Per quelle pubbliche preghiere di preparazione, per il pellegrinaggio del Papa a Loreto e Assisi, per le solennità diocesane intorno ai Vescovi, se ne è parlato e scritto molto nei nostri ambienti cattolici del Concilio Ecumenico, iniziato finalmente con particolare grandiosità, 1'11 di questo mese.
E si sente per aria un clima assai ravvivato e acceso. Una trepidazione assai fatta di Amore. Un'attesa rispettosa e consapevole, veramente vigilante e attenta.
Viene in mente di guardare alla Basilica di S. Pietro come a un campo arato di fresco. Terra buona e novella come si vede ora d'ottobre e novembre: macchie scure e vive e in pace, assettate con cura, fra le vigne rosso viola ingiallite, morte, ormai senza frutto. Viene da pensare ai Vescovi, chiusi nel segreto e nel mistero; come al buon grano deposto dalla speranza sotto la terra buona e novella del campo.
E adoro la paraboletta, così breve eppure così infinita, raccontata da Gesù per incoraggiare la nostra attesa e sostenere la nostra speranza: «Il Regno di Dio è come un uomo che abbia gettato il seme sotto terra: che dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme spunta e cresce, senza che egli sappia come. Poiché la terra produce da sé, prima l'erba, poi la spiga, poi il grano pieno nella spiga. E quando il frutto è pronto, subito egli mette mano alla falce perché la messe è matura.» (Mc. 4, 26-29).
Inverno lungo questo nel campo della Chiesa e non mancherà il freddo e la neve a ricoprire la terra. Scroscerà la pioggia a giornate intere nebbiose e pesanti, a raffiche violente per venti di burrasca. Il grano è sotto terra ravvolto di silenzio, nell'ombra di una morte necessaria. Ma è vivo e visibile e rompe le zolle indurite dal gelo e spunta nuovo come la prima volta.
Sarà quanto prima pane profumato, caldo di forno e saporoso di buon grano e potremo tutti saziare la fame, se saremo affamati.
Pensiamo che durante lo svolgimento del Concilio sia doveroso da parte di tutta la Cristianità realizzare un clima di Fede. Fede seria, profonda, consapevole, attiva.
Il Concilio Ecumenico nel suo svolgersi a Roma e nel suo avvenire e fruttificare nella Cristianità e nel mondo, ci chiede questa Fede, questa partecipazione coraggiosa a tutto il suo fatto soprannaturale e divino.
Non possiamo stare a guardare alla Televisione ciò che succede in S. Pietro e dintorni ed esaurire la partecipazione al Concilio a base di curiosità. E nemmeno possiamo limitarci a leggere quello che i quotidiani o i settimanali illustrati ammanniscono ai lettori.
Non può bastare l'aver fatto la novena allo Spirito Santo e recitato la preghiera per il Concilio.
Pensiamo che sia il tempo, questo, di ravvivare un clima di Fede formidabile. E non solo credere che lo Spirito Santo è là a guidare, illuminare, ecc. i Vescovi e il Papa chiusi in S. Pietro. In fondo non ci vuole molto a fare questo atto di Fede al quale siamo abituati. Ma credere che lo Spirito Santo in questo periodo conciliare, mentre e perchè la Chiesa è impegnata nel cercare ancor più attivamente il Regno di Dio, è di più nel mondo, è diffuso maggiormente su tutta la faccia della terra, è più presente fra gli uomini.
Quando lo Spirito Santo è sceso sugli Apostoli nel Cenacolo per la Pentecoste, è sceso, è venuto nel mondo, è entrato nella storia, si è riversato dovunque, ha colmato l'umanità e riempito per così dire le case e le strade fino al punto che poi la pienezza di Spirito Santo degli Apostoli era tutta nel raccogliere la sovrabbondanza di Spirito Santo di cui l'umanità era colmata.
Adesso, perchè la Chiesa è riunita in comunione aperta di valori umani e specialmente e in modo perfetto in comunione di realtà soprannaturali, tutta protesa alla Verità, tutta pronta all'Amore come una vergine sposa nel chiuso della casa, Dio è di più nel mondo.
Il Concilio lo ha chiamato, Dio, con quasi sacramentale potenza, perché «...il Suo Spirito abbia ancora a creare e renda nuova la faccia della terra».
Il nostro atto d; Fede è accorgerci di questa Presenza nel mondo, scoprire la Sua forza fra gli uomini, fare esperienza della Sua luce e conoscere la violenza del Suo Amore.
Dio è accanto a noi, dentro ciascuno di noi in modo eccezionale, durante il tempo del Concilio. E' più vivo nelle realtà umane e più pressante e costringente è la Sua Presenza fra noi.
