Non è certamente il caso di metterci a fare bilanci sul lavoro svolto in tre anni di vita di questo foglietto mensile: una povera ricerca fatta molto alla buona, sicuramente in modo molto sprovveduto, spesso - per non dire sempre - improvvisato in poche ore, all'arrivare del giorno stabilito per la tipografia, ma sempre però raccolta dal profondo dell'anima, tirata fuori dall'intimo di se stessi, fruttificata silenziosamente nel segreto del cuore, maturata spesso con tanta sofferenza e tanta angoscia.
Siamo troppo niente per fare bilanci di attività e tanto più azzardare considerazioni di utilità, di incidenza, di resa pratica. E è chiaro che per confortarci non possiamo nemmeno ricorrere alla parabola del seminatore perchè non siamo mai stati sicuri se il nostro povero foglio era un seminatore a piene mani nel solco aperto e, nel caso che lo scrivere sia sempre seminare, non abbiamo mai ben saputo che seme fosse il nostro.
E' molto più vero pensare che se a qualcosa siamo serviti, non è stato molto più che lavorare a zappare il campo, a smuovere la terra spesso tanto soda e dura, a strappare erbacce inutili... e a sperare e sperare sempre, che il Cielo mandasse la sua pioggia, che le stagioni fossero favorevoli che qualcosa spuntasse di tra le zolle del campo.
Spesso ci siamo domandati - anche perchè la spedizione è lavoro tanto noioso, non avendo le etichette metalliche per gli indirizzi, ma dovendo sempre prepararli dattilografati e poi incollarli, uno per uno sopra i giornali - spesso ci siamo domandati, delle duemila copie che inviamo ogni mese, quanti saranno a leggere la nostra povera fatica. Il titolo non è troppo invitante e fa venire immediatamente in mente i giornaletti degli orfanatrofi antoniani che dilagano nelle buone famiglie a chiedere soldi, e anche la materia trattata non è della più allegra; questa storia della povertà è spesso - e forse sempre - argomento che dà noia, soffoca, sgomenta perchè è sicuramente importante nel Cristianesimo, ma d'altra parte è così difficile, è problema tanto strano e dà l'impressione di qualcosa d'impossibile e a lungo andare viene soltanto voglia di non pensarci più e starcene in pace una buona volta...
Tutto considerato, insieme al fatto che scrittori non siamo, né ne abbiamo a disposizione, la domanda di quanti saranno a leggere il nostro foglio era e è assai senza senso.
Avevamo perfino cercato di escogitare qualche sistema per fare un tal quale accertamento, un'inchiesta o qualcosa del genere. Ma poi non ne abbiamo fatto di niente, anche perchè ci è apparso sciocco e presuntuoso voler sapere chi leggeva «La Voce dei poveri» o chi la gettava nel cestino, dato che se avevamo una briciola di dignità e quindi di giusta valutazione della nullità che siamo, dovevamo presumere, logicamente, che la stragrande maggioranza dei destinatari del nostro giornale non poteva fare altro che buttarci nel cestino della carta straccia.
Quindi tutto considerato, conveniva continuare in santa pace sperando che qualche lettore ogni tanto desse un'occhiata ai nostri discorsi. E continuiamo con serenità e fiducia.
Abbiamo sempre più la convinzione che il problema della povertà cristiana - problema dei cristiani che credono nella povertà e la sentono valore determinante di una sincerità cristiana come glorificazione di Dio, come Verità dì se stessi e della condizione umana e come realtà fondamentale per un vero rapporto d'Amore col prossimo, chiunque sia questo prossimo - questo problema della povertà cristiana sia necessario impostarlo con molto coraggio e in modo scoperto, se vogliamo riuscire a incidere cristianamente nel nostro tempo e fra la gente che ci cammina accanto.
Forse sempre più e anche in misure addirittura drammatiche, la povertà si presenta e viene conosciuta e sentita come essenzialità assoluta per un Cristianesimo.
Povertà viva, vissuta, realizzata in questa esistenza del nostro tempo. Povertà coraggiosa non fatta di disprezzo delle cose, di modi esterni e forse nemmeno di voti e di saio, ma povertà accettata nel cuore e nell'anima, libertà da grettezze e egoismi, superamento d'interessi personali e particolari, non condizionamento di benessere materiale, senza esigenze assolute, senza ansietà per il domani pur partecipando a cuore aperto, e interamente dentro, le insicurezze di chi vive del proprio lavoro.
