LA VOCE DEI POVERI: La VdP febbraio 1961

Povertà e amicizia

Sappiamo bene già in partenza che il discorso è difficile e più difficile ancora è accettarlo in modo pratico e concreto. Ma non fa nulla. Dobbiamo proporci la verità, vederla così com'è: è un'onestà fondamentale, la coerenza verrà a poco a poco con l'aiuto della Grazia di Dio.
Bisogna che la nostra carità si liberi di tutte le limitazioni e immiserimenti, di tutte le bardature e complicanze che il costume umano affardella, lungo il tempo, in questa nostra povera esistenza.
Succede come all'acqua del fiume che alla sorgente è limpida e cristallina, fresca e purissima fra le rocce e il muschio della montagna, ma scendendo a valle raccoglie tutto, ogni cosa vi si scarica e è torrente limaccioso e poi fiume giallastro, carico di tutto.
Bisogna risalire alla sorgente o fare filtrazioni complicate, se vogliamo bere un sorso d'acqua buona.
Non ci deve dispiacere rivedere continuamente la nostra carità cristiana e se questi tempacci traboccanti di egoismo, di materialismo e di comunismo ecc. ci costringono a queste purificazioni dobbiamo benedirli come il fuoco che purifica l'oro nel crogiuolo.
Certo è che la carità distaccata, fatta dall'alto in basso, attualmente, è come andare in giro per le strade vestiti di broccato, la parrucca incipriata e le calze bianche.
Andare fra i poveri in macchina, occuparsene con quel modo radioso e dolciastro, è tentare ancora di far credere alle fate dall'abito azzurro trapunto di stelle che arrivano e partono su carrozze fatte di nuvole.
Dare qualcosa - quel povero qualcosa - perchè si è buoni e noi si vuole bene alla gente è un po' come quando passavano le carrozze dei ricchi e gettavano manciate di monete ai poveri assiepati alle strade ad azzuffarsi per raccoglierle.
Forse anche noi abbiamo qualcosa di solenne, di grandioso da sostenere a costo di tutto, perfino a costo di figure meschine, davanti ai poveri, come nei matrimoni dei principi - spettacoli spaventosamente tristi come musei etruschi - tipo matrimonio di Margaret o meglio ancora di Baldovino, ma forse anche tipo quelli delle nostre Chiese parrocchiali: penose sforzature di grandiosità per levarsi, almeno per un giorno, al di sopra della folla comune.
Bisogna scendere i gradini del trono, cioè della cosiddetta posizione sociale, della creduta dignità personale in modo che nemmeno d'un centimetro siamo più alti degli altri. Gesù del resto avvertiva che questa è fatica inutile e stupida: «E chi di voi può, con tutta la sua preoccupazione aggiungere un solo cubito alla sua statura? » (Lc. 12,25). E' doveroso confondersi con la folla anonima dei poveri, dei disprezzati, degli inutili, della gente senza diritti e senza importanza perchè ha solo bisogno dell'Amore di tutti.
E' il momento di aprire le porte della nostra casa regale, secondo l'indicazione del Vangelo (Lc. 13,21 ) «ai poveri, agli storpi, ai ciechi, agli zoppi» e farli sedere alla nostra mensa.
E' indispensabile alla vera carità cristiana stabilire rapporti col prossimo su un piano di amicizia. E questa nostra amicizia deve essere donata assai prima del buono per la carne e per il latte. Dovrebbe essere, il dono materiale, semplice e cordiale espressione d'amicizia: un segno - inevitabilmente sempre povero e limitato come tutti i segni - di una ricchezza enorme costretta per forza di cose a essere espressa dalla povertà d'un dono. La carità non può essere pane o lenzuola, medicine o una raccomandazione: la carità è cuore perché è Amore. La carità è amicizia perchè allora è veramente dare qualcosa capace d'arricchire il nostro prossimo.
E' difficile. Lo sappiamo bene. Ma non può essere uno scherzo e nemmeno un sentimentalismo frugare nelle piaghe altrui anche se con intenzioni di beneficenza: bisogna che ne riportiamo le mani bruciate come dal fuoco e il cuore caricato di un peso tremendo. Non si può pensare di entrare nelle vie misteriose della Provvidenza offrendoci come strumenti dell'Amore di Dio, senza rimanere portati via dal vortice terribile di quel vento che «non sai donde venga e non sai dove vada» (Giov. 3,8).
Bisogna pagare questo nostro essere nel Mistero dell'Amore infinito di Dio, allargando il cuore in disponibilità illimitata di amicizia fra gli uomini.
E' il nostro fondamentale dovere di testimoni della carità.


