LA VOCE DEI POVERI: La VdP novembre 1971

Ultimo numero

Siamo di nuovo, ancora una volta, ad essere buttati fuori dalla possibilità di una ricerca e di una testimonianza, da una realtà di lotta e d'Amore - quindi dalle condizioni chiare, allo scoperto, di una presenza viva e vissuta nella Chiesa, attraverso la carta stampata. Il Consiglio Particolare della Conferenza Vincenziana della nostra città, al quale appartiene la testata «Voce dei poveri» ci ha chiesto di restituire il periodico.
Non facciamo nemmeno un accenno di discussione. Non intendiamo fermarci a vagliare le ragioni o i torti. L'altra volta a spengere questa povera «voce» fu l'autorità ecclesiastica e allora pensammo che l'obbedienza era fattore indispensabile e insostituibile per l'unità alla Chiesa o, per essere più esatti, perché il proprio impegno e fatica non risultassero fatto personale, individualistico, ma realtà di Chiesa. Non avevamo ancora pensato o almeno non ancora responsabilmente chiarito che l'unità è la continuità, paziente e perseverante, di una rinnovazione. E' realizzabile soltanto a seguito e attraverso un morire e un immediato risorgere. O, meglio ancora, un morire che porta in sé un vivere più vitale, più pieno, più vero.
Concludere non è mai mistero cristiano. Il morire senza il crescere e moltiplicarsi di vita non è della creazione e tanto meno del Vangelo.
La spessissima citata frase di Gesù del chicco di frumento che se non cade in terra e non muore non porta frutto: chi la cita così volentieri per spiegare e giustificare che bisogna morire fino al punto che sia benedetto chi questo compie e se ne stia in pace chi questo morire deve subire, evidentemente non pone mente di quale e quanta potenza esplosiva sia caricata questa affermazione di Gesù.
E' il morire che porta in sé ed ha la sicurezza di vivere di più, d'essere più vivo, di moltiplicare la vita. Il disperdersi che crea una nuova unità e una nuova molteplicità. Il chiudersi di una strada finita che apre una strada nuova.
Il concludere unicamente per ricominciare.
Il morire per risorgere.
Lasciare perdere l'uomo vecchio perché viva l'uomo nuovo.
E' legge bellissima, ma difficile per tutti.
Da qualche tempo abbiamo scelto e deciso di accettarla questa legge e di cercare di conformare la nostra vita lasciandoci determinare e costruire dalla carica potente di Amore che porta in sé e dalla capacità di forza e di speranza che sprigiona.
Abbiamo paura quando il disegno di Dio su ciascuno di noi ci porterà fisicamente, storicamente, al momento in cui questo Mistero cristiano del morire per la vita, ci brucerà personalmente e ci seppellirà.
Abbiamo paura come ogni animale ha paura. Ma abbiamo fiducia che, come la dolce bontà di Dio ha sostenuto e sostiene i fratelli che anche in questo momento chiama alla spietatezza d'Amore di questa legge di morte-vita, sosterrà anche noi, se succedesse che qualcosa ci possa essere richiesto.
Nel frattempo, nella nullità del nostro vivere attuale, nella vicenda che ci riguarda personalmente, nella limitatezza di lotta che possiamo essere chiamati a sostenere, sia all'interno della Chiesa che nella condizione civile e politica, lotta che richiede così poco coraggio e che comporta rischi così poco rischiosi per i livelli di scontro che è scontro più di burattini che di uomini, più di parole che di fatti, più di contingenze che di storia, in questo frattempo e pur stando così le cose, intendiamo giocare il tutto per tutto.
E quindi accettiamo di morire con tutte le buone usanze e devozioni, ma non intendiamo sparire, non esistere più, essere cancellati dalla vita.
Questo avverrà quando a chi tiene in mano e unicamente le sorti della vita, piacerà disporre, secondo la sua Volontà che, lo crediamo totalmente, è sempre Amore, del nostro vivere e cioè del nostro vivere di qui o di là, in un modo o in un altro.
Ma come crediamo che non sarà mai la morte, ma sarà l'inizio di nuova vita e cioè continuità di vita in modi e misure diverse (è sempre la vita dì Dio che si manifesta e vive come un segno prima, come realtà dopo) così crediamo che questa Fede nella vita deve manifestarsi e deve essere testimoniata anche nelle contingenze d'ogni ricerca umana.
La risurrezione è sempre fondamento e riprova della fede cristiana. E deve essere sempre determinante nel vivere quotidiano come nel vivere totale della vita.
E' così che il cristiano può e deve essere Tuo mo che non muore mai perchè risorge continua mente. E che accetta serenamente di morire perchè porta già in sé la resurrezione.
Così dovrebbe essere per la Chiesa, nella quale la conservazione o mummificazione delle cose, delle leggi, delle Istituzioni, ecc è non accettare di morire per una non Fede nella resurrezione.
Ma lasciamo andare, per il momento, questo discorso e torniamo alle nostre povere e piccole cose che desideriamo molto però che non siano a livelli banali, o trattate e vissute con criteri di mediocrità di giudizio, fatto di mentalità grette e di visuali a palmo di naso.
Almeno per quello che riguarda noi.
Ed è molto bello scoprire che anche nella insignificanza di ciò che non è niente, vi può essere dentro, anzi vi è certamente, la Verità essenziale e la vastità della misura di Dio.
Vorremmo tanto vivere nel nostro nulla tutto il mistero e la responsabilità dell'esistenza, nel nostro piccolo i valori universali, nel nostro essere cristiani qualcosa di tutto quello che è Cristo.
Almeno come segno, almeno come valore di parabola, come qualcosa che si racconta per aiutare a capire la Verità, così sempre misteriosa» mente nascosta.
Essere almeno qualcosa come quelle poche parole che raccontano del chicco di grano, che muore e che non muore, perchè muore unicamente per portare frutto.
E vorremmo, per quanto da noi dipende, e se così piacerà alla dolce Bontà di Dio, che questo racconto di fiducia e di speranza, andasse avanti e raccontasse che realmente la spiga è cresciuta, si è colmata e traboccata, è diventata d'oro sotto il sole di estate ed è stata mietuta e riposta con gioia grande nel granaio. Per essere più pane e pane spezzato per la fame di tutti.
Molte cose, pensiamo, fra noi cambieranno. e Dio voglia che sia crescita, come l'altra storia del chicco di senape che diventa albero.
Siamo sulla strada - e chi è che non si sente sulla strada?
Si arriva ad un punto, ma unicamente per ripartire. Nonostante la stanchezza, la fatica e la incertezza.
Riprenderemo appena possibile, a raccontare anche con carta stampata, la nostra avventura. Ma non perchè sia più importante e ne valga la pena.
E' perchè questo raccontare fa parte del nostro camminare.
Questo scrivere rientra in una realtà di lotta. E' sentirci di più nella trincea di una guerriglia di liberazione. Di più esposti al rischio. Di più nella possibilità di morire e di risorgere... Di più nella ricerca di una sincerità cristiana, d'una realtà di Amore, di una forza di Fede...
Ci dispiace se chi si può rallegrare perchè non gli arriverà più a scocciarlo la Voce dei Poveri, si troverà di nuovo fra mano un altro foglio che evidentemente sarà più allo scoperto perchè la responsabilità sarà interamente nostra e cioè non più condizionata dal doveroso rispetto verso i proprietari della «Voce dei Poveri».
Agli amici che come noi possono averne sofferto come si soffre di ogni esperienza di chiusura, di imposizione, di incomprensione ecc. chiediamo la continuità della loro amicizia per un camminare insieme: è come stringerci insieme e tenerci gli uni gli altri quando si cammina sulla strada o sul sentiero di montagna e il vento tira forte da far paura.
La nuova testata che vorrebbe essere intensa mente programmatica ed impegnativa, dovrebbe essere «Lotta come Amore».
Arrivederci, ma ogni giorno e ad ogni passo in questa lotta come Amore.

