LA VOCE DEI POVERI: La VdP febbraio 1965

La nuova liturgia

Sono tanti i motivi di gioia per le novità apportate allo svolgimento della Liturgia dall'attuazione della Costituzione Conciliare.
Tanto più poi se si pensa - come è giusto pensare - che queste novità liturgiche sono il segno, l'indicazione visibile di tutto un impegno più scoperto, di tutta una ricerca più sentita di contatto, di partecipazione, di unificazione con il popolo e con il tempo da parte della Chiesa.
Non è la nuova liturgia una novità per riti e cerimonia diverse, ma è nuova perché finalmente cerca d'essere coi tempi nuovi, con l'umanità nuova, quella che vive oggi.
Pensiamo che non si tratti di una riforma liturgica quanto d'una liturgia che va avanti coi tempi; che cammina insieme agli uomini per il semplice motivo che la liturgia è fatta per gli uomini in cammino, espressione attuale, sempre viva, di una realtà vivente, concreta, di ogni giorno e, diremmo, d'ogni minuto.
La Chiesa raccoglie i suoi tesori (tutto il Mistero di Dio, la Rivelazione, la Redenzione...) i suoi meravigliosi e infiniti tesori di sempre, e li distribuisce, in modo nuovo, più aperto, più semplice, immediato e alla povera umanità che vive ora sulla terra, in modo che questa umanità di ora possa meglio arricchirsene.
Anzi sembra che ora la Chiesa sia di più non tanto nell'atteggiamento di distribuire sia pure a piene mani, quanto di vivere «insieme» con il popolo i Misteri di Dio.
Mangiare e bere insieme, alla stessa tavola. Abitare nella stessa casa. Fare di più un cuore solo, un'anima sola perché la Chiesa possa essere - come dev'essere - il cuore dell'umanità e l'anima dell'universo.
Cuore dell'umanità che ama Dio e tutti gli uomini. Anima dell'universo che è lode di gloria al Signore e la voce di tutti cioè l'unica voce che dalla terra sale a! Cielo a glorificare e a chiedere a Dio la Sua dolce Bontà.
La Chiesa in questa ricerca di maggiore attualità, ri-spondenza, fedeltà liturgica è sempre di più la fontana del villaggio di cui parlava papa Giovanni, fresca e zampillante per tutti gli assetati.
Sì ha tutta l'impressione - e è motivo di grandissima gioia -che questo rinnovamento liturgico sia come un invito che la Chièsa rivolge a tutto il popolo perché entri a far parte del suo sacerdozio, prenda il suo posto intorno all'altare, unisca la sua voce a quella della Chiesa, sia parte attiva nella celebrazione del Mistero di Cristo.
E' per questo che ora la lingua del popolo è la lingua liturgica: è come una consacrazione del nostro parlare, un raccogliere le nostre parole per parlarle a Dio, ufficialmente, attraverso la Chiesa. E' un parlare fra noi nella nostra stessa lingua, come quando parliamo in casa, nella strada, fra gli amici. Sono le parole di tutti i giorni. Lo stesso linguaggio col quale ci diciamo i nostri pensieri, comunichiamo i nostri problemi, ci manifestiamo l'Amore e ci confortiamo nel dolore.
No, non è gran cosa l'uso della lingua italiana soltanto perché così si può capire ciò che legge il Sacerdote sul Messale, ma specialmente perché la lingua dei popolo - il parlare di ogni giorno e il parlare di tutti - è la stessa lingua con la quale ora parliamo con Dio. La Chiesa parla con Dio e parla con noi la nostra stessa lingua. Finalmente «ha imparato» la nostra lingua, è diventata di più della nostra terra, non si distingue più dal nostro popolo, dal popolo che non sa dire altro che Gesù e Maria come gli ha insegnato la mamma.
