Ci sembra doveroso seguire il Concilio Ecumenico nel suo svolgersi graduale di sessione in sessione, leggendo sui giornali i resoconti dei lavori, ma specialmente ci sembra doveroso raccogliere lo spirito di ricerca, di rinnovamento e quindi di fervore che si manifesta tanto apertamente fin quasi a invogliare alla discussione, al dibattito, sicuramente all'ansia di un impegno a misure d'intensità formidabili.
Pensiamo che sia giusto quindi raccogliere i problemi che il Concilio va suscitando nel nostro cuore, impostati da un vivo e struggente bisogno di rapporto fra quella Verità a poco a poco enunciata dal Concilio nelle sue sessioni, ma specialmente a volume veramente immenso, dall'insieme delle circostanze e avvenimenti e della condotta del Concilio stesso e la realtà pratica, concreta di questo nostro tempo e dell'umanità per la quale il Concilio vuole essere.
Perchè a nostro parere il problema più grave che dev'essere affrontato e, in qualche modo risolto, è il far calare la dottrina nella realtà concreta, il tradurre un insegnamento in vita vissuta, l'operare una vera e propria «incarnazione» di tutto il Mistero religioso e cristiano, rendere, in una parola, la Verità Amore.
E qui è il punto. E non per nulla questo Concilio viene definito «pastorale» proprio a indicare questo problema di costruzione della vita e di esistenza secondo la Verità rivelata.
Questa azione pastorale può rischiare però di essere intesa (come spesso succede forse perchè rimane sempre azione più consona e più facile, se non altro più tradizionale) come intensificazione di attività di insegnamento, di predicazione a forza di discorsi ricorrendo a tutte le tecniche più moderne e a tutte le risorse propagandistiche che la impressionante attrezzatura del nostro tempo fornisce.
Può anche essere intesa come un moltiplicarsi di attività organizzate, un riaccendere devozioni o raffinare quelle tradizionali, un ricorrere a celebrazioni e feste religiose, congressi ecc.
Non diciamo queste cose per poca considerazione o apprezzamento di queste attività pastorali e tanto meno per disprezzo di tutta una pastorale tradizionale certamente ricca di meriti e benemerita di gran parte della religiosità dei nostri tempi, ma è per porre in evidenza, con visione scoperta e coraggiosa, che questa pastorale potrebbe anche aver fatto il suo tempo o se non altro non essere tutta pastorale necessaria al nostro tempo e ormai indispensabile alla sensibilizzazione religiosa della nostra gente, e tanto più per renderla concretamente cristiana.
La pastorale ci sembra che attualmente debba impegnarsi nella ricerca di questa traduzione pratica, concreta della Verità rivelata. E' necessario che stabilisca contatti fra la Dottrina e la vita reale, attuale. Bisogna calare l'insegnamento teologico nei problemi d'esistenza. Ottenere una incidenza viva e costante in ogni fatto e avvenimento in modo che risulti l'insegnamento religioso come normativo di tutta l'esistenza del nostro tempo. E' indispensabile e urgente che il Cristianesimo sia presentato come «sistema» di vita capace di guidare e reggere e risolvere tutto l'esistere individuale, familiare, sociale, internazionale, di questa vita terrena e quindi, come logica conseguenza, dell'altra.
Si, d'accordo, tutto questo è sempre stato insegnato e abbondantemente fino alla casistica più spicciola e più banale. Ma nel nostro tempo - e è questo il nocciolo del problema - non basta più che sia insegnamento, parola predicata, sul pulpito, alla radio o sul giornale che sia e nemmeno nelle adunanze o ne! confessionale ecc. bisogna che sia parola «spirito e vita», parola fatta carne, che abita fra gli uomini, testimonianza vivente e quindi vita vissuta con delle scelte chiare e precise, assolutamente inequivocabili che rendano quella parola «est est, non non» cioè Vangelo vivo e vivente, Vangelo gridato con la vita, come diceva P. De Foucauld. E, si noti bene, tutto questo non vuol dire che ciò che bisogna fare sono delle buone azioni, dare dei buoni esempi, compiere opere buone da parte dei preti, dei frati, delle pie persone. Non basta più nemmeno questo ai nostri tempi. Perchè occorre molto di più. Occorre perfino molto di più che l'avere dei santi, come succedeva una volta, per cristianizzare il nostro tempo.
Perchè per riconquistare la fiducia nella Verità e farla accettare come Amore non possono più bastare le parole o le cose eccezionali, ma è necessario che tutto «il sistema» sia quella Parola, e tutto «l'insieme» la renda Amore, in modo che sia vista come vita vissuta, come modo d'esistenza e non soltanto come un insegnamento, una dottrina che poi ognuno traduce in pratica come meglio crede o come meglio gli torna, perchè in fondo manca, non è visibile, il modo, il tipo di vita sul quale paragonare la propria.
