LA VOCE DEI POVERI: La VdP febbraio 1971

Di nuovo sulla strada

E' un NUOVO PERIODICO MENSILE per i nuovi amici che piano piano in questi cinque o sei anni abbiamo conosciuto e con i quali si è andato formando quel clima di simpatia senza dubbio stabilito da una comune ricerca di tentativi di sincerità cristiana in questo nostro mondo che è quello che è e in questa nostra Chiesa che se non altro vuol dire, in questi nostri tempi, travaglio appassionato di ricerca, ansia tormentatissima di rinnovamento per una crescita di identificazione (e quindi di autenticità di testimonianza) a Gesù Cristo.
E' una vecchia testata di periodico dagli anni sessanta in poi, fino al momento di una convinzione che il tacere delle piccole e povere voci (diciamo pure del balbettare confuso degli infanti) potesse servire all'affermazione di una voce chiara e forte, seriamente e sovrabbondantemente persuasiva, come quando un assolo riassume e specifica e approfondisce una corale.
E i vecchi amici (son passati molti anni anche se sono pochi numericamente, come quando è una piena di fiume che travolge tutto sotto il solito ponte abituato al normale scivolare del fiumicello, dall'acqua chiara e tranquilla di sempre o quasi) e i vecchi amici si sorprenderanno - speriamo con gioia, come quando si rincontra un amico, dopo anni, per caso, girando all'angolo della strada - si sorprenderanno di ritrovarsi fra le mani ancora questa « VOCE DEI POVERI » tracciata con un pennellaccio sul solito muro vecchio di quella vecchia casa di Darsena, dove quando vi passo, ancora ve lo vedo accennato, anche se ormai sbiadito, mangiato dal sole.
Il colore rosso della testata vuol dire soltanto che tutto è nuovo, quasi come voler dire che tutto si è vivificato, acceso: ha preso fuoco, insomma, e brucia... E' il desiderio di Gesù, del resto, che tutto prenda fuoco il mondo e si accenda e bruci a quella fiamma che Lui ha portato a tutto incendiare.
Attualmente siamo una comunità di sei preti e con le due ragazze che abitano con noi siamo comunità di otto.
Viviamo tutto un tipo di vita sacerdotale, imperniato in una parrocchia e diffuso a raggio d'impegno dovunque intravediamo un qualcosa che sappia di Regno di Dio. Prima di ogni altro impegno, oltre a quello della parrocchia, la vita operaia, lavoro artigiano, una povera casa da contadini in affitto, la fiducia di una partecipazione a tutta la problematica operaia e alla lotta di liberazione dalla violenza e dallo sfruttamento, fino alla dedizione totale di noi.
Alla base e come fondamento, per cui tutto quello che sogniamo e tentiamo di realizzare non è opera d'uomo e non è realtà e valore che nasce «da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma generato da Dio» (Gv. 1, 1,3) la nostra vita è essenzialmente vita di Fede, totale chiara e allo scoperto, in Dio. E' appassionato Amore a Gesù Cristo fino ad esser Lui la ragion d'essere assoluta e determinante di noi e di tutto in noi. E' fedeltà alla Chiesa in una visione liberata e semplice di Chiesa intesa come continuità del Mistero di Cristo nel cuore dell'umanità. Chiesa quindi che non può ammettere altro privilegio, perché non può avere assolutamente altra vocazione, che quello di morire continuamente nella morte delle Beatitudini (e cioè di tutto il Vangelo parola per parola) o nella morte di Croce, perché Gesù Cristo sia il risuscitato, cioè colui che unicamente vive, il vivente. Colui dal quale soltanto nasce ad ogni momento la speranza e la certezza che la morte è vinta perché la storia non è più costruzione di cimiteri, ma esaltazione di vita, fino ad essere il segno e l'inizio della vita eterna.
Diversamente Gesù Cristo è morto e sepolto e è risuscitato soltanto nella liturgia pasquale.
Allora la vita di preghiera per noi è serietà, perché è, come dire, entrare dentro e lasciarsi macinare da questo Mistero cristiano, subito, in una Fede che è attualità che si compie, anche se non ne vediamo con i nostri occhi forse nemmeno i segni e non ne possiamo toccare con le nostre mani la concretezza. In una Speranza che non è in un futuro strano e nebbioso che è di là da venire, ma è certezza, sia pure sperata nella sua totale realizzazione, ma già vivente, già sulla strada che cammina, già alla porta che bussa, tant'è vero che è Speranza nella quale concretamente giochiamo la vita, ogni giorno, ogni momento, tutta intera, senza assolutamente mai niente che sia per noi.
In un Amore, in un Amore che è difficile dire cos'è, da quanto è vitalità sovrabbondante. L'Amore per una unificazione di sé e attraverso se stessi di tutto l'universo, a Dio. L'Amore che fiotta nel cuore a sangue vivo e bruciante nella consapevolezza che Dio vive la tua e la vita
dell'umanità e che quest'Amore è carne e sangue e storia e attualità perché è Gesù Cristo. L'Amore che ti mangia l'anima di dare un bicchiere d'acqua all'umanità che muore di sete, di caricarti sulle spalle ogni ferito e ammazzato sul ciglio della strada della storia, derubato da tutti e scansato perché non intralci il traffico e neanche guardato perché non c'è tempo da perdere, il lebbroso che ti chiama, il cieco che cerca la tua mano per vedere qualcosa, la folla - branco di pecore senza pastore o con mercenari che ormai sono rimasti solo loro a guardare il gregge, armati di mitra assai più per sparare alle pecore che sui lupi..
Intendiamo vivere tutto questo e chissà quanto altro ancora, ma certamente questa Fede, questa Speranza, questa Carità, logorandoci di sofferenza e di desiderio e malati di vergogna per i nostri tradimenti e le nostre incapacità, nella preghiera e specialmente crocifiggendoci ( non abbiamo altro modo come forse invece l'hanno in Spagna, in Brasile, in Polonia, in Giordania, nel Camerun, nel Vietnam, nell'Angola, nel Sud Africa e sempre meno basta una carta geografica a indicare dove i Calvari si moltiplicano nel mondo) insieme a Gesù Cristo nella continuità del suo morire eucaristico nel cuore dell'umanità, crocifiggendoci nella Messa della comunità di ogni sera.
Ma poi abbiamo pensato che bisogna anche lottare. La lotta è parola sacra. Ha cominciato Dio a lottare fin subito dopo la creazione e ha messo perfino nelle realtà inanimate violenze spaventose di lotta (cos'è fuoco e acqua e tutto l'universo se non lotta apocalittica che non si placa mai, e il vento e il mare e sopra e sotto il cielo?). E la lotta nel mondo animale fino al punto che la vita è frutto di lotta, vivere è sempre un vincere?
E la lotta di Dio con l'uomo, contro l'uomo e per l'uomo? La storia della Rivelazione è la storia dell'Amore di Dio che non trova altra via di esprimersi e donarsi che scendere sulla strada tracciata a rivoli e a fiumane di sangue dagli uomini a lottare contro di loro, contro tutti.
E vorremmo lottare insieme ai nostri amici. Agli amici che incontreremo. Anche a nome loro. Anche a nome della loro lotta e a seguito della loro sconfitta, se vi è stata, o della loro stanchezza, ma specialmente per riaccendere la fiducia. Se non altro la convinzione che si è vivi in proporzione a quanto si lotta e si è cristiani nella misura in cui si accetta di lottare e di lottare cristianamente, cioè secondo la lotta a seguito di Gesù Cristo, sapendolo vivo e vivente insieme a noi, dentro il popolo di Dio, cuore dell'umanità, a lottare e vincere la formidabile lotta per la salvezza del mondo. Obbedendo soltanto alle sue violenze di Amore. Che sono sempre, in Lui soltanto, unicamente Amore.
