LA VOCE DEI POVERI: La VdP aprile 1971

Il dovere del nuovo

Con queste nostre pagine mensili (non è di più e di diverso di un parlare serenamente, anche se un po' appassionatamente, fra fratelli che si sentono famiglia) non intendiamo che offrire, con umiltà e quindi con sincerità, quello che pensiamo, ciò di cui normalmente si parla nella nostra comunità, con gli amici che vengono a trovarci, quando ci troviamo a parlare con gruppi che sono venuti da noi o che ci hanno invitato a casa loro.
Ci può essere rimproverato che spesso può venire fuori forse un discorso intellettualizzato, ma vorremmo dichiarare che non è né per capacità, né per volontà: probabilmente può darsi che sia per una rimanenza dura a morire di un ecclesiasticizzazione secondo la quale una cultura, vera o posticcia, vi doveva essere e inevitabilmente ne veniva un manierismo teologico e intellettualistico attraverso il quale Dio, il Vangelo, la ricerca cristiana, ecc. doveva essere filtrata fino al punto che inevitabilmente non era più il «sì, sì e no, no», ma quasi un non capirci più niente e quindi, certo non intenzionalmente, un qualcosa di «maligno», cioè di intenzionalmente sistemato.
Ce ne dispiace molto di questo «non riuscire a rientrare nel seno di nostra madre e a rinascere di nuovo» fino al punto di poterci offrire creature nuove, come sarebbe giusto e doveroso. Anche perché può decidere assai seriamente della possibilità di essere Regno di Dio. E angoscia in noi (e in tutti coloro che desiderano e cercano di essere «diversi») il desiderio di una Chiesa-Madre, capace di generarci ad esistenza nuova, a nuova creazione. Perché sappiamo bene che per essere figli occorre una Madre e per figli nuovi e diversi è indispensabile una Madre nuova.
Nel frattempo (cioè mentre tutto sta mutando, perché non vi è forza di conservazione che possa bloccare il muoversi dello Spirito che muove la storia e quindi anche la Chiesa), nel frattempo non possiamo non prenderci come siamo e gettarci a capofitto nella lotta che è Amore (non accettiamo nessun'altra specificazione della lotta) per la chiara responsabilità di impegno nella ricerca, faticosa e rischiosa, quanto si vuole, di raccogliere tutto quello che si ha e specialmente quello che si è per trasformarlo, quasi da renderlo strumento adatto per condurre avanti la lotta, se non altro perché non si plachi ma si accenda sempre più.
E' molto bello guardare al passato, alla storia, alla tradizione (lettera minuscola), alla educazione avuta, anche in tutte le sue limitazioni e miserie, alla spiritualità inculcata, al moralismo-diritto canonico, all'essere preti così come dagli stampi, inventati dal Concilio Tridentino, siamo usciti, dalla chiesa insomma invecchiata e incartapecorita di secoli, guardare al passato, raccoglierlo coscienziosamente responsabilmente e cioè con Amore. E quindi non per gettarlo via (che sarebbe facile specialmente se non si avverte il vuoto e l'incapacità di riempirlo di qualcosa che sia veramente «nuovo») ma per trasformarlo, per farne partenza di nuovo cammino.
Rimane dietro le spalle, è vero, ma unicamente perché si cammina, perché si va avanti. Forse è anche ciò che è alle spalle che ci costringe, a spinta violenta, irresistibile spesso, a riprendere il cammino e tentare, costi quello che costi, ad andare avanti.
Pensiamo il nuovo, il diverso, perché il vecchio è logorato, usato ormai fino allo straccio. Non è più possibile un rammendare, un ricucire pezze nuove. La veste dì Cristo è senza cuciture. Al massimo può essere tirata a sorte. E i nostri tempi la stanno di nuovo mettendo in gioco e in maniera impressionante.
Quindi tutto un rispetto, una considerazione, un Amore, non per salvare però ciò che ha fatto il suo tempo (il giudicare se bene o male non ci interessa e è sempre tempo perso), ma piuttosto per l'atto di Fede (che necessariamente è un rischio) che occorre sempre a! pellegrino sulla strada e poi perché è realtà vissuta da fratelli e quindi antecedenza sacra e indispensabile e sicuramente fedeltà e poi ancora perché ha lasciato scoprire (volente o no) i suoi limiti, l'essere arrivati cioè fino a quel punto, creando le premesse, le condizioni urgenti di liberazione, di maturazione, di rinnovamento e cioè semplicemente di crescita.
Ciò che impressiona profondamente nel nostro tempo di Chiesa è che in questa urgenza ineluttabile del nuovo (cioè il camminare avanti lasciando che il passato rimanga inevitabilmente dietro le spalle) non sappiamo inventare - almeno ufficialmente - cose nuove.
Forse si ha perfino paura di mettercisi anche soltanto a pensarvi. Dio non voglia, perché in fondo si ha coscienza, specialmente in chi è posto in autorità, che il vino nuovo ha bisogno di otri nuovi.
Sarebbe responsabilità terribile respingere il nuovo per non voler gettar via la vecchia contenenza. Perché è certo che molte strutture (quante?) della Chiesa sono vecchie e irrinnovabili.
Bisogna pensarne di nuove: logicamente quelle legate al tempo, alla storia, ai programmi e mentalità umane, non certamente quelle pensate e proposte e generate dallo Spirito Santo.
Perché una distinzione, cioè un poter distinguere bene, come il battesimo di Giovanni, se viene da Dio o dagli uomini, sarà pur sempre possibile (almeno secondo il pensiero di Cristo e la sua domanda, anche se la risposta la deve sempre attendere ancora dagli scribi di allora come da quelli di ora).
Vi sono liberazioni e purificazioni da fare. E non basta l'aver tolto il latino dalla liturgia e, come una delle note caratteristiche essenziali, il saperlo, per giudicare della vocazione o no di uno che voleva farsi prete. Né per il camminare più spediti nel nuovo è sufficiente che i preti abbiano le gambe più agevolate dall'aver abbandonato l'abito talare per il clergimen. E via dicendo con esemplificazioni del nuovo capaci soltanto di risultare un penoso tentativo di concessioni, buone soltanto a poter crearsi l'illusione di mantenere in piedi, anche se scricchiola più o meno paurosamente, la vecchia impalcatura.
Noi forse pecchiamo di fantasia e cioè di fanciullaggine (forse ci stiamo avvicinando, nel ritorno, al seno della Madre per rinascere di nuovo?) ma non possiamo impedirci di riflettere a queste purificazioni e liberazioni che comporta il lasciarsi il passato alle spalle perché si va avanti sulla lunga strada del Regno di Dio. Sogniamo un cammino nuovo per terre nuove.
E' per questo che ci apriamo al nuovo da qualsiasi parte ci sopravvenga purché vi riscontriamo chiaramente i segni dello Spirito e cioè la Parola e il Mistero di Cristo.
E l'offriamo questo nuovo così come riusciamo a raccoglierlo nella nostra Fede, nell'Amore a Dio, nella passione a Gesù Cristo, nella fedeltà alla Chiesa e logicamente nella responsabilità personale e comunitaria di cui ci carica - e la misura è spaventosa - la nostra scelta cristiana e sacerdotale.
Vorremmo tanto rendere tutto questo impegno non soltanto parola parlata o scritta, ma vissuta: cioè prima verificata in noi e poi così autenticata da un pagar di persona, semplicemente e fraternamente offerta.
Perché non è bene aspettare i tempi nuovi come si aspetta l'aurora al mattino o come quando si dice verrà il tempo bello perché il cielo alla sera rosseggia o pioverà perché il cielo è rosso e minaccioso al mattino. Sappiamo che è da generazione adultera e malvagia sapere del tempo bello o brutto e non sapere interpretare i segni dei tempi e stare ad aspettare un segno.
E tanto meno è Regno di Dio scaricare la fatica e il travaglio e il rischio del seminare riservandoci «le decime» a mietitura compiuta.
L'attesa è virtù cristiana per tutto quello che è il Mistero di Dio e il disegno del suo compiersi, ma è un tirarsi indietro quando si tratta della nostra crocifissione e tanto più quando si lascia tranquillamente gettare la croce sulle spalle degli altri.
Da dopo Gesù Cristo il compromettersi è fondamentale virtù cristiana: somiglia assai a quell'incarnazione che è il lasciarsi travolgere dalla storia cercando di mescolarvi dentro un pugno di lievito o di accendervi una luce.


