Come già si diceva nel primo numero, ci siamo decisi a riprendere una vecchia pubblicazione che stava ormai agonizzando, per evitarci tutto quell'insieme di pratiche burocratiche indispensabili per una nuova pubblicazione. D'altra parte la testata «voce dei poveri» si addice assai a tutta una ricerca d'impegno religioso e cristiano che noi intendiamo fare sul piano concreto della vita, in ordine ad una testimonianza di pensiero, di parola, di pastorale sacerdotale, di presenza viva e vivente nella Chiesa.
E' di qui che ci nasce la voglia di comunicare con tutti i nostri cari amici o comunque con chi è contento di trovare sulla sua strada una comunità cristiana e sacerdotale che cammina nella comune fatica di ogni giorno, anche con pagine stampate.
Lo sappiamo bene che di stampa e di periodici e di periodichetti ce n'è anche troppa. Ma anche del parlare ce n'è anche troppo e per noi scrivere è come parlare, è una semplice espressione del vivere.
D'altra parte non ci basta leggere, ci interessa anche scrivere. Ci piace gridare sui tetti.
Siamo contenti che ci siano i settimanali diocesani, ma ci piace che ci sia anche una tavola in casa nostra apparecchiata e un piatto di minestra da offrire, guadagnato e offerto dalla nostra comunità. Non chiediamo niente a nessuno, nemmeno di essere letti, tanto meno ben accetti: ciascuno ha sempre il suo cestino che lo libera dall'ingombro della posta. E' una minima fatica, quella del cestino, che pensiamo non disturba nessuno. E permette a noi (e a chi sente il problema come noi di sentirci non soltanto liberi (che sarebbe già molto) come persone umane, ma di sentirci più liberamente coinvolti nella ricerca di una sincerità cristiana e di un'offerta di testimonianza, in quella coscienza di responsabilità che il credere in Dio, in Gesù Cristo, suscita, ravviva e accende sempre più in noi e nella nostra comunità.
Abbiamo accesa (e ci dà gioia indicibile pensare che è opera misteriosa e meravigliosa dello Spirito di Dio) un po' di luce in noi: desideriamo soltanto che non rimanga sotto il moggio e preghiamo vivamente che non ci venga soffiato sopra a spengerla, anche quando può dare un po' fastidio perchè piacerebbe assai di più che tutto fosse al buio o almeno nella penombra.
Quello che chiediamo subito (e cioè a questo secondo numero) è di non venire giudicati malamente, con troppa facilità.
Sappiamo bene che c'è, nella sensibilità della coda di paglia di troppa religiosità, il gridare con zelante facilità «al fuoco, al fuoco», e vedere subito ribellioni, disobbedienze, eresie, indisciplina, disorientamenti e diavolerie del genere, al solo leggere cose non perfettamente all'unisono, o all'imbattersi in discorsi mai prima ascoltati, o allo scoprire ricerche ed esperienze semplicemente diverse.
Il sospetto non è certamente una virtù; quando poi è metodo, è sicuramente vizio. E il pregiudizio non è condizione adatta per la ricerca serena ed aperta della verità.
Ci permettiamo tranquillamente e coscientemente di considerarci al di là di ogni possibilità di sospetto e respingiamo di essere giudicati in base a pregiudiziali a criterio fisso. Conosciamo molto bene il sistema e quindi dichiariamo molto serenamente, ma con fermezza, che non raccogliamo né tanto ne poco diffidenze, paure, insinuazioni, malevolenze, pettegolezzi da ghetto cattolico e da sistema ecclesiastico.
Con tutto questo non vuol dire che non intendiamo pensare quello che pensiamo, parlarne ad alta voce e quindi anche scriverlo, per il semplice motivo che tutto in noi, prima che pensiero, parola, pagina stampata, è vita vissuta.
Quindi accogliamo con gran gioia la verifica concreta, il vedere con gli occhi, il toccare con mano: è qui che desideriamo e intendiamo essere giudicati (e se è il caso condannati). Perchè tutto il resto (parlare, scrivere, ecc.) è espressione, segno, e forse povero e faticoso tentativo e quindi necessariamente limitato e sbriciolato, di chiarimento e di offerta di vita vissuta e quotidianamente pagata.
Possiamo risultare dei presuntuosi: ma non ci dispiace perchè non è presunzione riconoscere il Dono di Dio e tentare, sia pure tanto vigliaccamente, una sua fruttificazione.
Perchè non soltanto è permesso, ma è doveroso gloriarci della Fede. E è giusto sentircisi attaccati come alla ragion d'essere della propria vita. Fin quasi alla impossibilità di perderla o dì annebbiarla.
La nostra Fede in Dio. In Gesù Cristo, e l'Amore a tutto il suo Mistero di vero Dio e di vero Uomo. La Chiesa continuità di Lui, vivo e vivente nella storia. Il Papa, i Vescovi, il Popolo di Dio. Il Mistero del mondo spiegabile soltanto con Gesù Cristo. Il Sacerdozio... i Sacramenti... la Madonna, e potremmo continuare fino alla sottoscrizione di tutto il Concilio Vaticano Il non con una firma fatta con la biro, ma a carne e sangue vivo.
Tutta la Fede della Chiesa è la nostra Fede.
Soltanto che forse crediamo molte altre cose che la Chiesa gerarchica non crede, ci angosciamo per problemi che forse non sfiorano nemmeno lontanamente tanta parte del popolo di Dio, sogniamo valori che non interessano perchè nemmeno sono avvertiti come fondamentali nel Regno di Dio...
Ma non che pensiamo che noi siamo quelli che finalmente sistemeranno le cose: vogliamo essere semplicemente fedeli che sono terra buona e intendono quindi dare qualcosa, sia pure una percentuale minima, al Regno di Dio nel mondo per tutto quello che appartiene alla Chiesa - e quindi anche a noi - nel contribuirvi.
A questo punto, fra i tanti problemi che saltano su, viene a galla quello della disciplina necessaria, indispensabile al buon andamento della Chiesa. E' il gravissimo problema della corresponsabilità che investe tutta la Chiesa e che non si risolve scaricandola in gradualità gerarchiche che inevitabilmente comportano la spaventosa indisciplina della passività, dell'indifferenza, ma che invece carica del peso dell'umanità intera ogni fedele fino alle misure terribili di Cristo e della salvezza del mondo, chiunque accetta e intende vivere responsabilmente la propria scelta cristiana.