Qualcosa è più acceso e brucia. La città è più scoperta sul monte. La luce è più alta e splendente. Il lievito urge più violento dentro la massa della pasta. Il sale ha sapore più ardente...
Perchè il Regno di Dio è vicino, è alle porte. E' dentro di noi.
E' tempo di Grazia questo.
Perché «la scure è posta alla radice degli alberi e ogni albero che non fa buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco» (Mt. 3, 10). «Il ventilabro pulirà bene la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia nel fuoco inestinguibile» (Mt. 3,12).
La paura dì S. Agostino perché Dio poteva passargli accanto e poteva non vederLo.
E' la paura per questo nostro tempo in cui Dio è fra noi, passa accanto a ogni cuore, a gruppi d'esistenza, a classi sociali, a popoli, a tutta l'umanità: possiamo non vederLo, nemmeno accorgercene. Il problema del Concilio è solamente uno, in fondo: l'indifferenza, il vuoto nei confronti dì Dio. Gli uomini, l'umanità che non ha bisogno di Lui, che non lo cerca perchè è senza fame e senza sete, senza tormento di Lui.
Viene da pensare con punte di nostalgia ai tempi di lotta e di angoscia popolare per problemi di Verità e di Fede.
Se il Concilio non è vivo e vivente nella nostra carne e nel nostro sangue, se non è motivo di sofferenza angosciosa e trepidante, se non ottiene partecipazione personale come qualcosa di vitale per ciascuno di noi e non costringe a cercare Dio con Fede aperta e coraggiosa dentro questo nostro tempo e fra gli uomini che ci vivono accanto e dentro e sotto le coperture della nostra civiltà, a poco serviranno le sessioni conciliari dietro le porte di bronzo di S. Pietro a Roma.
Il Concilio sta avvenendo nel nostro cuore, nella nostra anima. Nelle case e nelle piazze. Nelle città e nelle campagne. In ogni angolo della terra. Perché lì è Dio, lo Spirito Santo a fare il Regno dei Cieli. E lì è la Sua misteriosa fatica a fare di una strada, di una terra spinosa e sassosa, terra vangata e arata e pronta perchè il buon seme raccolto a Roma dalla fatica del Papa e dei Vescovi, possa essere seminato e portare dove il cento, dove il sessanta e dove il trenta di frutti. (Mt. 13, 3-8).
Dio chiederà conto alla nostra generazione, nel dì del giudizio, di questo Concilio Ecumenico. Alla nostra generazione e a ciascuno di noi.
La Redazione
II Concilio Ecumenico mi impone come dei misteriosi, profondi, vastissimi e anche terribili esami di coscienza. Già prima di conoscere le linee di questo riesame generale circa i nostri rapporti con la Fede e quindi con Dio, Gesù Cristo, la Chiesa, la Cristianità, elaborate dai Padri conciliari, prima ancora di capire quali sono i problemi fondamentali secondo le indicazioni ufficiali e le soluzioni proposte da Chi ne ha tutta l'autorità, sento il dovere, alla luce della mia pur povera e ristretta esperienza e secondo il mio modo di vedere e di sentire, anche se limitato e difettoso, di rivedere un po' la mia impostazione religiosa, cristiana, sacerdotale. E non solo la mia problematica religiosa, ma anche tutta quella nella quale io sono inserito e che comporta per me dei rapporti.
Il Concilio segna indiscutibilmente una tappa della storia della Chiesa. E' un punto di arrivo e quindi costringe a una sosta per tutto un ripensamento.
Vi è un cammino di secoli da rivedere punto per punto. Prospettive e scelte da riesaminare per riviverle nel loro momento storico in modo da valutare le maturazioni ottenute o meno. I motivi, le cause che hanno interferito. Gli andamenti che hanno imposto rotte imprevedute e imprevedibili. Conseguenze e risultati ecc.
E" un problema enorme. Forse eravamo dispensati dal considerarlo attentamente mentre si continuava ad andare avanti, spinti dal dovere di non fermarsi nemmeno a guardare indietro e da una fiducia che il cammino era giusto, o almeno sembrava giusto, ma il Concilio ha imposto una pausa, la Chiesa ha comandato di fermarci.
Eccoci qui aggruppati a un incrocio, fermi in una spianata lungo il dorsale massiccio della montagna o smontati dalle macchine arrestate ai margini della strada o scesi a una stazione ferroviaria.
Il lungo pellegrinaggio della cristianità, cammino verso la terra promessa che è il Paradiso, sosta. Ma non è per riposo e tanto meno per misurare la strada fatta, per compiacersene, o quella che rimane da fare per incoraggiarsi.
E' una sosta per prendere coscienza del proprio cammino.
