Si discorreva nel numero passato di un dovere fondamentale, decisivo da avvertire nel profondo della nostra coscienza cristiana e sacerdotale, pena una impossibilità di una fedeltà, di una coerenza, di una testimonianza: il dovere del nuovo, il coraggio cioè di essere nuovi ogni mattina per un andare avanti, per la realtà di un camminare e quindi per una autenticità di ricerca di Regno di Dio in questo mondo, nella storia umana, dove l'instancabile fatica dello Spirito Santo pone continuamente lieviti nuovi e accende nuove luci.
Logicamente restando fermo, stabile, immutabile ciò che è il Pensiero e il Mistero di Dio, rivelatoci da Gesù e, nella continuità di Lui che è la Chiesa, offertoci con particolare chiarezza e sicurezza.
Perché ciò che è di Dio è necessariamente immutabile: porta in sé la fissità dell'eternità anche se riversata nella mutabilità del tempo. E' manifestazione di Lui, del suo Essere completezza assoluta, tutta insieme, senza inizio e senza fine.
E' però meravigliosamente adorabile il nascondersi di questo assoluto, quasi a spinta senza possibilità di riposi, nel relativo dell'esistenza che ha come indicazione lampante del suo modo di essere, la perfettibilità, cioè la necessità del muoversi, dell'andare avanti, del divenire, come dicono quelli che se ne intendono. Ma come vediamo tutti dal sorgere del sole al mattino al suo tramonto di ogni giorno, da una semplice occhiata, come a voltarsi indietro, a guardare il passato.
Il Mistero della Chiesa e la sua difficoltà forse più sconcertante è l'essere fatta, costituita, in modo così essenziale per lei, di questa fissità e di questa mutabilità: questo suo dovere essere punti fermi, indiscutibili, come immersi e abbandonati nella corrente, a volte tanto vorticosa, di un fiume. Albero radicato, venuto su da piccolo seme e che deve crescere e crescere fino a che i suoi rami coprano tutta la terra, ma radicato e così fortemente che non vi è vento di tempesta, né dilagare di acque che possa spostarlo e travolgerlo. Quando succede che qualcosa si lascia strappare e portar via inevitabilmente è come quei rami secchi che la risacca del mare rotola ad insabbiarsi sulla spiaggia.
E nel frattempo, cioè mentre persevera questa immutabilità che unicamente la rannoda a Dio e ne fa la voce incessante, la rivelazione continua nel fluttuare del tempo e nell'accavallarsi incalzante delle generazioni, come mare a rincorrersi senza fine, fino al punto che, ecco, è come se Dio, attraverso la Chiesa, sì manifestasse a me, a te, al mondo, nel frattempo la Chiesa deve rinnovarsi incessantemente, ha bisogno assoluto di rinascere, di essere diversa, di essere continuamente «nuova creatura».
Perché, prima di tutto, «Dio è Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e cioè non un Dio di morti, ma di viventi».
Perché è testimonianza la Chiesa che Cristo è risorto da morte e quindi di Cristo vivente, di Cristo cioè che attraverso se stesso, vivo, vive la storia e la domina e la salva perché la possiede e la vive Lui, vivente, questa nostra storia che diversamente sarebbe storia di morti.
E la testimonianza di Gesù Cristo risorto non è l'apologetica delle prove storiche della sua resurrezione, quella che conta e che decide dell'autenticità di questa testimonianza, ma che Gesù Cristo è risorto e che è inizio di esistenza nuova, cioè l'esistenza vera e unica dell'uomo, e Lui è questa vita vera e la vive nella Chiesa e attraverso la Chiesa in proporzione a quanto la Chiesa è creatura nuova, diversa, esistenza vera: resurrezione incessante.
E poi perché il Regno di Dio è venuto in Gesù Cristo e in Lui si è compiuto, è vero e è il formidabile motivo di gioia e di sicurezza che porta in sé la Chiesa e la Fede di ogni cristiano, ma deve venire storicamente, ad ogni giorno di più, come lievito che allarga sempre più la sua lievitazione, come luce che si espande a illuminare tutta la casa, come Amore che cresce e è fuoco ad incendiare tutta la terra, come vita che sempre più è sovrabbondanza, sempre più violenta e appassionata dell'universo, in Gesù Cristo, fino alle misure per cui Lui sarà tutto in tutti.
E' questo movimento, più impossibile a frenarsi di quello che muove le costellazioni, che pervade la Chiesa e la muove. E la Chiesa non può non risentirne la violenza, non può rimanerne di fuori: come chi si ferma sulla sponda a guardare il fluttuare del fiume. E' «acqua viva» dentro la marea della storia, a viverne tutto il dramma e il destino.
E se la Chiesa si fosse posta là dove unicamente è il suo posto, nella mangiatoia di Betlem, nella fatica e povertà di Nazaret, sulla montagna delle tentazioni e delle Beatitudini e del Calvario, e cioè dove vivono e lottano e muoiono i poveri, gli oppressi, gli sfruttati, sarebbe incessantemente risorta a nuova vita e sarebbe nel mondo il Vivente, e cioè sempre Lui e unicamente Lui, Gesù Cristo, il Figlio di Dio e il Figlio dell'Uomo. E cioè l'immutabile, l'assoluto, la completezza perfetta, adorabile nel suo essere unicamente e totalmente Se stesso e il nato da donna che vive e muore e risorge perennemente, a lottare per l'Amore e la libertà, e cioè perché gli uomini siano veri. La Chiesa come Gesù Cristo levata di mezzo continuamente e sempre presente, povertà di esistenza umana, senza veli e mascherature, nuda e cruda, carne e sangue, ma viva e vivente, chiara e splendente aderenza al momento presente e profezia sicura del tempo che viene, annuncio di verità senza dubbiosità e incertezze e garanzia di sicurezze future, per una incarnazione vera, per un compromettersi sincero, per un coinvolgersi senza timore.
Deve essere pur possibile - se non altro perché Gesù questo ha sognato e vissuto Lui personalmente e questo gli Apostoli hanno capito e consegnato perché questa è la loro testimonianza - deve essere pur possibile che la Chiesa sia il Figlio di Dio e il Figlio dell'uomo.
Diversamente sarà una istituzione, una gerarchia, una liturgia, forse un popolo (ma non ci convince molto la faciloneria con cui si confonde a questi nostri tempi - appena qualche anno fa sarebbe stata affermazione da S. Uffizio - Chiesa - comunità - popolo di Dio, ecc.), sarà una legislazione a Diritto Canonico, una teologia a tavola anatomica di Dio ecc-, ma non sarà la Risurrezione di Cristo, esistenza sempre nuova perché vivente, a offrire all'umanità l'uomo immagine e somiglianza di Dio, e una umanità che si chiama Chiesa (cioè il mondo di quelli che Dio ha eletti e scelti) esistenza tipica, indicazione e realtà sicura di una umanità diversa, quella che Dio ha sognato creando gli uomini e di cui Gesù è la realtà perfetta e quindi la salvezza.