Questa lotta a marea di sangue doveva colmarsi e concludersi sulla Croce, dove Dio stesso è venuto a versare tutto il Suo Sangue fino all'ultima goccia. E al sangue che ancora doveva irrorare il mondo doveva bastare il vino nei calici che rende vivo e palpitante il Sangue (quello necessario per la vittoria del bene sul male) di Cristo.
E' questa nuova lotta di Gesù Cristo che chiude tutta una lotta di Dio contro l'umanità, e inizia una nuova, totalmente nuova lotta, ma sicuramente lotta di Dio fra gli uomini, che ha cominciato a urgerci nel cuore come qualcosa che non si riesce a contenere, a fermare. Anzi ci è cominciata a pesare la vergogna di non sapere lottare, di non riuscire a lottare, di non essere la lotta di Cristo nel mondo.
Perché l'Amore che non lotta non è Amore, abbiamo imparato da Gesù Cristo. La lotta che non accoglie anche a rischio che si spacchi il cuore perché è troppo e non è pronta a dividere, a respingere, ad angustiare, a inquietare il mondo fino ad esserne maledetti e respinti, schiacciati e pestati. Allora il Vangelo è libro chiuso e basta soltanto leggerne la copertina per l'apologetica che veramente quello che vi è scritto è di Marco, Matteo, Luca e Giovanni.
Ma la testimonianza che il Vangelo è la Parola di Dio che si è fatta vita umana ha bisogno di tutt'altra testimonianza.
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Programmare tutto l'impegno che una comunità in ricerca di autenticità più che sia possibile di vita cristiana e sacerdotale, da riversarsi ed esprimersi in un periodico a seguito della stessa ricerca impegnata e pagata ogni giorno nella vita, non è cosa facile e forse nemmeno cosa possibile. Ogni giorno porta la sua pena, ma anche la sua lotta e quindi anche la sua parola.
Ci affidiamo completamente a quello che ci nasce nell'anima e trova riscontro e quindi dovere di rapporto, nella quotidianità della vita nostra, della Chiesa, del mondo.
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Vorremmo tanto però portare la nostra lotta all'interno della Chiesa. Non crediamo alla lotta intesa come contestazione, polemica, risentimento, ribellione ecc. Crediamo nella lotta di liberazione da tutto quello che non ha niente a che fare con Gesù Cristo, in maniera diretta, immediata. Così, semplicemente. Il Cristianesimo è il Cristianesimo. Con serenità e pace, ma ad occhi aperti e non per sentito dire (anche se per lunghezza di secoli). Se c'è il sole è una bella giornata, se piove vuol dire che piove.... «La vostra parola sia sì, sì, no, no: tutto il resto viene dal maligno».
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Vorremmo dichiararci per un antimilitarismo appassionato, radicale. La vita militare (con tutto quello che questa parola vuol dire nella sua causale, nella sua realtà, nella sua finalità) è vita scopertamente disumana perché è tutta ordinata ad uccidere (non vogliamo saperne più di tutta una morale disponibile a tutto condannare e giustificare secondo quello che pensano i moralisti e i tempi che li condizionano). L'annuncio di Cristo (e della Chiesa) è e deve essere di Amore fraterno. E' chiamare Dio, Padre di tutti gli uomini. La salvezza è nel morire non nell'uccidere. Gli uomini e l'umanità continueranno a scannarsi, ma che sia però almeno senza benedizione. Che vi sia nel mondo, fra gli uomini sciaguratamente sempre in guerra, una forza (Cristo risorto vivente nella Chiesa, popolo di Dio) che si oppone, che dice no e che grida sul serio «pace» perché maledice «la guerra» e la strappa via (perché anche se è un filo è sempre un filo di sangue) dal suo Mistero che è soltanto realtà, esistenza di Amore nel mondo, questo è il dovere e la gloria della Chiesa. Che vi sia nel mondo, nella storia dell'umanità questa forza che lotta contro la guerra, contro qualsiasi guerra, è urgente, non si può rimandare di un minuto e riguarda essenzialmente ogni cristiano.
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E' chiaro che intendiamo lottare contro ogni dittatura che è semplicemente e terribilmente la sopraffazione dell'uomo sull'uomo, della vita di uno o di pochi sul morire di tutti.
I capi, il partito, il capitalismo, la ragione economica, la razza, la civiltà, l'accaparramento di Dio ecc. sono la dittatura. Sono la guerra. Sono la fame. Sono la disperazione: la marea di sangue e di lacrime che non si sa come ancora non sia riuscita ad affogare l'umanità.
E intendiamo lottare contro la pena di morte per motivi politici. Neghiamo ad ogni uomo il potere di uccidere: ma specialmente l'orrore di uccidere perché prima vi è stato un processo che si è fatto le leggi appositamente per poter uccidere coprendosi di legalità e quindi di giustizia.
Non lottare contro questo orrore e almeno non morire di vergogna vuol dire foresta vergine.
Lottiamo perché la Chiesa (cominciando dal Papa, Vescovi, preti e ogni cristiano) lotti contro questo orrore. E è chiaro che non ci contentiamo delle dolci, prudenti maniere diplomatiche. Né delle vaghe condanne a parole al vento. Il morire dei fratelli non si combatte a sospiri.
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E' chiaro che siamo dalla parte dei poveri. Della povera gente sballottata come un pallone sul campo da gioco dalle pedate di questi e di quelli perché interessa loro soltanto servirsene per vincere la partita.
Vorremmo lottare (ma come si fa a lottare come e quanto sarebbe giusto e doveroso più dell'aria che si respira?) contro lo sfruttamento della povera gente, del povero popolo. E liberarlo dalla violenza di chi lo spinge alla violenza e ad ammazzarsi gli uni gli altri per dopo sfruttare perfino quel sangue, maledetti fin nel midollo dell'ossa chiunque sia che arma la mano del povero contro il povero.
E liberarlo dalla fame e dalla miseria, dall'essere senza casa e senza lavoro, senza parola e senza diritti all'infuori di quello di morire logorandosi giorno per giorno per la ricchezza e lo sfruttamento degli altri.
E liberarlo dalla tentazione borghese che con un frigorifero, una cinquecento, la partita domenicale allo stadio, quattro dischi e un'anteprima vietata ai minori di 14 anni, si crea un paradiso, fatto di vuoto assurdo, di felicità al contagocce e di massa amorfa e smarrita facilmente manovrabile in tutti i sensi, ma specialmente verso un individualismo spaventoso, un egoismo cieco, una violenza capace di tutto.
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Ci permettiamo di pensare tutte queste cose, di tentare di viverle e quindi anche di scriverle perché sappiamo di essere povera gente, povera comunità, che è desiderabile e bellissimo perché questo vorrebbe dire quanto più gli capita di perdere, rischia semplicemente di arrivare a perdere anche la "propria anima"; e ciò che nella vita cerca appassionatamente e umilmente qualcosa che sia Gesù Cristo.


