Lettera aperta

Cari amici e fratelli e sorelle che state dietro uno sportello d'ufficio pubblico, di là dal banco di vendita del negozio, seduti a una scrivania per attività professionali, dirigenti d'azienda, capi personale, assistenti, medici delle mutue, direttori d'ufficio, responsabili d'aziende... chiunque ha altri alle proprie dipendenze, posti di responsabilità che decidono del prossimo, rapporti col pubblico specialmente, fatto di povera gente, timida e indifesa, parliamoci un momento fra noi, col cuore aperto.
Non dobbiamo permettere che a un certo punto tutto il nostro lavoro lo valutiamo professionalmente e basta, o peggio ancora per quanto comporta di guadagno o d'interesse personale. Ridurci ad una visione dell'impegno della nostra vita puramente materiale sarebbe molto triste e penoso, addirittura avvilente. E' facile però scivolarvi a poco a poco. Viviamo in un mondo in cui l'ideale, qualsiasi ideale diverso dal tornaconto personale, è sinonimo di utopia. Pazzia bell'e buona per gente che vive fuori del proprio tempo.
E ancora di più mancano motivi religiosi e cristiani in base ai quali il dovere sia ancora il dovere, costi quel che vuole costare.
Dio è senza diritti e il povero prossimo, dopo che ha servito in qualche maniera al nostro interesse, è un estraneo, un peso e spesso un nemico dal quale è bene guardarsi.
E allora, dietro lo sportello o la scrivania, in ufficio, nella professione o in qualsiasi altra attività, ci viene l'abitudine, la monotonia, l'aridità del lavoro, la noia delle ore che non passano mai, la pesantezza dei problemi che capitano, la seccatura di persone uggiose e pretenziose, l'irrazionalità di troppe cose...
Ma spesso, dobbiamo riconoscerlo, non sappiamo sopportare, non sappiamo aspettare, non vogliamo comprendere, il nervoso ci mangia come un'insonnia terribile. E non è una mancanza di riguardo o un lavoro mal fatto o una richiesta inutile che ci fa esplodere in sacri sdegni, ma è perchè abbiamo mal digerito, perchè qualcuno ci ha pestato un callo, perchè tutto non ci sta andando al pallino...
E allora qualcuno ne deve portare le conseguenze. No, fratelli e sorelle, il prossimo non è il bidone dei rifiuti, né il cuscino sopra il quale accomodarci, né il fazzoletto da naso dove sputare la raucedine.
Non possiamo approfittarci del fatto che quel povero prossimo non può protestare e risentirsi e difendersi. Non è suo dovere curvare fino a terra la schiena, leccare dove mettiamo i piedi, dire sempre «Signor sì». Lo fa per paura o per piaggeria, «per arrufianarsi», come dicono gli operai, o per vigliaccheria, povero prossimo condannato ad abbassare gli orecchi e a scodinzolare sempre felice anche sotto le legnate.
E ci ripagano allora moneta per moneta, per quanto è possibile, circondandoci di falsità, complicando le cose, odiandoci cordialmente dal più profondo dell'anima e spesso rifacendosi con i sottoposti e questi con i sottoposti ancora, finché tutta la rabbia va a finire su quel povero diavolo capitato a chiedere qualcosa.
Catene di nervoso, di prepotenza, d'ingiustizia, di cattiveria, grondanti ad ogni anello di sofferenza e d'angoscia. Rivoli di rabbia e di sangue nero che crescono e crescono per troppe sofferenze, fino a fare stagni d'acqua ferma e fradicia dove ogni valore umano, e tanto più cristiano, affoga e sparisce.
Siamo responsabili di quel clima strano d'insofferenza, d'invidia, di gelosia che imperversa in tanti ambienti e diventiamo motivo di sofferenza, di paura, di sconforto, di stanchezza per tanto nostro prossimo.
E pensare che spesso un nostro sorriso può allargare il respirare di tanta gente. Una parola solleva il cuore spesso da pesi terribili. Una stretta di mano può offrire e comunicare tanto coraggio. Una semplice considerazione, una gentilezza premurosa può dare tanta gioia. Spesso dovremmo pensare e riflettere che non basta fare del male al prossimo (anche se questo può essere già molto), ma che è dovere, sacrosanto dovere, aiutarlo a essere felice, il nostro prossimo.
Conosciamo, con chiarezza e libertà, tutta la possibilità che ci è stata data per dono di Dio e per circostanze particolari, di fare felici gli altri, di spandere intorno la pace, la fiducia, la speranza?
Se non abbiamo scoperto tutta questa possibilità che sicuramente abbiamo, vuol dire che non conosciamo nulla di noi stessi all'infuori di un egoismo che arriva a determinarci in tutto e se qualche volta la ricerca egoistica di noi stessi può darsi che si combini con la ricerca egoistica di altri e che ne nasca, per noi e per loro, un qualcosa che sappia di felicità, quasi sempre però i frutti dell'egoismo non saranno che avvelenati di sofferenza e d'angoscia per noi e per gli altri.
Siamo a servizio della felicità, dei diritti all'Amore del prossimo: e questo è ciò che prima di tutto va cercato e compiuto, il resto - come sta scritto - sarà sempre di soprappiù.



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in La Voce dei Poveri: La VdP ottobre 1962, Ottobre 1962

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