E' problema di fondo per noi questa alternativa, come pensiamo sia di tutti (con forse soltanto una diversità di misura di angoscia, nell'affrontarlo e viverlo) di tutti coloro che cercano dal profondo del cuore il Regno di Dio e vi mettono di contro e vi giocano totalmente se stessi.
E' Amore alla Chiesa questo sentirci costretti -- sottolineiamo costretti - a prendere decisioni di scelte precise e ad adoperare distinzioni che risultano fondamentali e indispensabili.
Non intendiamo separarci da niente e da nessuno e specialmente da un carico storico anche se a volte ci sembra che ci soffochi: ma non possiamo continuare ad evitare la presunzione - se presunzione è - di cercare di avere quel briciolo di fede -- piccolo come un granello di sabbia - da poter dire alla montagna: levati di lì e gettati in mare.
Lo diciamo questo e vi mettiamo tutta la Fede di cui siamo capaci, a ciò che è nella Chiesa la montagna, vogliamo che si sposti e si getti in mare e lasci libero spazio a dove il buon seminatore della parabola, al mattino, ad ogni nuovo levar di sole, getti a piene mani il suo seme che nel perdersi a ventaglio porta però in sé la speranza di trovare un po' di buon terreno.
Sempre più bisogna avere il coraggio di operare distinzioni e separazioni: dolorose e pericolose quanto si vuole, ma è il nuovo che lo Spirito Santo e i tempi, impongono sempre di più.
Perché se qualcosa deve essere vivo (Cristo risorto) è necessario che qualcos'altro muoia, o che almeno viva per conto suo e quindi obbedisca alla legge inesorabile del tempo, quella della ruggine che mangia anche il ferro...
L'importante è che viva per conto suo e con le sue forze: quelle degli uomini che ne formano l'istituzione. Ma la pretesa che tutto quello che gli uomini sono ed operano - sia pure resi sacri da una consacrazione di battesimo, di sacerdozio, di episcopato - sia Chiesa, non ha letteralmente più senso ed espone ad equivocità semplicemente ripugnanti.
Sappiamo bene quanto la distinzione sia difficile e rischiosa, anche a tutta l'abilità raffinata del distinguo della teologia scolastica, tomista, che ci hanno tanto inculcata, quasi a farcene una seconda natura, mentre eravamo sui banchi di scuola di Seminario.
Non possiamo non affrontarla: è per la possibilità e quindi la chiarezza della Fede per noi e per gli altri.
La distinzione per esempio - così tanto per enunciazione di temi - fra Vaticano e Chiesa. L'uomo di Chiesa e la sua storia e Gesù Cristo e la sua storia. Le leggi dell'uomo e quelle di Cristo, e così via.
Niente da temere perchè non intendiamo - e come potremmo, ammesso che ci interessasse - su un piano dottrinale, culturale, ecc., affrontare problemi così grossi. Ma così, semplicemente, come se li pone e ne sente l'urgenza l'uomo della strada e anche il prete che gli cammina accanto.
La Redazione
L'impegno fondamentale per una autentica e seria vita cristiana resta chiaramente tracciato davanti ad ogni cuore dalle parole dette da Gesù ai «dodici», nell'intimità così drammatica della cena di Pasqua: «Vi lascio un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato». Sono come il suo «testamento», le ultime volontà dell'Amore fatto carne prima di scendere nella notte della morte, indicazione precisa di che cosa sia nel pensiero di Dio vita eterna, regno dei cieli, nuova nascita, resurrezione,
A queste parole è saldamente ancorata tutta la spiritualità cristiana, come a pietra angolare, per la costruzione della personalità umana, singola e comunitaria, secondo le dimensioni e le misure del Cuore di Dio.
In queste parole è dichiarato il destino, il senso, la ragion d'essere della Chiesa: realtà di comunione, vite fuse nell'unità, muri di separazione abbattuti, esistenza riscattata dalla disperazione e dalla frammentarietà, volto di Dio riflesso visibilmente nella concretezza di una storia umana sorretta e costruita solo dall'Amore.
E' assolutamente indispensabile che l'impegno di ciascuno di noi tenda a realizzare questo «comando» che è «nuovo» perché si rifà direttamente ad una misura, ad una profondità, ad una capacità di latitudine che è quella stessa del Figlio di Dio. Di un cuore umano, cioè, dove l'infinito rompe la grettezza del finito, dove i limiti non esistono più, dove tempo ed eternità si fondono, dove il Padre e i figli sono consumati nell'unità.
E' una parola che ci chiama dalla nostra solitudine, dal deserto dei nostri egoismi, dal cerchio chiuso dell'«io», per aprirci ad una visione della vita fatta ad immagine e somiglianza di chi l'ha creata, per allargare i nostri cuori alla vera dimensione per cui sono fatti, per farci comprendere che «pur essendo molti, noi formiamo un solo corpo», un solo pane umano, una storia e un destino unici. «Non più molti, ma una sola carne»; non più «io», ma «noi», saldati insieme dal soffio di Dio che è Amore.
Restando vero e bellissimo tutto questo, c'è qualcos'altro di «nuovo» che nasce dalle parole di Gesù ed allarga all'infinito l'impegno cristiano.
La «novità» del comando di Cristo esige anche che, al di là di una fraternità d'amore costruita fra tutti coloro che sono «suoi», questo mondo nuovo venga diffuso e dilatato «fino agli estremi confini della terra».
Per «amarci come Lui ci ha amato» in verità, bisogna che il fuoco non sia nascosto sotto la cenere, la lucerne sotto il moggio, la città dietro la montagna. Bisogna che il fuoco divampi e bruci ogni ostacolo, spezzi ogni catena, abbatta ogni barriera all'Amore.
Bisogna che tutta questa realtà di bene non resti chiusa dentro i bastioni della città sazia e ben provvista, ma scivoli via per le strade, lungo le siepi, sulle piazze battute dal vento e bruciate dal sole e riempia i cuori dei poveri, dei dimenticati, dei senza speranza, degli abbandonati ai margini della via. E insieme scuota il sonno degli indifferenti, la falsa pace degli egoisti, la sicurezza dei sazi; rovesci i troni dei potenti e dei forti, spacchi le chiusure ermetiche di chiunque appartenga alla categoria dei «ricchi».