Detestiamo la disciplina che crea la spaventosa e disumana indisciplina della irresponsabilità personale. La soppressione della coscienza personale e della sua responsabilità attraverso l'autorità o meglio ancora lo autoritarismo.
Non è un bisticcio di parole chi è il primo sarà l'ultimo e l'ultimo il primo e che chi comanda sia come colui che serve.
Ci prendiamo sempre più col passar degli anni (e speriamo che questo avvenga realmente) il nostro posto nella Chiesa che non ha affatto bisogno di particolari autorità per realizzare l'obbedienza che sappiamo bene dovrebbe essere quella come di «colui che si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce».
Per chi ha voglia di questa obbedienza c'è il Padre e l'umanità intera a manifestare una volontà così assoluta e terribile da averne paura e sicuramente offre possibilità di disciplina di una richiesta spietata, molto chiaramente indicata a leggere fedelmente tutte le pagine del Vangelo.
E' per aiutarci vicendevolmente tutti (dalle supreme autorità agli ultimi fedeli: che cosa strana però per doverci intendere dover usare una frase del genere) alla comune obbedienza in una disciplina seria e operante che la libertà, di scocciarci gli uni gli altri è indispensabile: quindi la necessità di cercare concretezze seriamente vissute, un parlarci chiaro e senza falsi e assurdi pudori, anche di scontrarci sia pure sempre con Amore e quindi anche violentemente.
Non è mancare di rispetto, non è disordine, indisciplina, non si è degli eretici, dei contestatori, non sono mancanze di carità: è essere uomini vivi, cristiani coscienti, è angosciarsi di problemi-destino dell'umanità, è sognare un po' d'esistenza terrena dove nasca la voglia del Paradiso, tanto porta via la passione a Cristo per la gloria di Dio.
Null'altro.
Quello che ci appartiene è pagare di persona, è offrire tutto, è rimanere sempre più poveri fino alla sparizione di se stessi perchè sempre più si compie fa Sua sopraffazione e rimane Lui solo.
E' per questa Fede che preghiamo chi legge queste pagine di sentirci dei fedeli, veramente al di là di ogni sospetto e di ogni timore.
La Redazione
Da molto tempo penso e credo profondamente che per una conoscenza di Dio e cioè Amore che vuol dire rapporto di comunione chiara, immediata, totale, di Dio e di me coinvolgendovi tutta J'esistenza, sia sufficiente una semplice e dolce intuizione religiosa di tutte le cose. Cercare di vedere e di contemplare tutto come in una trasparenza, non finalizzando mai niente in se stesso, ma cercando con semplicità lo so che anche Lui, Dio, è questa trasparenza, cioè questa luce che non ha nemmeno una sorgente perchè è luce in se stessa, non ha raggio di splendore perché è tutta diffusione di sé.
E è Mistero inconoscibile, invisibile, unicamente perché è luce abbagliante, folgorante fino alle misure estreme che si identificano col buio, la tenebra, cioè l'impossibilità di vedere per il troppo abbagliare di luce.
La creazione, l'universo non so quanto sia manifestazione di Dio, realtà di mediazione attraverso la quale qualcosa di Lui può arrivare fino a noi, quasi un tentativo di Dio di scoprirsi, di manifestarsi, di rendersi in qualche modo visibile e sperimentabile.
Mi pare assai di più che la creazione, tutta la realtà di esistenza, sia invece un velarsi di Dio, quasi un nascondersi, un modo di rendersi visibile e percepibile perché copre se stesso quasi a rendere opaca la sua luce, nebbiosa la sua visione, faticosa la sua esperienza: il suo dolce e meraviglioso adattarsi alle nostre possibilità di visione e quindi di Amore.
Prima della creazione penso che tutta l'esistenza era scopertamente la diretta, immediata, totale, assoluta, unica, esistenza di Dio, luce spiegata, non contenuta, non limitata, dilagante all'infinito. Invisibile e incomunicabile altro che da Dio e raccolta e vissuta unicamente da Dio (la Trinità di Dio nella sua unicità e comunicabilità è verità, semplice e perfettissima, a pensarci bene in una virtù contemplativa assai più che in una disquisizione teologica).
E' in questa manifestazione di Dio nella libertà assoluta del suo essere, nella espansone da niente contenuta del suo esprimersi, è in questa unicità di Dio e luce colmante l'infinito, è in questo essere Dio tutto, totalità a solitudine perfetta e Lui solo esistenza unica, che Dio ha posto la creazione, l'universo, la materia, lo spirito, l'umanità...
Cioè un velo sulla sua luce, una nube nel suo cielo totalmente azzurro, una nebbia sul suo sole; oppure un fuoco nel suo buio impenetrabile, una volta di stelle nella profondità infinita della sua notte.
E non tutto questo per rendere faticosa la sua conoscenza, il cercarlo angoscia senza fine, rincontrarlo miracolo quasi impossibili e il possederlo sogno di voglie assurde, ma unicamente e soltanto perché noi si potesse esistere, perché l'universo potesse essere: e l'esistere e l'essere (e cioè l'universo, la vita, la storia) fossero la possibilità per Lui di manifestarsi, di poter essere intravisto, di dover essere cercato e quindi appassionatamente amato.
L'universo, il mondo, la vita, la storia (la Rivelazione) non è qualcosa di Dio, una sua indicazione e nemmeno una sua immagine: mi piace e mi incanta molto di più accogliere tutto come il limite che contiene l'infinito, il segno indispensabile perché possa essere indicata la realtà, il velo che rende possibile, visibile l'abbagliare della luce...
La Fede è sapere di questo modo inevitabile dei manifestarsi di Dio e ricerca faticosa e appassionatamente amorosa di varcare il limite, di andare al di là del segno, di scindere da cima a fondo il velo.
Il camminare di ogni giorno e l'andare instancabile e irresistibile verso i margini del limite che è l'esistenza, verso il giro dell'orizzonte che chiude il finito, verso il rarefarsi dell'ombra nella penombra e sempre più nello splendere della luce...
Il mondo non è un nemico. L'universo non è un ostacolo cattivo. La storia non è una maledizione. L'essere vivi non è una condanna...