Al Comunismo, che è marxismo filosofico e chiare scelte sociali e preciso e ferreo modo d'esistenza, bisogna contrapporre il Cristianesimo col suo insegnamento teologico e filosofico, ma anche con chiare scelte sociali e concreta e precisa realtà d'esistenza, incarnazione scopertamente vissuta di quella dottrina teologica.
Finché continuiamo a insegnare la Dottrina Cristiana, e la vita vissuta è poi la civiltà occidentale nelle sue mentalità e modi di esistenza e di convivenza, il problema religioso rimane sempre più su un piano devozionale, pietistico, sentimentale, quindi pressoché inutile in ordine alla cristianizzazione dell'esistenza.
Non è certamente facile e semplice dire cosa si può fare per cercare questa «incarnazione» del Cristianesimo nel nostro tempo.
Noi, al massimo, siamo dei poveracci capaci soltanto di soffrire l'enorme problema e non abbiamo davvero altro titolo a parlare di questi problemi all'infuori di questa sofferenza, eppure pensiamo che delle scelte devono essere operate, posizioni precise devono essere prese in questo nostro mondo e, ripetiamo, non soltanto a parole, con comunicati, con Encicliche, con prediche, con esortazioni più o meno con cuori «pastoralmente» aperti e sensibili ecc., ma con ricerche d'intervento e di presenza in tutta la realtà umana del nostro tempo, coinvolgendoci con coraggio in ogni problema d'esistenza, spinti e guidati e sorretti soltanto dalla fedeltà al Vangelo e dall'obbedienza al Mistero di Cristo, in modo da essere, nel pensiero e nel modo di vita, Cristianesimo.
Non sappiamo dare degli esempi pratici e non abbiamo sistemi pastorali da proporre, seguendo i quali si ottiene l'effetto, ma ci viene in mente il papa Giovanni XXIII e quei vescovi che ogni tanto al Concilio tirano fuori il discorso sulla Chiesa dei poveri e ci si consenta anche il pensiero e il ricordo di quei poveracci che sono stati i preti operai.
La Redazione
Voglio scriverne perchè la Verità che diventa Amore attraverso la sofferenza non può che essere raccolta e comunicata, così, con semplicità e spontaneità. E' così difficile che capitino momenti in cui ci si scopre veri, in piena chiarezza, fino al punto che tutto è veramente nella luce, che quasi sembra che non si debba più vivere ancora, perchè vi è stata come una conclusione, un essere arrivati. Sono i momenti in cui si capisce con estrema serenità che sarebbe giusto e bello morire, quasi per l'impressione che niente ancora si possa aggiungere.
Ma sono pochi istanti, è per un tempo brevissimo e poi si ricomincia con fatica a cercare di nuovo. La luce è stata così violenta, che poi gli occhi rimangono abbacinati, ed eccoci di nuovo a cercare di vedere qualcosa nel buio. Il cuore ha capito con intelligenza aperta e profondissima, ma è stato per intuizione, al di là di ogni razionalità, e quindi rimane sopraffatto e dopo logicamente la fatica è più gravosa e pesante.
Rimane però assai più del ricordo e anche assai più di una esperienza vissuta: ci si trova come in un paese nuovo, a una diversa altitudine, in posizione avanzata, più scoperta, come assai più compromessi, ormai presi e portati via. Cominciano nuovi rapporti e hanno inizio nuovi doveri perchè l'Amore è di più, Dio è più Dio e il Suo Essere assoluto più liberamente assoluto.
Ho cercato di non drammatizzare quando è morta mia madre. Ma ho tanto desiderato di vedere tutto con serena semplicità, perchè la morte va vista con dolcezza, non come una nemica, qualcosa soltanto contro di noi.
D'altra parte ad aiutare a questa visione serena vi erano anche innumerevoli motivi umani che, considerati nel loro giusto valore, comportavano un dolce ringraziare Dio di tutto, perchè troppa è stata la Sua Bontà e generosa la Sua Misericordia.
A me ha chiesto sempre poca sofferenza e quella poca sofferenza sempre l'ha chiesta quasi con riguardo, con premurosa attenzione: forse ha visto che io non avrei saputo o potuto soffrire troppo e, allora, in quelle poche volte ha sovrabbondato, sopraffatto tutto di Amore.
Avevo deciso, forse senza riflettere troppo, obbedendo a un dovere di Amore filiale: mi era sembrato che celebrare la S. Messa, in Chiesa, durante il funerale, era ciò che più sarebbe piaciuto a mia madre. Era dirle tutto, donarle tutto di me stesso. Era l'essere insieme ancora una volta. Mi sembrava che ancora una volta lei poteva essere presente e ancora consentire al mio essere di Dio al quale mi aveva dato con profonda Fede.
Ma poi le forze quasi mi sono venute a mancare e recitavo le parole a fatica, quasi con respirazione affannosa e quando mi sono voltato e le ho detto «Dominus vobiscum», ho intravisto appena, laggiù in mezzo alla chiesa, la bara fra i quattro ceri accesi, ed era già penombra, di questi primi giorni di novembre, pesante di nuvole e di pioggia, nel pomeriggio appena inoltrato.
