LA VOCE DEI POVERI: La VdP ottobre 1971

La lotta come Amore

E' problema cristiano fondamentale da secoli, ma specialmente del nostro tempo, scoprire e chiarire come sia possibile, e anzi quanto sia giusto, che lotta e Amore non si escludano in maniera irriducibile, quasi come realtà contraddittorie, ma possano invece - in una visione cristiana seriamente approfondita e vissuta - integrarsi fino alla verità e alle misure estreme di Regno di Dio, fino alla possibilità cioè che lotta possa essere autentica realtà di Amore. (Scriviamo sempre Amore con lettera maiuscola perché è sinonimo di Dio, espressione unica e perfetta del suo essere e della sua volontà, mistero di Cristo nella sua essenzialità, unica realtà di unità e comunione fra gli uomini...).
Perché lotta e Amore possano risultare valori addirittura complementari quasi fino al punto che dove non è lotta non può esservi Amore e conseguentemente dove è Amore vi dev'essere lotta, bisognerebbe chiarire il concetto esatto di lotta, la sua positività, il suo valore attivo, costruente, liberandolo da tutto quell'asservimento egoistico che ha inquinato il significato vero, puro, di lotta, riducendola ad un fatto, ad un mezzo di conquista a tutti i costi, ma specialmente a prezzo pagato dagli altri, dai valori, dalla libertà, dal rispetto, dalla vita stessa degli altri, per affermazione di sé, dei propri egoismi, dei propri trionfi, dei propri interessi.
Fino al punto di pervertimento è arrivata la idea di lotta, che lottare significa odiare, la lotta è per vincere, per sopraffare e passa unicamente attraverso la via obbligata della violenza. E violenza fino alle misure del sangue.
Del resto lo stesso pervertimento, anche se a percorso diverso, è toccato alla parola Amore. E così gravemente, che nella ricerca di un linguaggio spiritualistico, predicatorio, pietistico, Amore è sostituito da Carità, tanto la parola è di uso profano. E sta ritornando nel parlare spirituale, evangelico e teologico perché ormai carità vuol dire elemosina, lo spicciolo dato al povero all'angolo della strada, il vestito dimesso regalato alla S. Vincenzo parrocchiale.
E' la storia di valori meravigliosi, fondamentali, nati e sgorgati dal Mistero di Dio e significanti la sua natura divina ed espressi dal suo donarsi adorabile, dal suo comunicarsi infinito, a poco a poco disorientati, smarriti, deformati, immiseriti fino a chiudersi in significati che appena appena un cuore limpido e un'anima adorante riescono a sentirvi adombrato - come una nostalgia a richiami lontanissimi - il mistero iniziale. Quello di Dio.
Non è più possibile - ma da quando? - se non nella beatitudine dei puri di cuore vedere Dio e trovarlo e viverlo nell'Amore.
Pare strano eppure è così: la verità che dovrebbe essere la più semplice ad accogliersi e a viversi con la felicità più profonda: «Dio è Amore» diventa quasi inavvertibile, inafferrabile, quasi incredibile, perché non sappiamo cosa vuol dire Amore, non riusciamo a coglierne la realtà, la concretezza, sfumandosi ed evanescendo in un sentimento, in una sensibilità fisica, in un qualcosa di bambinesco, di femminile, di erotismo insomma, purificato ed affinato quanto si vuole, ma non in modo tale che possa uscire finalmente dai conventi, dai libri di pietà spiritualistica, da misticismi sospirosi e affacciarsi sulle piazze, a mescolarsi fra le folle, camminare a fronte alta per le strade a segnare un orientamento, entrare nelle fabbriche a lievitare una liberazione, decidere nei rapporti umani e diventare forza di costruzione sociale, determinazione del corso della storia.
Perché tutto questo avvenga, c'è semplicemente una cosa da fare.
Ridare all'Amore il suo vero ed essenziale significato, facendone una realtà di lotta.
Riprendere a lottare realizzando una lotta forte unicamente della violenza dell'Amore e motivata soltanto dalla necessità irresistibile dell'Amore.
Tutta la storia della rivelazione, dalla prima pagina del Genesi, all'ultima dell'Apocalisse, è storia della lotta d'Amore e per Amore, lottata appassionatamente da Dio.
Perché la creazione è lotta vittoriosa contro il vuoto del nulla. E la realtà di continuità di questa lotta è nell'aurora di ogni giorno.
E l'inizio di altra lotta è l'apparire, quasi nato da una inimmaginabile lotta di tutto l'universo, dell'uomo. Quasi ad essere «l'altro» col quale Dio è a lottare perché il suo Amore possa misurarsi nelle sue misure più infinite.
E poi l'Esodo di allora e di sempre del popolo eletto e di ogni uomo per l'incessante lotta di liberazione da un abbarbicarsi testardo, per una richiesta continuamente pressante di disponibilità all'Amore verso una conquista senza riposi di terra promessa dove scorra il latte e il miele della gloria di Dio e dell'Amore fra gli uomini.
Fino alla pagina che narra della lotta personale vissuta dall'Amore che si è fatto carne. Perché Gesù Cristo è unicamente e totalmente lotta. E' Dio perché è Amore che lotta. E lotta unicamente Amore, attraverso l'Amore, tutta rivolta all'Amore.
Questo adorabile amore di Cristo che è lotta allo scoperto e con violenze d'amore infinite. Perchè da questo mondo l'odio fiorisca dell'Amore da renderlo ancora creazione di Dio. Perchè in quest'umanità maledetta gli uomini si ritrovino fratelli. Perché una voce a corale senza fine salga fino al cielo a chiamare: Abba, Padre.
E da questa lotta d'Amore la lotta della povertà contro la ricchezza. Della verginità contro la lussuria. Del servire a Dio solo, respingendo ogni altro servilismo.
Lotta d'Amore e quindi libera, allo scoperto, senza paura. Con sicurezze assolute.
Lotta umile e semplice, senza trionfi e glorie, come una obbedienza infantile e una strategia sicura, a misure universali
Amore che lotta e quindi lotta per la quale si muore. Ma la morte ancora come lotta. Perchè possa essere una morte Amore.
E la sua Resurrezione è la lotta contro la morte. Contro la morte che imperversa nel mondo - e quanta morte oltre quella che spenge gli occhi e ferma il cuore - sta la lotta della sua Resurrezione a dare vita eterna a chi crede in Lui.
Cristiano è chi crede che l'Amore è lotta e vi gioca la sua vita.
E' tema che vorremmo tanto approfondire nonostante la nostra impreparazione, rimediabile soltanto forse da un convincimento assoluto, da una Fede chiarissima, che nella profondità dell'Essere infinito di Dio vi è come una sorgente di fuoco, di luce che si allarga sempre più a vincere le tenebre fino allo splendore di tutta la luce.
E' in questo mistero di lotta d'Amore che squassa la storia in vicende così drammatiche di disperazione e di speranza, che sentiamo l'annuncio del Vangelo come un grido di lotta perché l'Amore trionfi.
«Sono venuto a portare il fuoco e cosa voglio se non che si accenda?».
E' alla luce e al calore di questo fuoco che brucia e vuol bruciare che intendiamo lottare per essere un po' di Amore nel mondo.

