Non è vero che siamo generosi e nemmeno buoni quando facciamo opere di carità. Al massimo possiamo giudicarci parsone oneste per l'adempimento di un nostro normale dovere. Nulla di più. Fino al punto che nemmeno possiamo avanzare il diritto alla gratitudine perché i nostri beneficati non ci devono niente di più del solito grazie detto per educazione.
Anche perché diamo sempre spaventosamente poco nei confronti di quello che dovremmo dare in obbedienza alla volontà di Amore di Dio e in risposta ai bisogni e ai diritti del nostro prossimo.
Ma ci sembra che ci siano altre considerazioni da tener presenti per una giusta valutazione dei nostri rapporti col prossimo.
In fondo a ben pensarci, la nostra carità è restituire qualcosa di tutto quello che i poveri ci danno. E' appena ripagarli di quanto ci servono. E dare a ciascuno il suo, ciò che gli appartiene in fondo non è carità, ma semplice atto di giustizia.
Perché è la povertà che mantiene la ricchezza come sono le pietre sepolte nei fondamenti o murate nei muri che reggono la casa. E' il lavoro che costruisce, il povero materiale dei poveri che vivono alla giornata.
E l'abbondanza di poveri mantiene basso il prezzo del lavoro e costringe a qualsiasi lavoro. E ciò che viene sottratto ai poveri forma la ricchezza dei ricchi. E' ciò che manca a loro che fa sì che gli altri abbiano di più.
Il bisogno, garanzia di benessere e di abbondanza. La sofferenza, motivo e causa di felicità. Tanta e tanti a servizio di pochi.
Questi pochi poi, ogni tanto e perché sono «buoni e generosi e sensibili», danno qualche briciola (e spesso sono soltanto avanzi) ai poveri. E si mettono così la coscienza in pace, rientrano in casa a scaldarsi, giustificati, al termosifone, si mettono a sedere sereni, a tavola, preoccupati - e è giusto - soltanto della digestione.
Tutto bene, d'accordo, se proprio ci tenete a questa pace dell'anima. Però almeno bisogna state attenti a non offendere la virtù cristiana della Carità e ciò che è così sacro come l'Amore del prossimo.
Perché questa non è Carità cristiana e tanto meno Amore. Sarà appena, se va bene, l'essersi sollevati da un debito spaventoso verso chi ha lavorato per i nostri riposi e le nostre vacanze, verso chi ha sofferto e continua a soffrire per darci il benessere, verso chi è nell'indigenza e nel bisogno per offrirci l'abbondanza.
No, noi non vogliamo - ci mancherebbe altro - rivoluzionare le cose o essere di quelli che vorrebbero che tutti stessero male perchè molti stanno male. Semmai pensiamo che se si tenesse presente, e davanti a Dio, considerandola secondo le Sue misure e i Suoi pesi, la semplice e elementare giustizia distributiva, invece che parlare e parlare così tanto fino a stufare, della carità e delle opere di carità, tutti potrebbero stare un po' meglio materialmente e molti si troverebbero più a posto nel confronti della propria coscienza.
Ma almeno quel poco di opere buone che facciamo consideriamolo un semplice dovere e un dovere adempiuto malamente e a fatica e in misura miserabile.
Perché se l'opera di carità ci dà di sentirci buoni e di metterci in pace e di avere acquistato dei meriti speciali ecc. allora vuol dire che continuiamo a sfruttare i poveri e questi ci devono ancora servire. Servire il nostro amor proprio, darci di scrivere il nome sul giornale, concederci di pavoneggiarci a benefattori dell'umanità.
Servire al nostro «benessere» spirituale dopo che a quello materiale. E servirci di sgabello per entrare, dalla finestra, in Paradiso.
La Redazione
in La Voce dei Poveri: La VdP ottobre 1961, Ottobre 1961
Luigi Sonnenfeld
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