Ma poi a poco a poco tutto si è allargato e disteso, come aperto in orizzonti vastissimi. All'offertorio, quel pezzetto di pane e quelle due dita di vino erano tutta la vita di mia madre, povera donna, e la sua storia di fatica la sentivo tutta presente come se la vedessi con un colpo d'occhio. Erano la mia povera sofferenza così pesante eppure serena, mi sembrava tanto grave e terribile, quasi da non poterla portare, ma poi mi è venuto con chiarezza e come per uno strano senso di giustizia e d'Amore, di allargarla, si è andata distendendo, come perdendosi nella sofferenza umana, nella sofferenza della condizione umana.
E la mia sofferenza è rimasta soltanto come motivo di sincerità per questo aprirmi a tutta la sofferenza dell'esistere umano nei problemi della vita e della morte.
Avevo il diritto (forse per la prima volta nella mia vita) di conoscere e di vivere tutto il Mistero umano, di raccoglier nelle mie mani, nel mio cuore, nella mia anima, fino a essere tutta la realtà umana, in tutta la sua misteriosità di povertà e di sofferenza.
Mi sono sentito sincero ad essere prete, in diritto, pienamente giustificato ad entrare e a essere nel vivo problema umano, là dove veramente vi sono soltanto lacrime e sangue.
La morte di mia madre che aveva scavato in me quella sofferenza aperta a tutta la sofferenza dell'umanità, mi dava sincerità, verità di sacerdozio.
E' proprio vero che soltanto la sofferenza ci rende veri, in diritto a entrare nel Mistero di Dio e del mondo.
Allora, forse per la prima volta, mi sono sentito in diritto, consapevolmente autorizzato e giustificato a chiamare Dio a entrare nell'umanità. A chiamarLo dal più profondo dell'esistenza. A chiamarLo con una invocazione fatta d'infinito bisogno, di necessità assoluta.
A chiamarLo perchè venga subito e intero e totale in una realtà presente, attuale, tutta raccolta in quel momento, perchè quel momento era tutto il tempo, mia madre morta in mezzo alla chiesa e io, a celebrare con lei la Messa, eravamo la sofferenza di tutto il mondo, di tutti gli uomini tragedia incessante della morte che rapisce, stronca, porta via, separa e distrugge spietatamente ad ogni istante e nei modi più disperati e drammatici.
Non credo che le sia dispiaciuto - la morte sicuramente supera e vince ogni limite individualistico per aprirci e consegnarci alla Verità essenziale e all'Amore universale, per un entrare apertamente nel Mistero di Dio in partecipazione totale - non credo che le sia dispiaciuto, alla mia cara e piccola vecchietta, di avermi dato di celebrare, dopo vent'anni dalla Messa novella, un'altra Messa novella, e questa volta celebrando la Messa con me, chiusa dentro una bara in mezzo alla nostra chiesa, tra quattro candele accese. E allora, vent'anni fa, mi offrì a Dio sicuramente consegnandomi al Mistero di Cristo che celebravo, per la prima volta, sull'altare: ora, l'ho capito bene, con la sua morte, mi offriva a Dio lasciandomi tutto a Lui, anche quella parte, sia pure tanto piccola, di me, che si era tenacemente conservata per sé, quasi con gelosia e consegnandomi a tutto il Mistero di Cristo che tutto allarga a misure universali, capaci di arrivare ad ogni uomo e a tutta la realtà umana.
E non le sarà dispiaciuto di quasi sparire dentro l'immensità di questo Mistero di Cristo, piccola cosa, nascosta e unita a tutta l'umanità dentro la quale il Figlio di Dio compie incessantemente redenzione e salvezza.
Alla Messa novella di vent'anni fa venne all'altare sull'ultimo gradino, io le detti la Comunione, quasi a ricompensarla di avermi dato a Dio: in questa seconda Messa novella non è venuta, è rimasta laggiù, chiusa nella bara, fra i quattro ceri accesi, è venuta però sull'altare la sua morte, per essere l'unica morte con quella di Dio e con quella dell'umanità intera.
Per la Comunione non ve n'era bisogno che venisse, perchè il giorno prima di morire mi aveva già detto, quando le chiedevo se voleva fare la Comunione: no, non importa, non l'hai fatta tu, stamani?
don Sirio
«Di dove sono venuto? Di dove mi hai preso»? domandava il bambino a la mamma. Ella rispose mezzo piangendo e mezzo ridendo e serrandosi il bambino contro il petto:
«Tu eri nascosto nel mio cuore come un desiderio, mio caro! Tu eri ne le bambole de i miei giochi infantili, e quando io, tutte le mattine, facendo con l'argilla l'immagine del mio Dio, plasmavo e riplasmavo anche la tua.
Tu eri chiuso col Dio de la nostra casa dentro la nicchia, ed io ti adoravo.