La Redazione

Motivi di Fede

L'essere vivi significa molte cose e cioè tutto l'esprimersi, il realizzarsi, lo sbriciolarsi del vivere nella storia quotidiana di ciascuno inquadrata, spinta o condizionata, spesso travolta, dalle vicende della grande storia, quella che va avanti per conto suo, anche se a volte ci dispiace e ci ribella.
La vita vuol dire l'essere entrati dove dopo è assurdo tentare di uscire, dove è sciocco pensare che è come non essere legati a catena. E' una vicenda dalla quale è impossibile liberarsi, nonostante anche il dibattersi più arrabbiato e la pazzia del tentar di spezzare le sbarre.
E' una prigione, dorata o squallida che sia, affogata di benessere o sopraffatta di disperazione.
E' Dio che ha creato questa prigione, anche se voleva che nemmeno vi fosse l'orizzonte a chiuderla, ma infinita fosse di spazio e eterna di tempo.
Ma quando dal nulla si entra in una precisazione, cioè in una realtà di spazio e di tempo, si comincia ad esistere e quindi si inizia una storia: cioè continuità, a quell'inizio. E il fatto che esisto indica eluso il tempo del nulla iniziando il tempo dell'esistere.
Come far scaturire in un deserto una sorgente violenta di acqua e comincia il fiume con tutto quello che il fiume significa e comporta.
La prima cosa che per me vivere vuol dire è l'essere entrato e il ritrovarmi dentro questo cammino che continua a nascere dal nulla e porta all'esistenza: una goccia d'acqua che è scaturita dall'antica sorgente nel deserto e è fiume di vita.
La visione e l'apprezzamento, cioè la valutazione religiosa della vita, è il riallacciarsi e il giudicarlo continuità, a quell'inizio. E il fatto che esisto indica che quel rapporto non è mai stato rotto nemmeno per un istante: la catena non ha un anello spezzato, il fiume nemmeno un attimo di secca.
I miei genitori d'accordo, la mia patria, la storia fino al di là dell'età della pietra, la razza, la cultura, la civiltà... tutti mi hanno partorito (con dolore e angoscia tutti e senza nemmeno pensare a me), ma quello che conta è che sono io ora ad esistere e per capirmi e ritrovarmi è nel rapporto fra il nulla e l'esistere (esattamente come quello all'inizio) che riesco a intravedere cosa sono e che cosa devo fare.
Credere in Dio ed accettarlo come motivazione del mio essere, per me è più facile assai che credere che sono nato da mio padre e da mia madre. Perché il mio nascere per me, cioè per il mio vivere è essere uscito dal nulla, cioè dal non esistere. E la ragione, il motivo del mio venire all'esistenza dal nulla è nel Pensiero di Dio, non nel meccanismo che si inizia da Adamo e da Eva (o chi per loro).
La mia spiegazione è Dio e non rifacendomi all'origine del mondo, ma rifacendomi alla ricerca della spiegazione di me stesso. La goccia del mio esistere è uscita dalla sorgente. E' il sentirmi anche soltanto una goccia che mi richiama alla sorgente.
È questo non è per una dimostrazione dell'esistenza di Dio ritrovata nell'evidenza del rapporto immediato e diretto fra Dio e il mio esistere (ho sempre pensato dopo le fesserie che si pensano a scuola accettando le fesserie che hanno pensato e pensano gli altri, anche se si tratta di gente famosa, che è assurdo e sciocco tentare di dimostrare agli altri l'esistenza di Dio) non è quindi questo mio riflettere tentativo di indurre alla Fede, ma piuttosto premessa ad un discorso di cosa comporta di stupendo, di profondamente umano, di liberante fino alla possibilità (credo l'unica) di costruzione vera di una vita e quindi della vita, del credere in Dio fino a scoprirlo nella radice costitutiva e determinante del proprio essere.
Nasco dal pensiero di Dio (ed è ogni momento questo nascere, compreso il momento del morire) e sono introdotto nel fiume della vita per volontà di Dio.
La purezza e la libertà più vera e più seria la scopro da questo mio diretto rapporto fra me e Dio.
Bisognerebbe saper immaginare (ed esaltarsene) cosa vuol dire «storicamente» e cioè per la verità e grandezza del mio vivere, che non si frappone niente fra me e Dio. E questo, ogni momento, fin dal mio primo momento.
E' acqua (fiumana quanto vuoi) che sgorga ora dalla sorgente.
E' fiore (conta pure chissà quante primavere) che sboccia incessantemente dall'albero.
E' sole che nasce da un'aurora incessante (metti pure miliardi di anni, ma ad ogni momento risveglia di aurora la terra e l'umanità).
Liberazione vuol dire sgombrare, toglier via ciò che ostacola anche se è semplicemente per un allargarsi del giro di rapporto.
E il vivere ha bisogno (è bisogno vitale) di cogliere la vita immediatamente e direttamente di là di dove la vita viene.
Bisogna che mi senta e mi ritrovi al di fuori della storia. Al di sopra di ogni cultura. Non dipendente da alcuna civiltà. Non appartenente a nessuna razza. Non condizionato da una politica. Assolutamente non determinato da un andazzo. Non dominato da quello che S. Giovanni nel suo Vangelo chiama continuamente «il mondo».
No. Non sono un selvaggio. Nemmeno un malinconico misantropo. E tanto meno un filosofo. O un menefreghista. Ossia un borghesaccio qualsiasi che si frega dì tutto all'infuori di se stesso.
Oppure pensa di me quello che ti pare.
lo voglio essere soltanto una vita che nasce dal suo Dio.
E questo sogno non mi è venuto su da sé: mi è venuto conoscendo Gesù Cristo. E' Lui che toglie via tutto e dà di trovarsi «faccia a faccia» con Dio. Cioè io (tu) e Dio.