Povertà di chi vive contando soltanto su Dio e non solo perchè crede nella Sua Provvidenza che dà da mangiare agli uccelli e veste i fiori dei campi e quindi ne darà anche a me da mangiare e non mi farà mancare un vestito, ma la povertà che dà di vivere soltanto per Lui, che porta a vivere soltanto per Lui, perchè è povertà così tanto di tutto, da testimoniare che Dio soltanto è tutto, Valore assoluto, ciò che unicamente conta e vale e per il quale tutto assolutamente è. Questa povertà consapevole del proprio valore teologico, cercata o accettata e quindi vissuta perchè valore essenziale cristiano in ordine a tutta la Verità.
Di questa povertà si sta sempre più parlando dovunque. E chi si accosta al Cristianesimo nella fiducia dì trovarvi la Verità per tutto il Mistero dell'esistenza, è attirato quasi sempre dal fascino della povertà cristiana. E chi avverte dentro di se il dovere e il bisogno di una ricerca di sincerità cristiana per una risposta al Mistero di Dio ormai scoperto e sentito in tutta la violenza di richiamo a tutta la Sua Verità e a tutto il Suo Amore, scopre il valore povertà in tutta la sua essenzialità e sa che questa è la strada.
Strada lunga e faticosa che arriva fino alla Verginità intesa come povertà nella sua misura misteriosa, aperta a tutto il Mistero del dolore e del destino di tutti gli uomini e termina, lassù, sul Calvario, ai piedi della Croce.
Di questa povertà ha parlato il Concilio, anche se non in modo ufficiale: la povertà, nella sua essenzialità per il Cristianesimo del nostro tempo, è stata la problematica dì tanti Vescovi, fino a farne un clima veramente meraviglioso da allargare il cuore a tanta speranza.
E questa povertà e ogni altra povertà - perchè ogni povertà ha in sé del Cristianesimo, se non altro per il bisogno estremo di avere un significato, un valore e quindi una salvezza - continuiamo a sognare su queste povere pagine. Sogni strani e forse spesso anche assurdi, ma però bellissimi, specialmente quando capita di credere dal più profondo dell'anima che assai prima di noi li ha sognati Gesù.
La Redazione
Non è certamente per fare dell'autobiografia e nemmeno delle confessioni pubbliche, ma è perchè penso che sia bene affrontare il problema della povertà rifacendosi a esperienze personali, descrivendo punti di vista, esponendo mentalità, che possono anche essere errate o eccessive, ma che però sono duramente pagate di persona e quindi meritevoli di essere considerate.
E' difficile dire se si è poveri cristianamente. Tant'è vero che non sono pochi a credere d'esserlo e fino al punto di potersene stare tranquilli e in pace e così tanto che poi su questa povertà ci costruiscono castelli non solo di carta, ci vivono comodamente dentro e arrivano a tirare fuori dalla povertà un mucchio di diritti e pretensioni. E qualche volta viene da pensare che la povertà sia una specie di miniera d'oro, di sistemazione al calduccio di una serena tranquillità, di pace per lo stomaco e per l'anima, in questo mondo tanto tormentato dal problema dell'esistenza.
Spesso ho rischiato di pensare di essere povero. Perchè non ho quattrini e non me ne importa. Perchè vivo così, alla buona, senza preoccuparmi per niente di tutto ciò che mi può riguardare. Perchè non conto nulla in questo mondo e non ho appoggi e tanto meno li cerco. E così via convinto che questi motivi facciano povertà cristiana.
Ma poi, a parte che spesso questi motivi sono orgoglio, vanità, gusti personali, reazione a mentalità correnti ecc., ho scoperto che forse mi mancavano i, motivi veri per potermi considerare povero e, quello che è peggio, ho anche concluso - accidenti, che tristezza! - che forse non mi sarà mai possibile una vera e chiara povertà secondo il Vangelo.
Allora ho pensato che su questi motivi era bene riflettervi sopra se non altro per non continuare a commettere il sacrilegio di giudicare santa povertà ciò che invece è approfitto di cose, sistemazione sicura, un darlo ad intendere...
E poi è anche giusto cercare di farci idee chiare circa la povertà, perchè è doveroso riconoscerla dov'è, raccoglierla con vivo rispetto, apprezzarla con infinito Amore: dov'è la povertà lì e il Cristianesimo, lì è Gesù in persona, anche se chi è povero di vera povertà non fa la Comunione tutte le mattine, né forse va nemmeno alla Messa la domenica.
Perchè la povertà non è detto che sia cristiana per via di un voto, di una promessa, di una vita religiosa, sacerdotale, ecc.
Ho pensato che per essere poveri sia necessario guadagnarsi da vivere col proprio lavoro. No, no, non sono comunista e tanto meno della prima ora, dei tempi duri, quando il lavoro era soltanto falce e martello. Qualsiasi attività del braccio e della mente che comporti un guadagno indispensabile per mangiare e per vestire, le due necessità primordiali, di valore assoluto per vivere, è lavoro.
