L'ansietà in cui tutti, un po' più un po' meno, siamo vissuti in questi (giorni per la malattia del Papa - questo simpatico Giovanni XXIII, questo ottantenne Pontefice dal cuore coraggioso e dalla mente meravigliosamente aperta - questa ansietà preoccupata e angosciata mi ha fatto ritornare in mente, in tutta la sua impressionante evidenza, un vecchio problema.
Fin da giovanissimo - dopo aver appena scoperto qualcosa del Cristianesimo - ho cominciato a scoprire urna strana e quasi assurda dissonanza fra il nostro credere e affermare che il Paradiso è la vera felicità, il godimento eterno di Dio, la pace senza fine, il porto della salvezza, la vera vita ecc. (non sono mai riuscito, nelle mie rare predicazioni dal pulpito, in queste descrizioni così fantasiose e immaginose - chissà perchè ho sempre avuto il terrore di rischiare di descrivere il paradiso al mondo mussulmano), dissonanza assai stridente fra questa Fede nel Paradiso e la paura del Paradiso, la difficoltà a morircene in santa pace contenti di uscire finalmente da questa "valle di lacrime", e quindi l'abbarbicarci violentemente a questo mondo, l'attaccarci allo scoglio, l'aggrapparci al ciuffo d'erba della sponda del fiume, cercando di resistere, fino all'impossibile, alla violenza della corrente.
D'accordo che è un problema risalente all'istinto di conservazione che è l'istinto primordiale determinante l'attaccamento animale alla vita e il terrore della morte. E' provvidenziale quest'istinto e il suo annullamento ha qualcosa che sa di suicidio, sempre vero e proprio fenomeno di anormalità.
Però è chiaro che anche la sua eccessività comporta un immiserimento di libertà che è sempre frutto di urna visione razionale delle cose che poi raccolta dalla Fede, può arrivare a misure di superamento (non di annullamento) nel senso di andare oltre ai valori dell'istinto per cercare la verità d'esistenza e di vita fimo al suo possesso totale nella partecipazione eterna alla infinita Vita di Dio.
La Fede cristiana è considerazione del Mistero della morte come coronamento di una vita, come punto supremo d'esistenza. Esattamente come l'ultimo passo vuol dire avere scalato la montagna, come il varcare la soglia vuol dire aver concluso il viaggio. E nello stesso tempo vuol dire inizio, nascita, principio.
Ciò che è dopo l'attesa. Quello che viene dopo la vigilia. La promessa mantenuta. La fedeltà premiata. La visione finalmente concessa.
«Finalmente» è un avverbio colmato di mistero per noi cristiani e racchiude problemi infiniti di fiduciosa attesa, di ricerca appassionata, di stanchezze pesanti.... ma tutto è passato: ecco, siamo arrivati. Un infinito respiro di pace.
Il Cristianesimo ha dato un senso alla morte fino a farne un valore desiderabile, un autentico motivo di gioia.
Da dopo che il Figlio di Dio è morto sulla Croce e con la Sua morte ha compiuto la salvezza del mondo, il morire rientra in questo mistero di vita. Non è uno sparire dal mondo, ma un entrarvi come «il seme che sotto terra muore e si disfà per moltiplicare i frutti». come «il pugno di lievito che perdendosi nella massa di farina tutta la lievita».
Ma nonostante tutto (Paradiso, la Croce, la Salvezza del mondo ecc.), non abbiamo voglia di morire e tanto meno di morire volentieri.
Su questo punto noi cristiani siamo letteralmente dei pagani. Facciamo un sacco di discorsi, ma poi è come quando diciamo: beati i poveri, e nel frattempo per cinque lire ci faremmo spellare, Parliamo di carità fraterna e sbattiamo l'uscio in faccia a un importuno. Cianciamo di bontà e guai a chi tocca i nostri diritti. E così via.
Paradiso, paradiso, ma in fondo, inconfessatamente, questo paradiso terreste di triboli e spine, fatto di terra e di sassi, di carne e Sangue, ci piace da matti e della morte abbiamo soltanto una paura boia.
Ormai la scienza medica ci ha giocato un brutto tiro dandoci l'impressione di poter avere il diritto a stare sempre bene e a non morire mai.
E ci ricorriamo come ad un'arte magica. Il medico che non fa andare alla farmacia con la borsa della spesa per le tante medicine che ha ordinato, è un medico che non vale nulla. E professionalmente non farà certamente fortuna.
Obiezioni. Tantissime. Tutte giuste. Ma sì. Bisogna curarci. E' dovere difendere la salute. La vita è tesoro da custodire gelosamente. E' dono di Dio. E avanti con queste «verità» che stranamente annebbiano la grande, fondamentale verità cristiana che questa vita terrena è perchè possa esserci donata quella celeste.
E così tanto che il morire è diventato un rassegnarsi all'inevitabile. Quel «non c'è più nulla da fare» suona male cristianamente, anche se sembra la conclusione di tutto un dovere. E sentiamo tutto come un destino cieco, irrazionale, assurdo.
Anche a novant'anni.
Quando Pio XII fu gravemente ammalato ricordo che gli operai mi dicevano: ma il Paradiso non è quella gran bella cosa che voi dite? E perchè nemmeno il Papa ci vuole andare, dal momento che fa venire professori dalla Svizzera, dalla Svezia e per fino dalla America?
Evidentemente il discorso non era senza una punta malevola riprovevole, ma metteva spietatamente anche in chiaro tutto il problema terribile determinato dal nostro povero essere uomini, animali sia pure ragionevoli e il dovere di testimonianza di una Verità che della vita terrena ne fa soltanto il tempio di maturazione per l'eternità: una semplice e tanto dolorosa attesa del Paradiso.
E questa testimonianza, a noi, seguaci di Cristo, può essere richiesta con una pretesa assoluta.
Mi è venuto da ripensare a Santa Teresa dal Bambino Gesù. Lessi in un libro che quando le venne la prima emottisi era di notte e secondo la regola la lucernetta era già stata spenta. Per mortificarsi della gran gioia che avrebbe avuto nel constatare che era sangue e che quindi molto presto sarebbe andata in Paradiso, aspettò a guardare il fazzoletto intriso quando spuntò il giorno.
So benissimo di scrivere queste cose con disinvoltura perchè sto bene di salute. E con non eccessivamente troppi anni e con un po' di salute si fa presto a pensare e a scrivere intorno alla gioia di morire.
Ma non è per questo che scrivo di questo problema, è invece perchè ho una grande paura di non voler morire, di attaccarmi cosi tanto a questo mondo, fino a volerci ritornare a dispetto di Dio e dei Santi. Ho tanta paura di non concedere con serena gioia la libertà a Dio di venire come il «ladro di notte a scassinare la casa» (Mt. 24, 43).
Un Prete
in La Voce dei Poveri: La VdP dicembre 1962, Dicembre 1962
Luigi Sonnenfeld
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