La Redazione

Il dovere dell'amicizia

«Io non vi chiamo più servi... vi ho chiamati amici» (Giov. 15, 15)

L'amicizia è un tesoro immenso. Potrebbe arricchire meravigliosamente noi e gli altri, ma lo teniamo gelosamente custodito dentro la cassaforte della nostra diffidenza che con molta superficialità scambiamo per prudenza.
Se non ci sentiamo disposti e sensibilizzati non c'è nulla da fare: ogni richiesta d'amicizia cade a vuoto. Se non capita chi sa dire le parole magiche, la porta blindata non si apre. Finché poi arriverà il ladro di notte e aprirà con chiavi false. E mentre compiacenti noi si dorme, ruberà tutto lasciandoci soltanto gli occhi per piangere sopra la malvagità degli uomini.
Perché difendiamo ciò che non dovrebbe essere difeso?
Riusciamo una buona volta a scoprire in noi qualcosa che sia possibile mettere a disposizione di tutti, senza limitazioni e difese?
L'amicizia dovrebbe essere uno di questi valori. Forse il più prezioso perché può realmente raccogliere tutti noi stessi fino a essere nostra espressione sincera e dono completo.
E invece pensiamo che se c'è qualcosa da non consegnare con facilità è la nostra amicizia. La sentiamo come problema enormemente impegnativo. Comporta rischi tremendi, come delusioni, amarezze, rimpianti. Può succedere di dovercene pentire. Possono venirne appesantimenti e complicazioni. E domani essere vittime d'ingratitudini.
Bisogna pensarci bene avanti. Riflettervi su ponderatamente e se tutto non è chiarissimo come la luce del sole, conviene non farne nulla.
D'accordo: la prudenza è una gran virtù. Però è anche vero che molte volte usiamo della rispettabile virtù della prudenza per coprire mancanze di coraggio e di convinzioni sicure e per riempire vuoti paurosi scavati in noi dal nostro egoismo e dal nostro quieto vivere. E nel caso per mantellare e sostenere idee assolutamente sballate.
Difatti noi consideriamo l'amicizia dal punto di vista del nostro tornaconto, per quello che può venirne a noi di vantaggi o svantaggi, dimenticando che una mentalità del genere è negazione del concetto vero d'amicizia.
Risente evidentemente l'amicizia delle idee sbagliate riguardo all'Amore, perché l'amicizia non è che una fruttificazione, una concretizzazione pratica e sensibile dell'Amore.
E ogni volta che giudichiamo Amore ciò che comporta una risultanza che è destinata a terminare in noi perché noi ne siamo stati volutamente oggetto assoluto, commettiamo come un sacrilegio.
Con mentalità siffatte l'amicizia è un assurdo per il semplice motivo che è egoismo, cioè sfruttamento del nostro prossimo, orgogliosa considerazione di se stessi, sciocca pretesa di diritti con l'esclusione anche dei più elementari doveri, o al massimo accettazione di doveri per poter poi avanzare qualsiasi diritto.
Ciò che è molto importante quindi è purificare da ogni inquinamento egoistico l'idea dell'amicizia: dev'essere una porta sempre aperta, spalancata di casa nostra. Qui non occorre presentare i documenti. Non si devono chiedere le informazioni e perfettamente inutili dovrebbero essere le raccomandazioni. Il passato non conta e il presente è soltanto una splendida occasione di Amore: il futuro, in questi problemi, non ha mai importanza.
Allora si ottiene la disposizione all'amicizia, l'apertura del cuore, la dolce e limpidissima sensibilità dell'anima. Si diventa semplicemente accoglienti per il fatto di offrire tutto, con schiettezza e cordialità.
Insomma non si ha paura del nostro prossimo.
Sei sicuro che i tuoi rapporti cogli altri non siano determinati dalla paura?
Non bisogna dimenticare che la diffidenza è figlia della paura. E è ancora la paura che prudentemente ci porta a chiuderci in noi stessi, a sederci al tavolo e a fare prima i nostri calcoli, a contare fino a venti prima di dire una parola, a saggiare col piede il terreno prima di fare un passo.
E se sei sospettoso di tutti, vuol dire che muori dalla paura, così ugualmente se sei guardingo, riservato e contegnoso, preoccupato della dignità e di quello che dirà la gente.
Se ti giustifichi con facilità, specialmente facendo ricadere sempre la colpa sugli altri per le difficoltà che l'amicizia inevitabilmente comporta, vuol dire che hai paura della verità, che cerchi sempre di coprirti e di cadere in piedi. Paura che ti rende spaventosamente ingiusto e falso, gretto e meschino.
Tu allora non sei amico di nessuno. Non potrai mai esserlo.
Ti mancherà questa ricchezza meravigliosa dell'amicizia. Al suo posto regnerà l'egoismo o qualcosa del genere: e sarà come portare in giro un contagio maledetto di peste.
Per favore, in questo caso, non pensare di essere cristiano anche se ti lavi nell'acqua santa, perché il Cristianesimo è amicizia: bisogna testimoniare che Dio ama gli uomini, amandoli in modo concreto offrendo loro la nostra amicizia.
Noi siamo credenti in questo rapporto umano d'amicizia perché Gesù Cristo l'ha vissuto, l'ha insegnato, l'ha comandato: ne ha fatto il segno di riconoscimento dei suoi fra loro fino al punto che il Cristianesimo è realtà d'amicizia aperta, incondizionata, illimitata.
Almeno la disposizione, la capacità, l'apertura a questa amicizia universale bisogna averla o se non altro cercarla come fondamentale sincerità cristiana. E' doveroso camminare per le strade, viaggiare sui treni, mescolarsi fra la folla a cuore aperto, per parte nostra già amici di tutti, portando già tutti nell'anima. E quando le circostanze, o meglio l'Amore di Dio, ci donerà la Grazia di incontrare chi stava cercando un amico, dovremmo essere capaci di stringergli la mano come ci fossimo sempre conosciuti.
Perché forse eravamo amici fin da quando Dio è Amore.