Questo lavoro rende poveri. Riduce su un piano di umiltà ogni artificiosa gonfiatura di se stessi. E dà di essere veri, quello che veramente siamo, al nostro posto in questo ingranaggio misterioso della Creazione.
Se non lavoro non avrò da mangiare. Questo pezzo di pane me lo sono guadagnato. Queste mille lire sono frutto della mia fatica. Fatica, lavoro, guadagno diretto, personale, offerta di me stesso, spesa di energie mie, pagamento fatto di carne e sangue.
E lavoro unicamente per mangiare. Senza ideali, senza prospettive e miraggi. Non è per arrivare là, non è per realizzare qualcosa: è soltanto per mangiare. Questo mangiare divora tutto il lavoro, logora le energie., consuma tutto il tempo, inghiotte la vita. Una esistenza spesa per guadagnare da mangiare. Mangiare per lavorare, lavorare per mangiare. A tavola sparisce tutta la giornata di lavoro, tutta la fatica è pane, companatico, un quartino di vino. La vita soltanto lavoro, imprigionata in quella attività, soffocata da quel dovere. Ogni giorno perchè ogni giorno si mangia. E si mangia per tornare ogni mattina al lavoro.
Chi è in questa condizione è povero. E è perchè questo è vero che io non sono mai stato povero e non lo sono in questo momento.
Non ho mai lavorato per mangiare e tanto meno ho lavorato soltanto per mangiare.
Anche quando ho fatto il prete operaio e sono stato totalmente nella condizione operaia, ho lavorato e faticato e sudato in cantiere e andavo a prendere con mano dura e sicura la busta della quindicina, però non era soltanto per mangiare.
Quel lavoro in fondo non era povero perchè non era soltanto per mangiare: necessità materiale che consuma vita umana in altro dovere materiale, era lavoro ricco d'ideali, lo sentivo come Grazia santificante la mia vita e quella di tutti i lavoratori, era ricerca di Redenzione per me e per tutti, era Amore per solidarietà fino all'estremo con tutti, era Adorazione e Contemplazione di Dio...
Non era lavoro per comprarmi da mangiare, per sedermi a una tavola, saziarmi i vuoti spaventosi dello stomaco dopo ore e ore di fatica.
Non era per dare da mangiare ad una donna perchè potesse continuare a vivere, a respirare, a riempire una casa, non era perchè una nidiata a bocca spalancata avesse cibo a sazietà. Perchè è povertà vedersi mangiato il proprio lavoro, un boccone dopo l'altro, bevono sangue, mangiano carne viva del proprio essere che si fa a pezzi per guadagnare, a forza di lavoro, quello che poi loro interamente si mangeranno.
E' povertà anche se chi mangia tutta la propria fatica sono bocche immensamente amate.
E' povertà anche se dev'essere gioia indicibile vederli crescere su, sani e forti, è povertà perchè il loro crescere costa il proprio logorarsi, sul lavoro, ogni giorno.
(La gioia incredibile quando un giorno ho dato la busta, ancora chiusa, della quindicina ad un operaio che mi chiedeva un prestito perchè gli nasceva un bambino).
Non sono povero di questa povertà essenziale. Non mi sarà forse dato di vivere in questo povertà. Anche perchè forse per noi è quasi impossibile (a meno che non cambino molte cose) vivere unicamente del frutto del nostro lavoro.
Perchè lavoro non è vivere alle spalle di Dio e di Gesù Cristo, della Madonna e dei Santi. E nemmeno è lavorare l'amministrazione dei Sacramenti e il gridare la Parola di Dio sui pulpiti, sia pure sudando abbondantemente per l'empito dell'oratoria. Portare al cimitero ì morti recitando Rosari sarà opera di misericordia, ma non è un lavoro. Così pure visitare i malati. E nemmeno fare religione nelle scuole e il catechismo ai bambini...
Mi hanno sempre detto che il sacerdozio è una missione, o, per usare una parola orribile, ma d'uso ecclesiasticamente accettato, un ministero, ma è offesa e irriverenza grave - così ho sempre sentito dire - passarlo come una professione e tanto peggio come un lavoro.
Non sarà mai povertà vivere sfruttando una missione, facendo rendere un dare le cose di Dio, l'amministrare le cose sacre.
Che uno abbia il diritto di vivere dell'altare, dato che vive per l'altare, d'accordo, ma che fare così comporti una povertà non mi pare possibile. Se mai comporterà una particolare posizione di privilegio, come del resto è sempre, più o meno, successo.
E' proprio doloroso trovarsi nel dovere di insegnare e quindi logicamente testimoniare (anzi, a regola, si dovrebbe prima testimoniare e poi insegnare, come succedeva a Gesù) che la povertà è valore essenziale nel Cristianesimo e poi scoprirsi nella situazione di non poterla vivere con totale sincerità. Perchè dare dei pacchi, provvedere vestitini, offrire mille lire non è detto che dia di essere poveri della vera, santa povertà cristiana.