La Redazione

Segni di resurrezione?

Cercare i segni della Risurrezione di Gesù in questo mondo, in questa Chiesa che dovrebbe esserne unico e grande segno, non è impresa facile e richiede fatica, paziente attesa, speranza mai delusa. Il chiarore di alcune luci isolate fende appena il buio di una condizione umana che non ha ancora conosciuto autentiche liberazioni. Quasi lumi di casolari sparsi sul fianco della montagna a segnare presenze di uomini che lottano per sopravvivere. Di qui una prima difficoltà ed insieme, però, anche una valida traccia di ricerca.
Dove incontrare i testimoni del Cristo Risorto, uomini che rischiano la vita nel nome di Gesù? Dove incontrare la luce che dà fiducia a tutto un entrare nel mistero della vita?
Non certo nel «buon cattolico» che cerca di render benedetta una vita chiusa ed egoista, e neppure nel prete affamato di soddisfazioni pastorali e ben al sicuro dalla vita.
La ricerca ha bisogno di orizzonti vasti quanto il mondo, di un cuore capace di accogliere tutta resistenza umana ed insieme ogni vita spesa giorno per giorno nella più assoluta normalità. Dove sorgono aneliti di libertà in un popolo schiacciato dalla fame e dalla guerra per un tragico gioco di interessi tra potenti, dove si paga ogni giorno per difendere il diritto alla libertà contro il compromesso e il servilismo, là sorge una luce che dà speranza e consistenza all'affermazione di Cristo: «Io sono la Vita».
Speranza che le cose possano essere diverse da come le costruiscono gli uomini, legandole ai propri interessi, in una storia vecchia quanto il mondo e che da sempre ripete il dramma di Caino e di Abele. Speranza di realtà nuova in cui ogni uomo si senta accolto come in casa propria, e possa veramente crescere alla misura perfetta in virtù dell'Amore.
E' sempre motivo di grande tristezza che si trovino pochi cristiani, e per lo più dispersi, disposti a raccogliere sacerdotalmente queste realtà vivendole senza difendersi, fino a misure estreme. Inspiegabile assenza della Chiesa. E dire che basterebbe a volte aprire un poco le braccia per dare fiducia a tanta umanità sofferente, sfiduciata, senza pastore. Un po' di coraggio, solo un po' di coraggio per calmare tanta sete e tanta fame. Se non altro un po' di fiducia nelle parole del Signore: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori», coloro che soffrono il peso della malvagità del mondo e sperano di esserne liberati. Si tratta di essere «con loro», misterioso allargarsi dell'Emmanuele, il «Dio-con-noi». Non per annullare la propria identità, ma per una fedeltà assoluta a quella chiamata che ci fa cristiani e ci costituisce in tale precisa identità. E, bisogna esser chiari, non per incidere di più (ne converti più te con la tuta o io con la cotta? ), né per spirito di avventura, né per spirito di polemica. Non perché rende di più, ma perché è più vero. Esser «con loro» e non «da loro», come per una visita di convenienza, uno spruzzare di acqua benedetta sulle quattro mura di un'officina, preso a pretesto di una condivisione di esistenza, di una fraternità vissuta. E neppure «per loro», in un atteggiamento di vuoto paternalismo, per uno sforzo interessato, diretto ad annacquare i problemi umani e a soddisfare le esigenze «religiose» della propria gente. «Con loro, con tutti gli uomini» seguendo l'indicazione di Gesù, Via perfetta al Padre. Come Lui, assumendo totalmente il peso della vita. Come Lui, accettando di essere l'ultimo perché ogni uomo possa accostarsi con fiducia e trovarsi in comunione, poiché non si ha niente che l'altro non possa avere. Rivestiti del suo Sacerdozio, unico, senza possibilità di riferimenti, proprio perché non limitato all'ambito «religioso», ma totalmente affogato nella vita fino a perdersi in essa alla misura estrema.
Dispiace che la Chiesa, pastori e fedeli, abbia contrastato da sempre questo accogliere Gesù e la sua misura di esistenza, quasi a difendersi da una novità di vita troppo a lei estranea. So che è veramente difficile accogliere lo Spirito che, come il vento, soffia dove vuole. E' difficile resistere alla tentazione di sapere da dove venga e dove vada, per poterlo inquadrare, limitare, giudicare, ridurre alla nostra misura, e quindi non lasciare spazio alla sua volontà di avvolgere nel mistero della vita di Dio tutta la creazione.
E questo, che avvenga a livello più o meno universale, non fa differenza se non per un senso di angustia e di miseria umana sempre crescente man mano che il contrasto si localizza e si precisa.
Fino a ridursi a livello di chiesa locale, rigidamente strutturata, incapace di realizzarsi comunione di realtà diverse, di ricerca a respiro allargato, di Regno di Dio.
Il contrasto, la lotta, il tentativo di soffocare ogni innesto di vitalità, è condotto con seria determinazione. Conosco preti schiacciati nel loro sacerdozio e preti che vanno avanti con coraggio nonostante l'opposizione accanita di tanto clero.
Se si chiedono le ragioni di tanta reazione, si scopre che vengono applicati agli altri gli stessi motivi che uno ha nel cuore, senza la possibilità di guardare più in là del proprio naso. E' tipico che siano sempre motivi a ritorno personale; mai che passi per la testa che in ricerche, anche dolorose, possa entrare, come motivazione, il Regno di Dio.
E' terribile che per tanti preti sia così difficile - oppure impossibile? - accogliere motivazioni che si allarghino oltre la persona e non siano difesa di posizioni personali.
Dovremmo allora concludere che, per tanti, il sacerdozio è tirato avanti unicamente per motivi personali?
Difficile rispondere; eppure prima si tira fuori la donna (mostrando così di avere un cuore impuro ben più terribile di tanta impurità della carne), poi il comunismo (nulla è più comodo di un'etichetta per distinguere amici e nemici), il denaro (si sa bene, per esperienza personale, quanto possa addormentare la coscienza), ed infine, e il modo è raffinatissimo, la teoria dei carismi o doni personali (perché è così che in fondo si evita di esserne inquietati).
E' storia di tutti i giorni, eppure provoca sempre dolorosi risvegli; ma, proprio perché è lotta quotidiana, non può far paura, non può trattenere chi vuole accogliere quella verità che fa liberi. Non può e non deve soffocare l'energia che Dio cresce nel cuore degli uomini: proposta che sgorga perenne dalla sua Parola per un'incarnazione che continua fino al compimento dei tempi.
Forse il segno di Risurrezione più vero, in questo tempo, è di poter aprire le mani perché chi vuole possa leggervi tutta la storia di una vita che non si è mai difesa: continua offerta di verità e di amore senza mai cedere a tentazioni di ritorni personali.
Essere sulla strada, all'aperto, perché chi vuole possa subito trovare; allo scoperto perché non si ha nulla da nascondere.
Senza neppure il timore di essere degli importuni, di dar fastidio, di rovinare qualcosa.
E' troppo facile difendersi da ciò che non si vuole vedere, da ciò che non si vuole capire.



