Le lunghe file, fatte di operai sbucati di corsa da ogni parte del cantiere. Sporchi e neri di lavoro. Disordinati nelle tute, arruffati e stanchi. Ma allegri e vivaci: vanno a prendere la busta paga. Uno dopo l'altro a stendere la mano dicendo un numero.
Poi subito a rumarci dentro. Tirano fuori il contenuto. Bisogna controllare e improvvisamente li prende la tristezza. Lo sapevano già, quasi con esattezza, ciò che la busta conteneva. Ma trovarseli in mano e vederli così pochi fa sempre una dolorosa impressione. E poi ora la realtà è immediatamente crudele. Toccare quei soldi vuol dire sapere, quasi materialmente, dove devono andare a finire. Molti, eccoli lì in mano, eppure sono già spariti inghiottiti dai buchi in attesa: i debiti se li sono già mangiati anche prima di averli visti e toccati. Ed è strano, ma uno ha l'impressione di non riscuotere nulla. Ha fatto la fila come sognando- ha vissuto e si è fatto coraggio e forza contro la fatica e la rabbia tante volte, «sognando la busta» durante un mese - e ora quei pochi soldi e un foglio spietato fatto di numeri, con tante addizioni e sottrazioni, aggiunte e ritenute, lo hanno svegliato, cioè gli proibiscono di poter sognare ancora e di sperare con chissà quale strana speranza.
Eccoli lì. I conti tornano. Non c'è nulla da dire. Siamo pari. Tu mi hai dato e io ti ho dato. Ora ti arrangi. Cosa ci posso fare? Ognuno a casa propria. Vorresti protestare? E contro chi? Vi è il contratto nazionale. Vi sono tanti disoccupati che prenderebbero il tuo posto immediatamente. Non trovi senz'altro un altro lavoro. Rimarresti disoccupato. Senza questa busta. Neanche parlarne. Sono pensieri neri come nuvole che passano. La miglior cosa è inforcare la bicicletta e scantonare diritti all'angolo per evitare di incontrarsi con quel compagno che aspetta il pagamento di un debito o la quota del giornale del partito.
Lavoro e soldi. Vita pagata con quattrini. Esistenza valutata economicamente. Valore umano compensato a moneta. Compra-vendita di fatica, di sudore, di carne viva umana. Tempo contato e pagato a ore. E così fino a 60 anni e poi ricompensato in base ai soldi versati in marchette.
Una bilancia: e su un piatto corpi e anime e sull'altra fogli di carta stampata per pane e minestra e poco d'altro ancora.
E' triste. Il salario è povertà. Povertà nuda. Fatta di provvisorietà quotidiana. Sproporzione spaventosa di valori. Esistenza spesa per poco. Mangiare e bere per poter guadagnare ancora il mangiare e il bere. E così per tutta la vita.
Forse è proprio difficile non cedere ad una tentazione materialista, dal momento che tutto è su un piano unicamente materiale fino al punto che il proprio valore d'esistenza umana entra e sta tutto dentro una magra busta quindicinale.
Non sono considerazioni sovversive. Sono soltanto motivi di sofferenza inevitabile, ma che però è doveroso raccogliere in modo che il povero salario sia almeno arricchito di comprensione e d'Amore.
Non sarebbe male che i padroni qualche volta andassero a vedere la lunga fila dei loro operai quando vanno a prendere la busta paga. Forse capirebbero che non è sufficiente firmare l'assegno per il ritiro del capitale necessario alle paghe presso la banca. Occorre qualcosa di più: occorre rendersi conto che si danno dei soldi - e pochi - per pagare carne e sangue e anima consumati per il proprio interesse e benessere.
Anche quando paghi la domestica. Il conto della nettezza urbana. E quello della vuotatura inodora delle fogne. Del calzolaio. E della manicure.
E anche quando dai la mancia al cameriere con sussiego di generosità e liberalità, dopo aver mangiato e bevuto....
Perché è un po' tutto come quando paghi la prostituta, o la pelliccia dell'amante.
I poveri della quindicina
in La Voce dei Poveri: La VdP settembre 1961, Settembre 1961
Luigi Sonnenfeld
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