E' la scelta di Dio dove Lui possa porre le condizioni necessarie perché Dio si manifesti, si offra e scavi sempre più voglie infinite, angosciose ed esaltanti di Lui. La civiltà, cioè il progresso dell'umanità, in una seria visione religiosa, è rendere sempre più ravvicinato il limite della creazione, rarefare la nebbiosità che copre l'abbagliare della luce, sempre più l'infrangere il velo.
E' la fatica dell'umanità di rompere e di superare ciò che Dio ha volutamente posto intorno al suo assoluto: e il dramma cresce ogni giorno perché questo è il destino della creazione di essere vinta, perché così è il richiamo di una irresistibilità assoluta ad un andare a Lui per un perdersi in Lui. Perché questa è la vita.
E' il bambino da nascere, direbbe S. Paolo e le doglie stanno già travagliando il mondo e scuotono in grida d'angoscia l'umanità.
E' molto semplice capire tutto questo guardando, in una semplice contemplazione che abbraccia in un unico sguardo tutto il suo Mistero, Gesù Cristo.
Da ogni più piccolo fatto della sua storia, ad ogni sua parola, è indicazione perfetta e meravigliosa di tutta la realtà dell'esistenza.
In Lui si sono già compiute tutte le cose ed è qui la salvezza del mondo perché Lui l'ha reso già vero in se stesso l'universo, l'uomo e ogni cosa e alla fiumana della storia di ogni uomo e dell'umanità intera ha posto i suoi argini contenenti ogni dilagare, perché tutto scorra verso lo sfociare nell'oceano, ma specialmente per impedire che niente ristagni in paludi d'acqua ferma, in laghi senza sfocio, in acquitrini senza vita.
Gesù è violenza di movimento, è esasperazione di ricerca, è fuoco che incalza e divora, spietato per troppo Amore, terribile per troppa verità, sempre più verso i limiti estremi dell'esistenza dove rincontro con Dio e la visione di Lui è semplice come un velo che si scinde, una nebbia che svanisce, una porta che si apre, un arrivare dove si è infinitamente attesi.
don Sirio
Un sibilo di sirena e 130 uomini escono da un portone che dà su Via Indipendenza. E' mezzogiorno. Uno dopo l'altro, con la borsa logora del pranzo, si incamminano verso la mensa.
La gente delle case popolari è avvezza a questo corteo e non ci fa più caso. Solo i bambini si voltano curiosi e si domandano: «Chi sono questi uomini così sporchi?».
E' un lavoro, il nostro, davvero sporco, fatto in un ambiente squallido e sudicio oltre ogni misura.
Anni e anni di trascuratezza nella manutenzione e nelle pulizie hanno lasciato segni indelebili di lerciume un po' dappertutto: dai gabinetti ai reparti, dai magazzini agli spogliatoi. Sui vetri, sui bandoni, per terra, sulle pareti. Dovunque tu giri lo sguardo vedi sudicio, respiri sudicio, tocchi sudicio. Credo di non esagerare a dire che, come ambiente, si trattano meglio le bestie. Sembra impossibile, ma questo esiste tutt'oggi, con tanto di sindacato e di ispettorato dei lavoro, in pieno centro abitato, in una città come Viareggio.
E non si tratta, badate bene, di una azienducola qualsiasi, ma della S.p.A. F.E.R.V.E.T. che ha officine con centinaia di operai a Bergamo (sede centrale), Bologna, Castelfranco e Viareggio.
Evidentemente ai padrone il sudicio non dà noia e nemmeno alla Direzione che, come minimo, dovrebbe vergognarsi di dirigere un'azienda-letamaio.
Chiunque abbia varcato anche per una volta sola la porta, si è trovato davanti lo spettacolo che ora ho descritto.
Per capire meglio queste «storie di lavoro» immaginatevi di entrare nello stabilimento su di un carro ferroviario (un P., un P.O.Z., un cassoncino standard, un milione o carro F, un H.G....) che arriva per la riparazione.
F.E.R.V.E.T. infatti significa: Fabbrica e Riparazione Vagoni e Tramvie.
Quando arrivano, i carri sono spesso assai sciupati dall'uso e dalle intemperie e qualche volta, per cozzi o deragliamenti subiti, sembrano ammassi di lamiere e di ferri contorti.
Ogni mattina inizia una vera lotta con questi mostri di ferro per pulire, raddrizzare, sostituire pezzi, riverniciare, rimettere a nuovo o demolire.
La gente fuori dal muro di cinta pensa sicuramente che per un lavoro complesso e duro come questo ci siano attrezzature speciali, create apposta dal progresso della scienza e della tecnica: invece niente. Ecco il secondo grande paradosso di questa azienda: gli attrezzi sono ancora quelli riscattati per poche palanche dalla COMA, nel 1936, con qualche rara aggiunta.
Il lavoro viene fatto da operai forniti solo di esperienza, di buona salute e di grande pazienza.
Ognuno si deve arrangiare meglio che può: facendo magari il giro di tutto il reparto in cerca di un pezzo di catena o di una vecchia binda.
Quando poi per la buona idea di qualcuno, e per il profitto, ci si trova insieme allo stesso carro saldatori, fabbri, raddrizzatori, lascio immaginare a voi il rumore assordante dei ribattini, il bagliore bruciante degli elettrodi e il giramento di coglioni degli operai.
Ma per i sordi c'è la pensione. Per i ciechi anche. Per i coglioni basta il Padrone.
In questa bolgia (l'inferno di Viareggio, si dice) conduce la propria esistenza per 9 ore al giorno l'operaio proveniente dalla città o dai dintorni. E' una lotta per il pane, per la casa, per la famiglia. O prendere o lasciare. Tutto il tempo in cui uno è vivo, ogni giorno (11-12 ore tra lavoro, mensa, viaggi), lo devi passare così, dimenticando quasi che sei un uomo.
Voci di operai:
- E' una vita da bestie.
- Meno male che pagano il giorno stabilito.
- Ma è troppo poco.
- Il cottimo è tutta una truffa.
- Ci vorrebbero dei controlli severi.
- E' inutile. Il Padrone, l'Ingegnere e il Segretario sono come la SS. Trinità.
- Eppure siamo tutti compagni. Anzi «fratelli».