La Redazione

"Ma io vi dico"

Anche su questo numero - ultimo di quest'anno e ultimo come « Voce dei Poveri » - vogliamo scambiarci alcune riflessioni su un problema che abbiamo cominciato ad affrontare, anche se ancora molto timidamente, almeno sul piano delle idee. Speriamo di avere il coraggio e la fedeltà di tradurle via via in fatti e scelte concrete.
C'è una Verità cristiana che nasce direttamente dal Mistero di Cristo, dalla sua storia, dal suo cammino di Figlio di Dio e di nostro fratello, dalla Sua Parola come dal patibolo su cui «tutto si è compiuto», che va sempre più gridata, annunciata, offerta. Una Verità che soprattutto bisogna prenda consistenza storica precisa, assuma una concretezza, «si faccia carne».
Questa Verità che ci preme nel cuore e ci spinge a camminare su strade che potrebbero essere rischiose (ma il rischio dovrebbe essere normalità cristiana), è racchiusa, come in un seme carico di vita, nella Parola di Gesù: «Avete sentito che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non resistere al malvagio... Avete udito che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: Amate i vostri nemici... (Matteo, cap. 5).
Affrontare il problema della violenza organizzata, dell'odio fatto struttura, della difesa propria e altrui costruita sulla legge dell'«occhio per occhio, dente per dente», qual'è appunto l'apparato militare, per noi cristiani non può non voler dire fare i conti con questa Verità.
E non c'è neanche la possibilità di star lì a fare grandi discussioni, raffinati ragionamenti: o si accetta o si respinge.
C'è una logica che nasce dalla Parola di Dio che non può essere confrontata con la logica della storia, dell'esperienza, dell'abitudine di tutt'altro mondo basato sull'egoismo e sul possesso, anziché sull'amore e sul dono di se, com'è il mondo di Dio che Gesù ci ha fatto conoscere in pienezza.
E' una Verità che va semplicemente accolta, lasciata entrare liberamente, come un fascio di luce in una stanza buia, una Verità che bisogna ci penetri profondamente, come una vena d'acqua viva sotto la sabbia del deserto.
La pace, quella vera, quella che Dio propone non può nascere così, noi cristiani non abbiamo il compito di discuterla, ma semplicemente di annunciarla e viverla.
Storicamente questo significa senza dubbio un modo tutto diverso di affrontare la realtà nella quale ci troviamo a vivere il nostro destino; vuol dire rifiuto, respinta di qualunque compromesso con chi intende restare legato alle legge antica, alla legge dell'uomo «lupo dell'uomo» invece che «figlio del Padre». .
Storicamente questo significa per noi cristiani rifiuto dell'esercito, del militarismo, della guerra di ogni tipo, anche di quella difensiva (perchè solo l'Amore difende e salva). Rifiuto radicale assoluto, non trattabile.
E questo per semplice fedeltà a Colui che è venuto nella storia a insegnarci la strada, a raccogliere 1 dispersi, a guarire i malati, ad accendere una luce nel buio della notte. Per fedeltà all'Amore crocifisso, morto e risorto. Una fedeltà radicale, assoluta, non trattabile.
Storicamente questo significa per noi cristiani - per noi Chiesa, Popolo di Dio - accettare le persecuzioni, l'emarginazione, il rifiuto di tutto un sistema, un mondo, un potere che non può essere d'accordo col nostro annuncio e con le nostre scelte.
Un lottare - evangelicamente - contro tutto ciò che di questo mondo e di questo potere è penetrato nel tessuto storico della Chiesa, fino alla sua fetale scomparsa (i preti nell'esercito non ne sono forse il «segno» più chiaro?).
Un dire di «no» da parte dei giovani cristiani all'impiego del proprio tempo, della propria intelligenza, della propria giovinezza per imparare come si fa ad ammazzare i fratelli, invece di mettere la vita a disposizione di chi non ha casa, scuola, ospedale, ecc.
Un dire di «no» da parte degli operai cristiani di costruire col proprio lavoro armi sempre più raffinate: chi è discepolo di Cristo non può collaborare a produrre la morte, ma unicamente la vita. Le nostre mani, come quelle di Cristo, sono fatte per accendere una luce, gettare un seme, sostenere chi è stanco, impastare il pane della fraternità e dell'amicizia.
E vorrà dire ripetere senza stancarsi, con tutta la passione del cuore, il sogno di Dio così meraviglioso espresso nelle parole del profeta Isaia: «Il Signore giudicherà i popoli e farà da moderatore fra genti numerose; esse faranno delle loro spade vomeri e delle loro lance falci; un popolo non brandirà più la spada contro un altro popolo, e non impareranno più a fare la guerra» (Isaia 2, 4).
La Pace di Dio batte questa strada e questa soltanto. Gesù l'ha percorsa tutta senza tirarsene indietro. In Lui veramente, la Parola si è fatta carne e il sogno realtà. A noi che siamo il suo popolo non rimane altro che testimoniare che la sua storia è il criterio di verità di tutta la storia e che la sua strada è l'unica strada su cui gli uomini possono camminare verso la Vita.