La Redazione


«Se Cristo avesse fatto un'inchiesta e tenuto conto dell'opinione pubblica, prima di proclamare le Beatitudini, non le avrebbe mai proclamate».
Mons. D'Almeira Trindade

Non ha più senso amare l'uomo senza addossarsi il compito della sua liberazione.
P. Balducci



La maledizione del Potere

Dispiace che un discorso chiaro e appassionato nei confronti della realtà storica della Chiesa sia scambiato ostinatamente per polemica. Non si dicono certe cose per prurito di contestazione, di contrasto ad ogni costo, di vana mormorazione. Per noi è soltanto Amore, e vorremmo anzi esprimerlo in modo molto più forte e deciso, secondo lo stile così preciso e immediato di Gesù, con la sua stessa fedeltà alle cose del Regno di Dio. Nella parola e nell'azione.
Se i nostri fratelli sacerdoti o cristiani (e sono diversi) si induriscono di fronte al nostro discorso che nasce unicamente dalla concretezza del vivere quotidiano insieme ai nostri fratelli, dalla preghiera raccolta come dono meraviglioso di Dio nelle nostre giornate segnate di lavoro, di accoglienza, di attenzione agli altri, se si induriscono perché hanno l'impressione di qualcosa di sbagliato, questo ci fa dispiacere, ma non ci ferma.
Una cosa deve essere molto chiara e per noi evidente: non cerchiamo i nostri vantaggi, non diciamo le cose che possono contribuire al nostro star bene, non ci interessa di noi. L'impegno, la consacrazione, la scelta è per la Verità: quella che ci ha rivelato Gesù Cristo e che va resa vita e storia vissuta.. Verità che non pensiamo affatto di «possedere», ma dalla quale avvertiamo di essere raggiunti e sospinti incessantemente a «gridare dai tetti quello che ci viene sussurrato all'orecchio». Preferiamo perciò rischiare di sbagliare, piuttosto che fare i finti sordi.
Tutto questo è per introdurre una riflessione amarissima, pesante e a volte angosciosa su una «maledizione» che la Chiesa di Gesù Cristo nella sua storia attraverso lo scorrere del tempo si porta addosso e dalla quale non sembra seriamente e definitivamente decisa a liberarsi. Maledizione che Gesù stesso ha sperimentato nella sua vita e superato nella Fedeltà all'Assoluto Valore di Dio, proponendo così attraverso la sua stessa carne una linea ben precisa di azione e di presenza dentro la storia umana.
Maledizione del Potere: demonio terribile, dalle mille forme e dai mille volti, sempre pronto ad insinuarsi fra le pieghe del nostro cuore e a prendersi campo, fino a diventare «struttura storica» della vita dei cristiani che per essenza sono chiamati ad essere non coloro che dominano e comandano, ma coloro che servono. «Non sono venuto per essere servito, ma per servire»: non per essere il Padrone, ma lo schiavo. L'Amore di cui parla tutta la storia di Gesù, l'Amore che ci è offerto dalla grotta di Betlem, dall'officina di Nazaret, dalle strade sassose e assolate della Palestina, dalla nudità di una croce e di quattro chiodi è Amore spogliato di qualunque ombra di potere, di dominio, dì forza, di affermazione di un diritto, di privilegio.
E' Dono puro e assoluto.
La Chiesa - il popolo di Gesù, la famiglia dei suoi fratelli e delle sue sorelle - avrebbe dovuto mantenere il cuore lucido di fronte a qualunque possibile tentativo di penetrazione da parte dell'avversario più pericoloso, più terribile, più mortale qual'è il Potere.
Se è vero che «Dov'è carità e amore, lì c'è Dio» è altrettanto vero che dov'è Potere Dio non c'è. Se c'è un «Beati» per «i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati e gli assetati di giustizia, i perseguitati», c'è anche un «guai» per i ricchi, gli oppressori, i violenti, gli sfruttatori, i persecutori di ogni tipo. E' duro sentirci dire queste cose, ma non possiamo sottrarci davanti alla luce della verità evangelica, né tentare di addolcirla: la Verità in questione non è un sistema di pensiero, un insieme di idee, una sapienza culturale, ma il Figlio del Padre fatto uomo. E di fronte a Lui la scelta è inevitabile: o diviene la «pietra angolare» su cui costruire la propria storia oppure diventa pietra d'inciampo, segno di contraddizione, ostacolo ai propri passi.
La vita della Chiesa è legata a questo Mistero di Incarnazione del Figlio di Dio, alla sua esistenza umana senza potere, all'infuori di quello di perdonare i peccati, annunciare il vangelo ai poveri, rimandare in libertà i prigionieri, ridare la vista ai ciechi, resuscitare i morti, dare la vita per i propri amici. E' il Potere che nasce dal cuore di Dio, che lo manifesta al mondo come Amore assoluto, come Colui che di continuo alimenta la vita e la custodisce. E' lo stesso Potere di cui Pietro può dire allo storpio di Gerusalemme: «Non ho né oro né argento; ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo di Nazareth alzati e cammina» (Atti 3,6). La Chiesa, oggi, non può ripetere le stesse parole a fronte alta, e non solo per la storia passata, ma anche per tutto un insieme di realtà nelle quali tuttora è compromessa. Le sue mani non sono davvero come quelle di Pietro, nude, segnate di fatica, libere dal demone dell'oro; e anche il suo cuore non è ricolmato unicamente dall'Amore per il Suo Signore. Essa, a vari livelli e in misure diverse, continua a vivere in una vera e propria prostituzione, legata com'è al Potere maledetto del denaro, degli interessi politici, del militarismo, del possesso. E' Chiesa dei poveri, degli umili, dei piccoli, degli oppressi, perché c'è tutto un popolo fatto così che le appartiene e ne è parte viva; ma è anche Chiesa dei ricchi, dei padroni, degli sfruttatori, dei forti, dei potenti, dei servi del dio delle casseforti, degli eserciti, dei compromessi politici. Essa porta nel suo seno la Beatitudine dell'Amore e insieme la maledizione del Potere. Ed è la sua misteriosa volontà di restare imbrigliata in questa maledizione che l'ha resa e la rende ancora, nel cammino degli uomini, «tomba di Dio» anziché seme di vita, di liberazione, di resurrezione incessante.
E' questa maledizione alla quale si prostituisce che la fa apparire agli occhi dei poveri un «ostacolo storico» da abbattere e spazzar via, perché la strada verso la Giustizia non passa fra le sue mura.
In questo, essa veramente è «satana», come Pietro dinanzi a Gesù che gli manifestava il compimento del suo dono d'Amore per gli uomini attraverso la Croce: «Allontanati da me, Satana, perché tu non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Marco 8, 31-33).
E' contro questa Chiesa, per Amore, nella Fedeltà a Colui che è l'unica ragione della nostra vita, che intendiamo lottare ad oltranza. In noi prima di tutto, ma anche fuori di noi.