don Sirio

Storie di lavoro: in un cantiere navale

Il nostro è un lavoro nuovo che oggi non si può ancora chiamare mestiere. Ci sono impiegati alcuni falegnami che organizzano e dirigono due squadre di operai.
E' importante farne una breve descrizione.
Nelle due stive di una nave di circa 150 metri si trovano 6 serbatoi cilindrici lunghi da 20 a 30 metri ciascuno con una circonferenza di 24 metri: devono essere rivestiti di plastica come isolante termico, perché dovranno contenere un gas che arriverà a 45° sotto lo zero.
Non c'è poesia nella nostra vita, ma solo lunghe fila di «passi d'uomo» da attraversare, carichi di cunei, spessori e puntelli per fermare alle pareti esterne dei serbatoi i pannelli di plastica.
Qualche volta a sentirne parlare sembra un giuoco da bambini. Ma spesso non si considera il disagio e lo scomodo che comporta fare lo stesso lavoro per giornate, senza alcuna variante, se non le esalazioni irritanti e nocive delle colle, e il sali e scendi sui tubi «Innocenti» a diversi metri di altezza.
Invano si cerca un'impalcatura seria per un lavoro da uomini, e quando si rivede il cielo (fuori della stiva) con i piedi ben saldi in terra, sembra che ricominci di nuovo la vita.
Noi ci siamo trovati insieme all'inizio dell'inverno, come per caso, arrivando da strade ed esperienze diverse. Un gruppo di persone quasi folcloristico. Ma il bello della diversità va a scapito della coscienza operaia.
Per formare un insieme ci vogliono anni e in certi casi anche molto di più. Noi ci siamo cominciati ad accorgere di essere insieme per lottare, già abbastanza presto, ma anche molto tardi. Buona parte di noi sono lavoratori stagionali, cioè, come capita a Viareggio, durante l'estate il luogo di lavoro si sposta sulla spiaggia, così la compattezza di una coscienza comune ne risente notevolmente, considerando la sosta dei mesi estivi.
Questo è uno dei terreni fecondi per lo sfruttamento da parte dei padroni.
Perché quando ci si accorge di dover chiedere qualcosa che è nostro, o viene allungata qualche ora fuori busta, o ci si sfalda al pensiero della bella stagione.
Consola il fatto di trovarci fra uomini con una notevole ricchezza di vita. Non quella ricchezza che fa effetto o che si può idealizzare, ma quella normale di chi parla della sua famiglia, dei figli, dei problemi del mondo e del sesso (anche qualche volta..). La ricchezza disordinata e non capitalizzabile dei poveri.
C'è qualcuno che la sfrutta, che ci specula, che ci fa i films da cassetta, ma qui tutto è ricondotto alla genuinità.
Una vivacità però individualista, non ben collegata insieme, se non dagli scontri delle discussioni chiassose o dalle amicizie che cominciano a farsi luce, nella semplicità della vita comune.
Per caso c'è anche il prete che cerca di raccogliere ogni cosa, dallo spunto sindacale, alla battuta amichevole, al caso serio di famiglia, a tutto quel mare di «umano» che sta nascosto nel fondo o nei doppi fondi di questi uomini.
Una presenza che non riesce a trovare la sua casella perché pulsa (o cerca di farlo) con la vita di ognuno e di tutti, in un'unica direzione: quella che porta alla comunione di ogni cosa con il Tutto.
C'è una cosa che dispiace: che forse, o per incapacità o per impossibilità espressive non possa trasparire pienamente quello che scorre in questa esistenza, come movimento (fallito o riuscito) di massa, come fatto umano di insieme che cresce nelle diversità, come vita di sofferenza di sfruttamento che vuole una sua risposta, come incarnazione silenziosa del mistero di Dio, pur rimanendo tutto ben nascosto nel seno della vita di tutti i giorni.
Una nota finale, amara, ma significativa. E' vero che il lato economico dovrebbe avere una rilevanza minore rispetto ai valori umani, ma è anche vero che questi sono spesso schiacciati dall'assillo di non arrivare mai al necessario per le esigenze normali di famiglia.
Un manovale - e sono la maggioranza - prende 352 lire l'ora e in fondo al mese porta a casa una busta paga che oscilla fra le 60.000 e le 65.000 lire, lavorando 43 ore alla settimana.

(Un gruppo d'operai della «Pluriplast» Cantieri M. B. Benetti - Viareggio)