Ho paura di non avere nemmeno il coraggio della povertà. Non so pensarvi seriamente e onestamente. E le ragioni capaci di ovattarne il problema sono così tante e vengono su appoggiate a un enorme buon senso, rafforzate da prudenti saggezze, sostenute ormai da consuetudini immemorabili.
E continuo a mangiare il pane che non ho sudato e il companatico che non mi sono guadagnato. Continuo a sopportare (e me ne faccio quasi un diritto) che siano gli altri a lavorare per il mio mangiare e a faticare per il mio vestire. In cambio offro ciò che non è mio, ciò che non è fatica mia, non do del mio sangue e della mia carne. Vivo amministrando le cose di Dio, pagando con ipoteche in Paradiso.
E' un po' terribile per me credente, seguace, testimone "del fabbro di Nazaret" (Mc. 6, 3) Figlio di Dio.
don Sirio
Ci consideravano un po' pazzi, Signore, e Tu lo sai bene, quando nelle notti serene e chiare ci perdevamo a guardare le stelle. Nel cielo buio sono piccole luci e lontanissime le stelle, ma sono luce nel buio e luce nel buio infinito dell'universo.
E la nostra speranza ci tremava nel cuore come il tremolare delle stelle in quelle lunghe notti di attesa sotto il loro brividìo, freddo e lontano.
Forse noi siamo stati la lunga e terribile attesa di tutta l'umanità. Si è riversata nell'anima nostra l'attesa del mondo, come i fiumi si allargano e fanno l'oceano.
Hai messo nel nostro destino il Mistero dell'umanità che aspetta. Non sapevamo bene che cosa e nemmeno perchè, eppure eravamo lì ad aspettare.
E ormai sapevamo che il segno sarebbe venuto. Noi lo avremmo visto e l'avremmo seguito. Null'altro abbiamo pensato: chi aspetta, Signore, chi è nell'attesa, non gli importa di sapere che cosa dopo sarà. Gli importa soltanto di ciò che sta aspettando. Questa misteriosa attesa così unicamente Amore...
Tutto era pronto. Perchè le nostre anime erano pronte. L'ultima sera abbiamo sellato i cammelli. Sentivamo la terra come quando, al mattino dopo, sboccia la primavera. Qualcosa d'imminente. La pienezza dei tempi.
E quella notte non ci ha sorpresi, Signore, l'apparire della tua stella misteriosa e strana e bellissima, lassù e dentro l'anima nostra.
Siamo saliti sui nostri cammelli e abbiamo preso la strada del deserto, con dolce serenità, come se fossimo in viaggio da sempre.
E' facile venirti dietro, Signore, quando è da anni che si è ad aspettarti e da millenni ci gonfia il cuore il bisogno di Te.
La strada è stata lunga ma forse anche breve, forse nemmeno si è stati in cammino giorni e notti senza fine, perchè andare in cerca di Te e sapere che Tu ci sei è già come averti trovato, è già come possederti.
Perchè a Gerusalemme quei sacerdoti sapienti che leggevano grossi libri e sapevano tutto di Te, fino a conoscere il luogo esatto dove eri nato e il tempo preciso, non Ti cercavano affatto? Ci sembrò perfino che nemmeno Ti aspettassero, eppure sapevano tutti di Te.
Ti confessiamo, Signore, che è stato il momento più penoso, quasi di smarrimento, e abbiamo sentito come assurda quella fatica di tutto il viaggio.
Forse, Signore, ora che ci pensiamo, hai spento a quel punto il miracolo della tua stella perchè fossero quei tuoi sacerdoti del tempio a guidarci da Te? Ci dispiace, ma loro ci dissero soltanto parole.
Una povera casetta. Una Mamma. Un Bambino. I vicini non sapevano nulla. Ma la stella brillava di luce infinita su quella povera casetta e nell'anima nostra. E luce splendeva intorno a quel Bambino, uguale alla luce del primo giorno del mondo.
Ti abbiamo deposto ai piedi, Gesù, i nostri doni. Non erano qualcosa, erano tutta la nostra ricchezza. E con noi abbiamo portato nella nostra terra il tesoro della Tua povertà. Poveri siamo ritornati, ma infinitamente ricchi di Te.
(Vangelo di Mt. 2, 1-12)
A un pranzo in uno splendido paesino, meraviglioso come un nido di rondini, il giorno dopo Natale, sono venute fuori discussioni strane ma anche interessanti.
Non so se avete notato come sia piacevole parlare di cose serie quando si è a tavola imbandita, insieme ad amici o a persone importanti.