don Beppe

Mensa operaia

Premessa. Non ho mai fatto uno scritto di mia iniziativa, ma dietro suggerimento e in collaborazione con qualche altro fratello, perché non avevo entusiasmo a comunicare cose che preferisco vivere nel silenzio, ed anche perché mi trovo in difficoltà se non conosco un poco coloro con cui parlo.
Ora comincio cercando di dare un seguito a quelle discussioni che facciamo alla «mensa operaia».
Lo scopo è quello di mettere:
1° in comune con voi le amicizie che crescono (quindi al centro di tutto ci sono non discorsi ma persone che vi farò conoscere sempre per nome) ;
2° creare un collegamento così di mentalità, cioè mettere in circolazione tutte le idee e le impressioni che si raccolgono;
3° e tutto questo nel modo più semplice possibile.
Vi presento i miei compagni di tavola. Siamo circa dieci di cui alcuni stabili e altri fluttuanti, alcuni silenziosi e altri interessati a qualsiasi argomento. Concludendo, sono: Guido, Alfredo, Mariolino, Moreno, Bianchi, Mauro più i silenziosi.
Nei primi mesi, dopo aver rotto il silenzio e la novità dell'incontro, c'è stata subito guerra.
C'è un argomento che da allora continua a suscitare scontri.
A casa nostra non c'è la TV, andiamo quasi mai a vedere films, e non amiamo molto la cultura della scuola, delle nozioni.
Già ha creato subito meraviglia, perché questi compagni si sarebbero aspettato da «uno che ha studiato» l'esaltazione del sapere, l'ammirazione dei vari campioncini di «rischiatutto», o il corrispettivo di una cultura televisiva e borghese: tutto quello che si compra a buon mercato, ad esempio, la sera, per distendere i nervi e poi per proiettare fuori della vita le aspirazioni e i rospi ingoiati durante il giorno.
Ogni cosa però serve a mantenere in esercizio la capacità di pensare, una parola in più crea maggior sicurezza, dice Alfredo, e così ne può nascere un discorso successivo, ed una crescita di coscienza.
Infatti una povertà di informazione blocca l'autonomia del pensare, più vita si conosce e più conseguenze se ne traggono.
La mancanza di uno sviluppo dello studio è in fondo una nostalgia segreta, che nasconde l'insicurezza della maggior parte di loro.
Sotto questa coltre pesante c'è un sapere autentico e genuino. L'intuizione degli elementi essenziali dell'esistenza sviluppati nella lotta per la vita, nella fedeltà alla famiglia, e nella tempra di chi lavora duramente.
E' il sapere le cose all'atto pratico, dice Guido, senza sovrappiù. Nella morsa della fatica, si acuisce lo sguardo, si getta a mare il superfluo, e si arriva a segno, diritti al cuore delle cose, al giudizio sulla realtà. Spesso avviene in modo rude e violento, ma sicuramente vero.
Tutto deve ancora molto crescere e prendere forza, non lasciarsi inquinare, o addormentare da chi ha l'interesse a non far venire in superficie questa potenza di pensiero e di decisione.
Il difficile è farlo insieme e sui problemi essenziali, non quelli fasulli e falsi.
Ci vuole piena fiducia in se stessi, dice Mariolino.
Non è tutto, ma questo è il bello della «Persona» che non si finisce mai di conoscere, soprattutto se è una Persona-Collettiva, una Classe, come si dice.
A me è capitato come quando in autunno faccio passeggiate sulle Alpi Apuane: sotto le foglie secche dei castagni gorgoglia un po' d'acqua che scorre limpida e nascosta.
Bisogna aver sete per accorgersene. Bisogna assetare per farla scoprire.