Maledetta la violenza

Già tempo fa, ai tempi di quell'orribile processo di Burgos, sotto il peso spaventoso di probabili condanne a morte, non mi era stato possibile starmene a casa, al caldo della nostra cucina. Avevamo appena celebrato la nostra Messa serale della comunità e ci siamo detti che qualcosa bisognava fare, fosse pure tutto inutile e assurdo. E chi poteva di noi siamo andati a intrupparci in una massa di gente urlante, dietro un agitarsi di bandiere rosse.
Sarei andato anche dietro al diavolo se lui si ribellava e manifestava contro la pena di morte per motivi politici.
E quegli urli - Franco boia - taglienti come le lame di gelo che tagliavano la faccia in quella sera, non mi dispiacevano.
Quando nel mondo c'è da piangere, bisogna piangere, altrimenti si è senz'occhi e senza cuore.
Soltanto che pochi giorni dopo è venuta fuori la condanna a morte a Leningrado di quegli ebrei che avevano intenzione di dirottare un aereo per andarsene dalla Russia in Israele. Il dirottamento, è chiaro, era perché non potevano andarvi con un aereo di linea, o in treno: ma unicamente perché chi è in Russia deve vivere e crepare in Russia. Diversamente, il plotone di esecuzione o la sentinella sulla torretta del muro che spara a chi tenta di scavalcarlo.
Nessuna dimostrazione. Nemmeno un'ombra di ribellione. E io sono stato a casa.
Poi, ad aggravare la storia, sono venuti gli scontri e gli eccidi di Polonia. E tutto quello che succede nel mondo che è sempre fiume di sangue....
Ho scoperto qualcosa di assurdo in me, come d'un vuoto. Sentito e avvertito da tanto tempo: ma poi è come affacciarsi sull'orlo di un abisso.
Certo non mi ha confortato il gesto del Papa che nemmeno riceve le mamme dei processati di Burgos (per paura che Franco gli rimproveri l'asciugare le lacrime di mamme disperate) e hanno fatto bene quelle mamme a rifiutare il Rosario che ha loro inviato, tirando fuori il loro, ormai consumato di Misteri dolorosi. Né le pressioni diplomatiche, perché contro la pena di morte ci vuol altro per combatterla nel mondo delle vesti paonazze e dei fiocchi rossi e delle parole in francese, della diplomazia vaticana.
E è morto (e quanti altri nel frattempo sono morti, dissanguati per le guerre che imperversano nel mondo, e per i regimi assolutisti che si tengono su con la forca e per i regimi militari che allagano di disgraziati le prigioni) è morto quel pover'uomo di Catanzaro, dilaniato da una bomba, mentre tornava a casa con un pacchetto di medicinali per la madre dei suoi quattro figli, ammalata.
E' chiaro che bisognava tornare sulla strada. Di fronte ai morti ammazzati, è ucciderli un'altra volta non maledire le ragioni che armano gli assassini. Diversamente è connivenza o è quella orrenda cosa che è l'indifferenza. Non piangi, non gridi, ti rinchiudi in casa e stai a guardare dalla finestra: sei più fratello degli assassini (e del sistema che dà loro le armi) che di quello che è stato ammazzato a Catanzaro, a Milano, nel Vietnam, in Giordania, in Polonia, nel Camerun, nel Sud Africa,... e si può tingere di rosso tutto il mondo per indicare dove).
Non potevo, non potevamo noi comunità di preti, non tornare sulle strade dietro bandiere rosse.
E non ci sono altri modi per gridare che il sangue dei fratelli versato ci affoga. E che l'ultimo ucciso voleva essere Dio, Gesù Cristo, perché dopo la sua morte gli uomini non si ammazzassero più, perché l'ultimo ucciso era risorto e la morte non doveva esistere più, ma la vita (perché la morte che non è un assassinio non è la morte).
Erano le processioni da fare ancora e piangere, portando una Croce, perché i fratelli vi avevano tolto Cristo per inchiodarvi un altro fratello (innumerevoli altri fratelli).
Ma ancora non esiste una Chiesa che pianga a disperazione di madre per i figli che le assassinano, una Chiesa popolo di Dio che si ribelli e respinga a costo di Calvario e di Croce i regimi che campano sul sangue versato e su quello che sono pronti a versare. I sistemi economici che costruiscono le guerre. I militarismi che ne fanno, della guerra, la gloria e della forza un diritto. La violenza come sistema, l'ammazzare come un dovere.
Un gruppo di preti che non sa cosa fare per dare una testimonianza cristiana, dire una parola in nome di Dio, suscitare un problema nella coscienza dei propri fratelli, provocare la Chiesa a vivere concretamente il momento d'incarnazione richiesto, reclamato dalla storia di disperazione che l'umanità sta vivendo.
Qualcosa che somiglia a Gesù Cristo, che abbia almeno un'ombra del suo coraggio, un accenno alla verità della sua Parola, un momento del suo essere vivente nella storia degli uomini. Un qualcosa che sia di ora ma che sia in qualche modo un po' come allora.
Qualcosa di sui tetti, sulla strada, nelle piazze, fra la folla, Amore o maledizione, beati o guai a voi.... qualcosa che sarà nulla, ma che se dev'essere, sia pure anche Croce e crocifissione.
Forse è difficile per molti della Chiesa immaginare un gruppo di sei preti a tormentarsi in angoscia fatta tutta di Amore alla Chiesa, per riuscire a trovare come si può essere vivi come preti, nel travaglio e nella spaventosa responsabilità del momento che viviamo e che dobbiamo - ma tu sai cosa vuol dire di terribile scoprire questo «dovere» nella ragione della propria vita? - cercare, pagando qualsiasi prezzo, di rendere più che sia possibile Regno di Dio e cioè esistenza redenta (fatta nuova e diversa) dalla morte e resurrezione di Cristo.
E siamo andati l'altra sera - un pomeriggio dolcissimo di sole e la Darsena aveva d'oro le barche e contro il cielo a tramonto parevano candele accese gli alberi dei pescherecci e dei panfili alla fonda - e sembravano meno rosse le bandiere, un fiume lento e solenne la folla d'operai - siamo andati a reggere due canne che sostenevano uno striscione bianco di lenzuolo dove macchiavano di rosso parole roventi, di fuoco: Maledetta la violenza che insanguina il mondo. E che quella era la Parola dei sei preti della nostra comunità era scritto sotto quella Parola e da tutti noi a camminare affiancati.
Senza chiederlo a nessuno, era una processione lunghissima d'operai dietro quella Parola.
Reggevo una delle due canne lungo la strada. E sentivo la povertà terribile di quel camminare di povera gente. Di povera gente mangiata da tutti. E che vive perché respira soltanto di speranza. E sentivo di portare una canna a nome di tutti (che cosa inimmaginabile sentirsi sacerdoti, povera carne meravigliosamente raccogliente l'universo intero per farne tutt'uno col Mistero di Dio attraverso Cristo), una canna, è vero, una debolezza fino al ridicolo, ma sentivo che somigliava a quella che misero in mano a Gesù Cristo dei soldati per burlarsi di Lui.
Ma è questo ridicolo, assurdo Cristianesimo, quello che può salvare il mondo: diversamente, la spaventosa, orrenda monotonia del sangue che continuerà ad essere versato fino a che non affogherà il mondo intero.


don Sirio

Ai morti in guerra

Ragazzi che andate tra i fiori delle
bare,
non so perché siete morti,
Lasciando le vostre giovani spose come
pinguini dalle ali aperte
Poiché per sempre avete abbandonato le loro
braccia.
Le vostre foglie, giovani fiori, cadono
Come quelle dei castagni.
Voi cadete ai miei piedi come topi dei
campi
Rimasti prigionieri d'una prateria in fiamme.
Ragazzi, le vostre grida attraversano i miei
sogni.
Presto ce ne andremo a vivere sulla Luna,
E intanto dietro di noi devastiamo il nostro
mondo,
Senza lasciar traccia d'esser stati
fratelli.