Novità di un comando quindi che obbliga ad uscire allo scoperto e a lottare coraggiosamente per togliere dalla trama della storia non soltanto l'odio ma le sue cause, non solo l'ingiustizia o la violenza o lo sfruttamento, ma le loro radici, i loro remoti e misteriosi motivi. Impegno quindi non solo per avere un cuore buono, ma per strappare dal petto dell'umanità il cuore di pietra e sostituirvi un cuore di carne, della stessa carne del Figlio dell'uomo.
Comando nuovo che richiede una seria capacità di lotta, perché è Amore che non si stanca, che non cerca niente per sé, che non fa soprusi, ma tutto spera, tutto sopporta, tutto rischia pagando di persona.
Amore che è come fiume che dopo aver riempito fino all'orlo il suo corso trabocca e allarga sempre più ogni angolo di terra, per affogarvi tutto ciò che nasce dalle nostre radici malate e dar vita ai germi che Dio ha deposto da sempre nel segreto di ogni cuore.
Comando nuovo perciò che costruisce una Chiesa che è lievito, sale, piccolo seme che si perde dentro la vita, per morirvi e far nascere il Regno di Dio; e non una Chiesa fortezza, casa sbarrata, campo trincerato, ai cui bordi si muore di fame, si uccide, si opprime, si calpesta il volto di Dio nei fratelli. Una Chiesa che è piccolo gregge di agnelli in mezzo ai lupi, povera barca nell'oceano, stella nella notte, pane sulla tavola di tutti. Chiesa di uomini e donne che si amano ed amano come Lui ha amato; che si perdono come Lui si è perduto; che danno la vita per gli amici come l'ha data Lui.
Realtà d'Amore che non s'accontenta di scaldarsi al proprio fuoco, ma che non si dà pace finché non l'abbia acceso nella notte di ogni uomo.
don Beppe
...Se penso a come la gente ama i bambini,
li abbraccia, li accarezza, li sostiene,
li cura come il dono più prezioso
per paura che muoiano anzi tempo;
a come insieme vivono i fratelli,
uniti quali membra di un sol corpo;
a come un uomo ama la sua sposa
e a come tutti questi uomini sono presi,
fatti soldati, io provo vergogna:
uccidere degli uomini mai visti,
esserne ucciso,
le famiglie pavide nella notte del dubbio
(son vivi o son morti?)
con le vaghe notizie che non danno mai conforto,
questa è la guerra...
Da: LI PAI - Dinastia Tang (618-907)
Mi sono trovato alla seconda sessione del 3 maggio del Tribunale di Firenze contro alcuni preti e laici che una denuncia di un certo monsignore - con l'appoggio e l'approvazione e forse anche la spinta della curia di Firenze - ha accusato del crimine di avergli impedito di celebrare Messa il cinque gennaio del '69 nella chiesa parrocchiale dell'Isolotto, ormai diventata campo di battaglia fra la Curia e la comunità dell'Isolotto.
Le cose sono note e conosciutissime e non mi interessa in questo momento, come in quell'ora e mezza che sono stato accalcato nella chiesa-tribunale di piazza S. Firenze, ripensare e ridiscutere i prò e i contro del «caso» Isolotto.
La posizione e il giudizio restano per noi ancora quelli espressi con le lettere inviate, l'una e l'altra, al Cardinale e a Don Mazzi, subito dopo i giorni in cui era esplosa la questione.
Volevo soltanto, in questo momento, sfogare tutta l'angoscia e l'umiliazione di un prete che assiste (e quindi partecipa con tutto il destino defila propria vita) ad uno spettacolo di Chiesa veramente miserabile.
Dovevano essere sul banco degli accusati 438 persone. Per una amnistia applicata dal Tribunale, evidentemente per sfoltire il banco, ne rimangono solo nove: cinque preti e quattro laici. Istigazione a delinquere.
A seguito di un ridicolo atto di accusa di quel Monsignore, povera e squallida figura come ce ne sono tante a disposizione del potere, di qualsiasi tipo possa essere, è tutta la Chiesa nella sua istituzionalità e nelle sue contestazioni, nelle sue oppressioni e nelle sue ribellioni, davanti a giudici in toga, nelle mani degli avvocati, framezzo a carabinieri, a discutere, a battibeccare a strumentalizzare le proprie miserie, nella speranza che ne venga fuori qualcosa.
Che cosa?
Non mi è possibile accettare né sopportare che un problema, sia pure di scontro, avvenuto in una Chiesa per celebrare o impedire una Messa e cioè ciò che è Dio, Mistero di Cristo, valore e realtà unicamente religiosa, debba e possa essere trascinato in un tribunale, per una soluzione a base di codice penale, con escussione di testimoni, con lo svolazzare delle toghe degli avvocati, con la forza della legge a base di carabinieri.
E' di un'angoscia spaventosa il constatare che non sono finiti i tempi del braccio secolare a sostenere il traballare di una istituzione di Chiesa svuotata all'interno di ogni vitalità di Spirito Santo e bisognosa quindi di essere puntellata e sostenuta dalla forza militare e civile.
Che la Chiesa sia trascinata in tribunale e condannata e crocifissa dal potere civile (dal potere delle tenebre) è giusto e necessario, perché inevitabile, se la Chiesa è quello che deve essere: parola viva di Cristo che è «Beati» per i poveri, e «guai a voi» per i ricchi e i potenti di questo mondo.
Ma che la Chiesa porti in tribunale la Chiesa a regolare i conti fra fratelli, a sperare una sicurezza, un potere, a cercare una difesa e una rivincita, questo è sacrilegio. E' miserabile dichiarazione di ogni impossibilità di Amore.
Non voglio avere niente a che fare con questa Chiesa che mi vedo ridotta a litigio banale, a contrasti stupidi, a lotte ridicole.
Me ne separo e me ne divido a piena coscienza perché sono sicuro che il Regno di Dio non passa da quella strada, e ciò a cui credo, a cui mi sento totalmente fedele fino a giocarvi tutto di me, è la Chiesa Regno di Dio, non la miserabile baracca di una istituzione che ha bisogno dei carabinieri e dei magistrati per cercare che sia fatta giustizia e cioè per poter continuare a mantenere i suoi privilegi.
E altrettanto enorme pena mi faceva tutta quella folla accalcata a risentirsi, come unica possibile manifestazione di ribollimento, perché il microfono funzionava male. Povera folla a ricercare un po' di cristianesimo applaudendo calorosamente chi chiedeva, come grande e significativa conquista di giustizia, che anche il poveruomo del Cardinale fosse convocato fra i testimoni.
Povera folla riaccesa nei suoi fervori dalla stupidità di preti e monsignori, e che con tanta infantilità e ingenuità si abbandona alla speranza di una liberazione, da oppressioni ben più gravi, con una guerra di religione o qualcosa del genere.