don Luigi

La Chiesa e il militarismo

Una lettera al Papa

Volevo scrivere al papa. Gli volevo dire tuta la pena, la sofferenza e la vergogna che sento in cuore per il suo «silenzio». Non che il papa non parli: la sua voce non la sento chiara e precisa, come di parola che chiami ogni cosa col suo nome. Mi sembra troppo generica, diplomatica, quasi timorosa di abbattere, sradicare, spezzare i falsi legami che avvincono i cuori degli uomini e compromettono la Chiesa di Gesù con il «mondo» per cui Egli non ha voluto pregare.
Gli avrei voluto dire di fare qualcosa di preciso per quello che succede da troppo tempo, in modo così spaventosamente assurdo e terribile, in quel pezzo di terra insanguinata del Vietnam...
Avrei voluto comunicargli la pena immensa che mi brucia il cuore di sapere che laggiù, fra i soldati americani mandati a uccidere e ad essere uccisi, ci sono dei preti come me, consacrati dal Sacerdozio di Gesù, dall'amore di Gesù, che celebrano la Cena della Riconciliazione e dell'Alleanza nel Sangue di Cristo in mezzo a tutto quel sangue di fratelli. Dei preti come me, che in quella terra lontana sostengono spiritualmente degli uomini che sono agli ordini degli assassini che li manovrano da lontano, a loro piacere: il Sacerdozio di Gesù, quindi, messo a servizio della crocifissione tra fratelli, invece che della loro risurrezione...
Volevo chiedere al papa di dire a tutti i cappellani americani che sono nel Vietnam di tornare a casa, di lasciar soli quegli uomini, perché dove ci si ammazza, Dio non può abitare («chiunque odia il suo fratello è omicida, e l'amore di Dio non è in lui » - 1 Giov.).
Ne abbiamo parlato una sera fra noi della comunità. Ci siamo detti le cose con grande franchezza e tanta sofferenza. E' un peso che sentiamo tutti nell'anima e portiamo dentro da tempo. Ma abbiamo dovuto constatare, alla fine, che non sarebbe servito a nulla scrivere al papa. Sarebbe stato come gettare acqua in mare, perché la lettera nemmeno sarebbe arrivata a destinazione. Perché non è possibile per dei preti scrivere una lettera a chi nella Chiesa dovrebbe essere così vicino e raggiungibile perché all'ultimo posto (essendo il primo) e sperare che la lettera giunga sul suo tavolo e parli al suo cuore.
Allora abbiamo pensato che bisognava affrontare questo grosso problema allo scoperto, con i poveri mezzi che abbiamo, dalle pagine di questa «lettera aperta» del nostro giornale.
Perché bisogna assolutamente che ciò che ci è stato sussurrato agli orecchi, venga gridato dai tetti, unicamente per amore.
Uno della Comunità



Dio responsabile della guerra?
Anche le cose più terribili si sopiscono facilmente: si accendono sensibilità a fiamme e fuoco e subito dopo è un po' di cenere che raffredda rapidamente. E' la spaventosa potenza del tempo che riesce sempre a livellare tutto e a far tutto cadere nella dimenticanza.
E' nemica di Dio questa potenza narcotizzante del tempo. E' disgrazia per l'umanità. Perché è da qui che viene fuori quella terribilità di ricominciare sempre da capo, come se il passato non fosse esistito.
Mi ha molto impressionato la vicenda del processo a Calley per la strage a My Lai, nel Vietnam. E' già stato tutto dimenticato, tutto superato. I morti (gli Americani del processo ma tutta - o quasi - l'opinione pubblica) hanno seppellito i morti coprendoli di documenti processuali, di pagine di giornali, di lettere a fasci e di telegrammi. Chi non è stato «seppellito» è Calley e cioè la guerra del Vietnam e cioè la guerra e cioè l'esercito, il militarismo, le fabbriche di armi, l'economia-sfruttamento dell'assassinio legalizzato e benedetto.