Bisogna esaminare l'esistere cristiano in questo nostro tempo. C'è da rivedere la presenza della Chiesa nell'umanità di adesso. E' doveroso scoprire la possibilità dì nuovi rapporti forse più rispondenti. E' giusto conoscere meglio questa nostra età e la nostra terra.
Bisogna ascoltare la voce di Dio nelle sue indicazioni: ve ne possono essere di nuove. E forse è bene fermarsi a leggere con calma qualche pagina del Vangelo. Vi è anche un gridare, un vociare, un vociare confuso il più delle volte, ma spesso anche chiaro e distinto, che è pur doveroso ascoltare e meditare: vi possono essere distinte voci richiedenti qualcosa che va raccolto e meditato seriamente.
E nuove realtà, nuove esperienze, nuovi problemi o almeno in prospettive nuove l'eterno problema umano in tutta la sua complessità aggravata in questi ultimi tempi: tutto va rivisto, esaminato, considerato perchè tutto è problema di Regno di Dio e di salvezza e di redenzione.
I Vescovi si sono fermati. Sono fermi a Roma e per molto tempo. Anche i loro greggi sono fermi. Tutta la Chiesa sosta a questa tappa del Concilio. Il mondo cattolico, e in qualche maniera tutta la cristianità, è come col fiato sospeso in attesa.
Ma ognuno deve guardare la situazione generale e particolare con generoso impegno. E' tempo di studio profondo. Di seria meditazione, Di revisione sincera. Di preghiera fervente.
Il problema, meglio il Mistero del Regno di Dio nel mondo. In questo nostro mondo diviso e pericolante. Problematiche a dimensione universale: mi devono entrare nell'anima, devo scoprirle, devo soffrirle. Perchè basta che la salvezza della mia anima sia tutto il mio problema religioso. Devo cominciare seriamente a mettere le spalle sotto il peso tremendo della salvezza di tutti gli uomini, perchè devo decidermi a mettere le spalle sotto la Croce di Gesù e non portarla soltanto al collo a crocetta d'oro.
Il Regno di Dio qui, sulla mia terra. La Chiesa in Italia. Il dramma della religione e della politica. Le mentalità correnti sul piano intellettuale e di costume. Il servilismo piatto e ottuso e inutile e lo sfruttamento furbo e disinvolto nei confronti della Chiesa. Il risveglio necessario, le strutture più indicate, le novità più generose. Vi sono problemi presso di noi, da piangere di tristezza e ce ne stiamo allegretti, contenti di manifestazioni di massa.
Bisognerebbe in questa sosta del nostro cammino religioso non approfittarne per dormire più comodamente in una passività spaventosa, da incoscienti. Il Concilio è tempo di estrema, seria e coraggiosa sincerità: almeno in questo bisogna seguirlo e approfittarne.
C'è la mia diocesi. C'è la mia città. E poi il mio impegno personale: come risulta costruita la mia Fede. La validità della mia presenza cristiana e sacerdotale. L'autenticità della presa in carico da parte mia di tutto il Mistero del Regno di Dio. La misura del mio essergli consegnato.
I tradimenti fin qui. Le evasioni. I giri a largo. E le mentalità costruite artificiosamente. La paura di vedere le cose come sono e quindi il rifarmi guardando soltanto da una parte. I sacri egoismi. Personali e di gruppo e di classe. Noi e gli altri. Separazioni e allontanamenti. Riserve di caccia e di pesca. Proprietà privata. I nostri. La mia chiesa. I confini al cuore e anche alla preghiera, ecc. ecc.
Roba da matti.
Dovrei fare nella mia zolla di terra e nel mio campo, nella mia fattoria e nella mia tenuta tutto quello che il Papa e i Vescovi stanno facendo in relazione a tutta la terra.
Perchè così vuole sicuramente il Concilio. Per questo la Chiesa ha comandato a tutti di fermarci e rivedere di riconciliare con l'unica Verità di Dio e di Gesù e della Chiesa, la nostra Verità sicuramente annebbiata, deformata e forse un po' o anche assai invecchiata.
Questo inverno è troppo prezioso. Bisogna dissodare la nostra terra, zappare con coraggio il campo, strappare le erbe cattive. Potare bisogna la vigna e concimarla e rassettarla.
E questo lavoro di zappatura, di dissodamento, di potatura lo devo fare io, lo dobbiamo fare noi, altrimenti a primavera il Concilio Ecumenico sarà senza fioritura e quindi senza frutti.
don Sirio
Preghiere per il Concilio Ecumenico
Eravamo appena svegliati dal sonno della notte e ancora le imposte erano chiuse alla prima luce del giorno e Tu sei venuto a bussare alla nostra porta per offrirci di lavorare sul tuo campo. Ti abbiamo detto di sì mentre siamo usciti sulla strada e abbiamo preso la zappa: siamo andati fra i filari della vigna. La rugiada fresca del mattino ci bagnava le mani: era appena l'ora in cui l'aria schiarisce a oriente, le ombre bianche di nebbia sottile coprivano ancora i campi.