Leo Connellan

(da una antologia di poesie pubblicata in America contro la guerra del Vietnam)


La parrocchia "fontana del villaggio"

L'incontro quotidiano con sacerdoti, seminaristi o laici attenti ai problemi della vita della Chiesa, mette il dito su una piaga tutt'altro che sanata: la parrocchia.
Quasi tutti la subiscono, molti preferiscono ignorarla, alcuni ne predicano la soppressione come ostacolo alla predicazione del Vangelo.
Esaurita la novità, sapientemente dosata, della riforma liturgica, si è riaperto un vuoto, nella vita della parrocchia, che si tenta tenacemente di riempire con i ritrovati più diversi.
Da qui il senso di rassegnazione che ripropone vecchi modelli in una assurda speranza che ritorni il tempo della giovinezza, oppure il correre qua e là per strappare una ricetta, una medicina che dia di sperare che la vita continua. E' un libro, una rivista, un esperto, un «maestro», un'esperienza viva, che vengono propinati con l'arte magica dell'incantatore che fa il suo interesse e pensa al portafogli. Ne viene che si continua così a darla a bere a tanti poveri preti che, bisogna dirlo, da parte loro cercano molte volte solo una giustificazione agli occhi della gente di una loro sistemazione giuridica e soprattutto economica, attraverso una dimostrazione di efficienza sempre più raffinata.
Ma i tentativi, anche i più riusciti, di rendere funzionali le strutture parrocchiali, mostrano la corda. Si ha la netta sensazione di una vita anemica, come di pianta coltivata in serra, nonostante il volume, spesso notevole, di convergenza di persone e di interessi. Una minestra all'apparenza appetitosa, ma spaventosamente sciocca. I grandi problemi della vita rimangono lontani, nascosti da un velo di pioggia fitta fitta di buone intenzioni che non aumentano la fede in chi l'ha già, e certo non fanno venire la voglia di cercarla a chi non l'ha.
Da qui, nonostante lo sforzo di credibilità, un crescente disinteresse per le cose religiose; un'indifferenza assoluta interrotta solo da avvenimenti che han tutta l'apparenza di casi eccezionali e distolgono appena l'attenzione dai problemi immediati di cui ciascuno è caricato.
E' dalla contestazione di questo vuoto di presenza che viene il lampo di genio risolutore: non basta una medicina: bisogna operare in profondità, ci vuole un intervento radicale. E' necessario cambiar pelle: la parrocchia deve scomparire.
Al suo posto comunità «vere», autenticamente protese in una forte testimonianza evangelica.
L'intenzione è seria, la strada scelta per realizzarla, assai meno. Distruggere una capacità di respiro per chiudersi spesso in conventicole inconcludenti. Favorire per altri versi lo stesso spirito dì parrocchialismo da sacrestia. Ricreare dipendenze da persone e situazioni. Questo il risultato, molto spesso, di una contestazione che si preoccupa solo di distruggere, per una impossibilità costituzionale a generare.
Quale speranza può venire perché ci sia la vita, e cresca in abbondanza? C'è da credere invece che forme nuove create come alternativa alle vecchie aumentino solo la misura di egoismo, di interesse e di sistemazione personale, tale da rendere il peso più opprimente di prima.
Non si vuole capire che la parrocchia non è sacramenti, fogli di matrimonio, quattro vecchietti, il banco dei bambini, un gruppo biblico. Certo: parrocchia non è centro di attività turistico-sportivo-religiose dove la meditazione sulla Bibbia segue il torneo di ping-pong e precede l'arrivo della corsa ciclistica. Ma non è parrocchia una scuola di belle maniere liturgiche, e non è un apparato catechistico, e non è neppure la santità personale del parroco imposta, con vari accorgimenti, alle anime intorno.
E, nonostante che questo si sappia ed anche si dica, sono le parrocchie che riescono ad essere sintesi di tutto questo quelle che sono poste all'attenzione dei preti e costituiscono il modello preferito. Non si vuole capire, e per i vecchi è tanto spirito di conservazione, come per i giovani è tanto frutto di delusione. Non si vuole, in fondo, capire perché si è scelto una logica umana e non l'attenzione seria al pensiero di Dio.
La parabola del Buon Pastore: ecco la «parrocchia» secondo il pensiero di Dio, di cui la nostra pastorale è, molto spesso, caricatura blasfema. Una vita vissuta in mezzo al gregge, condividendone fatiche e pericoli, per un cuore senza ombra di interesse al punto di abbandonare il gregge indifeso per cercare la smarrita, per un amore senza misura al punto da dare la vita. La «parrocchia» è questa esistenza vissuta giorno per giorno ed offerta come pane spezzato e vino versato nella testimonianza di una Presenza di amore. Esistenza di due, di pochi o di molti, questo non ha importanza, perché seriamente impegnati nella vita fino al punto che di più è impossibile.
Vivere del proprio lavoro, in una casa tra le più povere, magari in affitto, cercando di farne una accoglienza semplice, ma senza riserva; l'attenzione presa dagli avvenimenti quotidiani, sia che accadano al vicino, che nel posto più remoto del mondo, senza difendersi e chiudere le porte.
Partecipare alla vita degli uomini, morendo ogni giorno della fatica delle proprie mani, con il gesto silenzioso di una presenza mai distratta; partecipare alla storia degli uomini portando la parola di Gesù come giudizio degli avvenimenti, come luce che illumina le sofferte vicende del mondo.
Ecco la parrocchia secondo il pensiero di Dio: una manciata di lievito nella grande massa, una luce posta in alto per dare speranza a chi cerca. Braccia aperte per raccogliere tutta la realtà umana e cuore ripieno unicamente di Dio per offrirsi come luogo di incontro degli uomini con Lui: sacerdozio di Cristo che continua nel mondo fino all'incontro totale: sacerdozio immerso nel mondo perché questo accolga la vita stessa di Dio e questa Io penetri e lo accenda di nuova luce.
Che cosa ci impedisce di vivere così la parrocchia? Che cosa ci impedisce di lottare nella Chiesa perché la parrocchia sia sempre più vicina al pensiero di Dio? Abbiamo forse paura di una misura di fatica che consumi la nostra vita?
Ciò che è fatto giuridico non interessa più e quindi non ha nemmeno importanza. Rimane la gente, piccola parte di umanità che vive e cerca il senso della propria esistenza. Rimane il particolare da non inquadrare in nessun modo. Da non irreggimentare in gruppi, da non dividere con iniziative a vantaggio personale.
Ed è in questa porzione di umanità che il Regno di Dio cresce con il suo respiro ampio per cui ogni cosa acquista la dimensione dell'universale.
Credo che le difficoltà provengano proprio dal perdere questo respiro ampio, dal!'impoverire la fede a meschina verifica dei nostri sforzi.
Questa parte di umanità in cui vivo è famiglia che deve allargarsi nell'accoglienza di tutti gli uomini, lo vi sono per morirvi con umile semplicità, gettando il seme della vita, soffrendo di essere cosi poco ed insieme accogliendo con gioia la forza onnipotente di Dio.
lo vi sono come sacerdote per raccogliere nell'esistenza di ogni giorno la ricerca di verità, il desiderio di giustizia, il pensiero di pace. E vi sono dentro come presenza viva di Colui che è Verità, del Giusto che è nostra Pace.
La parrocchia è allora questo fatto, visibile solo agli occhi della fede, in cui un popolo può dire con Gesù: questo è il mio corpo e questo è il mio sangue; ed è l'Eucarestia il segno autentico e vero della vita parrocchiale. Nella Messa vive la parrocchia come realtà raccolta e salvata da Dio, come seme santificato dalla Sua Presenza, reso sale del mondo e luce della terra. Perché sia così in quella grande massa che è la vita umana vissuta unicamente per motivi di Dio.
Non importa più a questo punto perdersi in mille cose, per una esistenza inconcludente e frammentaria. Non ha più senso escogitare realizzazioni bene accolte e neppure preoccuparsi di lasciare le orme del proprio passaggio.
Ciò che importa è gettare a piene mani il seme di una vita fedélmente costruita da Dio, unita intorno a Lui, unicamente spiegabile con Lui. Solo allora cominceremo a prendere sul serio Gesù, dopo averlo tanto giocato. Solo allora potremo veramente accogliere Colui che è la Vita.