Si mangia molto, sia pure con molta eleganza disinvolta, si beve assai per fare festa e si parla con un gusto matto di cose importanti. E il discorso viene giù come da un mondo di sogno, si ascoltano le proprie parole assai più di quelle degli altri e succede generalmente che si parla quando gli altri masticano e gli altri parlano quando noi si mastica e durante questo alternato ora a me e ora te, grandi cose vengono dette capaci di affrontare ogni problema e risolvere tutto, da essere meravigliati che tutto in fondo sia così facile e semplice.
Anche perchè poi uno può sempre sfogarsi, se il discorso non fila come vorrebbe, con un coscio di pollo e inghiottire ogni cosa aiutandosi con bicchieri di vino, produzione locale, quindi sicuramente non sofisticato.
Ma non voglio scrivere del pranzo e nemmeno del dolce e spesso violento conversare, anche se sarebbe molto interessante, perchè uno dei vantaggi dei pranzi (deve succedere anche a quelli ufficiali fra personaggi importanti) è quello di rendere in quel clima di intimità che si stabilisce, più scoperti e quindi più veri, più sinceri, i commensali.
Cadono le difese, da dopo gli antipasti a poco per volta ci si affaccia timidamente al disopra della trincea, all'arrosto gli invitati già si sorridono cordialmente nonostante i gravi discorsi e allo spumante si stringono la mano come buoni amici di sempre nonostante le sfumature rimaste per idee diverse, ma in fondo non proprio contrastanti.
Dopo un pranzo simile non possono non avvenire effusioni di cordialità e si scoprono terreni comuni veramente insospettati.
Ci eravamo finalmente alzati da tavola e un confratello mi diceva, disapprovando apertamente perchè era una vergogna marcia, qualcosa d'insopportabile, di nauseante (dopo i pranzi tutto è visto in modo estremo, eccessivo, superlativo), che certa gente, specialmente i nuovi aristocratici arrivati alla commenda a suon di quattrini e di appoggi più o meno comprati, quando fa un'opera buona la strombazzi a tutti i venti, suonando la tromba fatta di giornali.
E mi raccontava di aver letto sopra la cronaca di un quotidiano di un personaggio della nostra città che in prossimità del Natale, un mattino si doveva essere alzato bene. E in vena di opere buone, assaporando il dolce clima natalizio, ricordandosi di essere un buon cristiano e persona sensibile verso i poverelli e gli orfanelli, aveva dato ordini di stanziare una somma: 20.000 lire da dividere in parti uguali agli orfanatrofi, poveri vecchi, istituzioni di beneficenza ecc. Insieme aveva dato disposizioni perchè il tutto apparisse sulla cronaca cittadina, evidentemente per offrire buoni esempi all'imitazione dei volenterosi di opere pie.
E' una vergogna, gridava il confratello. E io dicevo che era vero, però azzardavo a dire, rifacendomi a troppa esperienza passata, che molta colpa di questa stupida mentalità era nostra. E' storia vecchia il sollecitare offerte, solleticando la vanità e l'amor proprio dei nostri fedeli cristiani.
E mi rifacevo, così, molto ingenuamente, ai Vangelo. La mano sinistra non sappia cosa fa la destra. Che non bisogna suonare la tromba agli angoli delle strade quando si fanno opere di carità, ecc.
Consensi, approvazioni, tutti d'accordo a condannare quel povero Commendatore Cavaliere Grand'Ufficiale delle 20.000 lire spiattellate sulla cronaca del giornale.
E il confratello mi diceva che questa era una battaglia da combattere sulla Voce dei poveri: perchè è l'ora che certe vergogne spariscano, disonorano il Cristianesimo...
E ci siamo avviati alla Chiesa. Si avvicinava l'ora dei Vespri Solenni a conclusione della festa in paese.
Erano state inaugurate quel giorno e splendevano alla luce fredda di quel povero sole invernale le nuove porte della chiesa. Laminate in bronzo martellato con magnifiche, anche se un po' funeree borchie dorate, con battenti a teste d'angelo a sbalzo, erano piuttosto belle.
Convenevoli, rallegramenti, congratulazioni col Parroco sfavillante di giusta gioia per un lavoro necessario fatto alla chiesa e interamente realizzato, diceva con compiacenza, con le offerte spontanee dei parrocchiani.
Siamo entrati e a sinistra, li, appoggiato, ani sembra, ad una colonna, bisognava guardare per forza un gran quadro con su scritti a grossi caratteri nome e cognome e relativa cifra dei buoni parrocchiani offerenti.