don Sirio

Le nostre parole a Dio

Gesù che sei l'amico buono e fedele di ogni uomo che viene a questo mondo, donami il miracolo dell'amicizia: la tua, quella del mio vicino di casa, dei mio collega d'ufficio, del mio compagno di lavoro e anche quella dell'esattore delle tasse e dello guardia comunale.
Gesù vorrei essere amico di chi mi siede accanto sull'autobus o al cinema. Di tutti quelli che incontro al mattino. Di quelli che camminano per le strade chiusi dentro il bavero rialzato. Mi pare che ognuno sia come prigioniero di una diffidenza spaventosa: e ci guardiamo sospettosi attraverso la finestrella inferriata del carcere.
Gesù non so però essere amico dei poveri, di chi è nulla e non sa di nulla. Di quelli condannati - e sono così tanti - a non avere amici. Non so dare questo bicchiere d'acqua fresca e questa fetta di pane nemmeno a chi muore di sete e di fame. Perdonami Gesù, sono uno sporco egoista e tengo tutto per me l'Amore di cui mi hai traboccato.
Gesù ho paura ad aprire il cuore come quando apro il portafoglio: ho paura di essere derubato o truffato e forse anche di dover dare poi senza misura e di rimanere povero e triste come uno sciocco. E' chiaro, Gesù, che non ho voglia di morire come te dissanguato e nudo su una croce per aver voluto amarti senza misura e per voler essere l'amico dell'ultimo negro del Congo che sta morendo di fame e del povero Lucidi sepolto in galera.
Gesù ho visto una prostituta ferma sul ciglio della strada pronta a vendere l'amore a chiunque passava e sicuramente a qualsiasi prezzo: non aveva paura. Ho capito di essere più miserabile di lei.
Gesù abbi pietà di lei, di me, di tutti: siamo spaventosamente poveri di Amore.



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(citazioni)

Ma come va allora che tra noi, come spesso fra preti, fra religiosi, questa amicizia rimane come nascosta nell'intimo, tutta «soprannaturale», siamo d'accordo, ma incapace di tradursi nella gioia, nella collaborazione, nella intimità di una vera vita fraterna? Come va che una tale amicizia divina, che ci ha riuniti, non giunge a prendere un aspetto umano, ad esprimersi in una amicizia visibile che sia il segno della grande Amicizia divina che ci unisce tutti? E' vedendoci vivere, e dunque in una amicizia tangibile, visibile, umana nella sua espressione, che si riconoscerà che siamo discepoli di Gesù.
fr. René Voillaume
dal volume « Sulle strade del mondo »
Ed. Morcelliana



(Mt. 7-22, 23)


Città Vecchia

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
nell'umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.





Umberto Saba
(da: «Poesie sui poveri», Ed. La Locusta)