Per questo non siamo d'accordo con tutti i significati politici, con tutte le forzature di trasformazione e di liberazione, come inizio di nuove cose, che la Comunità dell'Isolotto e gli amici, pensano che - tutta la lotta condotta fino a qui e ora con questo processo - abbia a fruttificare.
Siamo d'accordo nel dover lottare, ma la lotta da condurre, siccome è cristiana, ha una sua strategia, cioè una sua condotta assolutamente qualificata e anche particolarmente dignitosa: perché Gesù Cristo, oltre a tutte le cose, di cui Lui è veramente l'unico Maestro, è Maestro anche di una meravigliosa, adorabile dignità di lotta. Compresa anche la lotta davanti ai tribunali.
Con questo non che io sappia ed io possa nemmeno immaginare cosa bisogna fare e di dove passerà la strada della liberazione, perché la Chiesa sia Chiesa e cioè Regno di Dio: credo soltanto in una capacità sempre crescente di distinzione fra Chiesa. Mistero di Cristo e l'istituzione di uomini, ed una paziente, ma dura e tenace separazione - difficilissima quanto si vuole - fra Regno di Dio e potere temporale (Dio e Mammona), all'interino della Chiesa storica e tra la Chiesa e il mondo.
Era terribile dentro quel tribunale provare nell'anima la spaventosa confusione maturata piano piano (e spesso tanto violentemente) fra Chiesa e Stato, potere spirituale e potere temporale, Cristo e il mondo per il quale si è perfino rifiutato di pregare.
Questo strano tribunale fiorentino - la città del Savonarola e di Galileo... - in una tipica chiesa barocca dipinta a calce. Sul soffitto un immenso affresco dell'Assunzione di Maria, incontro al Padre e al Figlio appena apparenti nel fulgore della luce del Cielo. L'abside con un giro di grosse colonne bianche. Al posto dell'altare il banco dei giudici. Sui banconi di qua e di (là gli accusati, i testimoni, gli avvocati, i giornalisti, i fotografi ecc. e poi tutta la folla in piedi, accalcata in un brusio di profonda eccitazione e sdegno, più o meno repressi.
Un piccolo crocifisso, quello solito, di gesso, dei tribunali, delle scuole: la conquista di tanta lotta cattolica. Alzando gli occhi, grandi affreschi di scene della vita di S. Filippo Neri (povero S. Filippo, un santo così simpatico!) e alzando gli occhi ancora sul grande frontone dell'abside, incorniciate tra svolazzi barocchi, le parole, le terribili parole di Cristo: «Domus mea domus orationis vocabitur» (la mia casa è casa di orazione, di preghiera).
E, a quel tempo, a queste parole, prese una frusta di corde e scacciò tutti i mercanti dal tempio, rovesciando ogni cosa.
Avrebbe cacciato tutti, rovesciando ogni cosa, anche in quel momento.
Anche il Cardinale, nonostante che non fosse presente, ima lì a pochi passi, chiuso nel suo palazzo, insieme alla sua Curia.
Quelle parole sono il vero e terribile giudizio unicamente in diritto di fare giustizia in quel processo, segno di un più grande, impressionante processo, che la storia sta imbastendo intorno alla Chiesa e dentro la Chiesa.
don Sirio
Lavoro in una officina meccanica; tra il ronzio delle saldatrici, il lamento del seghetto, l'urlo della troncatrice e tutti gli altri rumori delle macchine che lavorano il ferro passo buona parte della mia giornata.
In officina facciamo soprattutto dei pezzi per macchinari più grandi che montano nella industria; il lavoro richiede grande precisione ed attenzione e non dà quasi mai la soddisfazione di vedere un oggetto costruito dal lavoro e dalla fatica degli uomini che sia finito, autonomo; fare sempre dei pezzi fa essere fieri solo della tecnica che si dimostra nella loro costruzione, perché di nostro c'è solo la tecnica del lavoro e niente altro.
Capita a volte di fare lavori di carpenteria diversi, quali costruire strutture portanti per capannoni, tralicci, fare ringhiere o cancellate. Sono questi lavori che hanno la possibilità di ricevere in se stessi una certa impronta di chi li ha fatti, che fanno sentire il peso e la noia di tutto il resto del lavoro, che è di gran lunga la massa più consistente, fatto per l'industria.
Quando un anno fa sono andato a lavorare, ho trovato molto disagio nel dovermi mettere ad imparare da principio, ho sentito davvero come la mia cultura, gli studi e tutto ciò che avevo fatto non mi servivano a niente e come dovevo cominciare come tutti fanno, anche se in una età che non è la più favorevole per essere il piccino di bottega.
Del mio lavoro sono contento, anche se, tutto considerato, è abbastanza duro e mi impegna assai nel tempo e nelle forze.
Il mio essere prete è conosciuto da tutti nell'ambiente e non mi ha mai fatto ostacolo in nessuna circostanza.
E' un anno circa che ho preso questa strada del lavoro in officina e che cerco di vivere in questo modo il mio sacerdozio e sento sempre forte il bisogno di rivedere e di giudicare quello che faccio, anche perchè sono piuttosto solo e devo porre in discussione con me stesso i motivi della mia vita.
Qualche giorno fa, in cattedrale, partecipando alla ordinazione sacerdotale di due giovani amici, mi sono trovato a ripensare a tutto. Sono quattro anni che vivo il Sacerdozio; quattro anni di ricerca e di vita nella Chiesa e con la Chiesa, con il peso e la gioia di una responsabilità che diventa tormento quando è vissuta da soli.
Al di là di tutte le amarezze, le solitudini e la fatica quotidiana del tirare avanti, ho sentito con forza di essere quello che Dio mi ha voluto; ho visto passare davanti a me tutti i motivi e le ragioni di un mio stare nel popolo di Dio come sacerdote.
Ho sentito in modo particolare come il mio essere, la mia vita, il tutto di me richiede che io sia «luogo di incontro»; ho capito come le esigenze del Cristo nei miei confronti sono assolute e certe, e come il mio impegno di fedeltà a Lui si realizza nell'essere sempre più disponibile, sempre più povero, sempre più aperto all'incontro con tutti.
Mi sono passate alla mente le mie giornate, povere giornate fatte di lavoro in officina, di impegno ad ascoltare tutti e a vivere con tutti, dividendo il cammino di ciascuno ed il peso del camminare lungo la strada.
Anche se qualcuno, a volte, mi ha detto che sono fortunato perché lavorando sono in grado di scoprire e di vivere tante cose che arricchiscono il mio essere, io spesso riesco solo a vivere e sentire la mia stanchezza, il desiderio di farla finita, la noia di ripetere tante e tante volte lo stesso gesto, lo stesso lavoro senza soddisfazione e apparentemente senza alcun costrutto. Ciò che davvero salva è sapere che tutti gli uomini sono nella stessa condizione, che tutti vivono le stesse tensioni, le stesse divisioni, gli stessi contrasti, e che è nel vivo di una esistenza fatta di queste cose che Cristo esiste e si esprime e che non dobbiamo lasciarci stancare dalle difficoltà di una ricerca di Lui e non dobbiamo abbandonare il compito di annunciare la sua presenza, la sua vita, il suo amore.