don Beppe



Una piccola chiesa

Trovarsi un sabato pomeriggio in un appartamento perduto nella città tra centinaia di abitazioni anonime, può aiutare a capire qualcosa sui problemi che la famiglia sta attraversando. Quei quattro muri racchiudono ben poca vita, spesso solo il mangiare e il dormire dei suoi abitanti. E restano terribilmente chiusi, ad impedire che quel po' di calore che resta si disperda per sempre.
Un dialogo difficile, spesso un silenzio vuoto, un imbarazzo reciproco per chi sa già in partenza di non avere niente da spartire. Una corsa in macchina, due stanze da sistemare, il programma della domenica: tutto per evitare il logro snervante di quei silenzio.
E così un sorriso, un gesto gentile, l'ammirazione degli amici, le confidenze, il senso di cameratismo, sono raggi di luce ad illuminare esistenze grigie ed appiattite. E si vive ormai per sognare quel sorriso, quella persona, quel gruppo di amici, fino a convincersi che la vita vera è quella, e che la casa sono «loro». Fino a drammi indicibili.
Il lasciare spazio per uno sviluppo della personalità non è criterio capace di offrire soluzioni al problema. Lo chiarisce nei suoi termini, lo mette a nudo nelle sue espressioni essenziali, ne aumenta la presa di coscienza. Lo demitizza, sottraendolo ad influssi capaci di sfociare in gesti assurdi, e lo illumina di una logica razionale, più consona a modi civili, nel dirimere le divergenze, di quanto lo siano l'odio e la violenza.
Per lo più si parte così, garantendo, fin dall'inizio, uno spazio personale, a somiglianza di chi, in aereo, si allaccia il para cadute, o, in mare si preoccupa dell'efficienza della scialuppa di salvataggio. Si va avanti finché è possibile, poi, ognuno per la sua strada, ché ognuno può camminare con le proprie gambe E ne viene terribile il vuoto di ogni responsabilità nei confronti del vivere insieme, fino a misure assolute di egoismo. Il problema dei figli ne è segno chiaro: essi risultano un'assurda componente di forze divergenti o almeno parallele. Lo scompenso che ne deriva è alla base di tanta ribellione.
Di qui il rilievo di punti scottanti nella vita familiare: il divorzio, l'aborto, la regolazione delle nascite. In quell'angolatura così assurda, nata da motivi di egoismo e di interesse ed imposta, attraverso quei terribili strumenti di costruzione che sono gli interessi economici, a tutti, sfruttati e impoveriti anche in questo valore.
Una situazione difficile, un terreno impraticabile per chi non abbia idee chiare e ferma fiducia in una possibilità di amore vero. La buona volontà e l'impegno di coloro che vivono sulla propria carne questi problemi è richiesta inquietante, è serio interrogativo dell'umanità.
La Chiesa ha raccolto questo problema suggerendo alcune, linee di riflessione nei documenti del Vaticano II. Non mi interessa tanto, a questo punto, esaminare queste linee, quanto fare una constatazione valida per altri problemi, affiorati in Concilio, che sono stati affrontati, non per una soluzione decisiva, quanto in ordine ad un atteggiamento «nuovo» da assumere in fedeltà a Cristo.
Quanto questo sia avvenuto non è facile dirlo. E' certo che molto di questo slancio si è affievolito forse per le grandi resistenze, ma certo di più per le ottuse interpretazioni, l'aria troppo viziata di ambienti terribilmente chiusi, la grettezza spaventosa di molti. La faciloneria con cui si è tentato molte volte di riproporre le tematiche conciliari in chiave catechetica non è tra le ultime cause di questo fallimento.
Sappiamo benissimo che, dopo il Concilio, la parrocchia è diventata «comunità parrocchiale», la gente «popolo di Dio», i sacerdoti il «presbiterio», la diocesi la «la chiesa locale», la famiglia la «chiesa domestica». La realtà, in moltissimi casi, è rimasta identica.
Si è tolto ciò che ormai era assurdo mantenere, si è rispolverato un rito, si sono aperte le porte a problemi più attuali, ma non si è andati più in là del medicare, metter cerotti e garze, quando a noi è chiesto unicamente la fede e le testimonianza del miracolo della resurrezione.
La spinta profetica è mancata ancora, e, se possiamo dire facilmente che la libertà di sposarsi, il litigare con il vescovo, l'indipendenza economica, non sono davvero profezia, dobbiamo riconoscere che no lo è neppure il tentativo di comporre le tensioni concedendo cittadinanza ad ogni opinione: tentativo vecchio quanto il mondo, di far posto ad un altro senza essere sbilanciato sul suo.
Così anche il problema della famiglia. Si sono accolti i miglioramenti introdotti da una prassi sociale più evoluta e si sono battezzati.
Mettere in comune i soldi e le energie, aiutarsi per poter avere un po' di libertà quando ci sono i figli, allargare il cerchio familiare con incontri tesi a realizzare una vita comune, sono tutti tentativi posti in atto per dare un po' di respiro alla famiglia. Indichiamoli, d'accordo, come mezzi che rompono una crosta di chiusure e di. egoismi, di timori strani e assurdi, che la tradizione stessa ci aveva offerto con il suo modello di vita familiare, ma non dimentichiamo che è dovere cristiano offrire valori che siano rivelazione più immediata che sia possibile del mistero d'amore che è in Dio.
Il modo con cui Gesù incontra le persone è un'autentica e continua provocazione. Solo lui sa essere accoglienza piena, capace di uno sguardo purissimo di bontà, mai però per un lasciare la cose come stanno (già qui abbiamo un'indicazione precisa di cosa sia l'amore, tanto diverso da quella carità che è abilità stupefacente di lasciar tutto come si è trovato, nascondendo anche le tracce del proprio passaggio).
C'è in Gesù questa possibilità straordinaria di liberare energie nascoste nel cuore degli uomini, non certo per una potenza .miracolosa, quale potevano attribuirgli, ma unicamente per la sua fiducia nel Padre di cui conosce la vita e il pensiero in modo così assoluto da identificarsi con lui, in un'unica volontà
Così nel suo incontro con la Samaritana, così esemplare, e Zaccheo e gli stessi apostoli, ed i miracoli che sono tanto segno di questo lievito unificante posto da Dio nella nostra storia.