Tu eri in tutte le mie speranze, in tutto il mio amore, in tutta la mia vita, ne la vita di mia madre.
In grembo a lo Spirito che protegge la nostra casa, per lunghi anni ti formasti. Quando ne la giovinezza il mio cuore aprì i suoi petali, tu gli alitasti intorno come una fraganza.
Il tuo dolce e delicato fiorire era uno splendore rovente di cielo, prima de l'alba.
Piccino mio, caro gemello di una luce mattutina, tu hai vagato seguendo la corrente de la vita del mondo, finché ti sei arenato sul mio cuore.
Quando fisso il tuo visino vi scorgo dei misteri che mi sopraffanno; tu che appartieni a tutto, sei divenuto mio.
Per timore di perderti io ti prendo e ti stringo al mio petto.
Quale magia ha attirato il tesoro del mondo in queste mie deboli braccia»?
TAGORE
da: La luna crescente
Sto invocando - e è un chiamare a gran voce - la dolce pietà di Dio. Ma non è perchè faccia diverse le cose. Morbide le pietre. Non acuminate le spine. Il fuoco che non bruci. Il tempo che non passi... Che faccia diversa la natura umana. No, la carne sia carne e lo spirito spirito. La libertà libertà. Il destino destino. E l'uomo come Dio l'ha pensato e creato.
E come da se stesso si è rovinato e continua a sciuparsi. Come Gesù l'ha redento. E come lo Spirito Santo l'accoglie e con dolce e forte Amore lo guida nel farsi del Regno di Dio in questo mondo che è quello che è.
Non ho paura delle cose così come sono, perchè nemmeno Dio ne ha paura, né orrore e tanto meno disprezzo. Ormai è facile che tutto io veda con Amore perchè sono certo che Dio guarda con Amore e con fiducia e speranza.
Senza stanchezze e senza timore di sembrare assurdo e pazzo. Ma l'infinita pazienza tutto accoglie e in tutte le cose nasconde una instancabile attesa. E Dio forse ci ama non per quello che è in attesa da noi ma per ciò che Lui ha nascosto in noi e che sa che prima o poi verrà alla luce e splenderà per Lui di Gloria perchè sarà unicamente frutto della Sua Bontà.
Eppure mi viene da chiamare a gran voce la dolce pietà di Dio: è perchè un deserto di solitudine è questo povero mondo, E spesso sono stanco di camminare e camminare senza incontrare nessuno.
Ho cercato di aprire il cuore e ne ho fatto abisso, ma tutti, arrivati sull'orlo, hanno avuto paura a gettarcisi dentro. Ho allargato l'anima fino alla vastità di un lago senza sponde ma poi i fiumi si sono disseccati, e la mia acqua ha avuto soltanto la pioggia dal cielo.
Ho chiamato, implorato, scongiurato, e la gola - ma assai di più la speranza - si è inaridita, la voce si è fatta fioca e rauca e poi un balbettare confuso, un muovere appena le labbra, un singhiozzare sommesso e poi gli occhi soltanto hanno continuato a chiedere, a implorare.
Tu, chiunque tu sia, hai fatto altrettanto e la stessa sofferenza dell'impossibile ti ha soffocato. Ti sei preparato, hai cercato con ansia, hai chiamato, ti sei offerto... ma è stato inutile e sei caduto nella tua solitudine, come se il buio ti inghiottisse o il cancello di ferro di una prigione si chiudesse.
E chi ha creduto di avere trovato qualcuno perchè ha stretto una mano, quando poi si è accorto che la mano era pietra, dev'essere stato terribile.
Quando pensiamo di essere vicini, il più delle volte è perchè siamo accanto di cella. E quando ci sembra che un cuore batta accanto al nostro può darsi che sia come l'orologio che batte le ore finché la carica dura.
Così è questo mondo perchè questa non è la terra dove è possibile abitare insieme. Questa è capace ormai di farci soltanto feroci.
Bisogna costruirla la terra dove sia possibile vivere insieme, un cuore solo e un'anima sola. E ogni giorno dev'essere creata di nuovo con infinita onnipotenza di Amore.
Noi siamo il solito vuoto e sempre il medesimo nulla. Io l'ho accettato, ne porto il peso con fatica ma anche con gioia serena. E offro la mia solitudine, la mia povertà assoluta, la mia sconfitta totale, il mio arrendermi senza timore. Anche la tua solitudine e povertà e sconfitta e resa incondizionata e quella di tutti, consapevoli o no e dell'esistere umano.
Ecco sopra questo deserto, anzi su questo nulla è l'onnipotenza di Dio a creare l'Amore. E' creazione incessante perchè qui il miracolo è necessario che sia senza soste. E sovrabbonda e sopraffa gli uomini e il mondo.
Adesso le mani possono stringersi, i cuori cercarsi e le anime unirsi: questa nuova terra non ci divide, né ci separa e allontana perchè è un pezzo di terra del Paradiso, dove ci siamo incontrati e dove insieme stiamo vivendo.