don Luigi

(citazione)

O Cristo, sei Tu? Tu la Verità? Tu l'Amore? Sei qui? Sei con noi? In questo mondo così evoluto e così confuso? Così corrotto e crudele, quando vuol essere contento di se e così innocente e così caro, quand'è evangelicamente bambino? Questo mondo, così intelligente, ma così profano e spesso volutamente cieco e sordo ai Tuoi segni? Questo mondo che Tu hai amato, Tu, o fonte della Vita, fino alla morte; Tu, che Ti sei cioè rivelato in Amore? Tu salvezza, Tu gioia del genere umano? Tu sei qui, dove la Chiesa, tuo sacramento e tuo strumento (cfr. Lumen Gentium, nn. 1, 48; Gaudium et Spes, n. 45) Ti annuncia e Ti porta?
Paolo VI


I santi Innocenti

Quest'anno il Natale mi ha costretto a prendere coscienza di un fatto sconcertante nel Mistero cristiano, legato all'Annuncio della Natività di Dio nel destino dell'umanità: appena la terra accoglie nella sua nudità il Suo Signore, intorno a Lui quasi immediatamente comincia a scorrere sangue umano. Sangue innocente, di bambini appena venuti alla luce della vita, sopraffatti dalla violenza e dalla crudeltà di un padrone del momento. Bambini morti «per causa di Gesù», come a dire «per colpa sua»: innocenti che pagano il prezzo richiesto dalla paura di un potente, dalla sua voglia di dominio, di sopraffazione, di sfruttamento.
Intorno alla culla di Betlemme, insieme al grido di gioia degli angeli, all'annuncio di pace per tutta la terra, all'esultanza dei pastori e dei magi, bisogna saper ascoltare - nella nudità della Fede - questo grido di sangue, questo lamento lacerante di chi «piange i suoi gli e non vuol esser consolata perché non sono più». Queste piccole vite stroncate così brutalmente, sono il primo prezzo cruento dell'Incarnazione, quasi una profezia muta che fa già pensare alla Croce.
E' davvero mistero infinito questo entrare di Dio, con Gesù, nella vicenda umana, nella storia e nel destino degli uomini, assoggettandosi al suo terribile andamento, lasciandosi sopraffare, portar via, senza resistere, senza stroncare la violenza della malvagità, dell'odio, della brutalità del cuore umano. Questo entrare nella vita dell'umanità accogliendola interamente, partecipandola fin nelle sue più abissali oscurità, assaporando fino alla feccia il calice di questa esistenza senza Dio, e perciò senza Amore, senza Pace, senza Giustizia.
Ci sarebbe da restare scandalizzati da questa impotenza di Dio in Gesù; da questo suo accettare che il mare dell'odio e dell'egoismo continui ad affogare l'amore, a lacerare vite umane, a far scorrere sangue innocente.
Eppure il Natale è così: questo entrare silenzioso e nudo di Dio nel nostro cammino, questo suo scendere nella nostra notte, lasciandosi inghiottire dal buio per accendere la luce della vita proprio alle radici dell'esistere umano. Un accogliere senza limiti, un obbedire senza condizioni, un dire di «sì» senza misura, un'offerta di sé, della propria carne e del proprio sangue, carne e sangue di Dio fatto uomo, perché vi si compia e vi si consumi perfettamente il destino tragico dell'esistenza degli uomini e vi trovi la sua Trasfigurazione e la sua Redenzione.
Com'è misterioso questo Dio che nasce nel nostro deserto, nella nudità della sua carne, che non brandisce la spada, non appicca il fuoco alle nostre costruzioni distorte, non frantuma i nostri cuori di pietra: ma subisce, prende su di sé, si lascia schiacciare dalla vita così com'è fatta, accetta che gli innocenti intorno a lui siano sopraffatti senza sapere perché. E così per tutta la vita, dalla nascita alla tomba, dalla culla alla croce, dal seno di sua madre al seno della terra. Dio che ci scioglie accettando le catene, ci dona la vita morendo, ci fa liberi figli di Dio facendosi schiavo dell'uomo.
E questo misterioso destino che dura da sempre: dall'inizio del mondo sino alla fine, dall'alba al tramonto della storia. Questo sangue di bimbi innocenti mi sembra che stia come all'incrocio del cammino umano, segno misterioso di tutto il sangue innocente sparso sulla terra prima e dopo Gesù e ancora oggi sulle nostre strade, dagli Erodi di oggi che credono di poter affogare nel sangue il cammino di Dio. Perché Dio cammina con noi, dentro la storia, proprio come allora, come in quel Natale bagnato di sangue. E oggi come allora, come sempre, Dio si lascia sopraffare, schiacciare, uccidere dalla malvagità umana per guidare la storia verso la salvezza. E il sangue degli innocenti gronda come allora intorno al Natale di Dio, e il fiume si è ingrossato, fino a diventare un mare. E il grido inconsolabile è più alto, più lacerante, più tragico.
Rachele ormai ha il volto di migliaia di madri inconsolabili, ha il volto stesso dell'umanità.
Questo grido che spezza il cuore, questo pianto che non tace, questo sangue che scorre senza posa, non può però spengere la luce del Natale: anzi, gli dà il suo vero senso e il suo infinito valore.
Non c'è una lacrima che va perduta, non c'è una sola goccia di sangue innocente che si perde, perché Dio ha mescolato il suo pianto e il suo sangue al nostro, è sceso nella nostra notte e porta la storia nelle sue mani forate.