E siccome la Liturgia parla la stessa lingua dei fedeli allora il sacerdote è rivolto verso i fedeli. E' colloquio, dialogo, un parlare insieme, a tu per tu, a faccia a faccia e è bellissimo guardarci in volto e scoprirvi i segni della commozione, dell'infinita serietà del Mistero, comunicarci attraverso l'espressione degli occhi ciò che palpita nell'anima, vivere insieme, allo scoperto, il simbolismo liturgico, lasciandoci, tutti insieme, affascinare dalla potenza dei segni, dalle apparenze, che velano, nascondono il Mistero di Dio, la Sua adorabile presenza fra noi.
Il sacerdote, a seguito delle innovazioni liturgiche, non sta più lassù, separato, lontano, solo, a trattare le cose di tutti con Dio: è in mezzo, come al centro di una tavola imbandita, a ministrare con devoto e umile servizio, gli invitati alla mensa.
Sacerdote e popolo: è la Chiesa viva e vivente nella quale e attraverso la quale Gesù vive il Suo Sacerdozio Eterno per la gloria infinita di Dio e per la salvezza del mondo.
La nuova liturgia vuole che il sacerdote esca dal suo isolamento e scenda in mezzo al popolo e offra una partecipazione totale al Mistero di Dio. E' come aprire le braccia, spalancare il cuore ripetendo a pieno diritto le parole di Gesù: «venite a Me voi tutti che siete stanchi e affaticati e lo vi ristorerò».
E il popolo non può non accogliere l'invito.
Andare in Chiesa alla Messa ora più che mai vuol dire stringersi - anche fisicamente - intorno ad un altare. Significa entrare in una comunità di fratelli a cuore aperto, comporta un respirare l'Amore, che unisce, parlare la stessa lingua, diventare tutt'uno con Gesù, cercare l'unico Dio e perdersi nella Sua Gloria.
La Liturgia, nelle sue innovazioni sta chiedendo al clero di abbandonare ogni realtà e perfino l'apparenza di ogni privilegio. Lo costringe ad uscire da ogni posizione anche religiosa, di distacco, di lontananza. Per il sacerdote tutto il suo ministero deve essere più semplice, più immediato: un'esistenza umana consacrata a Dio e agli uomini con l'unico scopo d'aprire le braccia, il cuore e tutto il proprio destino, ad accogliere. Ad accogliere tutto il Mistero di Dio e tutta la sua realtà umana. Punto d'incontro, visibile e ministeriale, che, però, più che sia possibile deve essere semplice e povero, per non nascondere troppo e velare l'unico Sacerdote dell'unico Sacrificio che è Gesù Cristo.
E la Liturgia nelle sue innovazioni sta chiedendo al popolo cristiano di uscire da una passività che può arrivare perfino all'indifferenza e di prendere il suo posto a pieno diritto e con chiara coscienza. Chiede ai fedeli di scoprire la loro essenzialità nella Chiesa e di vivere anche esteriormente, nell'azione liturgica e poi nell'esistenza quotidiana, la loro meravigliosa realtà di «stirpe eletta, regale sacerdozio, gente santa, popolo d'acquisto» (I Pietro 2,9).
Bisogna allora aprire il cuore all'Amore vicendevole superando tutto ciò che distingue e divide. Nella Chiesa, popolo di Dio, sono una vergogna le distinzioni fra ricchi e poveri, fra personaggi e povera gente. E sono sicuramente profanazione e sacrilegio i vestiti eleganti e i! senso di distinzione e l'atteggiamento di distacco ecc.
Il dialogo liturgico vuol dire anche fraternità, la stessa lingua vuol dire anche uguaglianza, lo stringersi insieme intorno all'unico altare vuol dire famiglia, l'unica liturgia vuol dire unione totale fra noi con Gesù, nella Chiesa, davanti all'unico Dio, del quale, per la Sua dolce bontà, siamo tutti ugualmente figli, infinitamente bisognosi, come poveri mendicanti, di un po' d'Amore.