Perchè questo pezzo di terra dove costruirsi la casa e abitare con gioia, sia a me e a te donato e a tutti gli uomini, invoco a gran voce, dal deserto della solitudine, la dolce pietà di Dio.
Si parte dall'amore vero, non un amore di concupiscenza, ma un amore di dilezione. Non è ipotetico il caso che il matrimonio sia la legalizzazione di un amore di concupiscenza, cioè un amore che non è un rapporto, ma piuttosto un egoismo camuffato. Una persona ha cercato, sotto la simulazione di un dialogo, il suo proprio bene, che nel caso concreto, le appariva essere quell'uomo o quella donna e tutto l'appagamento che poteva riceverne nella sfera erotica. Ma questo non lo chiamiamo amore, anche se di questo si tratta nella declamazione del cine, del romanzo, della cronaca che attrae e suggestiona. Noi vogliamo partire dall'amore di dilezione in cui l'accento è posto sul dono di sé: il motivo non sta in ciò che ricevo, ma piuttosto nel darmi scopertamente, anche se questo darmi finalmente mi arricchisce sempre più; e questa è la definizione dell'amicizia.
L'amore è autentico quando la persona si dà in assoluta realtà all'altra come a un tutto e a un solo e questo è l'amore «folle». La persona ha la possibilità di un solo amore folle, che lascia libera la sfera dell'amore di amicizia e le dà vibrazioni più profonde e più nuove. La persona può amare diverse persone di amore di amicizia, senza che nessuna si senta defraudata, perchè l'amicizia si desta sotto lo stimolo di una scoperta personale e si alimenta in una sfera che è caratteristica di questo caso che mi si presenta nuovo. Questo costituisce il valore in cui e per cui amo questa persona e alimenta il mio dialogo che sarà tanto più ricco nel tempo e nello spazio, quanto più alto sarà il tono di questo valore. Nell'«amore folle» la sfera del dialogo tende ad assottigliarsi sempre più, perchè questo amore non ha bisogno di simboli, di espressioni, non è mediato: la persona cerca di donarsi in una nudità ed in una povertà che non contamini in nessun modo il dono di sé. Le notti oscure di cui parla S. Giovanni della Croce sono la crisi per cui deve passare la persona, abituata a cercare simboli e appoggi nell'amore: si rende conto che viene impoverita, lasciata sola, senza risorse finché non si abitua a questa povertà essenziale. Allora la notte diventa più chiara di qualunque giorno.
Cerchiamo di puntualizzare la sostanza del tema in tre domande:
a) è possibile per l'uomo amare di amore folle due esseri, per esempio una creatura e Dio, oppure due creature?
b) è sufficiente per quello che Dio domanda a ciascuno di noi, l'amare una creatura di amore folle e Dio di un amore di amicizia?
c) è sufficiente nell'amore coniugale un amore di amicizia?
a) La risposta è: no. Perchè l'amore folle non si alimenta di qualcosa che è «mio» completamente a qualcosa che è «tuo»: ma è per la sua stessa essenza «tutto» e «solamente» dono di sé. Per esempio quello che mi attira all'amore di Dio è la fede, come appagamento della mia sete di verità o la speranza, che dà pace alla mia inquietudine di essere. Nell'amore folle di Dio le due virtù che fanno da supporto all'amore, sono «svuotate» come dice S. Paolo, quanto lo possono essere sulla terra. Amo Dio perchè Dio «è» e mi dono a Lui anche se non mi dà niente, solo perchè Egli merita che mi doni tutto a Lui; è ciò che il Padre de Foucauld definiva con queste parole: «s'éxaler devant Lui en pure perte de soi» (disintegrarsi davanti a Dio in pura perdita di sé). Solo nell'altra vita la fede e la speranza «passeranno del tutto» perchè resti solo l'amore; ma nei mistici la fede e la speranza sono tanto implicate nell'amore, che quasi non lasciano tracce apparenti. Santa Teresa del B. Gesù ha scritto pagine stupende su questo tipo di amore (v. ed. critica del '57, pag. 2234-36). «Se l'Astro adorato resta sordo ai bisbigli lamentosi della sua piccola creatura, se resta velato.... bene, la piccola creatura resta inzuppata, accetta di starsene intirizzita, e gode ancora di questa sofferenza che ha pertanto meritata». C'è sotto questo amore di pura benevolenza, un residuo di amore di concupiscenza, di cui la persona non può liberarsi per la sua stessa legge di struttura, ma è tanto assorbito da questo amore puro, dimentico di sé, che non entra per niente nel motivo dell'amore.
b) E' sufficiente amare Dio di un amore di amicizia, perchè nell'amore di amicizia è compresa la volontà efficace di non disgustare l'Amico, di non far nulla che vada contro la sua volontà. Quando uno ama di un amore folle una persona, e insieme ama Dio di un amore di amicizia, ama indirettamente Dio mediante la creatura e riconosce implicitamente che questa pienezza gli viene da Lui. Quando questo amore si spezza con la morte, questa persona ha l'impressione di un gran vuoto; gli ci vorrà molto a ritrovare l'equilibrio perduto e a scoprire la stessa mediazione che gli si è fatta invisibile. Una persona che è arrivata all'amore folle per una creatura e all'amore di amicizia per Dio, può dire a Dio: «Ti amo in lei, e perchè mi hai dato lei».