don Mario

Digiuno in Piazza S. Pietro

Siamo andati a Roma, alcuni di noi, l'altra domenica, quella nella quale il Papa aveva indetto per tutta la cristianità una giornata di digiuno, di preghiera, di raccolta di offerte per i profughi del Pakistan dell'est.
Sappiamo bene che si poteva stare a casa nostra a fare il digiuno e a raccogliere offerte.
E non pensiamo affatto che l'avere digiunato in piazza S. Pietro abbia aiutato di più quei milioni di disgraziati che una orribile guerra civile ha spinto ad andare a morire di fame e di epidemie nell'India.
Non siamo andati nemmeno, anzi tanto meno, a protestare perché ci sembravano pochi i ventimila dollari dati dal Papa insieme ad una preziosissima croce pettorale e perché ne donasse centomila o un milione e tutte le croci d'oro e di pietre preziose che potrà avere a sua disposizione.
Siamo andati a protestare contro il sistema della carità che si ferma all'elemosina (che poi in fondo sono sempre le briciole: briciole per chi offre e tanto più briciole per chi riceve) e dell'elemosina si contenta e si acquieta. Ci si ammanta come di sacro paludamento, se ne fa una giustificazione, come qualcosa che conclude tutto un problema.
Di fronte alla fame che imperversa nel mondo e alla guerra che dilania popoli e continenti, la chiesa deve trovare ancora - e è terribile il constatarlo - la sua giusta collocazione.
Non è possibile perché assolutamente non cristiana una posizione di centro. L'equidistanza è disonestà. L'anello di congiunzione è un assurdo. Il prendere da una parte e dare dall'altra - rapporto così caro alla diplomazia della carità - è autentico tradimento. E' approfondire l'abisso divisorio, anche se a tutto vantaggio del ponte sul quale può correre l'elemosina.
Fra i poveri e i ricchi vi è ben altro di separazione che la ricchezza. E se anche le briciole crescessero fino a capitali enormi, la separazione rimane, anzi addirittura aumenterebbe.
Come aumentano la separazione fra il Vaticano e i pakistani i ventimila dollari e le somme che la cristianità potrà inviare a sollievo di quella fame.
Perché quando si affronta il problema dell'Amore non qualcosa bisogna dare, ma tutto. Diversamente non è questione di dare poco Amo re, ma è un darne niente. E qui non vale: meglio poco che niente. Nessuno di noi difatti si contenta di un po' d'Amore, ma tutto lo vorrebbe e è esigenza implacabile, di fronte alla quale ci si arrende, quando va bene, soltanto di fronte alla impossibilità del tutto.
Del resto il comandamento dell'Amore gioca la sua precisazione di misura su quella semplice eppur tanto terribile parola: tutto.
E non basta nemmeno dare tutto quello che si ha, per essere esatti e precisi, dato che si tratta di problema fondamentale e decisivo nel Cristianesimo e quindi nella Chiesa, e sembrerebbe già così tanto Amore. Ma sarebbe in fondo una semplice restituzione dare via tutto quello che si ha. Anche la Chiesa, donando tutte le sue ricchezze, forse restituirebbe semplicemente molto di quello che è stato rubato, ottenuto con l'inganno, offerto da chi doveva riparare furti molto più grossi.
Sotto la ricchezza accumulata vi è sempre la coda del diavolo. E non c'è mare d'acqua santa che possa lavarla.
Tanto più quando la ricchezza diventa proprietà, sicurezza di possedimento, affermazione del mio, ben tagliato e separato dal tuo, a base di leggi, di codici fatti risalire nientemeno che alla volontà di Dio.
Dare via tutto fino alla pietra dove posare il capo e la tana dove rifugiarsi, è un semplice atto di giustizia, a ben pensarci.
E' creare semplicemente le condizioni perché dove la giustizia conclude il suo cammino, possa iniziarsi quello dell'Amore.
Il quale Amore nasce al momento della scelta chiara e coraggiosa: quella di mettersi interamente e totalmente da una parte, condividerla fino in fondo e lottarvi e morirvi.
La Chiesa deve dare all'umanità e ai poveri in particolare, quello che le appartiene come sua unica ricchezza: l'inquietare il mondo e turbarlo profondamente per le sue spaventose ingiustizie. Il separarsi, come realtà di condanna, dalla ragione economica che imperversa sull'umanità e stabilisce privilegi intollerabili e miserie da infinita, irrimediabile disperazione. Liberarsi da ogni validità temporalistica purificandosi da ogni e qualsiasi rapporto di potenza. Per essere segno e realtà e sacramento di Cristo fra gli uomini. La sua lotta viva e vivente di liberazione e di redenzione. Giudizio di Dio incombente sempre sulla storia.
Vi sarà sempre chi avrà fame. E chi sarà schiacciato dalla guerra. Mangiato dall'ingiustizia e dalla prepotenza. Continuerà ad andare avanti questo mondaccio infame, ecc..
Ma non vi sarà un sinedrio a ipotecare Dio. Sommi sacerdoti a mascherarlo. Sinagoghe dove venderlo. Una religione cultuale e devozionalistica...
Vi sarà invece Gesù Cristo della vita a Nazareth, della montagna delle Beatitudini, del capitolo 23 del Vangelo di Matteo, Gesù Cristo condannato da tutti i tribunali religiosi e civili, Gesù Cristo del Calvario e della Croce, a morire fra due ladroni...
Sognare la Chiesa così, modellata su Gesù Cristo, continuità storica di Lui, non è mettere in dubbio le sue motivazioni soprannaturali, profondamente religiose, sacramentali e sacerdotali, ma è semplicemente sognare che il Figlio di Dio continuamente si fa uomo, rischiando tutto e pagando ogni prezzo, perché l'uomo sia responsabilmente aiutato a diventare figlio di Dio.
E questa è la Chiesa, il popolo di Dio comprendente ogni chiamato, ogni eletto con il suo carisma personale, come luce accesa che illumina, come pietra angolare che regge tutta la storia come sale che dia sapore a questo vivere, a volte così maledettamente insipido e assurdo, come è quello dell'umanità.
Per questa volta ci siamo conquistati un angoletto ai piedi dell'obelisco dove sta scritto «in hoc signo vinces» perché porta una croce sulla sommità, in Piazza S. Pietro.
E non è stato facile, con tutta quella polizia a gironzolare in quella piazza, cuore della Chiesa,, come mi hanno sempre detto, e dove un poliziotto gridava che lì non vi era libertà di parola, non è stato facile rizzare due grossi cartelli dove era semplicemente scritto che a noi cristiani, alla Chiesa, è richiesto molto di più del digiunare e dare le briciole, ma è richiesto invece dalla Sua Parola: vai vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e vieni e seguimi.
E per tutto il giorno non ha pesato il digiuno, il sole, l'essere guardati dalla folla come dei poveri sciocchi, la sopportazione a denti stretti della polizia, le discussioni senza fine con chi voleva parlare, ecc., ma pesava terribilmente che avere Fede e prendere sul serio Gesù Cristo è una sconcertante assurdità, nella Chiesa.