E noi ci eravamo già seduti sulle pietre diacce della piazza. Abbiamo guardato in giro uscendo di casa dopo la pigrizia dell'alzarci inutile dal letto, ma nessuno era in giro a cercare braccia da lavoro. Un'altra giornata a vuoto, inutile, pesante di afa e di noia.
Poi sei passato Tu attraverso la piazza. Forse non cercavi nessuno, ma ci hai visti quando ci siamo voltati a guardati senza speranza. Ti sei avvicinato e ci siamo alzati in piedi, forse per farti vedere braccia inerti eppure pronte al lavoro. Non ti abbiamo detto parola, ma Tu ci hai come comandato di andare nella tua vigna: ci avresti dato, hai aggiunto, «quel che sarebbe stato giusto».
Il sole era già alto e la terra era dura e già tanto riarsa: ai primi colpi di zappa il sudore già ci colava dalla fronte.
Gli altri al vederci si sono alzati di sopra ai filari a guardarci: erano già ore di lavoro e avevano la schiena piegata. Ci siamo salutati con la mano levata e poi soltanto zappe terrose e schiene ricurve si vedevano nella Tua vigna.
Ogni tanto poi qualcuno ancora arrivava, ma sempre più era difficile accoglierli nella nostra fatica: noi eravamo morti di stanchezza e loro, freschi com'erano, imponevano un ritmo di lavoro impossibile per noi. Quella terra dura, argillosa e quel sole spietato ci avevano fiaccato.
No, non li abbiamo accolti bene gli ultimi arrivati. Già la vigna si era accesa di rosso dorato, l'azzurro violento del cielo si raddolciva e una brezza leggera quasi rabbrividiva il sudore sulla schiena. Il sole stava calando rapidamente: hanno fatto appena in tempo a prendere le zappe. E' stato un gioco il loro, null'altro che un gioco da bambini.
Li abbiamo guardati male subito: non avevano lavorato, loro. Che cosa erano venuti a fare?
Ti confessiamo che ci è perfino sembrato che si burlassero di noi quando uscendo dai filari, ci siamo trovati insieme sulla strada incamminati alla fattoria.
E loro sono rimasti, soli, indietro. Non li abbiamo voluti con noi. Non avevano lavorato, loro. Non erano sfigurati dal terriccio e sudore. Non avevano le braccia troncate, le mani indurite e la schiena dolorante.
E' stato terribile quando - eravamo lì in disparte a guardare per vedere un po' come andava a finire - quando hai dato pure a loro, come a noi, un denaro.
E' vero, ci siamo ribellati. Abbiamo gridato all'ingiustizia. Ti abbiamo odiato, Tu e loro.
Perdonaci.
Non ci siamo nemmeno ricordati, in quel momento, che spesso, durante la giornata, ci siamo accoccolati all'ombra dei pampini freschi e qualche volta, quando Tu eri assente, siamo perfino usciti dalla vigna a distenderci sotto gli alberi del bosco. Abbiamo perduto ore di lavoro, Signore, ma è così facile non considerare i propri torti!
Vedi, Signore, noi non abbiamo il Tuo Cuore. Noi pensiamo soltanto a noi e l'egoismo ci può anche spingere, qualche volta, a cercare la giustizia, ma c'impedisce sicuramente l'Amore.
Non badare a noi, Gesù, chiama chi vuoi e a qualsiasi ora. Chiama pure anche in questo momento. Fai venire operai a seminare dove noi abbiamo zappato, a mietere dove noi abbiamo seminato, a raccogliere dove noi abbiamo faticato.
A noi riserva pure il caldo e il peso della giornata: il nostro lavoro è lavoro anche per chi arriva in ritardo, perfino per chi viene nel campo al calare del sole. E Tu puoi dare anche a loro un denaro perché sei buono e perché abbiamo lavorato noi anche per loro.
In fondo hai ragione: quello che interessa a Te e a noi non può essere altro che la vigna fiorisca a primavera e sia dorata di grappoli maturi e sovrabbondanti in autunno.
Ci sono voluti secoli per capire, ma adesso abbiamo capito e abbiamo accettato: tutti, Signore, tutti veramente sono lavoratori della Tua vigna, quelli che Tu hai chiamati: le ore di lavoro non contano, ciò che importa è che abbiano risposto di sì alla Tua chiamata.