- Non vi illudete: a far questa vita tocca sempre ai soliti.
Conclusione:
E tu, sei fra «i soliti» o sfrutti «i soliti»?
Pensaci un po'.
Giuseppe Pratesi
Prete operaio
Non sono andato ad assistere e a partecipare alla «presa di possesso» del mio Vescovo della mia diocesi.
Chi ha finito per convincermi a non andare è l'aver letto sul «notiziario della diocesi» le disposizioni, sistemate dal solito cerimoniere, per lo svolgimento della cerimonia.
Disposizioni per i sacerdoti: dall'abito fino ai canti processionali dal Palazzo Vescovile alla cattedrale.
Disposizioni per le R.R. Suore, vivamente pregate di lasciare libera la navata centrale per le Autorità e i Fedeli.
Disposizioni per i fedeli, lasciando liberi i posti riservati alle autorità.
Poi l'ordine della funzione, minuziosamente descritto fino all'alzarsi in piedi e allo star seduti e le altre disposizioni circa la concelebrazione o la comunione e poi i canti...
Il solito frasario, i soliti problemi, le solite ecclesiasticherie, le solite cose di cui c'è da dire per forza: ma quando li sbatteranno via i cerimonieri e la Chiesa la farà finita con le cerimonie, le liturgie a spettacolo, le cose sacre a teatro, il Mistero di Dio e di Cristo a manifestazioni di grandezza?...
Sono infinita sofferenza questi ritorni di constatazione che fondamentalmente niente è cambiato con tutte quelle riforme di cui non si è fatto che parlare e scrivere in questi anni di dopo Concilio.
E niente cambierà se non cambiano gli uomini modificando radicalmente il loro essere e quindi il loro presentarsi concretamente uomini di Dio, sgombrandosi d'intorno e liberando se stessi da tutta una incrostazione di modi e di sistemi umani, terreni, perché riesca a splendere un po' di Dio nella trasparenza limpida e cordiale della semplicità.
Non riesco a capire tutta una amministratività che si rifà a tutta una complicazione di titoli e sottotitoli, in una gradualità di poteri così orribilmente giuridica, fino al punto da rendere impossibile il riconoscervi i valori religiosi, soprannaturali.
C'è ancora un clero (non credo assolutamente più un popolo, meno quella minoranza che ormai sempre più si assottiglia, di gente di sagrestia), c'è ancora un clero che ha bisogno di titoli per riconoscere e accettare un Vescovo. Di nomine che sempre più si intensificano, quasi per aumentare il peso dell'autorità. Di prese di possesso a festa grande perché dalla sontuosità di un ingresso solenne ne nasca un maggiore rispetto e una più profonda considerazione dell'autorità del Vescovo. Come se qualcosa ne venisse a Dio di gloria da un certo modo di glorificare gli uomini, anche se sono i successori degli apostoli, una testimonianza più valida a Gesù Cristo, anche se ne sono, in quanto Chiesa, la continuità, una motivazione di spinta alla Fede per i cristiani, anche se ne sono i Pastori.
E' questo tipo di clero, di mondo ecclesiastico, di sensibilità clericale che continua a pesare terribilmente sulla Chiesa e affoga i Vescovi per una inevitabilità di adattamento dal quale non è possibile liberarsi, perché sarebbe necessario operare rotture che comporterebbero altre rotture, possibili soltanto a seguito di una convinzione assoluta e chiarissima che queste rotture aprono la strada al Regno di Dio.
Vi sono, me ne convinco sempre più, motivi, modi, sistemi, attrezzature, convenienze, rapporti, culture, strutture, ecc. nella Chiesa che ancora permangono come alberi secchi e ai quali ormai nessuno più crede come valori di possibilità, e nemmeno di segno, di Regno di Dio, di Mistero cristiano, eppure vengono meticolosamente conservati e affermati e continuati. Unicamente perché vi è una concatenazione gerarchica di questi valori, una burocrazia di dipendenze che nessuno oserebbe mai rompere. E anche perché vi sono uomini che hanno bisogno (non dico interesse) a che tutto possa e debba continuare, per il semplice motivo - è molto benevola la considerazione - che diversamente, allora, la Chiesa dove va a finire, cosa rimane della Chiesa?
Non posso pensare, assolutamente mi rifiuto, che andare a prestare giuramento per un nominato Vescovo residenziale nelle mani del Presidente della Repubblica, non significhi e non comporti un dramma interiore, qualcosa che sa di orribile, studiata, programmata mescolanza di sacro e di profano. Sta il fatto che ancora non è apparso quel Vescovo che si rifiuta davanti ad una imposizione simile, sia pure realizzata da un accordo fra Stato e Chiesa, perché forse pensa che darebbe un altro colpo al già traballante concordato o chissà per quali altri motivi ancora.
Non mi intendo di cose giuridiche, grazie a Dio, ma è forse per questo che sento di più cos'è la libertà, quali sono i valori indispensabili all'annuncio della Parola di Dio, alla testimonianza del Mistero di Cristo.
Come ancora non mi è capitato di sapere che un nominato Vescovo di una diocesi non esistente, si rifiuti di accettare di essere fatto Pastore, e sa che il suo gregge esisteva qualche secolo fa e forse non andrà mai su quella terra, di cui porta il titolo nemmeno a baciarla e a segnarla di una croce.
Io, quando anni fa è venuto un Vescovo a dare aiuto alla vecchiaia del Vescovo che mi ha ordinato sacerdote, l'ho accolto con tutto l'Amore e la Fede che ho per il Vescovo e con tutta l'amicizia personale di cui sono stato capace.
Prima era Ausiliare ad personam, poi Amministratore Apostolico, poi Amministratore Apostolico con diritto di successione, e dopo tredici anni che è in diocesi, il solito clero gli ha organizzato la solenne presa di possesso: per me non è cambiato niente, non è diventato di più, non ha più Spirito Santo: è il mio Vescovo, l'uomo col quale vivo il mio sacerdozio e condivido più che mi è possibile il mio giocar tutto per il Regno di Dio.
Sono anni che nella Messa mettevo i due nomi, del vecchio e venerando Arcivescovo e del Vescovo Ausiliare: ora il segretario del Culto divino, dietro richiesta, data la presa di possesso, ha disposto che possono e devono essere ricordati i due nomi. E tutto ora è a posto.