don Beppe

Il popolo eletto

Paul Gauthier

Il popolo eletto è dunque ogni popolo che soffre lo sfruttamento e che è in via di liberarsene. Se un giorno questo popolo s'arricchisce al punto da sfruttare a sua volta altri popoli resterà ancora «il popolo eletto»? Non c'è bisogno della Bibbia per sapere chi è l'eletto da Dio. Basta ricordare che Dio è giusto. Il suo amore va dunque di preferenza a quelli che sono vittime dell'ingiustizia. Fra tutti i popoli e tutti gli uomini, quelli che Dio ama con amore di predilezione sono i poveri, i piccoli come Ismaele, gli sfruttati come Israele in Egitto. Oggi il popolo palestinese è certo amato con questo amore di predilezione a motivo del suo esilio nel 1948 e nel 1967 e del suo massacro nel settembre scorso. E' lui attualmente il vero Israele, il véro Ismaele abbandonato in pieno deserto, che vive sotto la tenda e guarda da lontano la terra promessa. Nel vangelo, il Cristo, per i cristiani, si è identificato a quelli che hanno fame, che non hanno casa, stranieri, prigionieri, malati. (Mt. 25, 35-40 .
Egli vive oggi in modo speciale in questo popolo, straniero ovunque si trova perché scacciato dalla sua terra, ridotto a ricevere razioni da fame e a vivere prigioniero nei campi, alcuni da 22 anni. Egli vive in questo popolo oggi ferito, mutilato come questi uomini amputati, che provano le loro stampelle, o ciechi che cercano a tastoni di riscoprire il mondo la cui luce si è spenta per loro, come questi bambini vittime dei carri armati che hanno sparato sulle loro povere case, e che si accorgono di non avere più mani, gambe, braccia, e chiedono con angoscia quando ne riceveranno di nuove.
I cristiani lungi dal lasciarsi influenzare dalle pubblicazioni sioniste, devono sapere che il Cristo continua a soffrire la sua passione in questo popolo palestinese, come nel popolo vietnamita e in tutti i popoli vittime dell'ingiustizia e dello sfruttamento che le nazioni ricche fanno loro subire.
Se è questo per i credenti il significato religioso e cristiano del popolo palestinese come di tutti i popoli sfruttati, non si può comprendere l'atteggiamento di una chiesa che si è legata alle nazioni ricche e sfruttatrici fino al punto da apparire come una nemica agli occhi dei popoli poveri. Allineata alle nazioni che si comportano come dei e che esigono dai sudditi il sacrificio della vita per la difesa dei loro interessi, legata a queste nazioni da relazioni diplomatiche, come la chiesa così istituzionalizzata, secolarizzata, potrà efficacemente alzare la voce per denunciare le iniquità di quel sistema che divide la umanità in nazioni le quali dispongono ciascuna del diritto di abbandonare il loro popolo all'ecatombe delle guerre? Come potrà la chiesa, dopo essersi ridotta allo stato di nazione indipendente, condurre l'umanità verso l'unità? Come potrà, se vive essa stessa del capitalismo, denunciare il principio stesso del capitalismo, il servizio del denaro come sorgente di ogni male (cfr. I Tim. 6/10 - Matt. 6, 24)? Il prestito a interesse è sempre stato condannato dai profeti (Ez. 18, 8 e 13, 22-12; Ps. 15, 5; Lev. 25, 37; Es. 22, 24; Le. 3, 35). La chiesa ha tollerato il prestito a interesse alla fine del 18° secolo: come può adesso denunciare il sistema che gli stessi economisti riconoscono come causa dell'arricchimento progressivo delle nazioni ricche e della corrispettiva depauperazione dei popoli poveri (cfr. Mc Namara presidente della banca mondiale alla riunione del F.M.I. settembre 1969)? Col suo silenzio e la sua partecipazione al sistema capitalista la chiesa si rende complice di coloro che sfruttano i popoli poveri. Prigioniera essa stessa di istituzioni che si è. data, non ha più la libertà di vivere e di annunciare il vangelo.
Così molti dei cristiani che per fedeltà all'amore di Gesù di Nazareth si sono sempre più legati ai popoli sfruttati sono entrati in crisi nei confronti di questa chiesa istituzionale. La lotta che conducono per la liberazione dei popoli sfruttati, in tutto solidali con questi popoli, ha aperto loro gli occhi sulla realtà del mondo e del suo dramma. Fra tutti questi popoli il popolo palestinese ha un pesante significato: scacciato dalla sua terra da un popolo eletto è divenuto esso stesso questo popolo eletto a causa dei pesi d'ingiustizia che porta. Massacrato dai mercenari dei ricchi, soffre la passione di Cristo.
Perseguitato dai discendenti dei profeti che, invece di aprire all'umanità la strada per superare i nazionalismi verso l'unità di tutti gli uomini si chiudono in un nazionalismo razzista, il popolo palestinese animato dallo spirito profetico propone una Palestina democratica in cui tutti, arabi ed ebrei, israeliti, musulmani e cristiani godranno dell'uguaglianza di tutti i loro diritti.
Vi sarà certo una dura lotta da fare per liberare l'umanità dalla tendenza di ogni religione a credersi superiore alle altre, che sia l'Islam, l'ebraismo o il cristianesimo.
Ognuna si crede «il popolo eletto» e da questa elezione pretende trarre favori e vantaggi temporali. Quando dunque i credenti capiranno che la fede in Dio può conferirci solo doveri di giustizia verso tutti gli uomini, perché, se Dio esiste, è il Dio giusto e buono per tutta l'umanità?

PAUL GAUTH1ER

Da «La questione palestinese nel giudizio di Paul Gauthier». Articolo apparso sulla «Rocca» del 15 gennaio 1971.


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