E l'umanità continua ad essere sempre la solita umanità che trova giustificazioni per tutte le cose, pur di salvare le sue possibilità di continuare ad essere disumanità.
Mi ha molto impressionato una frase dello psichiatra di difesa della corte marziale, il quale, dimenticando il significato e il valore del processo di Norimberga, ha detto: «E' la guerra. Se si deve dare la colpa della guerra a qualcuno, tanto vale prendersela con Dio. Non si può dare la colpa agli individui o alle nazioni ». (Panorama del 18 marzo 1971, pag. 33).
Mi sgomenta questa dichiarazione di colpevolezza di Dio nei confronti del crimine più spaventoso e assurdo che è la guerra. E mi viene in mente la fibbia del cinturone di cuoio delle SS tedesche dove era inciso: Dio è con noi. E rivedo gli scudi crociati e le bandiere crociate delle guerre sante...
E mi ricordo delle benedizioni delle armi, delle Messe su tutti i campi di battaglia, di cardinali in visita alle truppe, di generali con tutti i privilegi del grado, e sono vescovi. E preti e frati con stellette e spalline e la croce sul petto, e sono i cappellani militari.
Non ho voglia di confondermi in disquisizioni teologiche ed esegetiche o filosofiche e accidenterie del genere, per dimostrarmi (a me prima di tutto perché mi sia possibile conservare la Fede e poi trovarmi nella condizione indispensabile per proporla agli altri) per dimostrarmi che Dio non è il guerrafondaio che provoca e guida le guerre. Non è Lui il responsabile della disumanità degli uomini.
So bene chi è Dio e quali sono i veri rapporti fra Dio e l'umanità quando a Dio è stato possibile manifestarsi agli uomini, direttamente e immediatamente e cioè personalmente, in Gesù Cristo, suo Figlio, cioè l'espressione, l'essere vero e totale di Dio nella realtà umana: e non più condizionato da uomini e dalla loro storia, cominciando da Abramo, il popolo eletto, Mosé, Giosuè, David e tutta la Bibbia: racconto di Dio e dell'umanità prima e in attesa della pienezza dei tempi e cioè delle misure estreme al di là delle quali era ormai impossibile ogni altra manifestazione di Dio agli uomini, altro che attraverso una sua personale venuta.
Dio, per chi vuol sapere ciò che unicamente e in maniera assoluta Dio possa essere, è Amore.
E l'annuncio di Dio e la dimostrazione della sua esistenza e del suo essere, all'umanità, è nella misura in cui Dio viene scoperto, conosciuto e amato come Amore.
Gesù ha chiamato e vissuto Dio, Padre suo e nostro, e ha così testimoniato di Dio manifestandolo nella luce più pura e trasparente nella quale soltanto è possibile «vedere» Dio.
Vi sono distinzioni di valori che si impongono sempre più. E' un processo di liberazione semplicemente adorabile questo precisarsi a caratteristiche inequivocabili di ciò che è di Dio e di ciò che non è di Dio e nemmeno a Dio riducibile, anche se affogato nell'acqua santa.
La Chiesa dai segni dei tempi e dalla violenza dello Spirito Santo che la sta scuotendo dalle radici, è chiamata ad annunciare che cosa vuol dire Dio e chi è Gesù Cristo: è presenza profetica ormai la Chiesa nel mondo. Non è più possibile ogni compromissione sia pure a scopo di beneficenza, ogni collusione anche se per amministrare sacramenti, perché queste intenzionalità finiscono per giustificare il sacrilegio, cioè il confondere e fare tutt'uno di Dio e del diavolo o se non altro tentare, in qualche modo, di metterli insieme e farli andare d'accordo.
Sempre più la storia scopre, strappandogli via le sacre vesti di cui si è sempre rivestito molto furbescamente, quel mondo per il quale Gesù Cristo, la sera prima di andare a morire, e quindi nel momento più supremo del suo essere Amore, si è rifiutato perfino di pregare e per il quale sicuramente non è risuscitato con Lui e non può e non deve vivere della sua vita personale e della sua vita storica che è la Chiesa.
La responsabilità della Chiesa, popolo di Dio, corpo di Cristo, dai fedeli fino ai vertici della Gerarchia, sono gravissime nel rifiutarsi di prendere coscienza di questa maturazione e crescita di Regno di Dio nella storia e di non operare ancora rotture chiarificanti e liberanti, in modo che sempre più la Chiesa abbia scopertamente il volto di Dio e sia Cristo vivente fra gli uomini.
Il problema della presenza della Chiesa e della sua gerarchia, ma specialmente del sacerdozio, ufficialmente, nell'esercito, cioè nelle forze armate, cioè fra i mitra e i cannoni e l'ingranaggio del militarismo che li manovra, non è problema disinvoltamente risolvibile con la pastorale presso i militari.
C'è qualcosa che conta di più della pastorale spicciola della buona parola, dell'assistenza fraterna, dell'amministrazione dei sacramenti, ecc.. Di tutto quello, insomma - e lo dico con profondo rispetto - che i cappellani militari, di bene e di sacerdotale, compiono nelle caserme.
C'è qualcosa che conta di più. Che Dio sia liberato dall'essere compromesso nella guerra, dall'essere tirato da una parte o dall'altra perché aiuti ad uccidere meglio e di più i fratelli. C'è l'annuncio del Vangelo che è realtà di Amore e di pace anche a costo della Croce. E non se ne possono strappare delle pagine per nessun motivo al mondo.
La Chiesa non deve più predicare la pace, ma condannare la guerra. Maledirla in tutto quello che guerra è e a guerra porta, perché è spiegabile e giustificabile soltanto con la guerra.
Diversamente la Chiesa continuerà a portarsi nella sua storia la responsabilità, pesante e agghiacciante, di fronte al mondo e al problema della Fede, di coinvolgere Dio e Gesù Cristo negli orrori della guerra fino a sospetti e giudizio di colpevolezza di Dio, da raggiungere i limiti spaventosi del più orribile sacrilegio.
E' un discorso lungo (perché può iniziare da quando le croci apparvero sui labari dell'esercito di Costantino) e complesso (perché vi sono coinvolti problemi di pastorale, di imprese eroiche, d'interessi di privilegio e di meccanismi politici ed economici) è un discorso lungo e complesso quello dei Cappellani Militari e della compromissione della Chiesa col mondo militare e cioè con tutto quel mondo tenebroso che è la guerra che si rifà alle radici della peggiore istintività dell'uomo, si svolge e fiorisce nei propagandismi patriottici e ideologici, fruttifica in cataclismi sempre più inimmaginabili di disumanità: il tutto raccolto dalla ragione economica e spinto fino alla pazzia da uomini pazzi, ma lucidissimi, nell'allagare il mondo di sangue innocente. E si conclude in medaglie al valore, in potenze classiste e razziste e in cimiteri da ricoprire tutta la terra.
Allora, arrivati a questo punto, è giusto sui cimiteri mettere foreste di croci.
Ma sarebbe molto più giusto togliere via anche il minimo segno di croce da tutto ciò che questi cimiteri prepara e costruisce perché non ha altro significato e motivo che la guerra, questo spietato carnefice dell'umanità.
Gli uomini facciano quello che la loro disumanità li spinge a fare, ma non mescoliamoci Dio.
E' di qui che deve cominciare la liberazione di Dio da tutto quello che gli uomini hanno fatto e fanno perché sia impossibile perfino l'idea che Dio esista. E Gesù Cristo un assurdo.
E' scandaloso che la Chiesa gridi e preghi pace e nel frattempo continui ad essere nell'ingranaggio spietato della guerra.




Don Sirio

(citazione)

Non pretendo di essere un profeta. Non sono che un umile cercatore della verità, risoluto a trovarla. Non considero nessun sacrificio troppo grande per vedere Dio faccia a faccia. Tutta la mia attività la si chiami sociale, politica, filantropica o etica, è diretta a questo fine.
E poiché so che Dio si trova più spesso nelle sue creature più umili, che nelle creature elevate e potenti, lotto per raggiungere la condizione delle prime. Non posso farlo senza servirle. Da qui la mia passione per le classi oppresse. E poiché non posso rendere questo servizio senza entrare nella politica, mi ci trovo coinvolto.
Perciò non sono un padrone, ma un pugnace, fallibile, umile servo dell'india e, attraverso di lei, della umanità.