Non ho detto niente, ho fatto finta di non vedere, ma non ho potuto fare a meno di pensare che il Commendatore Cavaliere Grand'Ufficiale delle 20.000 lire ha imparato in chiesa a suonare la tromba fatta col giornale per annunciare al mondo le sue opere buone.
un prete
Erano oltre le 13 dell'ultimo dell'anno. Si stava tornando a casa dopo lunghi giorni passati in ritiro in un vecchio convento francescano da qualche anno di proprietà di suore. Le meditazioni erano state lunghe e faticose in quella tormentata ricerca della Verità. E la ricerca della Verità nel mistero della vita umana ci aveva portato alla Verità che è Dio e alla Verità di Dio che è Gesù. Approfondendo la verità cristiana, particolarmente impegnata e seria e conturbante era stata la meditazione sulla povertà.
E a pensare certe cose si rimane come affascinati dalla loro logica, ma anche nello stesso tempo sgomentati dalle difficoltà nate da quella stessa logica,, fino all'impressione che la Verità scoperta e capita e amata più della propria vita sia come irraggiungibile, quasi come impossibile.
Allora la gioia della Verità a poco a poco matura tristezze strane che pesano terribilmente sul cuore. E nasce il bisogno, l'urgenza di qualcosa (qualsiasi cosa) che sia dimostrazione che quella Verità è possibile. "Eccola qui viva e vissuta. Mi è stato dato di viverla, di farne esperienza. E' esistenza chiara e precisa"...
E' Grazia ogni volta che qualcosa di questo mondo contenga e sia una briciola di Verità o almeno indichi, o faccia se non altro pensare, in modo diretto e immediato, alla Verità, quella Verità che nella Fede crediamo realtà assoluta, valore essenziale.
E' miracolo quando questo succede.
Dovevamo aspettare ancora un po', prima di poter partire, nella piazza della Cattedrale, nell'aria grigia, bagnata, pesante di quell'ultimo giorno dell'anno.
Ci siamo messi a recitare, da buoni preti, il Breviario, in quel modo così staccato, quasi aristocratico, come è il recitare il Breviario passeggiando avanti e indietro.
Appena, appena fuori dei pochi gradini davanti al pronao della Cattedrale. Passeggiando così, avanti e indietro, gli occhi sul libro, «sentivamo» a vicenda, ora l'uno ora l'altro, da una parte la solennità stupenda del gotico della Cattedrale, dall'altra gli autobus in arrivo e in partenza, con la folla impaziente d'intorno.
Dall'arcata di fianco è entrato un uomo. Andava verso l'entrata laterale a destra della facciata. Ma arrivato a metà si è rivolto verso di noi, scendendo i pochi scalini davanti ai grandi pilastri delle arcate ricamati come merletti preziosi.
Aveva un cappotto quasi nero, aperto, e gli ciondolava di qua e di là, molto lungo. Dentro una delle due grandi tasche si vedevano pezzi di pane. Capelli non tagliati da un pezzo, brizzolati, un volto magro e colorito. Avrà avuto cinquant'anni, camminava un po' curvo, trascinando un po' i piedi come la gente di montagna.
Ci siamo fermati e mentre si avvicinava abbiamo immediatamente pensato all'elemosina. Ecco un poveraccio che alla vista di due preti non si lascia scappare la buona occasione. Pazienza, Non sempre mi riesce essere felice per questo essere abbordato senza via di scampo. E ripensandoci dopo mi sono ricordato di essermi leggermente indispettito dentro di me.
Invece quell'uomo ci ha fatto uno splendido sorriso, ma proprio cordiale, gli lustravano gli occhi di gioia (due preti motivo di gioia così radiosa!) e ci ha domandato se sapevamo se anche per il giorno dopo vi sarebbero state le Quarant'ore in Cattedrale, «perchè una visitina al Padrone bisogna farla, è un dovere».
Abbiamo dovuto confessare che non sapevamo nemmeno che in Cattedrale vi erano le Quarant'ore. Ma lui non si è sorpreso, ha continuato a raccontarci che era in città per lavoro, veniva da un paese di montagna, e ogni giorno faceva di tutto per venire a trovare il Padrone e parlava del Padrone con una gioia dolcissima, sorrideva felice e gli splendevano sempre più quegli occhietti furbi e vivaci.
Allora io per riparare il disagio interiore di quella storia dell'elemosina, vedendo i pezzi di pane in tasca, gli andavo domandando se aveva bisogno di nulla, ma lui diceva che era contento di lavorare e se ne stava tranquillo, tanto c'era il Padrone che ci pensava... Si è scusato di averci disturbato; ma era felice di avere parlato con due sacerdoti e con quel cappotto penzolante di qua e di là n'è andato, trascinando i piedi, a stare un po' col suo Padrone.
E' stato tutto come una visione. E siamo rimasti col Breviario in mano sgomenti. Perchè avevamo visto la Povertà: quella di cui si era tanto parlato il giorno avanti cercando con tanta fatica di capirne qualcosa.