Allora i primi possono essere gli ultimi e gli ultimi primi, perché questo scambio non è che Amore fra noi davanti a Te, unico Amore.
(Vangelo di Matteo, 20, 1-16)
Perchè tu mi ami malgrado la mia indegnità!
Perchè io Ti amo malgrado la mia miseria!
Perchè posso qualche volta farti amare malgrado il mio nulla
Perchè posso soffrire per Te malgrado la mia debolezza
Perchè Tu rimani nel Tabernacolo malgrado l'abbandono in cui sei lasciato
Perchè la Tua presenza nel mio cuore illumina la mia vita
Perchè Tu sei la mia forza nelle imperfezioni della mia anima
Perchè Tu sei la mia consolazione nelle pene del mio cuore
Perchè Tu sei la mia luce nelle oscurità della vita
Perchè Tu sei la mia ricchezza nella mia povertà
Perchè Tu mi hai tolto molto, ma mi hai lasciato molto ancora!
Perchè Tu sei la Bellezza, la Bontà, la Verità risplendente di cui l'anima mia ha sete
Perchè Tu sei la felicità eterna di quelli che ho perduti
Perchè spero fermamente ritrovarli negli splendori della patria eterna!
Mio Dio, Ti ringrazio d'avermi fatto incontrare quaggiù tanti cuori buoni e gentili!
Per il profumo dei fiori e per quello delle anime!
D'avermi permesso di gioire delle meraviglie della Tua creazione!
Per tutto il bene che ho conosciuto e che non ho più; per tutti i benefici che possiedo ancora e per tutti quelli che attendo dalla Tua misericordia infinita, in questo mondo e nell'altro; per me e per tutti quelli che mi sono cari! Amen.
(da un libro di preghiere)
Nella Chiesa vi è un posto per «l'opinione pubblica»; e questo è stato dichiarato esplicitamente e autorevolmente dal papa Pio XII. Non possiamo né vogliamo togliervi questo diritto. La Chiesa non rifuggirà dalla luce della verità obbiettiva, storica, anche se essa è meno piacevole. Ma che la vostra critica sia egualmente competente. Soprattutto nelle questioni strettamente legate al dominio della fede, che le ha attentamente esaminate può avanzare una critica giustificata senza correre il rischio di commettere pericolosi errori.
La critica cattolica non è mossa unicamente dall'amore della verità; è mossa ancora dalla coscienza della responsabilità e dalla persuasione che la scoperta della verità è sempre una conquista difficile, in cui nessuno può temerariamente fare appello a una sorta di «scienza infusa». La scoperta della verità richiede una fatica competente. E inoltre solo la carità fa della verità una luce. Che la vostra critica dunque si distingua non soltanto per la competenza, ma ancora sia priva di fiele e di risentimento, e priva di quel tono spregiudicato che proviene da un sentimento d'inferiorità. La critica cattolica è espressione di un amore vero per la Chiesa. La critica cattolica non conosce l'arroganza, ma invece la sollecitudine per la Chiesa, e addirittura si accompagna a una certa tristezza cristiana. La critica cattolica, diritto e dovere dei fedeli, è espressione di quell'amore che mostra le colpe della propria Madre soltanto con rispetto; di quell'amore che cerca, con tatto e con delicatezza cristiana, i mezzi adatti e le possibilità di far conoscere le proprie considerazioni ed osservazioni filiali; di quell'amore, infine, che non distrugge l'obbedienza della fede in se stessi e negli altri.
(Lettera Pastorale dell'Episcopato Olandese)
Correvo l'altra sera, in lambretta, lungo il viale dei Tigli. Sotto la navata gotica stupenda di alberi era già buio e il fanale acceso, col suo giro di luce, mandava avanti un cerchio illuminato sulla strada scura, asfaltata, sui tronchi, le nervature dei rami, la volta di fogliame ordinata quasi come la volta a vele di una cattedrale.
Qualche occhio acceso laggiù in fondo, di automobili lontane, lontane. Soltanto il rotolare trattenuto del mio motore turbava il silenzio già buio di prima sera.
E' stato un attimo. Ma vi sono spesso estreme brevità di tempo, frazioni d'istante capaci di illuminare l'universo: l'ho vista in piena luce, mi è sembrato di capire, di afferrare e di soffrire tutto un enorme problema. Un attimo, e come cadere in un abisso dove non vi è speranza di uscite.
Non è più giovanissima, e truccata così violentemente, nel fondo buio della strada e degli alberi, era grottesca. Una maschera laccata a festa, povera donna, raggiustata dopo una giornata di duro lavoro nel sottobosco di Migliarino.