I due amori, quello di amicizia e quello folle per Dio, sono resi vivi, drammatici nell'incontro del giovane ricco con Gesù, raccontatoci da Marco al capitolo X: « .... che devo fare per avere la vita eterna?... Tu conosci i comandamenti» e poi: «Una sola cosa ti manca: va' vendi ciò che hai, dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni, seguimi».
c) Non solamente è sufficiente all'amore coniugale un amore di amicizia; ma direi che è essenziale, per la continuità, il rinnovamento, la vitalità di questo amore, che uno dei due ami di un amore folle Dio e dell'amore di amicizia l'altro. Se i due si amano dell'amore folle, si chiude il circolo, manca il rifornimento della sostanza dell'amore. Nell'amore folle non siamo più sul semplice piano di una conoscenza con qualche scambio di doni, con una certa comunicazione di sé, come direbbe S. Tommaso: c'è il dono di tutto l'essere, ma questo essere è veramente senza progresso se non si rifornisce di continuo alla fonte che è Dio.
Quando una persona è impegnata in un amore folle e riserva a Dio un amore di amicizia, la sola speranza di non perdere Dio è che l'altra persona non ponga alternative: o Dio o me; perchè le può facilmente avvenire la rottura. A uno solo dei due coniugi dunque, è consentito di amare di amore folle l'altro; e l'altro deve tenersi aperto su Dio, amando Lui di amore folle, e aperto sulla creatura amandola di un amore di amicizia: che comporta gradi diversi e può arrivare a un grado altissimo senza essere «l'amore solitario e assoluto» che è riservato a Dio. L'amare Dio d'amore folle, non solamente non defrauda il coniuge, ma gli offre la possibilità di seguitare ad amare di amore folle la creatura senza perdere Dio.
A quale dei due coniugi spetta l'aprirsi su Dio per amarlo di amore folle? Naturalmente alla donna, perchè lei ha la missione di reintegrare l'essere, conservare e aumentare l'essere, in quanto la sua struttura è nella linea dell'essere e della conservazione. «Nel tuo ventre si riaccese l'amore» dice Dante. La pienezza di Dio passa per lei all'uomo. Perchè il serpente ha tentato Eva e non Adamo? Perchè Eva è più debole, più volubile, più sensibile? Mi pare più logico pensare che il tentatore ha cercato di rompere il contatto, dove naturalmente il contatto si stabilisce. Adamo non trova altra giustificazione, fuori di quella apparentemente puerile e poco responsabile: «La donna che tu mi hai messo al fianco mi ha dato del frutto dell'albero e ne ho mangiato» (Gen. 3, 12).
La donna è stata data all'uomo con la missione di far da glutine fra lui e Dio; e poteva farlo, amando di amore folle Dio: la sua disubbidienza invece è la prova del suo disamore, e Adamo immediatamente la incolpa, con un rancore incosciente e rivelatore che sembra perdurare in ogni uomo sotto le apparenze più diverse e contraddittorie.
Tutte le generazioni cristiane meditano sul ruolo di Maria nell'Incarnazione, di cui Eva è l'anti-tipo. Maria ha riunito l'umanità a Dio, amandolo di amore assoluto: l'amore del «sia fatto in me secondo la tua volontà». Maria ha amato certamente di un amore vero di sposa e di un amore intensissimo Giuseppe; ma il suo era un amore di amicizia e l'amore folle era solo per il Signore; «ecco la schiava del Signore....».
(seguito e fine nel prossimo numero)
Arturo Paoli
(da « Testimonianze » rivista mensile fiorentina di spiritualità)
Don Sirio, con questo mese dì novembre, ha iniziato la pubblicazione di un periodico, un foglio mensile che tratta problemi umani nel mondo del lavoro operaio, intitolato «Il nostro lavoro».
Il foglio è indirizzato a tutti gli operai della zona di Viareggio e è a carattere prevalentemente locale anche se, mentre raccoglie ogni problema umano delle aziende viareggine e cerca di considerarlo alla luce del Vangelo e della Dottrina sociale della Chiesa, vuole allargare la propria ricerca ai problemi vasti e angosciosi di tutto il mondo del lavoro specialmente nei confronti di Dio, della Chiesa, della giustizia, della libertà...
Chi avesse particolare interesse ai problemi operai e avesse desiderio di conoscere questa esperienza, può richiedere il giornale (anche più copie) a don Sirio. Chiesetta del Porto, Viareggio.
7 ottobre - Il mio babbo stasera è diventato un malato grave. Dio per la croce del suo Figlio mi perdonerà la mia disperazione.