Abbiamo smesso di recitare il Breviario all'intellettuale e siamo andati anche noi a inginocchiarsi davanti al Padrone, chiedendogli che ci insegnasse a essere poveri .fino al punto che Lui fosse il Padrone, perchè questa è la Verità.
E ci dava speranza sapere che in un angolo di ombra in quel buio diffuso e buono della Cattedrale la Povertà pregava insieme a noi.
* * *
E' stata una gran gioia ieri sera, mentre davo un'occhiata al numero di gennaio, di "Informations catholiques internationales" scoprire, a conclusione del tema di questo numero «L'Homme du XX° Siècle», sull'ultima pagina, quella interna della copertina, un breve articolo, intenso e appassionato, di Mons. Iriarte, Vescovo di Reconquista in Argentina.
Di colpo ho rivisto la sua figura semplice e schietta. Aperta e incisiva
Mi viene da scrivere che siamo amici. Due anni fa, in un giro in Europa in cerca di sacerdoti e seminaristi per la sua diocesi (immensa, sterminata e con pochissimi sacerdoti, 30 in tutto compreso il Vescovo), passò una sera qui in casa mia. L'amico fr. Arturo Paoli, che vive in una fraternità di Piccoli Fratelli, sperduta nella sua diocesi, gli aveva dato il mio indirizzo. Intorno a lui quella sera si radunarono alcuni amici di fr. Arturo e il Vescovo parlò della sua diocesi, della fraternità dei Piccoli Fratelli e naturalmente di fr. Arturo con entusiasmo e con la gran gioia di averlo nella sua diocesi. Ma volle fare anche una passeggiata in Darsena, volle vedere un cantiere di costruzioni navali e si parlò a lungo del problema preti operai: a quel tempo la piaga era ancora molto aperta.
Ci siamo rivisti la domenica di dicembre avanti la conclusione della prima sessione del Concilio Ecumenico perchè prima di ripartire per l'Argentina ha voluto salutare e trattenersi un po' con gli amici di fr. Arturo e questa volta proprio nella sua città a Lucca.
Sono stato felice di trovarmi con lui insieme al nostro Vescovo Ausiliare perchè è una gran gioia trovarsi accanto a due Vescovi capaci di farti sentire la vitalità aperta, serena e coraggiosa della Chiesa del Concilio Vaticano II.
Un'immensa simpatia per questo Vescovo venuto dalia pianura sterminata della sua diocesi argentina, carico di problemi della sua povera gente così vicina al suo cuore come la Croce pettorale di Vescovo, fatta di legno duro della sua terra, ormai povera anche di alberi e di foreste.
Ho tradotto, così alla buona, la pagina di Informations Catholiques, perchè qualcosa di quest'anima di Vescovo, in ansia per problemi così alla radice della Chiesa in ricerca di viva testimonianza cristiana nel nostro tempo, passi anche nell'anima nostra e svegliarci dentro doveri di sincerità e Verità.
don Sirio
«Beati i poveri»! Io penso oggi alla povertà e alla semplicità visibile della Chiesa come condizione per far «entrare» il suo messaggio.
Il messaggio della Chiesa è sempre stato, e sarà messaggio di pace, di verità, d'Amore, di speranza e di volontà di servire.
Ma io penso: quanto è difficile per noi, poveri Vescovi della Chiesa di Cristo del XX° secolo, di fare accettare questo messaggio che, per la sua origine, è fondato nella povertà dell'Incarnazione, dalla mangiatoia alla Croce, annunciato da un lavoratore che viveva senza nemmeno una tana come le volpi, che lavava i piedi di quelli che chiamava suoi amici, che si esprimeva nel linguaggio familiare della dramma perduta; messaggio destinato al giorno d'oggi a degli uomini di vita proletaria dei quali il 65 per cento hanno fame, dei quali gran parte vive in case inospitali, inabitabili, in baracche. A uomini che si chiamano fra loro «camerati» e sono abituati al linguaggio incisivo e immediato dei loro dirigenti, alla sobrietà delle linee dei loro grattacieli, dei loro aviogetti e ai pantaloncini dei loro capi militari quando passano in rivista; e noi continuiamo ad annunciare questo messaggio dall'alto dei marmi dei nostri altari e dei nostri «Palazzi» episcopali, nel barocco incomprensibile delle nostre Messe pontificali, con quegli strani ondeggiamenti (ballets) di mitre, con il frasario ancora più strano del nostro linguaggio ecclesiastico e in altre occasioni ci presentiamo davanti al nostro popolo rivestiti di porpora, in una macchina ultimo modello o in vagone di prima classe, e questo popolo ci viene incontro chiamandoci «Eccellenza Reverendissima», mentre piega il ginocchio a baciare la pietra del nostro anello!
Liberarci da tutte queste tonnellate di storia e di usanze non è cosa facile. Guai ai semplicisti che non vedono mai difficoltà in niente Bisogna stare attenti allora a respingere o a proporre soluzioni troppo facili.