La Redazione

Le cose di Gesù

Penso che Gesù voglia dire tante cose, infinite cose. La Sua Verità o per meglio dire, con una parola tanto significativa di misure infinite e capace di chiarezze stupende pur nella sua oscurità - il suo Mistero è veramente inesauribile e tutto possiamo andare a cercare in Lui e tutto abbiamo la certezza dì poter trovare perchè la sua pienezza è totale nella sua perfetta realtà di vero Dio e di vero Uomo.
E' bellissimo e adorabile che una vita umana ci dia l'esperienza di Dio, una conoscenza di Lui chiara e immediata, quasi da poter dire: ho visto con gli occhi e toccato con mano Dio.
Gesù è questa offerta di esperienza concreta di Dio. In Lui troviamo Dio perchè tutte le sue cose sappiamo che sono di Dio. E' Dio che le vive. Sono la vita di Dio.
L'infinito significato di questo mio semplice atto di Fede cristiana: Gesù è Dio.
Allora tutta la vita umana, assolutamente tutta la vita umana di Gesù è adorabile. Ogni valore da Lui vissuto diventa valore divino, entra nella preziosità e nell'importanza propria unicamente di Dio.
E' realtà umana ma non più soltanto umana, è realtà, da dopo Gesù, di Dio. Dio se l'è fatta sua. Gli appartiene così tanto che dovunque questa realtà è, lì vi è anche Chi l'ha fatta sua con un atto di possesso definitivo e totale come può fare soltanto Dio.
La vita di Gesù, lo svolgimento della sua esistenza, tutto quello che Lui ha vissuto, tutto ciò che ha formato l'insieme della sua vita, io devo cercare di conoscere, di scoprire perchè comporta inevitabilmente un modo chiaro ed esattissimo di distinzione (l'unica distinzione da fare in questo mondo) in due categorie di tutti i valori umani e dell'esistenza: quelli che Dio ha scelti per la sua vita terrena e umana e che sono chiaramente indicati dallo svolgimento storico della vita di Gesù e quelli che non sono stati scelti e che rimangono quindi valori con misura dì importanza soltanto terrena. Valori apprezzabili quanto si vuole, rimasti però al di fuori dell'apprezzamento di Dio. Non scelti da Lui, non diventati suoi.
I primi valori, le realtà scelte, sono di Dio, personalmente di Dio. Dio ne è entrato in possesso e sono armai legate al suo Mistero. Hanno ricevuto da Lui come una consacrazione, sono state segnate dalla sua scelta, gli appartengono, sono cosa sua. Sono qualcosa di Lui. Lo indicano e, per così dire, lo contengono fino al punto che forse dove esse sono, lì è anche Dio. Certamente in quelle cose è il suo Amore, se lì vi è la sua preferenza.
Per via dell'Incarnazione, di Dio che si è fatto Uomo, del suo vivere la vita umana, si è stabilita come una inscindibilità fra Lui e tutto ciò che Lui ha vissuto sulla terra. Come una unione ipostatica allargata e diffusa fra la Divinità e tutte le realtà umane entrate a far parte, in modo così intimo e profondo, del Mistero dì Gesù, vero Dio e vero Uomo.
Allora io so, in questo mondo, in questa vita, ciò che è personalmente di Dio, basta che io sappia ciò che Lui ha scelto per farne la sua vita umana.
Io so ciò che non è entrato nel suo Mistero di esistenza terrena perchè Lui l'ha respinto, non l'ha voluto, non l'ha fatto suo e mai ha fatto parte quindi della sua vita, mai è stato vissuto da Lui, mai è stata cosa sua.
E' un criterio per giudicare le cose, i valori, le realtà, le importanze, che io devo tanto tenere presente e usare con assoluta sicurezza per decidere ciò che è cristiano e ciò che non lo è. Ciò che è di Dio e ciò che non è di Dio.
Diversamente rischio una enorme confusione nell'apprezzamento delle cose, ma specialmente perdo la possibilità di un Amore profondo e totale verso ciò che Dio ha toccato, fatto suo, verso tutto ciò che, sia pure misteriosamente, è Gesù. Non riverso una fiducia assoluta in tutto quello che ha valore così infinito fino al punto che è cosa personale di Dio. E non ne faccio contemplazione dolcissima e adorazione profonda. E non ne riporto una gloria infinita quando Dio mi rende partecipe di queste sue cose, così intimamente cose sue personali e non mi trabocca il cuore di gioia quando qualcosa di così tanto suo mi viene donata e diventa cosa «nostra», mia, e di Lui, in questo scambio, così stupendo, di possesso.
E' strano non avere ancora la Fede e l'Amore capaci di darmi di vedere nelle realtà che fa vita di Gesù, il segno chiaro di Dio. L'esperienza diretta e immediata di Lui. E l'indicazione materiale, concreta di quanto Dio è amore per me. E di quanto mi è dato di vivere di Lui vivendo delle sue stesse cose.
Ancora non ho creduto e specialmente non ho accettato che siano mie le cose che sono state dì Dio, le cose che Dio ha fatto sue.
E' per questo non comune possesso che ancora non sono di Dio. Perché da dopo Gesù si diventa e si è di Dio in proporzione a quanto le sue cose sono nostre.
Fino a non possedere assolutamente altro.
Ogni altro possesso, ogni altra realtà d'esistenza che Lui non ha scelto, che Lui non ha fatto sua, possedendola e costruendovi sopra la mia vita mi distingue da Lui, anche se non mi separa da Lui.
E' venuto a tracciare sulla terra una strada e vi ha camminato fino in fondo: quella è l'unica strada sulla quale Dio ha camminato. Credo che è giusto dire che quella è la strada di Dio.
Se voglio camminare nella strada tracciata da Dio e sulla quale Lui stesso ha camminato facendone la sua strada, è necessario che io vi entri e che vada avanti unicamente per quella. Anche se è stretta e sassosa. Sale e scende, a volte senza senso apparente. Vi si cammina a piedi nudi. Quasi sempre soli. E se qualcuno s'incontra e ci si prende per mano e si va avanti insieme, è sempre più solitudine sconfinata perché ad ogni passo avanti cresce l'Amore. Non si trova niente o quasi per la strada. E poco o nulla è possibile portare con noi all'infuori di una croce a volte veramente fin troppo pesante.
Conforta però e incoraggia e sostiene e allarga il cuore alla speranza e alla gioia e all'Amore più esaltante, trovare continuamente i segni del suo passaggio, le tracce dove Lui ha sostato a riposarsi, a mangiare, a dormire, a pregare... Sappiamo che un giorno i segni che troveremo del suo passaggio saranno dì dolore e tracce di sangue: ma non importa anche perché questo vorrà dire che siamo quasi arrivati dove Lui è arrivato e dove è certo che è lì ad attenderci a braccia aperte.