Ma un uguale atteggiamento anche nei confronti del giovane ricco, provocazione sofferta per qualcosa che si è chiuso, forse per sempre. Come nei confronti de! suo popolo.
Fino a determinare in Gesù, proprio perché ha capito che così vuole il Padre, fino a determinare quella proposta universale di provocazione che è la sua Croce. Il suo Passaggio tese a rompere l'equilibrio degli uomini e a lasciare una traccia indelebile nella vita di tutti.
Gesù sa cosa il Padre ha posto dentro di noi, all'origine della nostra esistenza, perché tutto è stato fatto per mezzo di lui. Il suo porsi di fronte agli uomini è dunque unicamente questa fatica liberatrice dì ciò che è più vero in noi, nascosto fino ad essere soffocato dalle misure nostre incapaci di un ampio respiro.
Per una creatura nuova.
Creatura spinta a questa provocazione fino a limiti impossibili. Perché la creatura nuova non sono tanto io che mi spoglio dì un abito consunto per rivestirne uno incorruttibile, quanto io provocato fino al punto di perder la vita e ricevere la mia individualità in un modo tutto nuovo. Là dove individualità non esiste, come noi la intendiamo, ed esiste solo comunione vicendevole fino alla misura massima. La creatura nuova è la Chiesa, questa famiglia di Dio senza confini, amata da Cristo fino a provocare in lei la realtà del Suo Corpo, là dove ogni membro assume la Sua statura e la Sua immagine.
E' questo annuncio che i cristiani dovrebbero trasmettere ai mondo in una lotta incessante. L'annuncio di un rapporto nuovo tra gli uomini per la scoperta di nuovi motivi di esistenza. «Non voglio altro che il fuoco divampi», dice Gesù, ed è questo fuoco di amore inestinguibile, capace di purificarci da ogni scoria per mettere a nudo il nostro vero essere.
Così dovrebbe essere nella vita della Chiesa, vita di comunione che obbedisce ad una sola regola: l'annuncio del Regno di Dio. Così dovrebbe essere per ogni rapporto umano. E così anche per la famiglia in ricerca di una risposta cristiana.
Non un accordo (per quanto tempo si è continuato a parlare di contratto!) su ciò che vi è di comune tra un uomo e una donna, ma provocazione vicendevole (che è principalmente un atto di fede) per una grandissima responsabilità nei confronti della loro comunione. Per essere realmente quella cosa sola che l'essere «una sola carne» indica con tanta forza e chiarezza Non c'è da trovare un equilibrio tra la tensione della carne e le difficoltà del cuore. Nella carne è già indicata la misura di comunione del cuore e dello spirito: ed è misura assoluta E l'accoglienza del cuore e dello spirito è misura dell'unione nella carne. Questa a significare e spingere quella a dar senso e pienezza.
Così, come per Cristo e la sua Chiesa, una storia d'amore che va alla radice dell'essere, là dove non ci si può più rifugiare perché tutto ormai è comunione.
E così ecco l'insofferenza per spazi personali, residui d'individualismo: paziente opera d'amore perché la comunione sia vera.
Per di più una provocazione continua perché l'uomo sia veramente uomo e la donna sia veramente donna, in una crescita di pienezza personale che, proprio in quanto nasce da una comunione non può non riversarvisi, capacità sempre nuova di essere «una cosa sola».
E questo vale anche per il lavoro, la casa, l'indirizzo da dare alla vita familiare. Tutto questo non può essere risolto come se ciascuno dovesse continuare la propria strada appesantito da una nuova responsabilità accolta in funzione di un legittimo piacere, di una convenzione sociale, di una forma di vita ormai ben collaudata. Sappiamo bene di uomini e donne ricchi di valori e di sensibilità, ridotti, dopo il matrimonio, a esistenze appiattite inspiegabilmente sotto il peso di una responsabilità forse non pienamente accolta e fatta propria. Oltretutto in questo chi ci rimette e ci ha sempre rimesso in misure pesantissime è stata la donna.
E' una realtà, la vita familiare, da costruire insieme nello sforzo totale di ciascuno fino ad essere spinta per gli altri, famiglia che non si chiude né si ripiega su se stessa, uomo e donna che vivono insieme per essere di più nella vita e per gli altri, una realtà nuova capace di provocare intorno a sé l'amore nella pienezza di comunione e di espressione personale
Prima di tutto nei figli che ne sono espressione perfetta fin nei legami di carne e di sangue. Vite concrete che impegnano la responsabilità dei genitori ad allargare la paternità e la maternità oltre i vincoli naturali per essere indicazione di accoglienza della famiglia dei figli di Dio.
Non certo pesi da portare, con cui c'è da contrattare perché rimanga per tutti uno spazio di vita personale. E neppure ninnoli da salotto cui si perdona tutto perché in fondo sono decorativi, oppure garzoni di bottega da allevare perché prendano il posto del vecchio.
I figli sono la salvezza della famiglia non tanto perché la continuano e le danno lustro, quanto perché la costringono a rimanere realtà aperta e viva, dialogo incessante, provocazione d'amore perché tutto cresca in novità di vita.
Ormai sappiamo bene anche qui che l'egoismo genera l'egoismo, l'interesse genera l'interesse... Chi vuol generare amore non può non essere amore, senza che vi sia spazio per ritorni personali, né per modi individuali d'esistenza, là dove si crede che la sola cosa degna d'essere generata è l'immagine di Cristo che ciascuno porta nel cuore e che è la nostra unica e comune giustificazione d'esistenza.
Sforzo richiesto a tutti, uomo o donna, padre o madre, figlio o figlia, perché nell'impegno di crescere alle dimensioni del Cristo non c'è distinzione, neppure nei punti di partenza; non ci sono condizioni particolari e l'impegno è uguale per tutti.
E' in questo senso che la comunità familiare può essere a ragione chiamata " piccola chiesa " o "chiesa domestica": là dove le condizioni di accoglienza di Cristo si realizzano per una strada particolare, ma nella stessa, precisa misura richiesta a tutti gli uomini, la misura stessa del Cristo