Signore, possiamo noi, nell'umiltà, nella povertà e semplicità di cuore, nella preghiera e sotto la protezione di Tua Madre, possiamo noi ottenere da Te tutto il tesoro di luce e di coraggio necessario perchè la Chiesa trovi il suo cammino, in questo nostro XX° secolo, e sia capace di realizzare con semplicità l'ideale che il tuo umile figlio Giovanni le ha proposto: Che essa sia «la Chiesa dei poveri»?
Giovanni Giuseppe Iriarte
Vescovo di Reconquista (Argentina)
8 dicembre - Sono stata a Messa nel paese qui vicino, dove non si prendono le moderne e necessarie iniziative per la spiegazione della liturgia durante il rito. La Messa è trascorsa mentre il sole invadeva la bella architettura rinascimentale e la gente, molti contadini, era quasi assente a quanto avveniva sull'altare. Comunque questa mezz'ora di silenzio, in cui si pensa a Dio, ha pausato e segnato l'esistenza di ognuno. Potremmo rivedere i ricordi della nostra vita scorrere nel susseguirsi di queste mezz'ore settimanali,
E' per questo che le Chiese sono affollate anche se pochi capiscono la liturgia della Messa.
15 dicembre - Per un banale incidente la mia Francesca ha dovuto subire un piccolo intervento. Da un momento all'altro ci siamo trovati fuori dalle consuete abitudini quotidiane, in una sala operatoria. Io ho aspettato fuori, dietro la porta.
Sono momenti in cui o si bestemmia o si entra molto dentro l'economia divina delle cose.
23 dicembre - Siamo in montagna. Solo la montagna, in mezzo a tanta varietà della natura, ha un vertiginoso potere di raptus. Ci si sente strappati e rapiti dove regna l'Assoluto, l'Essere infinitamente libero e sciolto da ogni contingenza.
Natale - Quassù non intorno ad alberi posticci o festoni decorati è la poesia del Natale. Le piante scarnite ed essenziali alzano al cielo l'attesa della terra purificata e candida, nel sole è una luce immensa che innalza i monti e dietro le stelle trepidano gli Angeli. Le case ne ricevano l'annunzio sotto i tetti bianchi, raggruppate lungo la valle felpata e silenziosa.
Capodanno '63 - La vita di ognuno è lanciata nell'avventura della libertà ma al centro d'ogni esistenza c'è il Cuore di Dio, che in sistole e diastole dalla legge misteriosa, attira e lascia con impulsi della portata imprevedibile.
Tutto il 1962 è stato un circolo di dodici lunghi mesi dolorosi, ora all'improvviso il Suo Cuore mi riafferra e mi rinsangua. Per l'anno nuovo posso cantare, con il vecchio Simeone: «Ora, o Signore, lasciami, andare in pace, secondo la tua parola. Poiché i miei occhi hanno veduto la tua salvezza».
Grazia Maggi
Un giorno così mi disse una donna: Io amo le creature: mia madre e i miei figli, il mio sposo; ed anche altre buone umili grandi o infelici anime. Questi esseri mi sono vicini, affini, sono aderenti a me, simili a me: i miei figli, poi, sono usciti da me, sono la mia stessa carne, sono, per così dire, come altrettanti parti del mio cuore.
Se amo dunque, in tutti questi, il mio prossimo, io non ignoro ciò che amo. Ma Dio! Chi è Dio! Io mi sforzo, sì, di amarlo, ma sento o che vagamente lo amo, o che lo amo dopo le creature, o che addirittura non l'amo. E allora io, di nuovo, dolorosamente mi chiedo: Chi è Dio? E più vi medito sopra e più il Suo vero essere, che pur tutto riempie, mi sfugge. Mi dicono, so, credo che Iddio mi ha creata; ma sono io forse della Sua stessa natura? Anzi, paragonata a Lui, neppur sono, se Lui solo (come dicono, e così dev'essere) infinitamente è. Ora, come posso io percorrere, da sola, quella - tra me e Lui - sì sterminata distanza?
Ed io: «Non da sola » potrete, ma con lui sì. «Solo con Dio si va a Dio». Essa pareva non intendere. Dopo un poco le chiesi: «Qual'è il nome umano di Dio?». E, pensato ch'ebbe un momento, rispose, "Gesù". E il suo volto, già bello, le si fece ad un tratto bellissimo. E sentì allora, quella nobile creatura, di averlo già il Dio che cercava, nel cuore; e da quell'istante fu certa, come più tardi mi disse, di amare, nel Verbo Incarnato, tutte le creature che amava.
Domenico Giuliotti
(da un'antologia de il frontespizio a cura di Luigi Fallacara)
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