Per me il compito di essere «luogo di incontro» si è chiarito in questo senso: devo fare la vita degli uomini, accogliere e vivere in me tutto ciò che fa e costituisce la vita, pur nelle sue asprezze e nei suoi contrasti, e devo dentro il mio essere prete porlo in dialogo con l'amore di Dio.
Il mio andare ogni giorno al lavoro in officina non ha e non vuole avere motivi di apostolato, nel senso ristretto col quale ancora si prende questa parola, ma vuole avere motivi di vita, di una esistenza umana.
L'officina è artigianale ed il mio lavoro non è fatto a fianco di quello di molte altre persone, come può accadere in un grande ambiente di industria, ma per me ha tutto il suo significato, in quanto dice, a me prete - e spero anche agli altri - la realtà di una condizione, l'impegno necessario a tirare avanti, a «scamparsi» la vita in un modo umano, che abbia significato. Il fatto di lavorare mi aiuta anche a scoprire come tutto ciò che faccio esercitando il ministero di prete, nella parrocchia che mi è stata affidata ed altrove, sia davvero «dono», qualcosa che io ho ricevuto da Dio e che a Lui rendo nel servizio che compio verso i fratelli, arricchito giorno per giorno dalla sofferenza della vita, dalla fedeltà.
Negli incontri più svariati motivati spesso dalle esigenze del lavoro, a volte sono rifiutato come prete, a volte le persone che mi capita di incontrare hanno qualcosa contro il prete e pensano di difendersi rifiutandolo, debbo dire però che non ho ancora incontrato nessuno che mi abbia rifiutato come persona, che mi abbia chiuso la porta e non abbia sentito di poter scambiare due parole ed anche qualcosa di altro con me. Questa penso che sia autentica grazia di Dio e autentica disponibilità di fondo degli uomini e che è proprio compito mio di prete di raccogliere tutto ciò e di viverlo a fondo e farlo venire a confronto, per realizzare quel dialogo che manca, perché tutto e tutti possano ritrovarsi in un luogo che Dio ha scelto e voluto perché in esso tutto si ritrovi nell'unità dell'amore: e quel luogo sono io, sono anch'io con tutti i sacerdoti e con la Chiesa, e lo sono nell'officina, lo sono all'altare, lo sono nel dolore e nella gioia, nella solitudine e nella comunità.
Queste cose ho rivissuto a distanza di quattro anni dalla mia Ordinazione ed ora mi trovo «prete nel lavoro» sento profonda tutta la responsabilità di ciò che sono come uomo, come cristiano e come prete e sento che tutto questo: uomo, cristiano e prete deve essere vero dentro di me, che non devo sfuggire al mio compito e alle mie scelte e come, la volontà di Dio che mi ha chiamato a servire mi indica davvero nella vita la scelta degli uomini in quanto sono tali, mi dice di farmi fratello di tutti, di dividere il peso di una esistenza e soprattutto di fare senza esitazioni la scelta più vera anche se più cruda, quella della povertà.
Sulla base della mia vita e per i motivi che mi hanno portato a questa mia scelta, ritengo che il servizio oggi nel nostro mondo,, un servizio autentico e rivolto davvero verso tutti gli uomini richiede che si faccia una scelta di classe, che abbiamo il coraggio di abbracciare la condizione dei poveri e farla nostra, perché è ancora vero che sono i poveri a cui il Vangelo è indirizzato ed è ancora vero che solo dal basso, per così dire, si può raggiungere quella posizione di base che sia significativa per tutti e che tutti possano sentire propria.
don Giuseppe Giordano
Accade così spesso che dò ormai poco peso a chi mi dice che il nostro modo di fare è «da maestri»: «Sembra che voi soli conosciate la verità», io non so degli altri: so quello che nasce e cresce dentro di me e che offro, senza imporre niente a nessuno, perché credo di cercare Dio e di balbettarne la Storia.
E' offerta, quella cristiana, urlata dai tetti: ha sempre la forza della verità: è vera, di quella verità assoluta che le deriva dall'avere la sua radice immediata in Gesù Cristo. Costruito da Lui, ogni cristiano è donato all'umanità, alla terra intera, perché di Lui si riempia il mondo. Scintilla di verità mandata a liberare il mondo dalla ignoranza delle tenebre; guizzare di fuoco che vuole bruciare per fondere tutto nell'unico Amore.
Come non gridare tutto questo? E' la vita, eterno respiro di primavera che tutto rinnova e purifica: e la forza della vita chi la può contenere?
Ciò che urge a parlare non lo si impara dai libri, non lo si ascolta dagli uomini: non da volere di carne, non da volere di uomo: nasce da Dio.
«Come mai conosce così bene le Scritture, senza aver frequentato le scuole?» dicevano di Gesù gli Scribi e i Farisei con il loro argomentare da preti. Ed Egli insegnava con autorità e non come gli Scribi e i Farisei. Autorità che gli viene dalla vita in perfetta adesione alla volontà del Padre: "La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato. Se qualcuno vuol fare la volontà di lui, conoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se parlo da me stesso".
Certo nessuno di noi è Gesù («nessuno tra voi si chiami maestro»), ma è pur vero che Gesù è in noi per crescerci alla misura perfetta. Ed è Lui che unicamente conta in noi fino al punto che ogni nostra cosa, fosse pure la più grande, perde rilievo di fronte al suo avanzare luminoso.
Come è dunque possibile che la mia miseria, il mio peccato, il mio tradimento possa ostacolare ed esaurire questo fluire di acqua viva?
Non merita davvero perder tempo a scusarsi, a gettare mille ponti, a preparare difese per evitare il rischio di passi falsi.
Non merita davvero fare mille contorsioni per esprime una verità che non ferisca, che non urti, che sia da tutti accolta. Si sbriciola nelle nostre mani, incapace di prostituirsi ai nostri interessi.
Non è questo il modo di servire la verità: è spesso, purtroppo, il modo che ci consente di mantenerci a galla, succeda quel che vuole. Ed in questo il mondo ecclesiastico la fa veramente da maestro con le sue furberie, i suoi sotterfugi, quel dire e non dire, quell'arrangiarsi sugli specchi di interpretazioni che sono vere acrobazie mentali. Quel velare le cose che fa sospettare che perfino il fumo dell'incenso serva ad impedire che Dio possa accorgersi di quanto si raccoglie in chiesa al bacio della reliquia.