Era molto evidente che non chiedeva altro che di non fare la strada a piedi fino alla città. Sicuramente il suo lavoro continuava nella notte perchè non vi è più un orario, ma in quel momento non chiedeva che di non fare la strada a piedi.
Nell'attimo di luce, nel cerchio illuminato del fanale in corsa sotto le arcate della cattedrale di alberi, mi ha visto pure lei e ha visto che ero un prete. Me ne sono accorto perché qualcosa di estremamente strano ho notato nel rimanere a mezz'aria della richiesta del passaggio.
E' subito ricaduta nel buio e la mia luce ha continuato veloce a illuminare la navata degli alberi.
Non so cosa avrà pensato. Forse mi ha odiato e non perchè non mi sono fermato, ma perchè forse ha pensato che io ho avuto terrone e paura di lei. E non paura e terrore del suo peccato, mia paura di lei, fino al punto che l'atto di Amore di darle un passaggio mi avrebbe rovinato nella stima dei buoni.
Se ha pensato così, ha ragione di disprezzarmi. Ma forse ha ragione anche di pensare così.
Diverse volte, passando lungo l'Aurelia, ai margini del bosco di Migliarino, quando il sole inonda la strada e macchia di luce, fra gli alberi, i cespugli, ho visto lei e spesso altre amiche (non so se saranno amiche, ma m'è parso di sì) sedute sul poggio al limitare del bosco dove il sole le può accendere di un po' di vivacità e giovinezza, o appoggiate ai rami d'albero incrociati per impedire l'ingresso delle stradette «private» della tenuta del Duca Salviati, le ho viste aspettare. E ogni volta mi è venuta in mente (e l'immagine è orribile, ma è così) il banco del macellaio con i pezzi di carne attaccata e il prezzo relativo.
Ogni volta è una sofferenza indicibile. E specialmente per un correre via ignorando (e quindi disprezzando) povere donne ridotte a quell'offerta di sé a chi passa dalla strada.
Il discorso corrente e facilone che è vizio, che è ingordigia di guadagno, che è fame di soldi senza lavorare, che è perchè è vita facile, perchè è gente depravata e ormai senza ritegni e non so cos'altro ancora, non mi solleva l'angoscia di quella pena e la vergogna di non voltarmi nemmeno a guardare.
Di non voltarmi nemmeno a guardare, io che potrei guardarle con occhi puri soltanto colmati di pena e di Amore fraterno.
Una volta non sono riuscito a sopportare: ero appena passato (e il problema mi aveva oppresso l'anima fin dall'imbocco della strada), alcune centinaia di metri oltre lei e un'altra seduta sul poggio nella macchia di sole: mi sono fermato deciso a ritornare indietro, sedermi accanto a loro a parlare un po'.
Un prete sul poggio del limitare di un bosco, ai margini di una strada nazionale, nello splendore del sole, seduto a parlare con due prostitute.
Chi passava avrebbe pensato che si stava sicuramente discutendo perchè non d'accordo sul prezzo.
Tutti avrebbero pensato così. Sì, tutti.
Perchè certo Amore è ancora un assurdo, anzi è un male.
E' orribile dover ammettere che, ancora, io, sacerdote di Cristo, non riesco e non posso fare credere che esiste, che può esistere l'Amore vero di tutto il cuore e di tutta l'anima e basta.
Il rassegnarsi a dover accettare questa sconfitta, l'impossibilità di questa testimonianza, L'assurdità di continuare un esempio di Amore, una ricchezza, una felicità di Amore che ha avuto principio al pozzo della Samaritana (Gv. 4, 5-41), alla tavola di una sala da pranzo in casa di un Fariseo (Lc. 7, 36-50), nell'atrio del Tempio, in mezzo ad una folla ostile, con le pietre in mano, accesa di falso scandalo e di odio lussurioso (Gv. 8, 1-11).
Nulla da fare. Se tu cedessi a quest'Amore e ti lasciassi vincere dal suo fascino divino, tutti ti biasimerebbero e ti darebbero addosso. Perchè non tutto il Cristianesimo è ancora possibile.
Non mi sono voltato nemmeno a guardare indietro. Ho ripreso l» strada. Anche quella dei galantuomini molto attenti a quello che pensano gli uomini, ma assai meno a quello che pensa Dio, a come ha pensato Gesù.
Non posso non vergognarmi, io, prete di Cristo, continuatore del Suo Mistero di Amore infinito fra tutti gli uomini, di ritrovarmi a mio agio in questo galantomismo e farmene motivo di gloria e un diritto al rispetto.
E non posso perdonarmi di non avere il coraggio di fare diversamente, cioè come soltanto comanda l'Amore.