Con i problemi che travagliano la Chiesa e il mondo, nella situazione attuale di guerre e rivoluzioni, di sopraffazioni e di violenze private e pubbliche, la Chiesa, cioè il solito apparato della Chiesa, non dovrebbe aggravare le difficoltà che già gran parte del clero, specialmente quello più giovane, stanno soffocando.
Mi sono venute in mente tutte queste cose, e chissà quante altre ancora, quando la mattina dopo - era domenica - insieme ad alcuni preti della comunità, sono andato a celebrare la Messa in un cantiere che gli operai avevano occupato per difendere un lavoro che è un pezzo di pane. Abbiamo celebrato la Messa senza il cerimoniere.
don Sirio
Lo studio è semplice, quadri di caccia alle pareti, una scrivania del cinquecento, due telefoni, gli immancabili garofani rossi. Sono le 10,40. Scocca l'ora del giuramento di rito del Vescovo di Tortona, Monsignor Giovanni Canestri: i Vescovi prestano giuramento al Quirinale. La cerimonia ha luogo nella sala di Druso (alle pareti un S. Girolamo e una Madonna con Bambino). Nella stanza c'è un tavolo coperto con un drappo di velluto rosso, un antico, prezioso Vangelo (aperto a caso sulla liturgia di Natale ad tertiam Missam), due candelabri ai lati, un inginocchiatoio. Qui entrano il Vescovo, il Presidente e due testimoni: quasi sempre un Sottosegretario agli Interni (sono tre, oggi è di turno Sarti) e il Segretario Generale del Quirinale, Picella. La cerimonia è segreta. Accompagna il Vescovo una delle «istituzioni» del palazzo, don Luigi Lannuti, cappellano maggiore ordinario palatino, ottantatre anni, da diciotto al Quirinale, di cui è un po', come dire, il parroco. E' il padre spirituale degli ottocento, alcuni ne ha battezzati, alcuni li ha uniti in matrimonio. Tutti gli chiedono la «caccoletta», una pasticca di liquirizia che tiene sempre in tasca, dentro una scatoletta d'argento, accanto a pasticche di altra natura, contro il mal di testa, il mal di fegato, ecc.
Alle undici esce Monsignor Canestri ed arriva il nuovo Arcivescovo di Lucca, Monsignor Enrico Bartoletti. Un altro giuramento.
(Da «Famiglia Cristiana», n. 11 -14.3.71)
Parlare di una condizione di lavoro manuale del prete, significa - prima o poi - arrivare ad un punto in cui si vuole distinguere i preti a tempo pieno da quelli a metà tempo, a mezzo servizio, o addirittura «a ore». La sensibilità sacerdotale dei cristiani, e ancora di più dei preti e dei vescovi, sembra essere infatti ancora saldamente ancorata ad una figura di sacerdozio ben delineata, dal compiti ormai precisati al punto da richiedere unicamente una fedeltà a tutta prova alle direttive sancite da una tradizione di secoli: il prete che spiega il Vangelo, insegna i comandamenti di Dio, dirige e organizza quel fatto cristiano che si chiama parrocchia, senza mai compromettervi la propria vita, badando solo alla regolarità amministrativa della pratica religiosa.
Ed è logico, in questa visione, pensare a questo funzionario di Dio come uomo attento al proprio lavoro di divulgatore della volontà del Signore, lontano da ogni distrazione che le responsabilità della vita possono portare, pago di vivere del proprio annuncio e del proprio sacerdozio.
Giusto premio di questo impiego svolto spesso con zelo generoso, viene allora la congrua o lo stipendio della scuola di religione, le offerte per i sacramenti, ed infine la pensione e la cassa malattie: i tipici segni, nella nostra società, di una sistemazione di classe.
E come è assurdo pensare ad un impiegato di banca che diviene contadino per meglio svolgere nei campi il suo lavoro di bancario, così non si capisce come un prete possa essere tale lavorando e guadagnando il pane con le proprie mani: si aprirebbe una parentesi nella vita sacramentalmente ordinata a Dio, una parentesi per interesse personale anche apprezzabile, ma che non ha niente a che fare con l'annuncio del Vangelo.
Nasce così chiaramente la distinzione tra il prete a pieno tempo e il prete che lavora ed è quindi prete a metà tempo (quando non sia prete affatto), qualunque sia il motivo del lavoro (necessità, libera scelta, hobby o vocazione, il motivo non ha importanza).
Ora questo modo di affrontare un problema di seria ricerca cristiana e sacerdotale è quantomeno superficiale e quindi penosamente offensivo.
La visione del sacerdozio, benché sempre molto nebulosa, non può rinunziare a ciò che comporta l'entrare di Dio nella vita di uomini, da lui liberamente scelti, fino al punto da trasformare il loro essere, per un seguirlo nella misura piena di chi lascia tutto.
Lasciarsi coinvolgere dalla storia dell'amore di Dio .Consentire liberamente perché Lui sia tutto. Allargare il cuore in piena accoglienza di tanta realtà umana perché vi incontri il suo Signore: queste le indicazioni di un sacerdozio tanto vicino a quello di S. Paolo. Sacerdozio apostolico che non ha niente da spartire con un sacerdozio funzionale, chiuso nell'ambito di una presidenza liturgica e di una più o meno illuminata distribuzione sacramentale.
Questo il vero sacerdozio a tempo pieno, proprio perché neppure una briciola di vita può sfuggire all'offerta di mediazione che è quella di Cristo da cui ci si lascia sopraffare fino ad affogare nel mistero della Sua Vita.
Il vivere una normalità di esistenza guadagnando il pane col sudore della fronte diviene allora essenziale per condividere in pieno la condizione umana ed obbedirvi serenamente. Vivere una autentica realtà di verginità è semplice condizione perché si possa accogliere quel respiro universale che è la presenza di Dio. Vivere da poveri è assolutamente necessario per obbedire in pienezza alla vita ed accogliere, senza riserve, la Presenza di Colui che è Tutto. Vivere da poveri senza nulla pretendere, perdendo addirittura tutto purché viva in noi Cristo, mistero di incarnazione e di incontro tra Dio e l'umanità.