Saper "chiedere" per poter donare

Eppure questa del chiedere la ritengo la carità più delicata e l'arte più difficile, perché occorre intuito, comprensione del prossimo e capacità di valorizzare le piccole sfumature del sentimento.
A dare si prova una certa soddisfazione e la gioia serena di essere utili a qualcuno, indispensabili e preziosi per qualcuno che non può fare a meno di noi.
Ma proprio questo deve farci riflettere alla desolata malinconia di chi non ha nulla da dare a nessuno, che si sente bisognoso di tutto e impossibilitato a ricambiare in qualche modo un beneficio.
Nella nostra carità generosa ci sembra assurdo questo desiderio dei beneficati di mostrarci la loro riconoscenza (salvo a scandalizzarci nel caso contrario!) e tronchiamo brevemente i ringraziamenti con una specie di pudore frettoloso che dovrebbe essere segno di umiltà. A nostra insaputa, invece, mettiamo a volte un disagio sempre più profondo in chi ci è vicino e rendiamo quasi insopportabile il fardello della riconoscenza.
Possiamo domandarci: cosa si può fare per rimediare? Dobbiamo dunque far risaltare come grande dono ogni nostra piccola generosità?
E' evidente che non è questo che occorre fare. Penso che sarà tutto più semplice quando noi guarderemo al povero davvero come a uno di noi e lo tratteremo da «amico», non da protetto. Vi saranno allora infiniti modi di mettere a loro agio gli infelici che amiamo aiutare.
E' bello far capire a qualcuno che si apprezza la sua compagnia e chiedere mezz'ora di conversazione a chi ama parlare, anche se intimamente desideriamo la solitudine, bello chiedere una sedia per riposare a chi non ha che quella da offrirci e mostrare il desiderio di bere a chi non ha da darci che un bicchiere di acqua fresca.
Lo so che è facile vincere queste piccole necessità e fare a meno di un po' di sollievo, ma qualche volta l'accentuarle ci rende più umani e ci mette alla pari con gli altri che si sentiranno felici di averci potuto giovare.
Ricordo una esperienza della scorsa estate: passava sulla spiaggia il solito povero con la scatola fornita di elastici, stringhe, stecche da camicia, ecc. Girava da un ombrellone all'altro e i «buoni» gli davano qualche soldo senza nulla prendere, gli «altri» si sdegnavano perché non lavorava e lo notavano ad alta voce. Mi venne spontaneo di trattarlo da «uomo» e finsi di avere un gran bisogno di stecche da camicia e di essermene per l'appunto quel giorno dimenticata...
Andò via da me col volto disteso, la voce più forte, il passo più sicuro: non era più un disoccupato che importunava il prossimo, era un venditore ambulante che poteva davvero essere anche utile.
Da allora ho avuto sempre gran «bisogno» di nastro, elastico, sapone, ecc. e ogni volta ho dovuto chieder perdono a Dio di aver imparato troppo tardi a fare la carità.
Ho incontrato tempo fa un vecchietto che in un modo sgarbato e burbero chiedeva l'elemosina: gli chiesi il «piacere» di spicciolarmi dei denari e lo vidi improvvisamente cambiare. Ritrovò il ricordo di una lontana educazione e uria stranissima espressione di cortesia trasformò quel viso avvinazzato e incupito... così, come si cambiò un giorno quel cenciaio, sgradevole e brutto come il suo carretto, quando lo «pregai» di liberarmi la cantina regalandogli tutte le bottiglie polverose che fino allora aveva deprezzato borbottando fra sé.
Lo so, con queste piccole cose che faranno sorridere qualcuno non si risolvono le grandi questioni sociali, non si elimina la miseria e la sofferenza... Ma la si attenua, ne sono convinta, ogni volta che si tratta il povero da uomo e si fa sì che egli si senta non un sottoprodotto della specie umana, ma un individuo utile e necessario e al quale noi abbiamo sinceramente bisogno di chiedere qualcosa.
E questo nostro «chiedere» sarà allora davvero un grande, generoso «dare», perché daremo agli altri quella che sicuramente è la più grande delle gioie: la possibilità di donare.


Albertina

Peccati del nostro tempo

Il primo Ministro russo Kruscev in un discorso ha detto che «nelle prime 60 ore di un conflitto nucleare morirebbero da 500 a 150 milioni di persone» e che «una sola bomba in un centro industriale farebbe due milioni di vittime».
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In India l'organizzazione statale per la limitazione delle nascite ha compiuto oltre 150.000 interventi chirurgici di sterilizzazione volontaria maschile. Nei prossimi tre anni pensano di arrivare a circa tre milioni di uomini che volontariamente si sottopongano alla sterilizzazione.
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A Bologna un professore scienziato ha provocato lo sviluppo di un embrione umano dentro una «bottiglia», facendo così fare un gran passo avanti alla scienza.
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La sera di Capodanno per tre canzoni Mina ha incassato un milione e trecentomila lire: quindi 150.000 lire al minuto, quanto cioè è l'intero stipendio di un laureato in un mese.
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Nel Sud Kasai (Congo) migliaia di persone hanno implorato per settimane un po' di latte, mentre quasi in tutto il mondo si dibattono i problemi della «sovraproduzione». Centinaia di bambini sono morti di fame.
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«La morale di molti uomini morigerati che si sente offesa per l'esposizione di una spalla femminile o per un bacio scambiato in luogo pubblico fra due fidanzati, si ferma improvvisamente davanti all'esorbitante ricchezza di alcuni ceti italiani, i quali non sanno come fare a spendere tanti milioni così facilmente guadagnati.»
(Enzo Maizza)
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Attualmente su cento italiani cinquanta sono in possesso della licenza elementare, ventuno della licenza media inferiore e nove della licenza media superiore.


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