11 ottobre - I medici pensano che sia inutile ogni cura, il babbo è quasi incosciente.
12 ottobre - Non posso più vivere in questa cupa tristezza, mi sforzo di alzare gli occhi sulle colline e sul cielo, colgo nella loro bellezza straordinaria quasi il limite tra visibile ed invisibile, oltre questo velo so che il babbo andrà e troverà subito il volto di Dio perchè egli è stato il poeta di quanto ci è dato cogliere d'ultrasensibile.
15 ottobre - Stasera uscendo ho trovato un cielo profondo appena increspato di altissime nuvole color di rosa. Ho capito che quel cielo attendeva e che bisognava cedere e accettare che fosse fatta la Sua non la mia volontà.
Il babbo è andato nell'eterno riposo, è entrato nell'eternità serenamente, senza soffrire. Dio ha ascoltato le mie lunghe preghiere che gli fosse risparmiato il dolore e ne sento la Presenza.
17 ottobre - Mi hanno portato via il babbo, oggi non so sentire altro che la sua assenza fisica. Era l'Amico mio più caro; alla mia giornata è stata tolta l'ora più piena, quella in cui passeggiavamo insieme parlando e leggendo.
Ho fatto l'ultima volta con lui il Viale dei Colli, poi me lo hanno murato nel buio. Babbo aiutami!
24 ottobre - E il babbo mi ha aiutato circondandomi di una siepe di amici, c'è chi è venuto anche da lontano, nel loro affetto ho ripreso a respirare.
3 novembre - Stasera siamo tornati nel bosco di cipressi sul crinale del poggio col nostro piccolo Mario. Lui era felice di essere solo, senza le sorelle, col babbo e la mamma, io ho aspirato consolazione e pace dal suo piccolo amore.
Grazia Maggi
Caro Don Sirio,
nell'ultimo numero di «La voce dei poveri» ho letto con particolare interesse - com'è naturale - gli articoli che si riferiscono alla vocazione e alla missione sacerdotale e cerco - scrivendoti - di chiarire a me e a te le impressioni che ne ho riportate, quasi per prender parte, così al colloquio al quale mi avevi invitato ai primi di luglio, in un giorno in cui avevo altri impegni.
Ho udito in quegli articoli come il grido di uno scalatore impaurito ed entusiasmato insieme dalle estreme difficoltà dell'ascesa, dallo sforzo sovrumano che non lo fa progredire di un passo, dalla vertigine del vuoto. Vi spira quasi un vento di tragedia. Ma tu sai che il cristianesimo spesso è dramma, mai tragedia.
Insieme vi ho sentito il «gusto» per una estrema semplicità e verità umana, che inserisca il prete in mezzo alla folla e ne faccia «uno del popolo della terra, uno degli innumerevoli figli di Dio, mescolato nella grande folla... »). Ma tu sai che il sacerdote, anche se «mangia coi peccatori» non fa massa con essi.
Non voglio affermare che le due posizioni sono contraddittorie, anche perchè mi rendo conto come la tragedia sarebbe proprio questo mescolarsi col mondo, fin quasi - non dico caricarsi - a ricoprirsi e macchiarsi di tutte le miserie di esso, con una sete insaziabile di santità e di purezza.
Voglio semplicemente notare che le due posizioni tendono troppo al di qua o al di la dello spazio disegnato dalla luce serena del Vangelo, oltre il quale ci sono posizioni o vocazioni rare e particolari.
Credo che - per quanto riguarda i casi generali e normali - la sostanza del cristianesimo sia una felice simbiosi fra natura e sopranatura, fra umano e divino, attuata senza asprezze e contorcimenti psicologici da tragedia. Non si devono far rivivere, su piani diversi, le «compagnie dei flagellanti». Il dolore, la miseria, l'ingiustizia, le preoccupazioni personali o pastorali debbono cadere sulla fede e la speranza e la carità, che ne attutiscono l'urto «ut non contristemur sicut ceteri qui spem non habent». Per soffrire basta essere uomini, per portare e santificare il dolore bisogna essere cristiani e ciò deve bastare. Per peccare basta essere uomini, per non essere soffocati dal male è necessario Gesù e Lui basta.
Quando la simbiosi, di cui si parla, si realizza senza compromessi psicologici, come due parti di un incastro che si corrispondono e si completano a vicenda, si assiste al fenomeno pieno di luce serena dell'uomo-cristiano. E nota che in quell'uomo-cristiano c'è tutto l'uomo con le sue miserie, negligenze, debolezze, peccati. Basta che l'incastro regga, anche se una parte grava verso il basso.
Mi ha colpito, pochi giorni or sono, durante un funerale, una frase della liturgia in cui si prega per il defunto «ut factorum suorum in poenis non recipiat vicem, qui tuam (Dei) in votis tenuit voluntatem». Si direbbe situazione tragica quella di uno che aspira a un ideale, sapendo di non poterlo raggiungere. Invece per il cristiano è normale che aspiri ad una perfezione che non raggiungerà mai sulla terra. Il peccato fa veramente paura quando spenge questo anelito - ed è un male in proporzione al grado di freddezza che vi porta.