don Sirio

Per sempre

Non sapevo prima
Che «Sempre» fosse una parola tanto lunga.
Udito non avevo
I lenti colpi d'orologio del tempo.

E' difficile imparare così tardi;
Sembra che un cuore triste non impari mai,
Ma spera e confida, dubita e teme.
Arde e sanguina.

La notte non è tutta oscura,
Né il giorno è ciò che sembra,
Ma potrebbero portare questo sollievo:
I miei sogni, tanti sogni.

Non sapevo prima
Che «Mai» fosse una parola tanto triste,
Avvolgetemi dunque nell'oblio,
Io non ho udito.




Paul Laurence Dumbar

La famiglia del prete

E' evidente che oggi non è più il momento di proporre ai giovani come soluzione di vita il matrimonio o la vita religiosa, come unica alternativa, anche perchè si vanno verificando sempre più due fenomeni: la crisi della famiglia nella quale il rapporto moglie-marito non riesce più a collocarsi secondo uno schema tradizionale di ruoli, e la donna in specie si sente sempre più lacerata fra il ruolo moglie-madre e quello lavoro-società; e un numero ogni giorno maggiore di persone che hanno rinunciato al matrimonio e tirano avanti grossi impegni in campo professionale, politico o semplicemente umano, accentuando maggiormente col loro stile di vita, un discorso di schemi uomo-donna, superati.
La società ha oggi bisogno di riscoprire chi sia l'uomo e chi sia la donna, anche lentamente, faticosamente, disordinatamente, ma sotto la spinta di un cammino ormai inevitabile.
La chiesa, l'unica che ha indicato per secoli la possibilità di realizzarsi in uno stile di vita che non fosse quello coniugale (verginità) ha purtroppo sempre perduto la sua partita di essere voce viva e vera di umanità, e ha tentato di sottrarsi all'enorme fatica di cercare un volto pienamente umano al proprio esistere - chiudendosi in una assurda separazione di difesa: da una parte gli uomini, ben distanti le donne.
Oggi che tutti sono per la via abbiamo di nuovo offerta la possibilità di camminare con la ricerca di ognuno nella pazienza di verificarci continuamente con la vita, nella sicurezza di portarvi un pò di lievito buono, per questo il Sinodo dei Vescovi, che si è lungamente soffermato sulla questione del celibato dei preti, non può limitarsi a ripetere una semplice adesione alla legge e alla disciplina tradizionale. Il celibato non può essere attualmente riproposto al di fuori di responsabilità precise che ne fanno una strada diversa da quella coniugale, strada che deve riscoprire il suo volto nella realtà concreta di ogni giorno. I legami di sangue e di carne si precisano lasciando spazio a legami originati da un ideale comune, da un senso di fraternità universale, da un'attenzione piena d'amore per una situazione di povertà, di sete e di fame di giustizia... là dove all'uomo e alla donna è richiesto lo stesso impegno per cui non c'è differenza se non quella che è formidabile tendenza ad essere una cosa sola, comunione e riconciliazione delle creature.
L'uomo o la donna che non scelgono la vita coniugale, non per questo per esempio, sono privati della responsabilità di avere una casa, un lavoro, una «famiglia», e non per questo sono esentati dal dover cercare un proprio volto, un proprio ruolo come uomo e come donna. Non certo persone che si fanno da sé, evitando ogni rapporto reciproco o confidandolo in modi e forme convenzionali.
In questo il cristiano e quindi anche il prete non rappresentano delle eccezioni; solo che il legame, il nodo di tutta questa ricerca di valori è (in modo assolutamente prevalente per il prete) il regno di Dio e il suo continuo sforzo di essere generato nei cuori degli uomini.
Per questo il prete non può continuare ad identificarsi nell'uomo che vive solo, separato dagli altri, in un «ambiente» sacro che gli dà un volto umano sbiadito, quasi irreale.
Se ha una casa deve vedersi che è la casa di un uomo che affronta la vita con responsabilità, cercando di rendere concreto nella propria esistenza, il Vangelo che annuncia. Una casa pagata giorno per giorno con la propria fatica e subito offerta a tutti, senza orari che non siano quelli del buon senso, dove chiunque può entrare senza imbarazzo e sentirsi accolto. Una casa che non è quella dello scapolone o del figlio non ancora accasato che è una posizione di privilegio, custodito e servito, ma una casa che accoglie anche le persone che condividono una vita sacerdotale, chi cerca una strada, chi ha bisogno di un tetto, di una amicizia, di un aiuto.
Se è vero che la famiglia del sacerdote è tutta una parrocchia, la gente che è chiamata a servire, questo non vuol dire che il sacerdote non debba accogliere una sua «famiglia» segno concreto di tutta un'attenzione che si allarga senza confini. E' qui che il prete è chiamato ad assumere la sua responsabilità di uomo che tira avanti le cose con il suo lavoro, la sua fatica di ogni giorno, la sua forza d'animo, la sua capacità di allargare il cuore oltre la misura.
Una «famiglia», quella del prete, capace di vera accoglienza di persone, di situazioni, di problemi. Senza difese. Non una compensazione alla sua scelta di solitudine, ma spinta ad osare sempre di più, a misure di accoglienza sempre maggiori, là dove la famiglia non è freno, ma primo passo cui necessariamente devono seguire molti altri. Là dove la «famiglia» è luogo in cui si riversa l'attesa viva del Regno di Dio e quindi la sete lacerante di Lui che non concede riposo.
Questo e tanto di più è compito del sacerdote perché dev'essere un uomo ed ha il dovere, lui, uomo di Dio, di affrontare questo problema entrando nel mondo in fedeltà di vita ed è nella sua accoglienza piena che può finalmente offrire il proprio contributo per dare al rapporto uomo-donna il vero valore e l'autentica dimensione.
Se non è possibile richiamarsi ad una formazione nel Seminario (piuttosto un peso assurdo) e neppure ad un riscontro diretto con il mondo che attende piuttosto un apporto di valore, non è neppure studiando e meditando che uscirà fuori una proposta nuova di vivere il celibato. E' una ricerca cui è attesa tutta la Chiesa e quindi l'apporto di ciascuno risulta decisivo e irrinunciabile.
Apporto di ricerca pagata e sofferta di persona con autentica fiducia nella indicazione di Gesù.
La Chiesa non ha mai nascosta la propria insofferenza nel considerare seriamente la possibilità di un rapporto nuovo tra l'uomo e la donna. La vita di alcuni santi che hanno accolto con fiducia l'esempio del Signore non è stata mai veramente accolta e il richiamarsi a Gesù in questo senso è sospetto. Sarà senz'altro una grossa difficoltà il peso di quest'inerzia di secoli, ma la Chiesa è chiamata anche qui ad essere lievito di nuova realtà. Rifiutarsi significa perdere contatto con la realtà, rimanere estranea alla storia umana, rinunziare ad essere continuazione di Cristo, parola che vivifica.