GANDHI

Un libro da leggere: Vangelo secondo gli anonimi

I SOLDATI
...Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel Pretorio, e convocarono tutta la coorte. Lo rivestirono di porpora e, dopo avere intrecciata una corona di spine, gliela misero sul capo. E cominciarono a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna e gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, gli facevano riverenza (...). Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti tirando a sorte su di esse... (Marco, 15, 15-24)

L'Innocente che non aveva lasciato che una spada lo difendesse nel momento dell'estremo pericolo, colui che si definiva «mite e umile di cuore», che si era sempre rifiutato di proclamarsi re, viene ora consegnato ai soldati.
All'inizio della sua vita, quelli di Erode lo avevano mancato; ora, attraverso le torture che gli vengono inflitte dalla violenza "legale", egli si riunisce ai suoi piccoli fratelli uccisi a Betlemme. Ma non è solo a quei bambini ormai lontani nel tempo che egli si ricollega. Basta leggere le pagine della sua passione esaminando il comportamento dei militi romani per vedere che il Cristo è incardinato nella storia d'oggi. Come non riconoscerlo in ogni uomo che sulla strada della libertà, della giustizia si scontra con la repressione armata? Se il Vangelo ci è stato lasciato non solo come storia di «un» uomo ma come storia «dell'» uomo e se Gesù ha voluto identificarsi con i più poveri, noi dobbiamo avere il coraggio di guardarci intorno e di vedere che attraverso la violenza dei soldati contro l'uomo che «turba l'ordine costituito» (questa violenza che permane identica lungo i secoli) Gesù è intimamente congiunto al martirio degli operai spagnoli e degli intellettuali greci e cecoslovacchi, dei preti e degli studenti brasiliani, dei patrioti vietnamiti di tutti gli uomini sfigurati dalle sevizie così come nel Vangelo, versetto dopo versetto, il volto del Cristo va sfigurandosi sino a strappargli un grido di disperazione e a lasciare sulla Sindone la povera immagine di un uomo che ha il naso tumefatto dai pugni e la fronte sporca di sangue.
Credo che a questa pagina - la tortura del Cristo storico e la tortura del Cristo presente in tutti i secoli nella carne degli uomini che patiscono persecuzione per la libertà - noi dovremmo essere attentissimi come a una terribile lezione di metodologia del sadismo: di quello che fermenta nei regimi più putridi dell'umanità ma anche di quello che fermenta nei nostri cuori di galantuomini.
Primo tempo. L'uomo va degradato, ridotto a un abominevole oggetto. Come si può colpire il nostro volto in un volto altrui? Occorre istituire delle profonde differenze fisionomiche che ci impediscano di vederci simili. Pilato fa flagellare il Cristo per esorcizzare la sua inquietudine. Un uomo sottoposto alla tortura (alle sevizie o alla fame o alla completa frustrazione sociale) ha le spalle più chine, il passo più goffo, l'occhio più spento. Inquieta meno della persona diritta che ti guarda negli occhi senza timore. Ti permette di proseguire il tuo lavoro di giudice senza tremare dinanzi a lui. La sua debolezza fisica esalta la tua debolezza morale. Sporca di sangue o di fango o di fame, carne di eretico inquisito dalle Chiese sante e da quelle atee, carne di emigrante meridionale nelle città del Nord, carne di ebreo tra gli uomini dell'Herrenvolk, carne di arabo nell'Israele di oggi, carne di negro davanti ai capi arabi del Sudan, carne di bambini biafrani o di lavoratori italiani immolati nelle guerre «industriali», carne di vaqueiro nel Nordest, scimmie senza coda davanti ai neocolonialisti - questa carne appare finalmente diversa e spregevole. E allora è più facile passare al secondo tempo.
Secondo tempo. All'uomo torturato si nega ogni dignità. Non basta averlo fisicamente annichilito: è oggetto di ludibrio. Il carnefice non vuole spegnere la voce del martire nel sangue senza averla spenta prima nel ridicolo.
I soldati fanno quadrato intorno a Gesù, nel cortile della caserma. Lo rivestono di uno straccio di porpora e gli mettono sul capo una corona di spine. Gli si inchinano buffonescamente davanti, lo picchiano, gli sputano addosso. Più che un istinto malvagio è descritta in questa pagina, come in quelle dei giornali di oggi, una tetra volontà di demolizione dell'uomo. I carnefici sono sempre stranei alle diatribe teologiche o culturali. Ciò che li rende così preziosi ai potenti è la loro ignoranza, la convinzione tenace che solo ai ricchi spettino gli strumenti del pensiero. Per i soldati romani, lo scandalo del Cristo è un affare di ebrei. Ma è necessario al loro lavoro, perché essi possano aderirvi con impegno, prendere posizione, ideologicamente, a fianco della classe dirigente. Non importa se, come in questo caso, si tratti di una casta sottomessa ad altri. E' l'antichissima e sempre ricorrente storia dei colonialismi di tutti i tempi in cui fra i capi dei vincitori e i capi dei vinti, come fra Pilato ed Erode, si stabilisce un'amicizia che è soprattutto solidarietà contro il grido degli umili, contro la possibilità che il popolo si ribelli. Così i romani, padroni del mondo, si trovano inseriti, senza volerlo ma solo perché i ricchi sono sempre legati fra loro, al di là delle contingenze della storia, nel fondo di una vicenda misteriosa e il Messia di Israele muore su un patibolo straniero, unendo per sempre la sua carne a tutti i patiboli eretti dai conquistatori in nome dell'ordine pubblico.
Questi soldati, proletari di Roma divenuti improvvisamente ricchi di fronte alla povertà di un popolo soggiogato, tradiscono il Cristo, la causa di tutti gli altri poveri che hanno fame e sete di giustizia, degli umili che osano sperare contro ogni speranza. Essi non sono un fatto nuovo né isolato nella storia: attraverso il vincolo della disciplina militare, i ricchi continueranno a proclamare civiltà il loro privilegio e a imporne agli umili la difesa. E tuttavia questo tradimento (e la perversione dei mandanti) pare al Cristo un peccato così grave che, pure allo stremo delle sue forze, il Figlio di Dio che si era rifiutato di pregare per il «mondo», esce in una preghiera per loro, supplica il Giudice supremo di perdonarli perché «non sanno quello che fanno».
Al di là della nostra capacità di perdono, Gesù vede la disperata miseria dei soldati che hanno ricevuto come unica educazione la prontezza a demolire l'uomo, che sono convinti di valere per la perfezione con cui uccidono.
Poveri soldati! Accampati ai piedi della croce, sul Golgota e su tutte le aree infuocate dalla guerra o dall'odio, ridotti essi stessi a oggetti, a utensili, non possono che dividersi la veste del condannato a morte: miserevole bottino, che il sussulto della terra renderà ancora più esiguo. Gli altri, i potenti che si sono serviti di loro, si dividono il mondo.
Sino a quando?
E tuttavia quei soldati non sono soli. Attraverso la lettura della Passione del Cristo come attraverso la lettura dei giornali di oggi, noi siamo testimoni del comportamento dei loro discendenti, nei cortili delle caserme e accanto ai patiboli.
Noi celebriamo i riti del Venerdì Santo, ci chiniamo a baciare le piaghe dei crocifissi di gesso, contempliamo la morte dell'uomo-Dio, proclamiamo la sua Resurrezione: e tuttavia sembriamo stranamente inconsci del fatto che non è piangendo il bel Cristo maestoso di una certa pietà convenzionale che noi diventiamo - come il Figlio di Dio e Figlio dell'Uomo ci ha chiesto - «uno» fra noi e con lui: ma riconoscendo il suo volto tumefatto e sfinito nella maschera di fango e di sangue o di ottusa fatica che sfigura il volto di tanti nostri fratelli.
Come possiamo «nasconderci nelle sue piaghe», essere «lavati e redenti dal suo sangue», se continuiamo a sentire il Cristo remoto nel tempo, protagonista di un'azione di salvezza soltanto misteriosa e simbolica? Egli ha detto: «Sarò con voi sino alla fine dei secoli». Ha detto: «Ciò che avrete fatto a uno di questi minimi fra i miei fratelli lo avrete fatto a me». Così, la nostra commozione, la nostra pietà per il Cristo, lo sdegno per i suoi carnefici, il desiderio che ciò non avvenga mai più non hanno senso se non si dilatano al dramma del dolore umano, nel quale la figura del Cristo si perpetua, per volere di lui, nell'uomo che muore stritolato dalla violenza, dalla ragione di stato che crede di poter sacrificare infiniti singoli per salvare lo status quo.
E così, ancora una volta, il Vangelo non si fa alienante contemplazione di un evento miracoloso ma chiave per leggere e per vivere, sino in fondo, il dramma dei nostri fratelli più poveri (poveri perché privi di giustizia, poveri perché privi di libertà). Ancora una volta, distogliere lo sguardo dalla realtà che ci circonda e recitare il nostro «Signore! Signore!» senza sentirsi chiamati ciascuno per nome dalle croci di questa terra, significa l'ipocrisia che ci esclude dal regno di Dio.