Queste scarne e sommarie osservazioni sembrano riferirsi solo alla massa dei cristiani, ma gli stessi criteri si possono applicare alla vita e alla missione del sacerdote.
Questi deve lavorare con serenità, senza perdere la fede la speranza la carità, qualunque sia l'ambiente morale, la sordità e durezza delle coscienze, la sterilità della sua opera. Non gli rimprovero le debolezze, le comodità, gli svaghi, purché non ne venga offuscata la figura di un uomo che crede e spera nella vita eterna e fa con impegno il suo «lavoro», con pazienza, costanza, carità e umanità.
Tutto questo non lo mostra sempre (e lo «spettacolo» è bellissimo) su passaggi di sesto grado.
Le circostanze o una vocazione particolare possono richiedere l'eroismo.
E in questi casi - con la «grazia» di Dio - tutto deve andare avanti con umile fortezza e non turbata serenità. Non credo ai martiri che «corrono» al supplizio (Gesù pregò: si possibile est transeat a me...), non ho più simpatia per quelli che presentavano il petto ai fucili gridando «Viva Cristo Re ». Quanti umili soldati son diventati eroi «a tutto il mondo ignoti». E così non capisco le anime che respirano sempre aria da tragedia.
Non, mi fermo su le circostanze che possono esigere un eroismo: l'argomento sfugge ad una analisi. Una coscienza, retta, dirà a ciascuno se è stato un transfuga.
E' legittimo ammettere vocazioni particolari e non penso che dal papa all'ultimo prete «ugualmente dobbiamo dare tutto». Basta pensare che c'è il trappista e il certosino, il canonico e il monsignore diplomatico, il parroco e il prete studioso, il missionario e il prete operaio, per concludere che non tutti i sacerdoti debbono dare tutto ugualmente.
Se ci sono delle vocazioni particolari, bisogna prima di tutto che gli «eletti» si rendano conto che non tutti li debbono seguire nel loro arduo cammino. E' altrettanto necessario che non trasformino la loro vocazione in un inquieto e tormentoso problema morale - psicologico perchè non penso che ci possa essere la vocazione all'angoscia: nel caso si tratterebbe di patologia psichica.
Il rocciatore non si ferma a chiarirsi lo sforzo drammatico e la tensione psicologica nella sua ascensione, ma cerca di porre un passo sopra l'altro.
Uno si sente chiamato perchè ha anche sufficienti doti e inclinazioni naturali a vivere quella particolare perfezione: un radio-messaggio vibra in un apparecchio in sintonia con quello.
Il fatto di essere «solo», non che procura dubbio o sgomento, deve essere accettato come un dato intrinseco alla vocazione eccezionale. Non ci sarà mai una massa di santi eccezionali neppure fra i sacerdoti. Non conosco nessun tempo nella storia del cristianesimo in cui una santità straordinaria o eroica fosse vissuta, non dico da tutto, ma dalla maggior parte o dalla maggioranza o da una parte rilevante del clero.
Bisogna ammettere e legittimare una santità media per la massa dei sacerdoti come per la quasi totalità dei fedeli. E insistere su due punti: i doveri del proprio stato e la carità (Hai notato come S. Paolo, parlando della carità «quae nunquam excidit», quindi della 3a virtù teologale, nota: patiens est, benigna est ecc. «confondendo» la carità verso Dio e quella verso il prossimo?). I riti, i voti, i sacramenti, le regole del convento ecc. sono soltanto dei mezzi per assolvere i propri doveri e alimentare la. carità. Molti libri di formazione o di meditazione per sacerdoti, corsi di esercizi spirituali, conferenze, esortazioni al clero («nihil dat qui totum non dat»!) non possono riferirsi al clero in generale.
Ho notato all'inizio che dai tuoi articoli si potevano rilevare due aspetti della vita sacerdotale: un quasi spasmodico sforzo per vivere sulle vette e un profondo senso di semplice umanità. L'uno e l'altro possono coesistere o si possono pensare complementari, se si attenuano un pò le tinte. Ma sarebbe errore porli come antitesi e condanna di una vita sacerdotale media, che a me sembra insostituibile.
Se mai si dovrebbero opporre, per condannarlo, a quel genere di preti che vivono su un piano di «distinzione», di «classe» fondato sulla «dignità», sul prestigio, sul potere, sull'influenza perché la vita del prete deve poggiare sulla verità e la realtà della sua vita umana e la fedeltà al suo compimento di evangelizzatore.
A questo vorrei delineare la figura di quest'uomo-prete, che non risulta dalle direttive di formazione né dai «canoni» che riguardano i chierici. Ma ora non me la sento, ed ho soltanto una piccola speranza di poterlo fare in seguito.
Aff.mo in Gesù Cristo
don X X
Luigi Sonnenfeld
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