don Sirio

La preghiera del silenzio

Signore, mi dicono di tacere, di continuare a vivere in silenzio, nascosto e perduto nel Mistero del Tuo Cuore.
Non è possibile, sembra, uscire all'aperto, in piena luce, dentro la folla degli uomini che percorrono strade non Tue, per essere il Tuo Volto di Gioia e di Speranza, fra tutti.
E cantare a piena voce il Tuo Amore Infinito; e tutta la Luce e la Verità e la Face che traboccano, come vive fontane, dal Tuo petto forte, squarciato. Per saziare la sete di tutti alle Tue rosse ferite.
Non è possibile, dicono, uscire fra i poveri, in mezzo alle case degli operai, a rinnovare nel cuore degli ultimi le Speranze perdute, da tempo, e affidate ad altri ideali, ad altri nomi non dolci e sicuri come il Tuo.
E' tempo d'inverno, per morire e marcire dentro le zolle scure, come semi che nessuno vede. Tempo di solitudine, di muto guardare i Tuoi occhi colmi d'Amore. E piangere, e attendere in serena dimenticanza di se.
Ma mai, come ora, solo il Tuo Regno è diventato desiderio ardente nel centro dell'animo. E mai, prima d'ora, Tu sei stato così TUTTO per me.




d. G. S.

(citazioni)

COME PRESENTARE CRISTO AL MONDO
«Quanto siamo attenti noi al nostro povero spirito borghese, molto prudente e saggio e tanto lontano dalla follia di San Paolo.
E' così che noi guardiamo con tranquillità al mondo che sanguina e muore. Intanto, con compiaciuta saggezza, andiamo considerando quale potrebbe essere la "tecnica" capace di salvarlo, oppure studiamo il modo di "presentare" il Cristo al mondo.
Ahimè! il Cristo non ha mai proceduto per presentazioni, ma per irruzione. Egli è un violento, dolce e umile di cuore,. Con il nostro atteggiamento, noi resistiamo fermamente a una sola tentazione: quella della santità.
E' questa la sola "tecnica" della redenzione; fino a questo momento, non è stata trovata miglior "tecnica" dell'esempio del Signore».
* * *

QUEL PICCOLO LIBRO....
"Posso donarvi soltanto Gesù Cristo, non ho altra ricchezza, altro amore, non ho altro Signore. Vi dono Gesù Cristo e vorrei donarvi la sua follia.
Quel piccolo libro insensato e pericoloso che ci riferisce le Parole di un Dio che ha sparso il suo sangue, che offre la sua carne in nutrimento e che trionfa nella morte".
P. Lyonnet

Uomo sbagliato

Purché lo possa amare,
cancellategli il volto
a quest'uomo!