Un Prete
Cari amici e fratelli e sorelle che state dietro uno sportello d'ufficio pubblico, di là dal banco di vendita del negozio, seduti a una scrivania per attività professionali, dirigenti d'azienda, capi personale, assistenti, medici delle mutue, direttori d'ufficio, responsabili d'aziende... chiunque ha altri alle proprie dipendenze, posti di responsabilità che decidono del prossimo, rapporti col pubblico specialmente, fatto di povera gente, timida e indifesa, parliamoci un momento fra noi, col cuore aperto.
Non dobbiamo permettere che a un certo punto tutto il nostro lavoro lo valutiamo professionalmente e basta, o peggio ancora per quanto comporta di guadagno o d'interesse personale. Ridurci ad una visione dell'impegno della nostra vita puramente materiale sarebbe molto triste e penoso, addirittura avvilente. E' facile però scivolarvi a poco a poco. Viviamo in un mondo in cui l'ideale, qualsiasi ideale diverso dal tornaconto personale, è sinonimo di utopia. Pazzia bell'e buona per gente che vive fuori del proprio tempo.
E ancora di più mancano motivi religiosi e cristiani in base ai quali il dovere sia ancora il dovere, costi quel che vuole costare.
Dio è senza diritti e il povero prossimo, dopo che ha servito in qualche maniera al nostro interesse, è un estraneo, un peso e spesso un nemico dal quale è bene guardarsi.
E allora, dietro lo sportello o la scrivania, in ufficio, nella professione o in qualsiasi altra attività, ci viene l'abitudine, la monotonia, l'aridità del lavoro, la noia delle ore che non passano mai, la pesantezza dei problemi che capitano, la seccatura di persone uggiose e pretenziose, l'irrazionalità di troppe cose...
Ma spesso, dobbiamo riconoscerlo, non sappiamo sopportare, non sappiamo aspettare, non vogliamo comprendere, il nervoso ci mangia come un'insonnia terribile. E non è una mancanza di riguardo o un lavoro mal fatto o una richiesta inutile che ci fa esplodere in sacri sdegni, ma è perchè abbiamo mal digerito, perchè qualcuno ci ha pestato un callo, perchè tutto non ci sta andando al pallino...
E allora qualcuno ne deve portare le conseguenze. No, fratelli e sorelle, il prossimo non è il bidone dei rifiuti, né il cuscino sopra il quale accomodarci, né il fazzoletto da naso dove sputare la raucedine.
Non possiamo approfittarci del fatto che quel povero prossimo non può protestare e risentirsi e difendersi. Non è suo dovere curvare fino a terra la schiena, leccare dove mettiamo i piedi, dire sempre «Signor sì». Lo fa per paura o per piaggeria, «per arrufianarsi», come dicono gli operai, o per vigliaccheria, povero prossimo condannato ad abbassare gli orecchi e a scodinzolare sempre felice anche sotto le legnate.
E ci ripagano allora moneta per moneta, per quanto è possibile, circondandoci di falsità, complicando le cose, odiandoci cordialmente dal più profondo dell'anima e spesso rifacendosi con i sottoposti e questi con i sottoposti ancora, finché tutta la rabbia va a finire su quel povero diavolo capitato a chiedere qualcosa.
Catene di nervoso, di prepotenza, d'ingiustizia, di cattiveria, grondanti ad ogni anello di sofferenza e d'angoscia. Rivoli di rabbia e di sangue nero che crescono e crescono per troppe sofferenze, fino a fare stagni d'acqua ferma e fradicia dove ogni valore umano, e tanto più cristiano, affoga e sparisce.
Siamo responsabili di quel clima strano d'insofferenza, d'invidia, di gelosia che imperversa in tanti ambienti e diventiamo motivo di sofferenza, di paura, di sconforto, di stanchezza per tanto nostro prossimo.
E pensare che spesso un nostro sorriso può allargare il respirare di tanta gente. Una parola solleva il cuore spesso da pesi terribili. Una stretta di mano può offrire e comunicare tanto coraggio. Una semplice considerazione, una gentilezza premurosa può dare tanta gioia. Spesso dovremmo pensare e riflettere che non basta fare del male al prossimo (anche se questo può essere già molto), ma che è dovere, sacrosanto dovere, aiutarlo a essere felice, il nostro prossimo.
Conosciamo, con chiarezza e libertà, tutta la possibilità che ci è stata data per dono di Dio e per circostanze particolari, di fare felici gli altri, di spandere intorno la pace, la fiducia, la speranza?