don Luigi

Cristo non ha mani

Cristo non ha mani,
ha soltanto le nostre mani
per fare il suo lavoro oggi.

Cristo non ha piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per guidare gli uomini sui suoi sentieri.

Cristo non ha labbra,
ha soltanto le nostre labbra
per raccontare di sé agli uomini di oggi

Cristo non ha mezzi,
ha soltanto il nostro aiuto
per condurre gli uomini a sé.

Noi siamo l'unica bibbia
che i popoli leggono ancora;
siamo l'ultimo messaggio di Dio
scritto in opere e parole.

(da una preghiera del sec. XIV)


Tempo d'Avvento


Mi sembra che sia compiuto lentamente e faticosamente, un passo dietro l'altro, il cammino che avevo davanti, donata dove Dio mi aveva posto, lasciando perciò cadere sotto terra il seme della mia vita. Perché, superata la gioia di avere qualcosa da donare agli altri (gioia che si è trasformata col tempo in una certezza profonda e sicura che ha sempre sostenuto e guidato l'andare dei giorni) tutto è poi stato fatica quotidiana: un semplice insieme di momenti, situazioni e scontri, il continuo superamento di sé nello sbriciolarsi del tempo, ma fermi nello spazio, radicati in un luogo, tanto da assumere il volto, da vivere e amarne i valori, da dedicarvi la vita
Accettare l'incarnazione e cioè offrire carne e sangue agli ideali perchè diventino realtà, ha fatto rinascere in me più prepotente che mai la spinta a non essere stanca, ad essere pronta a ricominciare da capo, a rimettermi in cammino per farmi portare via il cuore da qualcosa che bruci più di prima. Dio per fortuna è forza mai stanca che rompe lo equilibrio raggiunto per aprire le nostre povere vedute e illuminarci gli occhi con la Sua luce, per allargarci il cuore e costringerlo ad amare del Suo Amore, per spingere il nostro passo, costringendolo a seguire il Suo procedere per sentieri già scelti che conducono a Lui.
Per rinascere da Lui; per sentire di nuovo la Sua mano che fa violenza ai miei limiti e poter dire: sulla tua parola getto le reti della mia vita, sono pronta a vendere tutto, a rimettermi in cammino, lasciando casa, amici, parenti, la terra dove abito, ogni cosa per non avere che Lui. Per ricevere di nuovo ogni cosa dal Suo cuore, ed essere povera, di quella povertà che e la condizione essenziale per chiamare Dio ad abitare in questo mondo.
La libertà nuovamente di sognare, sapendo che maggiore sarà poi la fatica dello sparire; poterlo guardare nuovamente con cuore giovane, conoscendo dove porta la strada di chi cammina dietro di Lui. Per poterlo guardare con adorazione e sapere che è Signore del mondo, padrone di ogni esistenza, principio e fine di ogni cosa, il motivo unico del mio esistere perchè motivo dell'esistere del mondo.
E' tempo di Avvento e rinasce in me la vita che gli avvenimenti avevano teso a spingere o soffocare. E rinasce il bisogno di difenderla, che per stanchezza e quieto vivere non avevo fatto più. Va invece alimentata, la vita, come il lume delle vergini, e l'olio deve essere sempre pronto ed abbondante per fare luce appena vi sarà l'indicazione di una via. Luce che non ci rende più facile l'andare, ma è indicazione della Sua presenza. Essere di nuovo un po' di lievito offerto a chi si vuole fare lievitare, non racchiuso sempre di più, per timore di chi non vuole esserne lievitato.
La libertà d potere credere ancora una volta, ed amare a cuore aperto, senza dovere stare sempre attento a quello che può urtare questo o quell'altro.
Solo speranza di dare la vita, e un cuore che non vuole l'inaridimento della esperienza, ma un'apertura fatta di attesa e di fede, (anche se costa una violenza a sé), di attenzione al Suo venire perchè si possa ripetere il miracolo del Suo nascere dove degli uomini Lo invocano.