Mi sgomenta il suo occhio
troppo spogliato di cielo
troppo ricco di terra,
percosso da un fitto bagliore
che tu reputi amore
e significa guerra.

Cancellategli l'occhio!

Ho paura della sua bocca
delle labbra spesse e fameliche
fatte per baciare,
avide di masticare.

Cancellate la bocca!

Mozzategli le mani,
pregne di carezza.
Passano come brezza
sull'agonia del viso;
poi d'improvviso
ti artigliano il cuore.

Cancellate le mani!

Perchè lo voglio riamare,
cancellatelo tutto
quest'uomo sbagliato.

E ridategli un volto mai visto
il volto di Cristo.


D. M. Bebber

La pace continua

Dice una canzone di cui non ricordo il nome «avevo chiesto la ricchezza e mi hai dato la povertà - Avevo chiesto la salute e mi hai dato la malattia - A dispetto di me stesso mi hai voluto esaudir». Che cosa ci fa credere che in un modo, piuttosto che in un altro, serviremmo meglio il Signore?
Ed ecco che Pinuccia, dopo vent'anni di sofferenza terribile, offerta minuto per minuto per tutti gli altri, andata a Lourdes quasi chiedendo di terminare lì, ai piedi della Madonna, la sua lunga giornata, torna guarita. Certo le gambe non ci sono più, la cancrena in 20 anni gliele ha mangiate pezzetto a pezzetto, ma non ci sono più le piaghe, non c'è più quel dolore continuo e lancinante della carne che marcisce; e, in un primo momento, ha potuto credere che non le restasse più niente da offrire. «Perchè o mio Dio mi hai guarita? avevo chiesto...». Che ne sappiamo noi? Forse ora Dio vuole questa nuova testimonianza di Lui, di quanto possa la fiducia in Lui, l'abbandono alla Sua Volontà.
No, Pinuccia da principio non era contenta di essere guarita, forse si sentiva più impotente di prima, materialmente più inutile, spiritualmente più povera. Però poi si è resa conto che la Sua volontà è imperscrutabile, perchè una nuova sofferenza era iniziata per lei, meno evidente ma più intima; una sofferenza contro la quale l'uomo non può proprio nulla, perchè è la sofferenza dell'umanità stessa. Ed ecco che per Pinuccia è iniziato il secondo calvario ed è talmente disponibile, pronta alla chiamata che ha accettato. Il suo non essere contenta è diventata gioia, serenità e amore. Ci vuole più sforzo, costa più fatica tenersi attaccati a Lui ora; prima era un vivere già quasi completamente nelle Sue braccia, le labbra non avevano bisogno di mormorare, il suo dolore offerto era già preghiera; quel male terribile quasi la metteva in una condizione privilegiata; le cose del mondo non la interessavano, né la toccavano più, di umano in lei c'era solo il corpo dolorante. Ora è veramente tornata fra gli uomini, le preoccupazioni, le tentazioni umane l'hanno riafferrata, ha bisogno quasi di pregare forte per credere che sta pregando, ha bisogno di un maggiore sforzo per unirsi intimamente a Lui.
Ma questa è stata la Sua Volontà. Prima Pinuccia per gli uomini era un caso. Ora è il miracolo.
Dio in lei si è manifestato in tutta la sua potenza, in tutta la sua forza. Gli uomini hanno bisogno come S. Tommaso, di mettere a volte il dito nella piaga per credere e Dio è così buono che ce lo permette.
No, Pinuccia non puoi essere che contenta, tanto contenta che Dio si sia servito di te in questo modo, per te nulla è cambiato, perchè sei pronta ad offrire tutto, ma per noi che prima a fatica scorgevamo Dio attraverso te, ora lo vediamo in tutta la Sua Bontà, in tutto il Suo Amore e in tutto il Suo Mistero.