Da «Il Vangelo secondo gli anonimi» di Ettore Masina,
Cittadella Editrice


Con chi vivremo allora?

Qui dinanzi alle impassibili stelle,
alla presenza invisibile di tutti coloro
che vivono ancora sulla terra,
lasciate che la mia voce si levi
a denunziare questa guerra atroce,
di fratelli che uccidono i propri fratelli!

Mi chiedo: Chi ci ha spinto ad ucciderci l'un l'altro?

Chiunque mi ascolta, mi sia testimone!
Non posso accettare questa guerra.
Non potrei mai, non l'accetterò mai.
Lo devo ripetere mille volte
prima che mi uccidano.

Mi sento simile all'uccello che muore
per amore della sua compagna,
grondante di sangue dal becco spezzato, e che grida:
«Attenti! Voltatevi ad affrontare i nostri veri nemici»:
L'ambizione, la violenza, l'odio, la brama di possesso.

Gli uomini non possono esser nostri nemici!
Se uccidiamo gli uomini, quali fratelli ci restano?
Con chi vivremo allora?

THICH NHAT HOENH
(monaco buddista)



Storie di lavoro: una lettera

Ti penso là sul mare fra i tuoi compagni pescatori; deve essere molto bello anche se è senz'altro molto duro. Spero che piano piano tu ti abituerai al mare e non ti farà più star male.
Certo il mare visto dalla riva è tutta un'altra cosa che esserci in mezzo... specialmente d'inverno, è un lavoro molto duro, però un lavoro che appassiona.
Il mare con la sua immensità, con la sua durezza e con la sua bellezza deve temprare dei tipi di uomini semplici, silenziosi e profondi; sono sicura che ti troverai molto bene fra loro, Gesù si è sempre trovato bene con loro, come se avesse avuto una simpatia per quegli uomini rudi come gli alberi sbattuti dal vento e semplici come bambini. «Essi, lasciate subito le reti, Lo seguirono...» e ancora: «Essi, abbandonando prontamente la barca e il padre, Lo seguirono...». Ora, quando li vedo qui, penso sempre a te.
Sono tanto contenta che tu, caro don Beppe, sia potuto entrare alla Fervet. Ti penso in tuta in mezzo a tutti gli operai e sono immensamente felice che tu sia il loro Sacerdote, proprio perché tu sei di Dio e di loro, li puoi rappresentare tutti e di più li puoi accogliere tutti nel Suo Sacerdozio.
Anche per te, caro don Mario, è lo stesso Mistero che porti nella carne e nell'anima, siate felici immensamente di essere Preti, Sacerdoti del mondo operaio.
Se sapeste quanto ho chiesto a Gesù di mandare dei Sacerdoti fra i lavoratori, che vivessero la loro vita, che la sera avessero la schiena rotta dalla stessa fatica, che non potessero disporre più di loro, del loro tempo, della loro persona, della loro libertà, un po' come i prigionieri in un carcere; ho chiesto che tutto questo consumarsi giorno per giorno per vivere fosse raccolto e vissuto nel Mistero di Gesù, nel Suo Sacerdozio attraverso voi, i Suoi Preti; niente e nessuno può sostituire questa vostra vita vissuta così.
Ho sempre sognato dei Preti che venissero insieme a Lui a «perdersi» nel mondo del lavoro, a morirci dentro, non a parlare, a incoraggiare, a guardare la corrente e a sorvegliare il limite di guardia... ma a gettarcisi dentro, come ha fatto Lui, Gesù, perché Lui non deve essere soltanto «annunciato», «predicato» o «commemorato» nelle feste comandate. Deve essere vissuto, deve essere vivo e vero, incarnato nei Suoi, pur rimanendo nel Suo Mistero; gli uomini hanno bisogno d'incontrarlo subito, sentirlo vicino a loro, devono poterlo chiamare, stringergli la mano, guardarlo negli occhi, indovinarne tutto l'Amore, sia pure in maniera confusa e forse senza sapere che è Lui.