Maria Grazia

Storia di chiesa e di CHIESA

Sulla pista di Fiumicino sbucò fuori dal ventre del quadrigetto con l'aria smarrita di chi non sa dove aprire la sua tenda. Nell'andirivieni delle pratiche doganali si muoveva con la semplicità disarmata dell'uomo del «Nord est», che sa lottare contro la siccità ma non sa difendersi dall'aggressione dei consumi. Veniva da Santiago del Cile, e prima ancora dal Brasile, dove aveva passato più di un anno nelle prigioni dei generali, e aveva conosciuto l'orrore della tortura. Nel dicembre del 70 lo scambiarono con un diplomatico svizzero sequestrato dai guerriglieri. Ormai a Roma era libero di andare e venire, ma non aveva passaporto; era un «apolide», per dirla con voce dotta, ma lui sapeva solo che nessuno ancora, in nessuno luogo, lo aveva invitato a rimanere, benché in teoria potesse scegliere dove fermarsi. Era stato messo al bando dalla sua patria: se ci tornasse, il primo poliziotto che lo identificasse aveva il dovere sacrosanto di ucciderlo. E' giovane e vuole essere prete. Appartiene all'ordine dei domenicani del Brasile, ma qui a Roma non pensò di andare a chiedere ospitalità nella casa generalizia di S. Sabina, sull'Aventino, dove non conosce nessuno e nessuno parla la sua lingua... il numero dei membri, che fa la «gloria» delle congregazioni religiose, distrugge la qualità dei rapporti interpersonali. Andò diritto al seminario brasiliano, sulla via Aurelia, dove ha degli amici e si parla la sua lingua, e dove sperava di sentirsi finalmente in casa. In portineria lo fecero entrare e gli assegnarono «d'ufficio» una camera. Rotto dalla stanchezza e dalle emozioni, si buttò sul letto e si addormentò. Dopo mezz'ora qualcuno bussò alla porta:
«Scusa, c'è stato un equivoco, tu non puoi restare qui»...
«Perché?».
«Perché tu sei messo al bando dal nostro paese e la tua presenza ci rovinerebbe i rapporti con l'ambasciata del Brasile a Roma».
Il ragazzo del «nord-est» silenziosamente rifece la sua valigia e uscì sulla strada. Quasi nessuno si era accorto del suo rapido passaggio per i grandi corridoi del seminario sulla via Aurelia.
Si chiama Tito de Alencar. Ha 26 anni. E' nato nel nordest del Brasile.
Fu arrestato a S. Paulo nel novembre del 69 insieme a molti altri preti e religiosi, sotto l'accusa di avere aiutato dei fuggiaschi (membri del Fronte di Liberazione) ad attraversare la frontiera meridionale del paese. Fu torturato selvaggiamente a due riprese, per lunghi giorni; una volta il sadismo degli aguzzini arrivò alla raffinatezza di escogitare una finta Eucarestia: gli misero in bocca una ostia che gli provocò scariche elettriche in tutto il corpo e rimase tramortito... quando si accorse che gli veniva meno la capacità di resistere e che avrebbe denunciato gli amici, si tagliò le vene. Ebbe salva la vita a stento.
Nel dicembre del 70 l'Avanguardia Popolare Rivoluzionaria sequestrò il Signor Bucher, ambasciatore della repubblica svizzera a Rio de Janeiro, e chiese in cambio la libertà per settanta prigionieri politici, tra cui Tito.
Dopo un periodo di ricupero in Cile, Tito è venuto in Europa e continua gli studi di teologia a Parigi, dove non ha ancora trovato il suo spazio umano, nella metropoli anonima degli esiliati. A Roma era di passaggio.
Due sere dopo, aveva scoperto degli amici e cenava a casa loro.
Qualcuno accennò all'ospitalità rifiutata ma egli non sembrò dare importanza all'episodio, disse che il carcere e la tortura gli avevano insegnato a non dar peso agli incidenti «secondari».
Alcuni dei presenti decisero di contestare il fatto e si recarono dai superiori del seminario brasiliano. Furono accolti con molta gentilezza ma fu ribadito il criterio della prudenza e dei buoni rapporti con l'ambasciata. L'affare finì in una assemblea generale degli alunni (anche perché uno dei superiori si era ricreduto e voleva fare pubblica ammenda); la discussione si insabbiò nelle divergenze di opinioni circa l'interpretazione del fatto. Niente di più.
Intanto quella sera anch'io ero a cena con Tito e i suoi amici e ascoltai molte cose che venivano dai sotterranei della storia dove nascono le radici della speranza. All'inizio Tito era restio a parlare, si schivava come se temesse di essere forzato a raccontare. Quando capì che nessuno chiedeva, cominciò a sentirsi a suo agio, smise di sfregarsi nervosamente i polsi e si rivelò. Ci disse che in carcere aveva scoperto la comunità. Con i fratelli nella fede e i fratelli nella sofferenza. Nella cella del penitenziario «Tiradentes» di S. Paulo, costruita per 15 persone e occupata da 40, ogni sera il gruppo dei preti si metteva insieme per riflettere sul Vangelo e trovarci la forza di non disperare dell'uomo. Dopo un po' di tempo i guerriglieri marxisti chiesero di partecipare: ascoltavano in silenzio, a volte interloquivano, ed erano straordinariamente fedeli «all'appuntamento». Una volta i preti prigionieri celebrarono l'Eucaristia e un guerrigliero di 20 anni (in seguito liberato con operazione-sequestro, poi ritornato clandestinamente in patria e ucciso dalla polizia) chiese di fare la comunione: «Vorrei tanto mangiare con voi questo pane, anche se non ho la stessa fede vostra, perché mi sento vostro fratello e fratello degli uomini e di questo Cristo di cui parlate tanto».
Queste cronache ci facevano mulinare mille inutili domande nel cervello, quella sera durante la cena, e uno di noi chiese a Tito se lui si considerava un cristiano-marxista. Non colpì nel segno evidentemente, e Tito rimase perplesso, parve non capire la domanda e poi disse: «ma io sono cristiano e mi basta, non sento il bisogno di aggettivi!».
Parlava lentamente, come se rivivesse una ad una le amare esperienze fatte. Evitò due argomenti: i suoi torturatori e i fratelli nella fede che per paura gli avevano negato l'ospitalità.