So bene tuttavia quanto ne venga un tremendo problema di responsabilità: accogliere Dio. Vivere completamente immerso nella realtà della storia umana: indifeso; ultimo perché nessuno possa esser lasciato indietro; completamente immerso in Dio perchè nulla sia fuori di Lui. Sacerdote rivestito di Cristo per questo grande rito di comunione tra l'umanità e il Padre. Segno di risurrezione, totalmente avvolto dallo Spirito. Tutto questo che vuol dire pagare giorno per giorno il nostro debito di amicizia con Colui che si è spogliato di tutto per venirci incontro.
* * *
Nasce qui il problema dell'ascolto che viene spesso proposto come atteggiamento in alternativa a quello del «maestro». A torto, credo, perché si determina l'ascolto ad un livello superficiale del tutto gratuito. La buona maniera di chi lascia parlare e dà educati segni di interesse. Di chi non perde mai la pazienza e lascia che l'altro parli sentendosi a proprio agio: quasi un confidarsi ad amici. Tecnica messa spesso in atto e molto lodata, che non arriva però al cuore del problema: direi che non ne incide neppure la crosta. Perché tutto questo di per sé non significa proprio nulla se non per chi ha il cuore debole e nervi tesi.
Perché l'ascolto non è frutto di un'educazione ad un particolare momento, ma atteggiamento che rivela una scelta di vita. Non è prima di tutto il rispetto formale per eventuali interlocutori, ma rispetto serio e profondo per la vita in quanto espressione di Dio che vi ricama i segni rivelatori di verità. E' frutto di una ricerca seria, di un perdersi, di uno sbriciolarsi nel mondo, raccogliendo tutto senza lasciar perdere nulla, accettando di vivere come i più poveri, senza privilegio alcuno, nella condizione di chi non porta né borsa, né calzari, né bastone per difendersi, per poter ascoltare chini sulla terra il passo degli uomini.
Vuol dire sentirsi «donato» ai fratelli e quindi sentire i fratelli come «dono» da accogliere sempre; «dono» prezioso, unico e irrepetibile cui bisogna interamente darsi per poterlo accogliere. Vuol dire quindi cercare solo l'autore del «dono», Gesù Cristo: Lui solo è la nostra comunione. Non ha senso ascoltare gli uomini se non è un ascoltare Lui e non possiamo farlo se Gesù non è il motivo della nostra esistenza, se la Sua voce non grida in noi la presenza di Dio.
Ritorniamo così al punto di partenza: l'ascoltatore vero è colui che sa gridare il messaggio che porta nel cuore e ne conosce tanto il valore da accoglierlo ovunque esso si presenti, al di là di ogni difficoltà, di ogni divisione, di ogni contrasto. Consapevolezza di custodire nella fragilissima realtà della propria coscienza quella briciola di verità che deve ricomporsi nel tessuto della storia umana fino a diventare precisa indicazione di presenza dell'unico Vero. Adesione totale, in perfetta obbedienza a chi ci sospinge nella vita a raccogliere la meraviglia di un Pensiero d'amore.
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Come è possibile chiamarci «maestri», quando si è tanto così al seguito, discepoli attenti ad ogni gesto dell'unico Maestro, legati a Lui da un vincolo d'amicizia che nasce da comunione di vita? Come è possibile dire che ci siamo scelti una strada, quando tanta fatica quotidiana è solo ricerca della Sua volontà, desiderio di percepirla in ogni risonanza e risvolto della vita?
Ciò che decide non è la forza dell'affermazione che coesiste di fatto, in ogni caso con tanta miseria e debolezza, quanto giudicare se si è o no al seguito di Dio. «Le tue parole sono da Dio o dagli uomini?».
Quando mi ritrovo tra preti, si arriva presto a classificare ogni ricerca che si allontani un poco dalla tradizione e sicura uniformità, come un seguire le proprie idee, una fatica, sia pur apprezzabile, a puro titolo personale, per la salvezza della propria anima. Questione di santità personale.
Ho reagito molto a questo modo di pensare che mi ha sempre ferito dolorosamente perché non ho ragione di vivere se la mia vita ha motivi personali di esistenza. Non ho scelto infatti la verginità per evitare la scocciatura di avere una moglie, e neppure per rispettare una legge della Chiesa, quanto per poter essere del tutto disperso nella realtà della vita.
Ho tentato di spiegarmi, senza troppo successo. Ho tentato di ascoltare. Le nostre riunioni: un parlare di cose nostre per tappare falle, cercare soluzioni, garantire sicurezze. Mai un vero ascolto del mondo, degli uomini, dei loro problemi percepiti dal vivere loro vicino. Mai - le eccezioni sono tali - un parlare di sé fino in fondo, senza reticenze, giocando sui motivi che stanno alla base della propria vita. Ci interessa solo che alcune cose siano altrimenti sistemate perché ci urtano, ci danno noia, e non si apre mai un discorso serio su ciò che veramente schiaccia l'uomo di oggi. Quell'uomo che siamo chiamati a servire e che invece serve a noi per giustificare agli occhi del mondo la nostra esistenza, il nostro diritto ad essere mantenuti.
Che cosa devo dunque ascoltare? Le lamentele di uomini per lo più appena sfiorati dalla vita, sicuri del proprio stato, tesi unicamente a dare un fondamento a quello che, in barba ad ogni altrimenti protestata obbedienza, si sono scelti per la propria sicurezza?
Certo, bisogna mantenere un educato atteggiamento di ascolto, senza fare una grinza, che altrimenti ti chiamano «maestro» e ti guardano dolorosamente sorpresi e sdegnati da tanta sfacciataggine.
Mi dispiace, perché spesso sono stanco e non riesco a star fermo. Capisco che dovrei farlo per amor di pace e per dovere di comunione sacramentale, ma sto ascoltando tante voci e diverse vengono da lontano e si son sempre sentite poco nella Chiesa. L'unico gesto d'amicizia e di rispetto che credo vero è quello di farle ascoltare agli altri, di non farne un problema personale! Per questo continuo a parlare a rischio di scocciare molti. Questo spero di farlo da «maestro».
don Luigi
All'Arcivescovo di Firenze
Ai cristiani di Vingone, Parrocchia di S. Luca
Ad alcuni amici preti
Come alcuni hanno già saputo, Domenica prossima 9 Maggio, alle 11, vado a celebrare la Messa nella piazza dell'Isolotto. So di compiere un gesto fuori dell'attuale disciplina ecclesiastica e lo compio coscientemente, accettandone le conseguenze e assumendo in pieno la responsabilità davanti a Dio e alla Chiesa.