E siamo chiamati a seguire questa strada della voce del Padre che risuona, immensa eco, nelle mille condizioni della vita umana. Presi dalla vita per esservi ancora più profondamente coinvolti: seme che muore e porta frutto, luce che non teme le tenebre, acqua che scorre senza conoscere ostacoli.
Seguire questa strada vuol dire abbandonare il vicolo a fondo cieco di un sacerdozio in funzione puramente catechetica e cultuale, per allargarsi alle misure dell'«uomo di Dio» che porta nella vita i segni della Presenza del Signore.
Perché l'annunciare il Vangelo a tutte le creature non vuol dire soprattutto insegnare le cose di Dio, quanto, radicalmente, accoglierle nella propria esistenza, come scelta sua per un'offerta a tutto il mondo. Cercare nella propria vita alcuni valori che siano i segni della Risurrezione di Gesù: ecco lo sforzo serio, sacerdotale, del vero Annuncio. Cercarli e tentare di viverli nella fede di Dio che crea la vita in noi e ce ne dà tanta forza e tanta capacità.
Si è insegnato tanto, specialmente ai bambini. Si è tanto approfittato di situazioni dolorose per poter «collocare» la nostra parola su Dio. Si è tanto soffocato un sacerdozio dietro queste indicazioni così limitate e intristite dal puro senso del dovere. Perché tanto insistervi sopra, tanto temere che cadano, che non vengano più raccolte?
Gesù non è venuto per insegnare cose meravigliose, o aumentare dei discepoli: è venuto a portare la vita, e la vita di Dio nell'esistenza del mondo. E questa vita la portiamo anche noi, fin nel profondo di questo nostro mondo, fino a morirvi dentro, quasi a fecondare ogni realtà di esistenza umana, seme di Dio che dona la vita.
Il lavoro, le preoccupazioni della casa, il peso della vita non ci distolgono affatto da Dio. No, veramente. E' il dolce peso di un amore che abbraccia tutta la realtà umana senza niente lasciare; perché tutto sia sostenuto e nulla si perda.
Dietro Gesù e il suo dolce legno.
don Luigi
«E perché voi vi sedete senza esserne autorizzato?».
Sbirciando appena il ministro, ancora terminando di pulirsi il naso con il fazzoletto, Bobynin rispose alla buona:
«Ah, vedete, c'è un proverbio cinese che dice: stare in piedi è meglio che camminare, sedersi è meglio che stare in piedi, ma ancor meglio è stare sdraiati».
«Ma voi vi immaginate chi potrei essere?».
Poggiando comodamente i gomiti nella poltrona che si era scelta, Bobynin ora esaminò Abakunov ed espresse una pigra supposizione:
«Be', chi? Be', qualcosa del genere del maresciallo Goering?».
«Del genere di chi???...».
«Del maresciallo Goering. Una volta lui ha visitato la fabbrica d'automobili presso Halle dove m'è capitato di lavorare. I generali di là camminavano davanti a lui in punta di piedi, ma io non mi sono neanche voltato. M'ha guardato per un po' e poi è andato avanti».
Sulla faccia di Abakumov trascorse un movimento lontanamente simile a un sorriso, ma subito i suoi occhi si accigliarono di fronte a quel recluso sfrontato in modo inaudito. Sbatté le palpebre per la tensione che lo pervadeva e domandò:
«E allora? Vedete fra di noi una differenza?».
«Fra di voi? O fra di noi?». La voce di Bobynin rimbombava come ghisa sotto il maglio. «Fra di noi la vedo benissimo: io per voi sono necessario, mentre voi per me no!».
Anche Abakumov aveva una «vocetta» con rimbombi di tuono, e sapeva usarla per spaventare. Ma adesso egli sentiva che gridare sarebbe stata una dimostrazione d'impotenza e dì mancanza di prestigio. Aveva capito che quel recluso era difficile.
E si limitò ad ammonirlo:
«Sentite, recluso. Se anche io vi tratto con le buone, non per questo dovete dimenticare...».
«Ma se voi mi trattate con le cattive, non starei nemmeno a parlare con voi, cittadino ministro. Gridate pure contro i vostri colonnelli e generali, loro hanno troppo nella vita e ci tengono troppo a tutto quello che hanno».
«Se occorre, sapremo costringere pure voi».
«Vi sbagliate, cittadino ministro!». E gli occhi energici dì Bobynin scintillarono d'odio. «Io non ho niente, capite, niente di niente! Mia moglie e il mio bambino non potete più toccarli: se li è presi una bomba. I miei genitori sono già morti. Tutti i beni che ho sulla terra sono un fazzoletto, mentre la tuta e questa biancheria senza bottoni (denudò il petto e fece vedere) è del corredo statale. La libertà me l'avete tolta da un pezzo, né voi siete in grado di restituirmela, dato che neanche voi l'avete. Io ho quarantadue anni, voi m'avete affibbiato una condanna a venticinque, ai lavori forzati ci sono già stato, sono andato in giro con i numeri stampigliati, e pure con le manette, e pure con i cani, e pure sono stato nella brigata a regime intensificato, di cos'altro mi potete minacciare? Di che altro privare? Del lavoro d'ingegnere? Se lo fate, ci rimettete voi. Mi accendo da fumare».
Abakumov aprì una scatola di «Trojka» di produzione speciale e la sospinse verso Bobynin:
«Ecco, prendete queste».
«Grazie. Non cambio marca. Per via della tosse». E tirò fuori una «Beiomor» da un portasigarette di sua fabbricazione. «In genere, cercate di capire e riferire a chi di dovere più in alto, che voi siete forti soltanto nella misura in cui non togliete agli uomini tutto. Ma un uomo a cui avete tolto tutto non è più in vostro potere, è di nuovo libero».
da «Il primo cerchio»
di A. Solzenitsyn - Ed. Mondadori
Rivoluzione, per quanti sono «malati di Cristo», è la traduzione incompleta e meno precisa della parola salvezza: lo sforzo per vincere il nostro male.
Facciamo la rivoluzione per salvarci: siamo in un'epoca rivoluzionaria perché siamo in una disperata necessità dì salvezza. Parla il Profeta per noi: «Ponete ben mente alle vostre vie! Voi avete seminato molto, e avete raccolto poco: voi mangiate e non ne uscite sazi, bevete ma non riuscite a soddisfare la sete: vi vestite, ma non v'è chi vi riscaldi: chi guadagna un salario, mette il suo salario in una borsa forata» (Aggeo).