don Luigi

Lettera aperta ai cristiani degli Stati Uniti

«Tu sei l'unico abitante di Gerusalemme che ignora cos'è successo in questi giorni, ciò che è successo a Gesù di Nazareth, che fu un profeta potente in opere e parole davanti a Dio e a tutto il popolo, e come i nostri sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato perché fosse condannato a morte e lo hanno crocefisso» (Luca 24, 18-20).
Anche qui, a Montevideo, capitale della Repubblica Orientale dell'Uruguay, pochi giorni fa sono successe queste cose. Julio, militante cattolico, che ha dedicato la sua vita a «soddisfare l'esigenza di giustizia e d'equità» (Gaudium et Spes 66), Julio Sposito, studente di 19 anni, è stato assassinato alle spalle dalla polizia uruguaiana, con una pallottola nel cuore che, come tante altre pallottole che hanno colpito i nostri militanti, anch'essa è venuta dal Nord.
Julio non è stato il primo. Molti studenti, operai, e perfino poliziotti sono stati uccisi, vittime della violenza imposta dal regime dell'attuale governo. Centinaia di militanti politici e sindacali sono stati condannati al confino senza processo e in condizioni disumane; centinaia di funzionari e operai sono strati licenziati per ragioni ideologiche.
L'Uruguay, la «Svizzera dell'America», non esiste più. Esiste un popolo che soffre e combatte, che porta sulle spalle tutto il peso di una dittatura sempre più sfacciata.
Da tre anni in Uruguay i salari sono congelati. Le libertà sono limitate giorno per giorno, sotto il pretesto di «combattere la sedizione», e sotto la protezione delle «misure di emergenza» si perquisiscono migliaia di case e locali sindacali e universitari; si tortura, si chiudono giornali col pretesto di «istigazione alla violenza»; si «mettono fuori legge» i partiti; si proibiscono manifestazioni contrarie al governo.
Si vuol far credere che il contrasto stia tra «sediziosi» (Tupamaros) e «governo», tra il «caos» e l'«ordine»; ma il popolo uruguaiano sa molto bene che la separazione esiste tra il popolo e un piccolo gruppo di oligarchi che lo rendono vittima dei loro insaziabili interessi economici, attraverso la «ristrutturazione della banca», l'industria della carne, quella tessile, secondo le direttive del Fondo Monetario Internazionale, e tutto ciò si traduce in licenziamenti in massa, repressione, carcere, torture, eccetera.
Noi, la piccola comunità cristiana dell'Uruguay, coscienti di essere «chiesa», come il cieco di Gerico abbiamo chiesto al Signore che apra i nostri occhi e abbiamo ricuperato la vista (Matteo 29, 19 s.), e come quelli di Galilea ci rifiutiamo di tacere e vogliamo mostrare di Lui su tutta la terra (Matteo 9, 31); vogliamo mostrare al mondo il nostro Cristo, l'«Ecce Homo» frustato, schernito, appeso alla sua croce, ucciso, come tonti dei nostri compatrioti, di diverse tendenze politiche e filosofiche, e molti di essi identificati in amore e dedizione.
E' il volto della chiesa, una e universale, è il volto del popolo di Cristo; è la comunità di un popolo che, in un modo o nell'altro, cosciente o no, lo riconosce in «verità e in santo servizio» (Lumen gentìum 9).
Ci dirigiamo ai cristiani e agli uomini di buona volontà degli Stati Uniti perché assieme a noi oppongano il bene al male, la donna al dragone, l'agnello alla bestia, Cristo, il Fedele, il Verace, colui che giudica e combatte con giustizia, a Babilonia la grande, la madre dei fornicatori e delle abominazioni della terra (Apocalisse 12, 17). La solidarietà dei figli di Dio deve gridare contro le solidarietà dei figli di Satana.
Tutta la nostra economia, tutte le armi puntate contro il nostro popolo, le pallottole assassine e le bombe al plastico che le organizzazioni poliziesche e parapoliziesche (Gioventù uruguaiane in piedi) utilizzano, sono importate, sono «Made in Usa», un'altra delle forme che assumono in America Latina, le stesse armi che uccidono in Vietnam, in Santo Domingo, in Brasile o in Pakistan.
Non vogliamo odiare l'americano, vogliamo amarlo, essere fratelli di tutti i popoli, ma tutti gli anni gli Stati Uniti aumentano i loro aiuti per armare le dittature contro i loro popoli, per difendere i loro interessi in America Latina.
Il nostro appello è pieno d'angoscia. Non ci trascina nessuna ideologia né dogma; solo la libertà, l'amore e la giustizia, solo il desiderio di giungere a realizzare una società in cui ci sia la vera fraternità tra gli uomini.
L'Uruguay di oggi è agli antipodi di questa speranza. Vogliamo denunciare questo inganno, questa falsità, questa idolatria di forme vuote; vogliamo vomitare questa ipocrisia e lo facciamo come cristiani in fraternità, in unione con la comunità cristiana nordamericana, costruendo uniti il Regno di Dio, accogliendo la voce di Cristo, dando testimonianza della sua verità (Giovanni 18, 57) con tutti i cristiani del mondo, impegnati per il Vangelo.
Per questo, ai nostri fratelli, vescovi, preti, religiosi, cristiani e non cristiani, uomini di buona volontà dell'America del Nord, chiediamo che si facciano eco di ciò che noi oggi denunciamo, di queste violenze favorite e alimentate dal loro governo, e le condannino apertamente.
Vi chiediamo anche di utilizzare tutti i mezzi perché il governo nordamericano comprenda che non deve interferire nell'impresa della nostra liberazione, nella creazione del nostro futuro, libero da ogni oppressione straniera.