una sorella di Roma


Camminare sempre

Vorrei raccontare di tutta una trasformazione che a poco a poco mi è maturata nell'anima, non so se è una crescita di valori, una chiarificazione e liberazione di ricerca, una nuova e più forte, più radicata fedeltà. E' certamente come una scelta che piano piano si è essenzializzata, purificandosi da ogni entusiasmo (c'è sempre agli inizi), rafforzandosi cammin facendo (è l'irrobustimento che viene su dalla fatica), normalizzandosi come realtà definitiva, acquisita, ormai sicura.
E non vuol dire affatto sentirsi arrivati, come a cammino concluso, come a livelli e quote raggiunte: vuol dire semplicemente che non è più possibile, non soltanto non pentirsi o guardare indietro con rimpianto o cercare di rifarsi, rimaneggiando le scelte fatte, sistemandole in qualche maniera con annacquamenti vari o aggiuntamene saggi e prudenti, non è più possibile il fermarsi, perchè non esistono traguardi, non è pensabile camminare sull'altopiano. E cioè che la pace è impossibile, la sistemazione è un assurdo, l'arrendersi è peccato mortale.
E tutto questo evidentemente perchè la scelta fatta è una scelta cristiana e ancora di più, perchè toglie via ogni possibilità di misura, è una scelta sacerdotale.
E' ciò che nasce da Dio che non può e non deve morire più. Cioè non concludersi mai. Nemmeno è concesso il diritto al riposo. Perchè Dio è attualità incessante, è spinta senza fine, è creazione di novità inesauribile.
Tant'è vero che anche il Paradiso non può essere quello che grossolanamente molte volte fantastichiamo di riposi, di pace eterna, di eternità beata, rifacendoci evidentemente ai nostri concetti terreni fatti senza tener conto di Dio e di ciò che Dio è.
Perchè è dove Lui non è, e in proporzione a quanto Lui non è presente, vivo e determinante dì tutto, che vi può essere stasi, dormizione tranquilla, come di narcosi e pace cimiteriale all'ombra riposante dei cipressi.
E questa beatitudine può essere piuttosto inferno che paradiso.
Dove Dio è e tutto è in Lui perchè unicamente realtà di Dio, è la vita, la vitalità, la pienezza, la sovrabbondanza, l'incontenibilità... e cioè l'Amore,
Gesù ha svelato agli uomini questo Dio e ne ha fatto conoscere la Volontà di vita che non può accettare d'essere fermata e uccisa da nessuna forza di annientamento, come l'egoismo, l'odio, la ricchezza, la violenza, il potere, la sopraffazione, l'assassinio, la morte.
E contro ogni forza e tentativo di fermare e di bloccare a sistemazioni di morte ogni sviluppo e crescita di liberazione e di vita, si è ribellato, ha combattuto, ha accettato - per significare la misura estrema della sua lotta e il suo compromettercisi totalmente - di morire, ma risorgendo immediatamente (soltanto per tre giorni la vita è stata morta sotto terra) perchè ciò che Dio è, cioè la vita, fosse vivente tra gli uomini e gli uomini avessero la realtà vera di ciò che la loro è e deve essere, vivente nel loro vivere.
Quasi ad esplodere continuamente dentro la loro storia di energie di vita e di luce, a vincere il loro morire quotidiano per un appacificarsi e sistemarsi in somiglianze così indicative più di morte che di vita.
Ho tanta paura a volte di questo mio non credere alla resurrezione e cioè che la nostra vita è vita del vivere di Dio e in noi non vi può essere morte come non vi può essere in Lui, perchè non riesco a conservare vivi in me motivi di vita, perchè mi scoraggio e mi lascio abbattere con facili-tà, perchè mi sopraffa la delusione e la stanchezza, perchè non mi si ravviva continuamente l'anima ad accendermi tutto, e mi vince il cuore morto, la sfiducia più nera, la tentazione di rassegnarmi, di lasciarmi andare, di tirare i remi in barca e farmi portare dalla corrente...
So bene che tutto questo è non credere alla resurrezione né di Cristo, né mia, né dell'anima. E' non credere alla vita.
Chi mi conosce e si sorprende d'una mia impossibilità a rassegnarmi, a starmene in pace, della mia paura della sistemazione ecc. forse non si rende conto della fatica - a volte veramente spaventosa - a rompere sempre tutto, a rinascere continuamente, a sentire il passato soltanto come premessa per un ricominciare incessante, impietoso per me e per gli altri, e che questo travaglio è semplicemente atto di Fede in Dio e - povera e miserabile quanto si vuole, ma sicuramente intensa e sincera - ricerca di fedeltà a credere nella Resurrezione di Cristo. E cioè che Dio in Gesù Cristo e l'Amore nel mondo è il Fuoco nel roveto, è la Croce e la Resurrezione del Calvario, è la fiamma dei-la Pentecoste.
Provare nel povero, stanco, depresso vivere quotidiano di sé stesso e della storia, la convinzione, la sicurezza, che la vita è il vivere di Dio, è un riversarsi della vita di Dio, è il suo manifestarsi ed esprimersi, è rimanere come oppressi e schiacciati dall'enormità di questa realtà o riaccendersi, vibrare a energie incontenibili e rimettersi sempre sulla strada e camminare e camminare senza possibilità di fermarsi, di mettere su casa, affondare le radici e starsene in pace, difendendosi meglio che è possibile dalle intemperie, dalle problematiche, dalle angosce, riscaldandosi al sole d'estate e alla stufa d'inverno, leggendo il giornale e guardando la televisione, come affacciati alla finestra e la porta di casa è ben chiusa.
Non è proprio possibile. Anche a volerlo non si riesce.
E' inutile dire cosa succede a leggere il Vangelo come leggere pagine nelle quali leggi il racconto di quella che dovrebbe essere la tua vita.
E' terribile guardarsi intorno e pensare che chi ti è vicino, chiunque sia e qualsiasi cosa voglia da te, è tuo fratello e più ancora è creatura di Dio, realtà visibile di Cristo risorto e anche chi è lontano perché il cuore non ha limiti come gli occhi, e l'umanità intera è la famiglia perché ogni uomo chiama Padre tuo Padre...
A poco a poco tutta una trasformazione, per ritornare all'inizio di questa pagina scritta più nella mia anima che su questo foglio, per una realtà nuova, che forse niente di nuovo avrà, altro che un passo più avanti, una misura maggiore di un compromettersi con la propria Fede, un accentuarsi di ricerca per una fedeltà più totale.
E Dio voglia per bruciare di più e più presto di quel fuoco che Lui è venuto ad accendere sulla terra e non desidera altro che si accenda sempre di più.
So bene che la vita, la realtà di civiltà nella quale viviamo, complica terribilmente questa ricerca, accomodante e sistemante com'è questo nostro mondo che ormai tutto offre per il benessere e l'egoismo dell'uomo e non sopporta qualcosa di diverso e tanto meno di contrastante.
E so anche come il rischio sia giudicato nella Chiesa e quanto sia consentito. Il rischio di una ricerca di cammino non guidata dai binari, dagli scambi telecomandati, dai percorsi e dagli orari prestabiliti e ben sistemati sulle tabelle per evitare scontri e confusioni.
Eppure credo fermamente nella possibilità di una fedeltà assoluta. Alla Fede nel mondo e nella misura più totale. Alla scelta e alla vita sacerdotale nella linearità più impegnata e crescente. Alla Chiesa, continuità del mistero di Cristo e segno della sua Risurrezione e cioè del suo essere vivo e vivente fra gli uomini. E quindi in un vivere insieme alla Gerarchia, ai confratelli, al popolo cristiano, la tremenda responsabilità del Regno di Dio tra gli uomini.
Si è affacciato a poco a poco e ha preso forza fino ad invadere tutto e tutto dominare, il problema tra identità di valore fra fedeltà e rischio, fra libertà e obbedienza, maturità personale e impegno universale, fra lotta e Amore, guerriglia e pace....
Forse è cosa che succede semplicemente a un certo numero di anni, al punto comunemente considerato come d'arrivo, e diventa invece come il punto di ebollizione per l'acqua che è andata scaldandosi, di traboccamento quando tutto è arrivato all'orlo di pienezza. E a volte una goccia in più decide. Come una folata di vento per un incendio.
Vorrei essere capace del coraggio per cui qualsiasi rottura non incrini nemmeno minimamente la fedeltà.
Vorrei dare la testimonianza di una responsabilità personale che costruisce, sia pure faticosamente e dolorosamente, la comunione, quella di valori che veramente valgono.
Vorrei realizzare una lotta, appassionata e pronta a tutto, ma che significasse e fruttificasse soltanto Amore.
Vorrei avere la Fede che gioca d'azzardo tutto, assolutamente tutto, su Dio ed è disponibile e pronta a perdere la partita, serenamente, nella pace più totale.
Lo so, ormai è tanto tempo, che è come ostinarsi a sognare.
Ma ho deciso di non svegliarmi né lasciarmi svegliare da niente e da nessuno, altro che nel momento in cui gli occhi si apriranno dalle tenebre alla Luce.