una sorella operaia


Storie di lavoro: pesce e pane

Il mio lavoro è antico quanto l'uomo e quindi ha conservato - pur nell'evoluzione storica dei mezzi tecnici - un suo carattere «primitivo», che gli deriva dal suo rapporto con le forze della natura: il vento, la pioggia, il giorno e la notte, la bonaccia e il «marettone». Questo fatto lo rende duro e spesso incerto.
Lavoro da circa un mese su un motopeschereccio (il «Libeccio») per la pesca mediterranea: è una grossa barca di 143 tonnellate di stazza, lunga 31 metri e larga 6, con la «coperta» tutta ingombra delle attrezzature necessarie al mestiere. C'è un grosso verricello, per la trazione del cavo d'acciaio della rete; ci sono le tre piccole imbarcazioni indispensabili per la pesca notturna (due «lampare» e una «stazza») e, in fondo, sul piano di poppa, la grande rete (circa 700 m.), con tutti i suoi ornamenti di sugheri, piombi, corde e anelli di ferro.
Quella rete raccoglie tutte le speranze e le faticose attese del pescatore, perché è nel suo grembo, fra quelle piccolissime maglie scure che nasce il pane quotidiano.
Sotto coperta, come a dire nel «ventre» della barca, è sistemato il potente motore (600 H.P.) e una grande «ghiacciaia» adatta a conservare il pesce.
A prua, ci sono le cuccette dei marinai, in una piccola sala che serve anche per i pasti (più frugali e austeri che in un convento); e sopra, in alto, a dominare l'orizzonte e la distesa del mare, la cabina di comando.
E' da lì che il capitano organizza e dirige la pesca di ogni notte: pesca chiamata del «pesce azzurro» o del «cianciolo», perché è diretta ad un tipo di pesce particolarmente sensibile alla luminosità e che quindi bisogna prendere di notte (sono sardine, boghe, acciughe, sauri, sgombri...).
La battaglia inizia perciò appena fu buio: l'occhio luminoso dello scandaglio scruta il fondale, seguito dall'occhio attento del capo-pesca. Tutto viene deciso in base alla quantità di pesce avvistato da questo importantissimo strumento elettronico: quando si incontra un banco buono, allora cominciano le varie fasi della lotta.
Vengono calate in mare le due lampare, munite di un grosso generatore elettrico: le potenti lampade riflettono il loro chiarore sul pelo dell'acqua ed è la loro luce che costituisce l'esca per il pesce e lo attira piano piano nella trappola: il pesce, se «lavora bene», comincia a salire verso la superficie e a radunarsi nella zona dove sono ancorate le lampare.
L'attesa dura finché non c'è pesce sufficiente a giustificare la «cala» della rete: la barca gira intorno alla zona illuminata e segue, come una sentinella sempre all'erta, il movimento del «nemico». Può essere a mezzanotte, o poco prima dell'alba (tutto dipende dalla stagione, dal vento o dalla luna...) che si cala la rete: è un largo giro che viene tracciato all'intorno delle lampare, come a stringere in un cerchio di morte i piccoli esseri ingannati dalla luce.
Appena scesa completamente in mare, il grosso cavo d'acciaio che regge la rete comincia a fischiare intorno al verricello che lo riporta a bordo, costringendo la rete a chiudersi e a diventare come una grossa mano che lentamente stringe la sua preda, fino a rinserrarla nell'ultima «sacca» dalla quale verrà issata a bordo e messa a riposare - per breve tempo - nella ghiacciaia.
Per riportare la rete sulla barca, se tutto procede senza incidenti particolari, ci vuole circa un'ora: un grosso rullo idraulico, sospeso in alto sulla poppa, aiuta la fatica dei pescatori che a forza di braccia, messi a semicerchio, tirano senza tregua la rete e la distendono regolarmente al suo posto.
E' un'operazione assai faticosa, perché è senza respiro: bisogna far presto, prevenendo ogni possibile cambiamento del tempo. Quest'ora di fatica, sotto l'acqua che scende addosso dalla rete che ritorna «a casa», è tutta rivolta al momento in cui comincia ad affiorare il pesce rimastovi chiuso.
L'acqua comincia a punteggiarsi di mille squame d'argento, di pinne piccolissime che fremono, si dibattono, si urtano in una danza finale di lotta contro la morte: chiuso nella sacca, sotto il fianco della barca, il pesce viene trasportato nelle grandi vasche della ghiacciaia con un grosso retino - il «presacchio» - e lì, coperto dal ghiaccio, termina la sua corsa.
A operazione finita, c'è un quarto d'ora, venti minuti di riposo: si mangia qualcosa, si riprende fiato un momento e poi si scende «a basso».
E' il secondo tempo della battaglia: come ad una catena di montaggio, il pesce va velocemente incassettato (sono cassette di circa 10 Kg.), naturalmente scegliendolo secondo la qualità.
Si lavora nell'umido, in piedi (se non c'è mare mosso, è già una fortuna). Se il pesce è abbondante, si lavora fino all'arrivo in banchina e anche dopo.
L'orario di lavoro del pescatore oscilla sempre fra le 12 e le 16 ore ogni volta: quando non fa cattivo tempo e la pesca è buona, questo ritmo di lavoro può durare diversi giorni, senza interruzioni.
Mi diceva uno di loro: «il pescatore deve mangiare quando non ha fame, dormire quando non ha sonno e lavorare quando non ne avrebbe voglia».
Se il mercato è buono, se il gioco commerciale non gira troppo male, tutta questa fatica è compensata da un guadagno che visto sul piano economico può far l'impressione d'esser discreto.
Guardato sul piano dell'uomo, di quanto gli viene chiesto per portare a casa una buona «busta» (in media, 150.000 lire al mese, per questi sette o otto mesi della stagione), il pane del pescatore sa sempre d'amaro.
* * *
Ho cercato di parlare del lavoro; non ho detto niente degli uomini che lo fanno e lo subiscono.
Vorrei dire qualcosa di loro, perché essi meritano un particolare rispetto e una considerazione particolare.
Sono i miei compagni: con loro divido il pane, la fatica, la speranza che tutto vada bene. Siamo in sedici sulla nostra barca, capitano compreso.
Ad eccezione di lui e di me, gli altri sono tutti siciliani. Alcuni abitano a Viareggio da diversi anni; ma la maggior parte vengono «a fare la stagione», lasciando la casa e la famiglia e affrontando un periodo di grossi disagi. Sono degli «emigrati», anche se all'interno: stanno qui da marzo a settembre (fra tutti gli equipaggi delle lampare, sono circa 250 uomini). Molti sono giovani; ma ci sono anche uomini oltre i 40 anni, che hanno consumato tutta una vita sul mare: c'è chi è stato all'estero e tutti hanno affrontato e affrontano questa vita dura e scomoda, per cercare di farsi una casetta al paese, dare una sistemazione dignitosa ai figli, alleggerire il peso di una povertà che dura da generazioni.
A metà stagione, hanno una licenza di una decina di giorni: una corsa a casa, a rivedere la moglie o i genitori, e poi di nuovo «al pezzo», fino ai primi di Ottobre.
Quelli che continuano a fare questo mestiere, stanno a casa quattro mesi all'anno, in inverno: al paese, si arrangiano a fare qualcosa per tirare avanti fino al principio della primavera.
Sono uomini seri, che lavorano forte e sentono l'impegno di un pane guadagnato a prezzo di tanti sacrifici.
lo sono sacerdote. Essi lo hanno saputo fin dallo inizio e mi hanno accolto con sincera amicizia. Piano piano stiamo facendo conoscenza: sento bene che essi scoprono nella mia povera vita, divisa totalmente con loro, il volto di un sacerdozio (e quindi di una Chiesa-continuazione di Cristo) fino ad ora sconosciuto nella loro esperienza religiosa.
Sono certo che dividendo con loro il pane, il poco dormire, la lunga fatica di ogni notte, la povertà di questa vita - e tutto abbracciando nella Fede, tutto raccogliendo nella Eucarestia, tutto portando al Cuore di Dio attraverso il mio povero cuore d'uomo - sono certo che qualcosa del Regno di Dio cresca e maturi. E non solo in loro, dei quali conosco il nome e vivo l'amicizia; ma in tutta una realtà di esistenza umana allargata fino ai confini dell'umanità, perché l'amore cristiano sento che è una potenza universale, capace di produrre i germi della vita dentro la dispersione dei figli che Dio chiama all'unità da ogni angolo della terra.
lo sono qui non a nome mio personale, ma di tutta una comunità cristiana di cui sono parte: con i miei fratelli e le mie sorelle che raccolgono e vivono altre realtà della vita umana (la parrocchia, l'ospitalità, la vita del cantiere o della fabbrica), sento di compiere un'opera di Chiesa e quindi di rapporto serio e incarnato dell'Amore di Dio con le sue creature.
Al di là di tutto lo sforzo fisico, di tutte le rinunce che mi sono chieste, sento benissimo che la cosa essenziale è unicamente il fatto di essere una vita umana dove Dio è Tutto, dove gli altri possano incontrare unicamente i suoi Valori, la sua Presenza, Gesù Cristo vivente oggi, con loro, al loro fianco, seduto alla stessa tavola, attaccato alla stessa croce quotidiana.
Sento crescere in me la realtà autentica del sacerdozio cristiano: essere questo spazio fatto di carne e di sangue, di anima e di cuore, dove Dio prende un volto, assume e fa sua l'esistenza, il sacrificio, la speranza, la solitudine e il bisogno di luce dei suoi figli. Dove l'Amore non è una parola, un sentimento, ma la vita intera offerta per il Regno di Dio ai propri fratelli.
Sto imparando a dimenticarmi, a lasciar fare completamente a un Altro, per poter essere quel pane che Cristo vuole che siano i «suoi» per la fame del mondo.