Il fatto che ha provocato in me questa decisione è il processo attualmente in corso a Firenze a cinque preti e quattro laici. Queste persone, che rischiano fino a sei anni di carcere, non sono delinquenti, ma sono in Tribunale per motivi interni alla vita della Chiesa. Questo anche il Vescovo lo riconosce. In realtà, essi sono sul banco degli accusati perché hanno detto in maniera decisa che l'attuale struttura ecclesiastica tradisce la Chiesa dei poveri.
Già due anni fa, quando successe il fatto, noi di Vingone, chiedemmo all'Autorità ecclesiastica di prendere posizione su questa vicenda. Non ottenemmo risposta. Oggi la risposta è arrivata. La Curia ha dichiarato che non è bene che la Magistratura intervenga nelle questioni interne della Chiesa e rimprovera quei gruppi e persone che hanno provocato l'intervento, dimenticandosi però di chiarire che la persona che ha reso possibile tale intervento è il Delegato dell'Arcivescovo Mons. Alba, con la sua deposizione di accusa, e il gruppo è la stessa Curia col comunicato del 6-1-69 che è alla base dell'incriminazione.
Voi capite che questo non giova alla chiarezza ed è fatto apposta per confondere le idee alle persone più umili.
Intendiamoci bene, non ci deve meravigliare che un gruppo di cristiani nel momento in cui cercano faticosamente la loro fedeltà al Vangelo e ai poveri, vadano a finire in tribunale per essere giudicati dal potere dello Stato. Deve capitare. E' successo a Gesù e agli Apostoli. La differenza è che ora a favorire l'intervento del Tribunale è la stessa Autorità ecclesiastica in nome di Gesù Cristo, ed è una differenza tragica.
La cosa ancora più grave è che questo di Firenze non è un fatto isolato. E' la stessa situazione in cui si trova la Istituzione ecclesiastica in quasi tutto il mondo. La Chiesa deve essere, fra gli uomini, segno di speranza e di fede in Cristo risorto ma la vittoria di Gesù nasce dalla desolazione della Croce. La Chiesa quindi deve essere povera con i poveri, schiava con gli schiavi, esclusa insieme ai più disperati fra gli uomini. Solo da questa posizione può far germogliare una speranza e la vita nuova di Gesù Cristo.
Di fatto, invece, la Chiesa, nel suo aspetto istituzionale, si presenta con abiti sontuosi, amica dei ricchi, alleata con il potere economico-politico quasi ovunque; e dove non lo è fa di tutto per diventarlo.
Questa è da secoli la logica dell'Istituzione ecclesiastica: allearsi con i capi di turno per strappare più privilegi possibile, dando in cambio il proprio silenzio di fronte ai soprusi e alle ingiustizie. E che il potere sia in mano ai comunisti, ai capitalisti o ai fascisti non è fattore importante. I nemici di oggi sono gli amici di domani.
E' la logica furba di chi spera più nel potere e nella diplomazia che nello Spirito, o al massimo, di chi spera di usare del potere per favorire l'evangelizzazione.
E' contro ogni alleanza di potere, contro ogni clericalismo risorgente che bisogna lottare, perché la Chiesa sia fino in fondo segno di liberazione dell'uomo.
Questi sono i motivi per cui, andando a celebrare la Messa nella piazza dell'Isolotto, mi pongo in piena obiezione di coscienza di fronte all'Autorità ecclesiastica, rattristato dal silenzio della Chiesa di Firenze che lascia passare un fatto come il processo senza una seria riflessione, con la speranza che la mia decisione, che prendo con sofferenza, sia accolta come segno di amore per la Chiesa e serva da stimolo a qualcuno.
7 Maggio 1971
Don Fabio Masi
P. S. - Hanno aderito a questa presa di posizione, responsabilmente, dando la loro firma, alcune centinaia di cristiani della Parrocchia.
Un altro gruppo notevole di persone di Vingone, pur non condividendo la scelta contingente di celebrare la Messa all'Isolotto, è completamente d'accordo sull'analisi fatta in questa lettera.
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Come è noto ai nostri amici anche la nostra comunità dissente da queste Messe sulla piazza dell'Isolotto, come da quelle celebrate nella chiesa parrocchiale sempre dell'Isolotto, dai religiosi lì inviati dalla Curia, come da quella che vi celebrò a suo tempo il Cardinale alla riapertura della Chiesa.
Per tutto il resto siamo totalmente d'accordo con don Fabio, con il quale stiamo condividendo tutta l'amarezza, da lui, così dignitosamente sofferta, conseguente alle sue scelte.
"L'annunciata grande manifestazione pacifista è fallita di fronte all'energico intervento della polizia che ha fermato circa cinquemila dimostranti. La riunione di tante migliaia di contestatari attesta comunque la volontà politica di una larga porzione della popolazione americana di concludere presto l'avventura americana in Indocina. Nelle prime ore di stamani i dimostranti hanno tentato di bloccare il traffico su uno dei quattro principali viadotti che conducono a Washington, ma la polizia è intervenuta disperdendoli... Il ministro della giustizia John Mitchell ha dichiarato: «La città è aperta, il traffico fluisce, il governo funziona». A sua volta, il sindaco negro Walter Washington ha detto che i dimostranti hanno fallito nel loro obiettivo di paralizzare la capitale".
(dall'«Avvenire» del 4 Maggio 1971)
Sono fatti di questi giorni, segno indiscutibile di due mondi opposti, di due volti profondamente contrastanti della «grande America», di due tipi di «coscienza» di fronte al dramma assurdo e terribile di una guerra che nessuno sembra più capace di fermare.
Le parole così fredde del ministro della giustizia (!) sono l'indicazione precisa della durezza di cuore, della assoluta mancanza di respiro umano di tutti coloro che sono schierati dalla parte del più forte, di chi ha il «potere»: gente che non ha più occhi capaci di vedere l'uomo, ma unicamente pronta a servire la ragion di stato, la «necessità del momento storico», gli interessi dei padroni di turno.
Nella lotta coraggiosa di coloro che affrontano la violenza della polizia e il rischio del carcere per dire di «no» alla guerra, ci pare invece di scorgere come il riflesso della presenza misteriosa dello Spirito di Cristo che muove la storia e opera nel cuore dei figli migliori, di tutti quelli che sono disponibili per la Verità e la Giustizia.
E' leggendo la cronaca di questi avvenimenti che ci è tornato in mente Martin Luther King, cristiano coraggioso che ha pagato fino al sangue, «fino alla croce» la sua umile e radicale fedeltà ai valori del Regno di Dio.
Ci sembra importante riascoltare la sua voce che esprime in modo serio una presa di coscienza autenticamente cristiana di fronte ad uno dei peccati più gravi dell'umanità, come è la guerra.
la redazione
Martin Luther King
"Essendo la mia professione quella di predicare, penso che nessuno sia sorpreso che io abbia numerose ragioni per portare il Vietnam nel campo della mia visione morale.