Poi, Cristo che ammonisce: «Cosa importa all'uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde la propria anima?». Oso dire che nessuno può eguagliare la passione rivoluzionaria del cristiano, poiché nessuno può eguagliare la sua sete di salvezza, che abbraccia il corpo e l'anima, il tempo e l'eternità, se stesso e gli altri, tutti gli altri. Ci si salva salvando: ci si salva con gli altri, ci si salva insieme. La nostra rivoluzione fa parte del piano di corredenzione: la sua strada passa per il Calvario e si impegna a militare perdutamente per la salvezza dell'uomo, figlio di Dio e fratello nostro.
Non vogliamo una rivoluzione che invidi, ma una rivoluzione che ami; non vogliamo portar via a nessuno il suo piccolo star bene; vogliamo solo impedirgli che il suo star bene determini lo star male di molti. Vogliamo una rivoluzione che sia la voce della nostra umana pietà e della nostra cristiana fraternità.
Il punto di partenza di una rivoluzione di salvezza non può essere che interiore. Prima di tutto mi dichiaro contro di me; se no, il mio pormi contro gli altri che fanno l'ingiustizia, non cambierebbe nulla. Il cristiano non si nasconde, né si ripara: si mette in prima fila, al muro se occorre, altrimenti sarebbe egli pure un rivoluzionario di mestiere.
Ci vuol del coraggio a riproporre una rivoluzione esaurita, una salvezza che non ha salvato, e riproporla come un dovere cristiano. Forse meno di quanto si crede. Certe rivoluzioni sono vecchie e fruste più della nostra.
Non è la prima volta che il mondo cerca la salvezza nell'economico: l'ha sempre cercata in quel piano perché il materialismo è una piega nostra naturale, cui il marxismo ha dato una filosofia e una metodologia nient'affatto originale. Nessuno del resto è molto sicuro nel dichiarare che Cristo non è più la salvezza. Lo dicono, ma sottovoce, quando sanno che nessuno li prende alla lettera, e a loro rimane la comoda distinzione polemica tra Chiesa e Vangelo, tra i Cristiani e Cristo.
Sono quindi, nella mia proposta, meno fuori del tempo di quanto qualcuno immagini, tanto più che proporre una rivoluzione non significa giudicare le altre. Il giudizio c'è, è nella mia libera scelta, che non impegna altri. Agli altri, con amichevole animo, dico soltanto: «Prima di voltare le spalle definitivamente al Vangelo, ascoltate ancora una volta il suo messaggio. Non si è mai troppo sicuri di aver barattato il meglio». La rivoluzione cristiana, a differenza degli altri movimenti rivoluzionari, sporadici e contingenti quasi sempre, ha un passato e un domani. Siamo la novità anche se portiamo sulle spalle duemila anni di storia. Il Vangelo è la novità: Cristo è la novità.
Da «Mazzolari: antologia dei suoi scritti», Ed. Borla
Ora che invade le oscurate menti
Più aspra pietà del sangue e della terra
Ora che ci misura ad ogni palpito
Il silenzio di tante ingiuste morti,
Ora si svegli l'angelo del povero,
Gentilezza superstite dell'anima..
Col gesto inestinguibile dei secoli
Discenda a capo del suo vecchio popolo,
In mezzo alle ombre...
Giuseppe Ungaretti
(Ed. Mondadori)
Ho cercato di accogliere, in questo tempo di Quaresima, il mistero contenuto nella pagina evangelica che racconta la «tentazione» subita da Gesù, nel silenzio del deserto. Deserto di sabbia infuocata, di notti piene di stelle, di vento e di sole, e deserto del suo cuore d'uomo stanco e provato dalla fame. Deserto abitato da Dio, ma anche dal suo «avversario»: incontri necessari e decisivi per compiere la scelta radicale, per fare il passo che senza incertezza percorra tutta la strada segnata da un Altro.
Mi ha sempre tanto preso e convinto questa immagine di Gesù, nella pietraia del deserto, di fronte al mistero di quel «male» che attanaglia il cuore dì ogni uomo e dal quale solamente la scelta totale e assoluta di Dio, dei Suoi Valori, della Sua Volontà, del Suo Regno può liberarci e scioglierci.
Gesù che passa attraverso questo cammino obbligato dell'Incarnazione, del Suo farsi in tutto simile a noi, fino ad assaporare l'amarezza di questa «tentata» separazione dal proprio Principio. Come se il fiume potesse essere diviso dalla sorgente che ne alimenta l'incessante fluire, l'albero tagliato via dalle radici che gli garantiscono la vita; il bambino separato dalla continua comunione con la madre quando ancora è chiuso nel suo seno: tentativo realmente diabolico, per una lacerazione del tessuto più vitale dell'esistenza, com'è quello fra il Padre e i suoi figli.
Anche in questo Gesù ha voluto esserci fratello, perché in Lui trovasse perfetto compimento il nostro destino e la nostra tentazione la sua vittoria.
E di tutte le «prove» che cercano di sommergergli il cuore, mi ha sempre tanto colpito quella che il Vangelo ci presenta come la prima: «Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane». Dopo il lungo digiuno, la risposta più facile per la sua fame, il rimedio più semplice e immediato per un bisogno così fondamentale e così legittimo. Che cosa di più naturale per Lui che prendere da quella pietraia assolata un sasso qualunque e saziare la sua debolezza col pane del miracolo, dimostrando così la sua origine divina, il suo eccezionale ed unico POTERE.
La risposta di Gesù nasce dalle profondità del suo rapporto col Padre, da una scelta di ciò che sta al di sopra di ogni bisogno e di ogni necessità dell'uomo. Egli sa che molto più che dal pane, la Vita nasce da Dio e ci è comunicata dalla Sua Parola. Il pane che non scaturisce da questo rapporto di comunione e di amore, ma da un rapporto di potere e di affermazione di sé, non produce la vita, ma alimenta la morte dell'uomo.
La fame di pane non deve sopraffare e spengere nel cuore l'urgenza e il primato di una fame molto più radicale, la capacità di mettere al primo posto quei Valori che unicamente possono dare all'uomo la certezza di essere «vivo» e di diffondere nell'universo i germi della vita.