don Beppe

Prospettive di Chiesa

La pienezza del Regno che la Chiesa annuncia sarà sempre al di là delle realizzazioni, anche delle più seducenti e incoraggianti.
*
Una comunità di fedeli non deve mai cedere alla tentazione di identificare il Vangelo con l'ideologia politica di uno o di tutti i suoi membri.
Qualunque sia il rapporto tra gli uni e gli altri, essi devono sempre rispettare l'autonomia dell'uno rispetto all'altro e non abdicare alla propria responsabilità di uomini scaricandola sul Vangelo.
Lo scacco delle democrazie cristiane, dopo quello dei fascisti cristiani e delle monarchie cristiane, ci deve rendere attenti contro la tentazione di un socialismo cristiano. L'aggettivo è ambiguo nella misura in cui insinua un identificarsi del sostantivo con il programma evangelico, perché questa identificazione è assurda.
Sicuramente questo fatto condanna la Chiesa, in quanto tale, a una certa inefficacia politica. E' vero, mi sembra tuttavia necessario ribadire che non tocca ad essa, ma ai suoi membri (senza nessuna eccezione) l'impegnarsi completamente nella lotta politica per un mondo migliore.
Non si può del tutto evitare un certo numero di infrastrutture necessarie per il suo autofunzionamento, e che lo si voglia o no esse rappresentano una realtà politica.
L'ideale sarebbe, sicuramente, ridurre al minimo queste infrastrutture. Dopo il 1870 è apparso chiaro che la Chiesa non aveva bisogno dello Stato Pontificio. Allo stesso modo oggi non ha bisogno della Città del Vaticano. Essa potrebbe liberarsi di molte istituzioni e di molte proprietà che, forse giustificate un tempo per il ruolo di supplenza che la Chiesa doveva assumere in confronto delle carenze della società, sono oggi un peso assai faticoso da sopportare. In alcuni paesi come in Francia la separazione fra stato e Chiesa, a dispetto delle lamentele di quasi tutti i cristiani del tempo, ha certamente significato una grande liberazione. Più per la Chiesa che per lo Stato. Noi però portiamo ancora dei grossi pesi, a cominciare da un corpo di effettivi che costituiscono «il clero», veramente troppo grande.
Più la Chiesa comporta un «establishment» più viene ad essere legata a un «establishment» sociale e politico e il suo peso gioca a favore di un conservatorismo opposto alla esigenza della Fede, che essa continua a predicare, ma che ormai suona falso, perché in contrasto con l'istituzione.
Quanto più essa rinuncia ad avere infrastrutture proprie, quanto più usa i mezzi che la città mette a disposizione di ogni associazione di cittadini tanto più essa diventa trasparente per il messaggio che deve annunciare. L'ideale sarebbe una Chiesa senza locali propri, senza ministri a pieno tempo, che raduna nella casa del popolo della città i fedeli che sono uniti dalla fede in Gesù, intorno ai ministri, uomini dell'unità, che non possono essere identificati con la Chiesa, finché difenderanno l'autonomia della propria vita domestica, professionale e politica.
Fin quando la parola «Chiesa» significherà un insieme di proprietà di terreni, di edifici, di funzionari e di istituzioni più o meno di beneficenza, invece di significare la comunione di tutti coloro che sperano e credono in Gesù di Nazareth, sarà difficile che la Chiesa non si mostri colpevole di doppiezza: rivoluzionaria per l'esigenza dei propri principi e reazionaria per l'inevitabile gioco della solidarietà di proprietà ed istituzioni. Sarà necessario passare ancora una volta per la purificazione del deserto. Sarebbe auspicabile che ciò avvenisse per libera scelta e non per imposizione altrui.
*
Se l'uomo che cerca la propria umanità, incontra Gesù, Gesù di Nazareth, e l'esperienza della vita gli ha scavato delle orecchie capaci di capire le parole di Lui come parole di vita, allora la Chiesa ricordo vivente di Gesù e profezia luminosa del suo messaggio, ha una ragione d'esistere, non solo per se stessa ma anche per tutta l'umanità.
La soluzione di vita che essa propone agli uomini supera ogni dottrina, morale, politica, e anche religiosa. Si tratta dell'«utopia di un mondo dove regnerà l'amore».
Le sue strutture, i suoi riti, i suoi ministri hanno valore solo in quanto concorrono all'annuncio e alla profezia di quel mondo nuovo che il Vangelo chiama il Regno.




B. Besret «Clefs pour une novelle Eglise»
Ed. Eeghers da «Le Monde» 11-12 aprile 1971


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