Se non abbiamo scoperto tutta questa possibilità che sicuramente abbiamo, vuol dire che non conosciamo nulla di noi stessi all'infuori di un egoismo che arriva a determinarci in tutto e se qualche volta la ricerca egoistica di noi stessi può darsi che si combini con la ricerca egoistica di altri e che ne nasca, per noi e per loro, un qualcosa che sappia di felicità, quasi sempre però i frutti dell'egoismo non saranno che avvelenati di sofferenza e d'angoscia per noi e per gli altri.
Siamo a servizio della felicità, dei diritti all'Amore del prossimo: e questo è ciò che prima di tutto va cercato e compiuto, il resto - come sta scritto - sarà sempre di soprappiù.
* * *
E' la signora consorte di un certo personaggio in pensione che telefona. Lei ha poca salute, si stanca tanto facilmente e mio marito, dice, ha bisogno di tante cose. C'è la casa poi da mantenere a specchio. Sono disperata... mi aiuti. Da ieri sono senza donna di servizio. E prega e si raccomanda anche a nome del marito che le sarà sicuramente riconoscente.
E' sempre una gioia trovare lavoro. Dicono che adesso tutti stanno bene. Vi è abbondanza di tutto. Però vi è ancora chi fatica assai a rimediare il necessario per la propria famiglia. E spesso trovare lavoro che sia sistemazione non è semplice e facile. Va bene allora tutto quello che capita, anche a giornata o a ore.
D'accordo.
E la donna è trovata. Ancora molto giovane. Famiglia con tre bambine. Ma ogni giorno andrà a sollevare la signora e consorte dalla disperazione.
Tutto a posto. Soddisfazione generale per opera buona compiuta.
Pochi giorni e la signora telefona ancora. Singhiozza di là dal filo. Riesce appena a parlare, ma s'inquieta, indispettita, per dire che la donna se n'è andata e sulla porta le ha detto che bastava, non ne poteva più. Ora la disperazione di nuovo, il peso della casa, il marito che aveva bisogno di tante cose.
Bisognava chiarire e allora la donna dalle tre bambine racconta che lei non se la sentiva di essere a disposizione di dieci gatti, della signora e del consorte.
Dieci gatti fra piccoli e grandi. Dieci gatti per casa, sui pavimenti a cera. Sotto le poltrone e i divani e gli armadi, i tavoli e i letti. Scopa in mano e segatura, dalla mattina alla sera.
Custodirli, il mangiare, i loro cuscini e cercare sempre negli angoli, guardare di qui di là, col naso per aria a seguire quel cattivo odore.
Lavare, pulire, lucidare e dopo eccoti un altro gatto. Attenta a quello e nel frattempo un altro fa le sue libertà nella stanza accanto. Allora è successo che qualche volta ho allungato la scopa. Li ho rincorsi, qualche volta, lo confesso, anche a pedate.
E succedevano disastri. La signora gridava, piangeva. Attacchi isterici addirittura, povera donna. Per quei dieci gatti. Quando io, sfinita, davo loro una pedata. Quando ne rotolavo qualcuno di quei gattacci sotto il divano a colpi di scopa.
E i dieci gatti sono rimasti senza donna, di servizio.
il cronista
Il Concilio di Giovanni XXIII non ha nulla da inventare: basta che spezzi le paratie dei compartimenti stagni, che disperda le ottenebrate paure alla luce delle esperienze di vita di una Chiesa che è pronta a ringiovanire, a rinnovarsi, a riformarsi. Quando pensiamo, alle forme perduranti dell'apostolato cattolico a cinquant'anni dalla testimonianza di un Charles de Foucauld, o alla ecclesiologia di un Charles Journet che, salvo eccezioni, attende da oltre vent'anni di essere proposta alla Chiesa universale, e prima di tutto al clero, non possiamo non ritenere che il vento dello Spirito sia per rompere le assurde frontiere del rifiuto, della negazione, della paura. Il comunismo e il "terzo mondo", per non dire delle più evolute società occidentali, mostrano che il «potere temporale» è ineluttabilmente morto, e con esso ogni garanzia umana della sopravvivenza della Chiesa. Scompaiono, nelle «colonie cristianizzate» dell'Angola, e con gli estremi sussulti delle «monarchie cattoliche» europee, gli ultimi pallidi Costantinidi. Che il Concilio Vaticano II sappia afferrare il fremito del tempo, e donare a tutti i cristiani, rinnovata e aperta la Chiesa sacramentum renovationis totius mundi.
«Quest'Italia» dal fascicolo speciale dedicato al Concilio Ecumenico Vaticano II
«In quanto Chiesa di uomini, e di uomini che peccano, la Chiesa, per quanto di fondazione divina, ha bisogno di critiche; in quanto Chiesa di Dio nella condizione umana, essa sopporta la critica più di qualsiasi altra istituzione».
Hans Kung
Luigi Sonnenfeld
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