Ottobre 1971.

Gruppo Cristiani dell'Uruguay


L'occasione di amarci

«Tu sei l'unico abitante di Gerusalemme che ignora cos'è successo in questi giorni, ciò che è successo a Gesù di Nazareth, che fu un profeta potente in opere e parole davanti a Dio e a tutto il popolo, e come i nostri sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato perché fosse condannato a morte e lo hanno crocefisso» (Luca 24, 18-20).
Anche qui, a Montevideo, capitale della Repubblica Orientale dell'Uruguay, pochi giorni fa sono successe queste cose. Julio, militante cattolico, che ha dedicato la sua vita a «soddisfare l'esigenza di giustizia e d'equità» (Gaudium et Spes 66), Julio Sposito, studente di 19 anni, è stato assassinato alle spalle dalla polizia uruguaiana, con una pallottola nel cuore che, come tante altre pallottole che hanno colpito i nostri militanti, anch'essa è venuta dal Nord.
Julio non è stato il primo. Molti studenti, operai, e perfino poliziotti sono stati uccisi, vittime della violenza imposta dal regime dell'attuale governo. Centinaia di militanti politici e sindacali sono stati condannati al confino senza processo e in condizioni disumane; centinaia di funzionari e operai sono strati licenziati per ragioni ideologiche.
L'Uruguay, la «Svizzera dell'America», non esiste più. Esiste un popolo che soffre e combatte, che porta sulle spalle tutto il peso di una dittatura sempre più sfacciata.
Da tre anni in Uruguay i salari sono congelati. Le libertà sono limitate giorno per giorno, sotto il pretesto di «combattere la sedizione», e sotto la protezione delle «misure di emergenza» si perquisiscono migliaia di case e locali sindacali e universitari; si tortura, si chiudono giornali col pretesto di «istigazione alla violenza»; si «mettono fuori legge» i partiti; si proibiscono manifestazioni contrarie al governo.
Si vuol far credere che il contrasto stia tra «sediziosi» (Tupamaros) e «governo», tra il «caos» e l'«ordine»; ma il popolo uruguaiano sa molto bene che la separazione esiste tra il popolo e un piccolo gruppo di oligarchi che lo rendono vittima dei loro insaziabili interessi economici, attraverso la «ristrutturazione della banca», l'industria della carne, quella tessile, secondo le direttive del Fondo Monetario Internazionale, e tutto ciò si traduce in licenziamenti in massa, repressione, carcere, torture, eccetera.
Noi, la piccola comunità cristiana dell'Uruguay, coscienti di essere «chiesa», come il cieco di Gerico abbiamo chiesto al Signore che apra i nostri occhi e abbiamo ricuperato la vista (Matteo 29, 19 s.), e come quelli di Galilea ci rifiutiamo di tacere e vogliamo mostrare di Lui su tutta la terra (Matteo 9, 31); vogliamo mostrare al mondo il nostro Cristo, l'«Ecce Homo» frustato, schernito, appeso alla sua croce, ucciso, come tonti dei nostri compatrioti, di diverse tendenze politiche e filosofiche, e molti di essi identificati in amore e dedizione.
E' il volto della chiesa, una e universale, è il volto del popolo di Cristo; è la comunità di un popolo che, in un modo o nell'altro, cosciente o no, lo riconosce in «verità e in santo servizio» (Lumen gentìum 9).
Ci dirigiamo ai cristiani e agli uomini di buona volontà degli Stati Uniti perché assieme a noi oppongano il bene al male, la donna al dragone, l'agnello alla bestia, Cristo, il Fedele, il Verace, colui che giudica e combatte con giustizia, a Babilonia la grande, la madre dei fornicatori e delle abominazioni della terra (Apocalisse 12, 17). La solidarietà dei figli di Dio deve gridare contro le solidarietà dei figli di Satana.
Tutta la nostra economia, tutte le armi puntate contro il nostro popolo, le pallottole assassine e le bombe al plastico che le organizzazioni poliziesche e parapoliziesche (Gioventù uruguaiane in piedi) utilizzano, sono importate, sono «Made in Usa», un'altra delle forme che assumono in America Latina, le stesse armi che uccidono in Vietnam, in Santo Domingo, in Brasile o in Pakistan.
Non vogliamo odiare l'americano, vogliamo amarlo, essere fratelli di tutti i popoli, ma tutti gli anni gli Stati Uniti aumentano i loro aiuti per armare le dittature contro i loro popoli, per difendere i loro interessi in America Latina.
Il nostro appello è pieno d'angoscia. Non ci trascina nessuna ideologia né dogma; solo la libertà, l'amore e la giustizia, solo il desiderio di giungere a realizzare una società in cui ci sia la vera fraternità tra gli uomini.
L'Uruguay di oggi è agli antipodi di questa speranza. Vogliamo denunciare questo inganno, questa falsità, questa idolatria di forme vuote; vogliamo vomitare questa ipocrisia e lo facciamo come cristiani in fraternità, in unione con la comunità cristiana nordamericana, costruendo uniti il Regno di Dio, accogliendo la voce di Cristo, dando testimonianza della sua verità (Giovanni 18, 57) con tutti i cristiani del mondo, impegnati per il Vangelo.
Per questo, ai nostri fratelli, vescovi, preti, religiosi, cristiani e non cristiani, uomini di buona volontà dell'America del Nord, chiediamo che si facciano eco di ciò che noi oggi denunciamo, di queste violenze favorite e alimentate dal loro governo, e le condannino apertamente.
Vi chiediamo anche di utilizzare tutti i mezzi perché il governo nordamericano comprenda che non deve interferire nell'impresa della nostra liberazione, nella creazione del nostro futuro, libero da ogni oppressione straniera.