don Sirio

I segni dei tempi

I segni dei tempi

Uno di noi aveva inviato una lettera aperta al nuovo vescovo militare, consacrato nell'ottobre scorso a Roma, durante il Sinodo.
Un amico di Milano ha risposto, dando la sua testimonianza in merito al problema.
Ci è sembrato bene pubblicarla perché è frutto di un'esperienza reale e molto amara, che crediamo comune a tanti giovani che hanno fatto il servizio militare.
Sulle conclusioni pratiche della lettera non siamo del tutto d'accordo: l'articolo precedente la lettera spiega la nostra posizione. Crediamo giusto interessarsi dei soldati: ma unicamente dall'esterno, fuori della caserma, per un annuncio cristiano integrale. A questo ci convince anche il racconto di questa esperienza vissuta.
Ringraziamo il nostro amico per la sua preziosa collaborazione.
La Redazione


Milano, 13.11.71

...Ho letto con piacere la lettera che lei ha inviato a Sette Giorni sull'ordinazione del vescovo militare.
Chi ha fatto il servizio militare sa che l'esercito è una istituzione che serve a far diventare i giovani dei burattini, che agiscono solo perché una cosa è stata ordinata dai sedicenti "superiori", senza chiedersi se è moralmente giusta o no; che insegna a uccidere su ordinazione, li deresponsabilizza, li sottopone in caserma a una repressione totale {divieto di leggere quello che sì ritiene utile, divieto di discutere, propaganda autoritaria fatta dai militari di carriera, le mille formalità assurde e alienanti che si devono fare continuamente in caserma) che ha lo scopo di distruggere moralmente la persona, per renderla un oggetto in mano a chi ha il potere.
Le assicuro che molti giovani che erano in caserma con me, prima a Roma-Cecchignola e poi altri a Istrana (TV) hanno trovato scandaloso che la "chiesa ufficiale" appoggiasse questo sistema disumano.
I cappellani militari in caserma difendevano sempre l'esercito, nelle prediche, al Vangelo a Messa, ci esortavano a ubbidire ai superiori, a non lamentarci di fare il militare, dicevano che il servizio militare ci rende uomini e mille scempiaggini del genere. Per questo "lavaggio del cervello" che ci dovevano fare i cappellani la messa in caserma era obbligatoria.
A Istrana il giorno 4 dicembre (1970), giorno di S. Barbara protettrice dell'artiglieria, ci fu una Messa in armi. Tutti i soldati furono portati in chiesa armati, al Santus fu dato il presentt'arm.
Il cappellano della caserma, don Silvio Nigrato, fece una predica dicendo "Dio protegga voi soldati da chi dice che le forze armate non servono, dagli obbiettori di coscienza che distruggono ogni norma del vivere civile, ecc..".
I soldati si arrabbiarono per queste parole ipocrite e la domenica successiva si rifiutarono tutti di andare a Messa, anche sotto la minaccia di punizione. .
Molti soldati proprio per l'immagine che offriva la chiesa ufficiale la abbandonarono, dicendo che era dalla parte dei padroni, di quelli che ci opprimevano e ci tenevano come schiavi.
Secondo me dovrebbe essere abolita la figura del cappellano militare (che è un militare a tutti gli effetti, fa parte delle FFAA ed è sottoposto ai "codici penali militari") e la diocesi castrense. Basterebbe che un prete del luogo dove c'è la caserma andasse in caserma a trovare i soldati, a parlare con loro, a dire la messa. In caso deprecato di guerra, basterebbe che i preti seguissero le truppe, ma senza far parte delle FFAA.
Sono convinto poi che è compito di tutti i cristiani lottare contro le strutture oppressive dell'uomo come le attuali forze armate italiane. E' un campo in cui i cristiani sono rimasti ancora molto indietro, forse non sapendo leggere i segni dei tempi...
(lettera firmata)

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