Signore, non ti fidare di noi perché siamo degli ipocriti: pensiamo il contrario di quanto affermiamo. E' vero che ti diciamo: "Mio Dio, crediamo in te"; ma ciò significa soltanto: "So che esiste qualcuno, lassù, al di sopra di noi...". Noi crediamo in te, Signore, come Voltaire credeva nel Grande Orologiaio dell'universo (la cosa non disturba molto!) o, peggio ancora come il Diavolo stesso crede nella tua esistenza, perché non può fare diversamente, mentre strepita perché è cosi.
Noi vorremmo davvero, Signore, fra le altre cose, che Gesù non fosse tuo Figlio, perché pur richiamandoci a lui e portando il suo nome, gli diamo segretamente torto in molte delle cose che ha fatto.
Così, per Natale, abbiamo appena finito di cantare le sue lodi, continuando a deplorare, da parte nostra, che non sia nato in un palazzo piuttosto che in una stalla, in una famiglia ricca piuttosto che in una casa povera. E non siamo affatto entusiasti di sapere che ha vissuto trent'anni come falegname in un oscuro villaggio di Galilea: l'avremmo preferito nel ruolo di grande sacerdote, o, meglio ancora, di principe regnante e anche attraente. Questo ci avrebbe consentito di vivere la sua vita per procura, evadendo dalla nostra. Ma non c'è nulla in lui che possa farci sognare. Peccato!
Noi ammiriamo molto, Signore, i miracoli fatti dal tuo Figlio. Ma avremmo molto preferito che avesse adoperato la sua potenza per imporre il bene con la forza, senza lasciarlo alla nostra pigra libertà.
Sopratutto, siamo scandalizzati, Signore, di vedere che il tuo Figlio si è lasciato crocifiggere come un brigante, senza aver abbozzato un gesto per difendersi, mentre aveva in mano la potenza sufficiente per annientare i suoi avversari (dei quali, certamente, noi non facciamo parte). E se festeggiamo la sua resurrezione a Pasqua, rimpiangiamo vivamente che egli abbia profittato così poco del suo trionfo. Perché non ha trasformato di colpo il mondo? Invece di lasciarci fino alla fine del mondo a fare noi stessi quel lavoro!
Non è tutto, Signore. Se non amiamo molto ciò che ha fatto tuo Figlio, amiamo ancora meno quanto ci ha chiesto di fare dopo di lui. Certo, noi troviamo che è bella, teoricamente, la carità universale, ma non ci piace troppo di considerare, effettivamente, tutti gli uomini come nostri fratelli. Ci dà molto fastidio vedere i negri d'Africa giungere all'indipendenza, e abbiamo una paura blu al solo pensiero che la Cina gialla potrebbe entrare all'ONU.
Affermiamo di voler davvero la fine della guerra in Algeria, ma vediamo abbastanza male che si voglia realmente mettere le due comunità di laggiù su un piano di eguaglianza: restiamo intimamente persuasi che un europeo vale sempre, in sostanza, più che un mussulmano.
Proclamiamo la necessità della giustizia e della carità, e tuttavia non abbiamo affatto voglia che siano effettivamente applicate. Ciò disturba sempre troppo le nostre vecchie abitudini.
Ti diciamo a voce alta: «Mio Dio, mi fido di te», ma abbiamo ben più fiducia, per il momento, negli eserciti dell'OTAN e aspettiamo molto dalle nostre future bombe atomiche.
E non è ancora tutto, Signore. Abbiamo delle ipocrisie più concrete e più giornaliere. Per esempio, siamo persuasi di essere buoni cristiani perché il nostro nonno era cantore in Chiesa, perché andiamo alla Messa due volte all'anno e non manchiamo se non di rado ai funerali. E quando siamo praticanti quasi regolari, abbiamo una forte tendenza a relegare la religione nei limiti stretti della messa della domenica e ad impedirle l'entrata nella nostra vita di tutti i giorni, per paura di doverla modificare, tuttavia credendoci migliori degli altri. D'altra parte, facciamo battezzare i nostri bambini, li mandiamo al catechismo, ma. con la segreta speranza che lascino tutto questo a dodici anni, al massimo a venti, come abbiamo fatto noi stessi; perché se i nostri figli e le nostre figlie diventassero migliori di noi stessi, ci sarebbe un rimprovero vivente!
Infine, per confessare tutto, Signore, noi ci siamo accomodati in una religionetta confezionata con cura, a nostro livello. Non ci teniamo ad essere sfrattati. Se qualcuno pensasse, da parte tua, di darci il senso della nostra cattiva coscienza, gli mostreremmo i denti. La tua religione, Signore, ci disturba.
Ecco come siamo, Signore, e come vorremmo restare. E il Papa ha appena finito di dirci, a Natale, che bisogna mettere la verità nella nostra vita. E' precisamente quello che non abbiamo affatto voglia di intendere, e meno ancora di mettere in pratica!
Allora, Signore, tu sai che cosa ti rimanga da fare: dacci la lucidità e il coraggio che ci mancano. E non attendere troppo che noi te li chiediamo: mandaceli, per piacere, un po' presto; altrimenti rischieresti di non poterceli donare mai, e noi di non praticarli. Amen!
abbé Joseph Tiger
(Dalla rivista genovese «Il Gallo» del febbraio 1961)
in La Voce dei Poveri: La VdP marzo 1961, Marzo 1961
Luigi Sonnenfeld
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