T. R.

La fame nel mondo

La lunga dominazione coloniale che l'Europa ha esercitato sui paesi d'Asia e d'Africa è la causa principale di una certa mentalità di superiorità razziale che, più o meno inconsciamente, la gran parte dei bianchi hanno contratto. Il grado inferiore di progresso economico-tecnico a cui sono rimasti i popoli sotto-sviluppati viene a volte attribuito ad una loro generica inferiorità rispetto a noi, di carattere razziale: «Sono poveri, affamati, analfabeti - si dice o si pensa - semplicemente perché non hanno le nostre qualità d'intelligenza, di volontà, le nostre capacità lavorative... Sono razze inferiori che forse mai riusciranno a portarsi al nostro livello di progresso materiale e civile».
Il razzismo dei bianchi verso gli altri popoli è causato praticamente da questo sottofondo mentale, che in alcuni casi può spingere ad un vero razzismo attivo (come in Sud Africa o in alcuni Stati degli U.S.A.), ma che generalmente, pur non portando ad atti contro la morale, è fortemente radicato nella mentalità dell'uomo comune e ne condiziona i giudizi rispetto alle altre popolazioni.
Ora, le pretese «inferiorità razziali» non sono altro che «diversità culturali» e «diversità di condizioni di vita». Cioè, da una parte il diverso atteggiamento mentale di fronte al fatto tecnico, di cui parleremo più avanti, e dall'altra un effettivo minor sviluppo fisico ed intellettuale, frutto però non di inferiorità razziale congenita, ma di sotto-nutrizione e di miseria (malattie, alloggi malsani, analfabetismo, ecc.).
Per molto tempo, ad esempio, si è creduto ed affermato, anche da parte di studiosi, che giapponesi e cinesi fossero costituzionalmente più piccoli degli europei. Poi si è visto che la statura dipende in gran parte dal!'alimentazione: i più ricchi, che potevano mangiare con abbondanza, erano più alti della maggioranza della popolazione ed in Giappone, col crescere del livello di vita e col migliorare dell'alimentazione, anche la statura media è cresciuta. Dal 1936 al 1958, la statura media dei giovani visitati alla leva militare in Giappone è cresciuta da un metro e 57 ad 1,63. Il fenomeno si riscontra anche in Italia, sia nella differenza di statura fra italiani del nord ed italiani del sud, sia all'aumento generale di statura registrato nell'ultimo decennio, dovuto alla più abbondante e più varia alimentazione.
Quello che vale per le caratteristiche fisiche, è vero anche per quelle intellettuali e psicologiche. «Nessuna calamità - scrive il De Castro nel suo "Geografia della Fame" - è capace di degradare così profondamente ed in un modo così nocivo la personalità umana come la fame». Studenti africani che nel loro paese, con un'alimentazione insufficiente ed abitazioni malsane, erano svogliati e sembravano di poche capacità, portati in Europa hanno rivelato di poter riuscire negli studi come ed a volte anche meglio dei loro coetanei europei. Il motivo di questo cambiamento non è altro che una adeguata alimentazione ed in genere un livello di vita più umano, che permette l'applicazione intellettuale.
Quanti aspetti della vita individuale e sociale dei popoli sottosviluppati si spiegano con la fame e la miseria! L'instabilità democratica, l'incapacità di applicazione a lavori metodici, il fatalismo e l'atteggiamento passivo di fronte alla vita, le subitanee rivolte ed i furori di intere popolazioni, sono tutti fatti che non dipendono da inferiorità razziali, ma dalla degradazione che certe popolazioni hanno subito attraverso secoli di miseria e di fame.
Diciamo dunque che la fame non è causata da inferiorità razziali di qualsiasi genere, ma piuttosto è la fame stessa che rende gran parte dell'umanità incapace di elevarsi dalle miserevoli condizioni in cui vive.
Da «La fame nel mondo» di Pietro Gheddo - Ed. P.I.M.E.


