chiusi e custoditi e difesi dentro quattro rnuri che sanno di castello fortificato. Vi è la legge a far guardia intorno al diritto di proprietà e vi sono i carabinieri e il tribunale. Sono in casa mia.
La porta è chiusa sono nel mio guscio. Questo pezzo di mondo è mio. Qui c'è mio. Qui comando io. Ne dispongo come mi pare. Queste mura allargano lo spazio, il volume del mio io. Sento di occupare un posto e è tutto per me e le mie cose. Chi viene qui, chiunque sia, deve dire: permesso?
E' molto bello possedere una casa. Pare di non essere a pigione nemmeno nella vita. Non una foglia al vento ma albero dalle radici ben affondate dentro la terra.
Possedere una casa è essere al sicuro, al coperto. Ci si sente al posto. E si ha meno bisogno di Dio. Della Sua protezione paterna. Della Sua difesa amorosa. E si desidera meno di andare ad abitare nella casa del Padre che è il Cielo.
don Sirio
in La Voce dei Poveri: La VdP marzo 1963, Marzo 1963
Luigi Sonnenfeld
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