Ottobre 1971.

Gruppo Cristiani dell'Uruguay


Amore e Giustizia per gli obiettori di coscienza

Io Natale Carra dichiaro quanto segue:
1 - intendo volontariamente, e con piena coscienza, rifiutare il servizio militare e quindi non mi presento alla visita di leva;
2 - mi rendo invece disponibile fin d'ora per un servizio civile che sia veramente alternativo a quello militare garantito a tutti sia in tempo di pace che in tempo di guerra.

Alcune motivazioni:
a - La mia obiezione ha come fondamento la certezza di fede: l'umanità deve comporsi nell'amore, perchè immagine di Dio. E Dio è amore. Perciò i cristiani «abitano una loro rispettiva patria, ma vi sono pellegrini; ogni patria è terra straniera». Cioè i cristiani non hanno bandiere.
b - Beata quella nazione che non avrà più bisogno di «eroi». Non è eroismo odiare e uccidere, ma eroismo è amare. Il cristiano non ha nemici, ma solo fratelli (di qualunque fede e di qualunque idea essi siano) da aiutare e da salvare. Egli non ha altri se non quello di Cristo che si fa uccidere per amore, e quindi la sua bandiera è la sua croce. E Cristo vuole che sia rifiutata la spada perfino quando è in pericolo la sua vita.
e - Sono tremendamente impressionato da questa società che sa esaltare solo i morti, e invece opprime i vivi. Se il sacrificio dei morti ha un senso è quello che si ponga fine a ogni violenza e a ogni sopraffazione dell'uomo sull'uomo, di una nazione su un'altra nazione. Non per nulla poi, dopo l'eccidio, ogni uomo ben-nato si senti di ricordare e pregare per i morti di qualunque fede essi fossero. E allora perchè non cominciare a rispettarci e ad amarci da vivi? I morti in guerra ci parlano in modo evidente di portare amore a tutti anche se perseguitati: "se insultati, essi benedicono; se oltraggiati, essi rispondono con riverenza".
Quindi per me, la scelta non solo della nonviolenza, ma quella perfino di «dare da mangiare al nemico, se ha fame, e di dargli da bere, se ha sete» è la sola legge in cui credo per il bene mio e dell'umanità.
d - Convinto dunque che il militarismo (gli eserciti come da sempre e pure oggi si presentano) sia un fatto contrario alla mia fede, come io la sento in coscienza, e la visita di leva non accerta tanto lo stato della mia salute, ma in primo luogo la mia idoneità a fare il militare, perfino in vista di ammazzare, nel caso di guerra, rifiuto tanto di fare il soldato, quanto di presentarmi alla visita per essere fatto soldato.

Novembre 1970.

NATALE CARRA


Come federalista, cittadino del mondo e pacifista, io oggi sono obiettore di coscienza.
Rifiuto quindi la suddivisione del mondo in stati sovrani e il mito dei sacri confini in quanto è sacro ciò che unisce e non ciò che divide gli uomini.
Ritengo inumano derubare i cittadini di immense ricchezze da destinare agli armamenti quando tanta parte dell'umanità soffre e muore di fame.
La società che abbiamo ereditato si dichiara civile, ma civile non è perchè essa basa la sua civiltà sulla violenza e sulla coercizione in tutte le forme possibili, dalle più subdole alle più dirette, in nome di interessi economici e falsi miti patriottardi che non condivido.
Gli eserciti, come dimostrano ancora recenti fatti, lungi dall'essere presidio di libertà, sono dovunque e sempre baluardo della reazione, pronti anche alla soppressione delle libertà costituzionali.
Con la mancanza degli eserciti verrebbe a cessare la forza principale di quella macchina di distruzione e morte che è la guerra. Oggi inoltre la guerra significa suicidio atomico dell'umanità.
Per questo rifiuto oggi di entrare a far parte di una struttura autoritaria e violenta qual è l'esercito.
Mi dichiaro fin d'ora disponibile per un servizio civile.

Maggio 1969

PIER CARLO RACCA


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