Esperienze liturgiche

lettera aperta al mio vescovo

Eccellenza,
ho partecipato, mescolato fra la gente, alla S. Messa che lei ha celebrato seguendo le nuove norme liturgiche, l'altra sera in una chiesa della mia città.
Era la mia prima esperienza delle innovazioni che la Costituzione Conciliare sulla Liturgia ha apportato in tutto quello che riguarda la celebrazione della S. Messa. Ho cercato quindi di porre tutta una particolare attenzione non soltanto, evidentemente, alla S. Messa, ma specialmente alla nuova sistemazione liturgica dalla quale dovrà nascere una più profonda e totale partecipazione del popolo: è questa partecipazione, che vuole ottenere una vera e propria unione fino a realizzare la comunità dei figli di Dio, fatti una cosa sola con Gesù, e quindi fra loro, che ho cercato di vivere e anche di osservare se veniva sentita e vissuta dalla gente intorno a me.
Quindi più che altro, a cuore aperto e con vivissimo desiderio, ho cercato quanto la nuova liturgia realizzasse un clima di unione, di partecipazione fra i celebranti il rito e il popolo, quanto di avvicinamento e di attiva unificazione ottenesse fra il popolo, superando tutto ciò che può essere motivo di lontananza, occasione di separazione, di distacco.
Mi perdoni se le dico con franchezza che mi sono venute in mente le parole di Gesù del pezzo di stoffa nuova su un vestito vecchio.
Perchè il vestito, per diversi motivi, è rimasto troppo quello vecchio perchè le innovazioni possano averlo interamente rifatto.
Mi dava noia la chiesa piena di lampadari sfolgoranti e più ancora lo sfolgorio di luce lassù, dove si svolgeva l'azione liturgica.
Tutti quei cerimonieri che andavano e venivano, continuando a fare tutte quelle cose inutili che hanno sempre fatto.
Tutto quel muoversi dà tanto l'impressione di un'impostazione scenica e diventa inevitabile, per il povero popolo che guarda, la sensazione dello stare ad assistere.
E mi veniva la voglia - lo so che sto dicendo delle grosse sciocchezze, ma so che il mio Vescovo sa compatirmi - mi veniva la voglia di vedere meno tuniche bianche e cotte e trine e paramenti sia pure di stile antico, e più assai semplici abiti di laici, come quelli che porta la gente che sta partecipando.
Guardavo lei che celebrava e mi era di gran pena non vedere il mio Vescovo - la prima volta che partecipavo alla celebrazione della nuova liturgia - come un semplice sacerdote per dare risalto più che era possibile alla nuova e più attiva presenza del popolo.
Mi veniva da contare tutte le volte che le mettevano, Eccellenza, e le toglievano la mitra e che le porgevano o le riprèndevano il pastorale,
All'«Omelia» tutto l'insieme conferiva particolare autorità e solennità alle sue parole, ma io avrei preferito un dolce, affettuoso discorrere del padre con i suoi figli: a cuore a cuore, come si parla intorno alla tavola di una famiglia riunita.
Mi perdoni, ma io devo essere sempre sincero e specialmente col mio Vescovo: l'altra domenica ho sentito ancora la liturgia come uno spettacolo, sicuramente meglio congegnato e più dialogato, ma sempre però uno spettacolo. E vedevo la gente intorno a me che assisteva ad uno spettacolo: è vero, non era sicuramente gente preparata alla nuova liturgia (e probabilmente nemmeno a quella vecchia), ma non posso non pensare che la liturgia dovrebbe essere capace di avvincere e convincere ad un contatto con Dio anche chi non ha altra preparazione che quella di essere una povera esistenza bisognosa di Dio. E' per questo che non riesco più ad accettare e a sopportare tutto ciò che nella liturgia mi sa di spettacolo.
Ho tanto sperato che la nuova liturgia si fosse liberata da tutto ciò che è spettacolare - o almeno più che era possibile: per questo l'altra sera è stata tanta, tanta sofferenza, per niente mitigata dalle lodevoli novità apportate, compresa quella dell'uso della lingua italiana.
E a questo punto, Eccellenza, mi permetta di ricordarle, sempre a cuore aperto e con serena confidenza come quando un figlio ricorda a suo padre un bellissimo giorno di gioia vissuto insieme, mi permetta di ricordarle una altra Messa che lei celebrò anni fa.