Prima di tutto, una relazione evidente, fin troppo facile a scoprirsi, esiste fra la guerra nel Vietnam e la battaglia che noi conduciamo in America.
Qualche anno fa, un barlume di speranza sembrò schiarire questa battaglia.
Ogni speranza sembrava permessa ai poveri - bianchi e neri - grazie al programma di lotta contro la povertà.
Esperienze piene di promesse si susseguirono: le cose si mettevano bene.
Fu allora che I America intraprese la guerra nel Vietnam, e vidi la lotta contro la povertà smantellata e svirilizzata come se si trattasse di un qualsiasi gioco politico divenuto inutile in una società presa dalla furia della guerra.
Fu allora che compresi che l'America non avrebbe mai investito i fondi e le energie necessarie alla riabilitazione dei suoi poveri per il tempo che le avventure come la guerra nel Vietnam avrebbero continuato ad assorbire uomini competenze e capitali come una diabolica di distruzione.
E così che io fui costretto a vedere sempre più nella guerra il nemico diretto dei poveri e ad attaccarla come un nemico.
Ma il momento più tragico, forse di questa scoperta della realtà fu quando mi apparve chiaramente che la guerra non si limitava a distruggere la speranza dei poveri, ma che essa spediva i figli dei poveri, i fratelli dei poveri, i congiunti dei poveri e combattere e morire in una proporzione ben elevata del resto della popolazione.
I giovani neri rovinati dalla nostra società noi li prendiamo e li mandiamo a dodicimila chilometri da casa loro a difendere delle libertà che essi non avevano trovato né in Georgia ne ad Harlem.
Crudele ironia: tutti i giorni vediamo sui nostri schermi televisivi soldati bianchi e neri uccidere e morire insieme per una nazione che si è mostrata incapace di farli sedere insieme nella stessa scuola.
Li vediamo, in una sorta di barbara solidarietà, bruciare le capanne di un povero villaggio, ma nello stesso tempo abbiamo coscienza che questi uomini non abiteranno mai nel medesimo edificio a Detroit.
Mi è impossibile stare zitto quando si agisce così crudelmente contro i poveri.
* * *
Quando mi interrogo su questa follia che è la guerra nel Vietnam, e ricerco i mezzi per comprendere e manifestare la mia compassione, è sempre al popolo di laggiù che io penso,
Non ai soldati dei due campi, né alla giunta di Saigon, ma precisamente alla gente che soffre e muore per i mali della guerra, che dura quasi da trent'anni senza interruzione.
Penso a loro, anche perchè mi pare chiaro che non esisterà alcuna soluzione durevole fin tanto che non si sarà provato a conoscerli e ad ascoltare i loro gridi soffocati.
Ai loro occhi, gli americani debbono essere dei ben strani liberatori!
Adesso muoiono sotto le nostre bombe, e pensano che siamo noi, e non i loro compatrioti il vero nemico.
Partono tristemente, indifferenti a tutto, quando li deportiamo lontani dalla terra dei loro avi in campi di concentramento dove il minimo necessario alla vita non si trova che raramente.
Essi sanno che debbono partire o che le nostre bombe li distruggeranno.
Partono donne, vecchi, bambini.....
Ci vedono inquinare la loro acqua, distruggere centinaia di migliaia di raccolti.
Piangono quando i nostri bulldozer rombano sulle loro terre distruggendo le piante, così preziose.
Vagano negli ospedali, dove si trovano venti ferite di origine americane per una sola causata dai vietcong.
Vagano nella città e vedono migliaia di bambini senza tetto e senza vestiti che corrono in bande per le strade come animali.
Vedono i bambini, umiliati dai nostri soldati, che mendicano un po' di nutrimento.
Vedono i bambini che vendono la loro sorella ai nostri soldati e fanno l'adescamento per la loro fame.
Cosa pensano i contadini quando sosteniamo i proprietari fondiari e ci rifiutiamo di mettere in pratica tutte le nostre belle parole sulla riforma agraria?
Cosa pensano quando sperimentiamo i nostri nuovi modelli di armi sopra di loro, come i tedeschi sperimentavano nuove medicine e torture nei campi di concentramento europei?
Dove sono le basi del Vietnam indipendente che pretendiamo di costruire?
Fra gli uomini senza voce?
Distruggiamo le loro terre e i loro raccolti, e il Villaggio.
Distruggiamo le loro terre e i loro raccolti.
Partecipiamo alla distruzione della sola forza politica rivoluzionaria che non sia comunista: l'unione dei buddisti.
Sosteniamo i nemici dei contadini di Saigon.
Corrompiamo le loro donne e i loro bambini, e uccidiamo i loro uomini.
Che liberatori!
Salvo il risentimento, non resta quasi più nulla su cui ricostruire adesso.
Assai presto le sole fondamenta che resisteranno saranno quelle delle nostre basi militari e il calcestruzzo di quei campi di concentramento che noi chiamiamo «villaggi fortificati».
Legittimamente i contadini hanno ragioni di domandarsi se intendiamo costruire il nuovo Vietnam su tali basi.
Possiamo biasimarli di avere simili pensieri?
Sta dunque a noi patrocinare la loro causa e porre le questioni che essi non possono porre, perchè anch'essi sono nostri fratelli.
In un modo o in un altro questa follia deve cessare.
Parlo come figliolo di Dio e fratello dei poveri che soffrono nel Vietnam.
Parlo per coloro la cui terra è devastata, i cui focolari sono distrutti, le cui colture sono inondate.
Parlo per i poveri d'America che pagano due volte il prezzo di questa guerra: per le loro speranze ridotte al nulla, e, nel Vietnam, per morte e la corruzione.
Parlo come cittadino del mondo perchè il mondo resta stupito dalla via che noi prendiamo.
Parlo come cittadino americano ai dirigenti della mia nazione.
Siamo noi che abbiamo cominciato la guerra.
Sta a noi prendere l'iniziativa per fermarla.
Ecco il messaggio dei principali dirigenti buddisti del Vietnam: «Ogni giorno di guerra vede l'odio aumentare nel cuore dei vietnamiti e in tutti coloro che credono nell'uomo. Gli americani stanno per trasformare i loro amici in nemici, ed è sorprendente che essi non comprendano, essi che calcolano accuratamente le possibilità di una vittoria militare, che procedono così subiscono una grave disfatta, psicologica e politica. L'immagine dell'America non sarà mai più l'immagine della rivoluzione, della libertà e della democrazia, ma della violenza e del militarismo".
da «Oltre il Vietnam» - Ed. La Locusta
Luigi Sonnenfeld
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