Saper "chiedere" per poter donare

Eppure questa del chiedere la ritengo la carità più delicata e l'arte più difficile, perché occorre intuito, comprensione del prossimo e capacità di valorizzare le piccole sfumature del sentimento.
A dare si prova una certa soddisfazione e la gioia serena di essere utili a qualcuno, indispensabili e preziosi per qualcuno che non può fare a meno di noi.
Ma proprio questo deve farci riflettere alla desolata malinconia di chi non ha nulla da dare a nessuno, che si sente bisognoso di tutto e impossibilitato a ricambiare in qualche modo un beneficio.
Nella nostra carità generosa ci sembra assurdo questo desiderio dei beneficati di mostrarci la loro riconoscenza (salvo a scandalizzarci nel caso contrario!) e tronchiamo brevemente i ringraziamenti con una specie di pudore frettoloso che dovrebbe essere segno di umiltà. A nostra insaputa, invece, mettiamo a volte un disagio sempre più profondo in chi ci è vicino e rendiamo quasi insopportabile il fardello della riconoscenza.
Possiamo domandarci: cosa si può fare per rimediare? Dobbiamo dunque far risaltare come grande dono ogni nostra piccola generosità?
E' evidente che non è questo che occorre fare. Penso che sarà tutto più semplice quando noi guarderemo al povero davvero come a uno di noi e lo tratteremo da «amico», non da protetto. Vi saranno allora infiniti modi di mettere a loro agio gli infelici che amiamo aiutare.
E' bello far capire a qualcuno che si apprezza la sua compagnia e chiedere mezz'ora di conversazione a chi ama parlare, anche se intimamente desideriamo la solitudine, bello chiedere una sedia per riposare a chi non ha che quella da offrirci e mostrare il desiderio di bere a chi non ha da darci che un bicchiere di acqua fresca.
Lo so che è facile vincere queste piccole necessità e fare a meno di un po' di sollievo, ma qualche volta l'accentuarle ci rende più umani e ci mette alla pari con gli altri che si sentiranno felici di averci potuto giovare.
Ricordo una esperienza della scorsa estate: passava sulla spiaggia il solito povero con la scatola fornita di elastici, stringhe, stecche da camicia, ecc. Girava da un ombrellone all'altro e i «buoni» gli davano qualche soldo senza nulla prendere, gli «altri» si sdegnavano perché non lavorava e lo notavano ad alta voce. Mi venne spontaneo di trattarlo da «uomo» e finsi di avere un gran bisogno di stecche da camicia e di essermene per l'appunto quel giorno dimenticata...
Andò via da me col volto disteso, la voce più forte, il passo più sicuro: non era più un disoccupato che importunava il prossimo, era un venditore ambulante che poteva davvero essere anche utile.
Da allora ho avuto sempre gran «bisogno» di nastro, elastico, sapone, ecc. e ogni volta ho dovuto chieder perdono a Dio di aver imparato troppo tardi a fare la carità.
Ho incontrato tempo fa un vecchietto che in un modo sgarbato e burbero chiedeva l'elemosina: gli chiesi il «piacere» di spicciolarmi dei denari e lo vidi improvvisamente cambiare. Ritrovò il ricordo di una lontana educazione e uria stranissima espressione di cortesia trasformò quel viso avvinazzato e incupito... così, come si cambiò un giorno quel cenciaio, sgradevole e brutto come il suo carretto, quando lo «pregai» di liberarmi la cantina regalandogli tutte le bottiglie polverose che fino allora aveva deprezzato borbottando fra sé.
Lo so, con queste piccole cose che faranno sorridere qualcuno non si risolvono le grandi questioni sociali, non si elimina la miseria e la sofferenza... Ma la si attenua, ne sono convinta, ogni volta che si tratta il povero da uomo e si fa sì che egli si senta non un sottoprodotto della specie umana, ma un individuo utile e necessario e al quale noi abbiamo sinceramente bisogno di chiedere qualcosa.
E questo nostro «chiedere» sarà allora davvero un grande, generoso «dare», perché daremo agli altri quella che sicuramente è la più grande delle gioie: la possibilità di donare.


Albertina


in La Voce dei Poveri: La VdP febbraio 1961, Febbraio 1961

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