La scelta di Gesù è l'annuncio chiaro che se non vogliono rendere l'esistenza umana un deserto desolato di pietre e di sabbia, occorre saper rinunciare alla facile tentazione dell'immediato, del potere messo a servizio di se stessi, ma riscoprire il senso di un «servizio» autentico di Do, della Sua Parola, del Suo Primato assoluto sulla nostra vita. E' indicazione precisa di che cosa sia povertà cristiana: questa ritrovata dimensione di rinuncia ad asservire qualunque realtà a ciò che nasce dal mio egoismo individualistico (anche con la scusa del «bene comune»), per ricomporre in tutte le cose il disegno di Dio, compiendo unicamente la Sua volontà e rispondendo alle Sue esigenze.
«Non di solo pane vive l'uomo»: prima Dio, poi il pane.
Alla luce di questa scelta che Gesù ha compiuto e proposto a chiunque voglia costruire la vita sul suo metro, ho pensato alla storia della Chiesa, di oggi e di sempre.
Chiesa delle tentazioni: di continuo, in ogni secolo, ad ogni passo, ad ogni incontro, il Popolo di Dio (che è come dire l'umanità intera) si è sempre trovato di fronte a questa scelta, sempre sollecitato e costretto a dare una risposta, a prendere posizione. Nel deserto della storia, lontano dalla terra promessa, stanco del troppo camminare e del continuo cercare nel buio delle notti, attanagliato da una fame sempre più esigente e urgente, questo popolo ha dovuto rispondere alla solita assillante domanda: pietre o pane? Quante volte i cristiani, ad ogni livello, hanno ceduto alla tentazione di saziare la propria fame di tranquillità, di pace, di sicurezza, prendendo la prima «pietra» che è stata loro offerta: «pietra» del denaro, dell'importanza, del privilegio, dell'alleanza con i potenti, dei «concordati» di ogni genere, della diplomazia, dei primi posti.
Tentazione di trasformare in pane ciò che assolutamente deve restare, nelle mani di chi accoglie Dio e Gesù Cristo, pietra di un deserto dove Dio non può abitare.
Perché è con la scusa di Dio, con il pretesto del Suo Regno che il tentatore si avvicina a Gesù e gli fa la sua proposta; ed è con la scusa ed il pretesto di Dio che la Chiesa, nel suo cammino, ha tentato di fare quello che Gesù ha respinto e insegnato a respingere. Di fronte alla prova, Gesù sceglie di restare con la sua lunga fame; come sceglie di restare nel suo silenzio e nella sua povertà e impotenza di Servo sofferente e di Agnello mandato al macello.
Il Regno di Dio passa necessariamente da questa scelta, ha bisogno di uomini e di donne (cioè di una Chiesa, di un Popolo) che siano disposti a patire la fame, la sete, la nudità, l'agonia, la croce, piuttosto che accettare di far diventare «pane» ciò che non può produrre la vita, ma solo la morte.
Uomini e donne che si rifiutano coraggiosamente di prostituire i valori di Dio in realtà, mentalità, sistemi, mezzi che appartengono unicamente al deserto di Satana.
Questa io sento come «conversione», come cambiamento di cuore, come visione rinnovata dell'esistenza secondo la misura del Cuore di Dio.
Ci sono delle realtà della vita e della storia che si presentano al cuore dell'uomo come dei valori da raccogliere e far propri, mentre invece sono soltanto idoli e miraggi di un deserto bruciato dal male. Il mettersi dalla parte di Dio attraverso Gesù, comporta necessariamente una scelta che è una lotta contro questi falsi valori.
C'è tutto un «mondo» che non è cristianizzabile, che non può essere battezzato e benedetto; un «mondo» che non può essere redento perché è fuori del Mistero di Dio e del Suo Regno.
Gli uomini sono tutti riscattabili da qualunque abisso siano stati inghiottiti e da qualunque smarrimento provengano, ma certi falsi valori che essi raccolgono e tentano di elevare a ragioni di vita e a sostanza dell'esistere e dell'agire sono semplicemente da respingere e rifiutare. Le pietre non possono e non devono diventare pane.
Una Chiesa che tenta di cristianizzare, e quindi di giustificare il potere del denaro, il diritto del più forte, la violenza dei potenti, lo sfruttamento economico, l'omertà della diplomazia, il militarismo degli stati, rischia continuamente di restare fra le pietre di un deserto dove Dio non può abitare. E quindi di non dare il pane vero che sazia la fame degli uomini che è solamente Gesù Cristo, e proprio quel Gesù che accetta di restare con la sua fame e con la sua debolezza, pur di non lasciarsi trascinare nella diabolica illusione di far nascere del pane dalla pietraia del deserto.
don Beppe
OPERAI CONTRO LE ARMI
Nel settembre scorso gli 800 dipendenti delle Officine Moncenisio di Condove (Torino) hanno votato una mozione contro la fabbricazione di armi che non si escludeva potesse venire reintrodotta nella loro azienda. Nella mozione si diceva tra l'altro che:
«I lavoratori delle Officine Moncenisio, considerando che il problema della pace e del disarmo li chiama in causa come lavoratori coscienti e responsabili...; constatando che i lavoratori non hanno case, scuole, ospedali e pensioni sufficienti e che i due terzi dell'umanità soffrono costantemente la fame mentre si sperperano vergognosamente nella preparazione della guerra e nella fabbricazione di ordigni di morte e distruzione i soldi del Popolo Italiano nella misura di oltre 4 miliardi al giorno...; considerando infine che le guerre sono sempre preparate e fatte preparare materialmente dal popolo e dai lavoratori a danno, fatica, rischio e massacro dei popoli stessi con l'impiego del loro tempo, del loro sudore e del loro denaro (tasse e lavoro), diffidano la Direzione della loro Officina dall'assumere commesse di armi o di altro materiale destinato alla preparazione o all'esercizio della violenza armata di cui non possono e non vogliono farsi complici. Avvertono tempestivamente e lealmente le Autorità Aziendali di non essere pertanto in nessun caso disposti a lavorare, trasportare e collaudare i suddetti materiali bellici».
Da «Azione Nonviolenza», Gennaio-Febbraio '71
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455