Era la vigilia di Natale e io le avevo chiesto se le era possibile venire a celebrare la S. Messa in un grande cantiere navale della città.
Erano nemmeno due mesi che io avevo cessato di essere prete operaio, ma ancora i miei rapporti con gli operai erano vivissimi, rapporti di profonda amicizia.
Lei da non molto tempo era stato consacrato Vescovo e non era molto che era venuto nella mia diocesi.
La sua venuta in cantiere fu una gran gioia per me e per gli operai, nonostante le loro non eccessive tenerezze per il clero. E ricordo che lei accettò con entusiasmo: era la sua prima esperienza diretta col grosso mondo operaio, come Vescovo.
Ricordo che io, con molta semplicità, le chiesi che era conveniente lasciar andare quelle cerimonie proprie del cerimoniale della celebrazione della Messa del Vescovo, «perchè, le dicevo, se lei si lava tre o quattro volte le mani, gli operai, quasi sicuramente, commenteranno: hai visto quante volte si lava le mani, lui che le ha sempre pulite perchè non fa nulla». E lei sorridendo disse che era ben felice di celebrare la S. Messa come un semplice prete.
Di lato ad un largo spazio, sgombrato dalle lamiere, dai ferri e dal macchinario, della grande officina navale - un immenso capannone nero di fuliggine e strabocchevole di attrezzature - avevo costruito l'altare: una spessa lamiera di ferro che poi sarebbe andata a finire nella fiancata di una nave.
Naturalmente l'altare era rivolto verso il centro per consentire la celebrazione della Messa «allo scoperto».
Suona la sirena e gli operai cominciano ad affollarsi. Saranno stati circa 400. Venivano dal lavoro, sporchi, le facce ispide, le tute sdrucite, stanchi, eppure mi sembrarono tanto felici di avere il Vescovo sotto il loro capannone, dentro il loro lavoro, a celebrare la Messa.
Li invitai a venire molto avanti, a stringersi intorno all'altare e lei li aveva lì, attenti e in un silenzio impressionante, sotto gli occhi, appena al di là dell'altare. Una folla di operai, una realtà di vita umana, un immenso problema di sofferenza e di fatica, un'esistenza bisognosa di tutto e quindi specialmente di Gesù, cioè di redenzione, di liberazione, di salvezza. Una richiesta, un'esigenza, un diritto all'Incarnazione, Passione e Morte e Resurrezione da offrirsi subito, da attuarsi immediatamente.
E cominciò la Messa. Gliela servivano due di loro e ricordo quelle mani nere, pesanti, sulla tovaglia bianca dell'altare e le risposte biascicate che io cercavo di aiutare e sostenere.
Vedevo bene che lei dal più profondo stava provando un'impressione enorme, come di un Mistero infinito, come di una realtà suprema.
Letto il Vangelo, mi accennò se era il caso che dicesse qualcosa e io le dissi che sarebbe stata sicuramente una felicità per tutti.
E lei alzò gli occhi su quella massa di operai e dopo alcuni istanti, disse: vi prego di credere a quello che vi dico, è la pura verità, questo è il mio primo vero Natale che celebro da quando sono al mondo.... è continuò a lungo a parlare così. Non cercai di nascondere le lacrime di profonda commozione, anche perchè vedevo occhi lucidi dovunque e qualcuno che si asciugava gli occhi col dorso della manica.
Io avevo letto in italiano l'epistola e il Vangelo e ricordai al Memento tutti gli operai del mondo, specialmente quelli più oppressi dalla pesantezza del lavoro e dall'ingiustizia degli uomini. E poi gli operai morti sul lavoro e i morti che non li ricorda nessuno. E poi silenzio chiaro, sereno, profondo, immenso. L'Ostia consacrata, Gesù, in alto, sotto la volta nera del capannone, il Calice del Suo Sangue, levato in alto come unica speranza.
Nessuno fece la Comunione di quella massa di operai, ma io non ne soffrii per niente perchè la Comunione l'aveva fatta il Vescovo e nel suo cuore ero certissimo che Gesù vi aveva trovato tutti quelli operai e ogni loro problema e tutta la loro esistenza umana così bisognosa di Dio.
E ero felice, infinitamente felice che gli operai si fossero incontrati con Gesù nel cuore del loro Vescovo cioè nel cuore della Chiesa.
Ecco, fu una stupenda liturgia quel giorno, un Mistero di Natale vissuto meravigliosamente, una Messa accolta e partecipata da una realtà d'esistenza.
E se ricordo, Eccellenza, anche lei uscì dal cantiere con in mano un panettone, uno dì quelli distribuiti dalla Direzione e che gli operai portavano a casa per il Natale dei loro bambini.



don Sirio

Pierre Lyonnet S.J.

I testimoni della Chiesa dei poveri

di lui hanno detto gli amici: «Egli non amava le particolarità e non riservava nulla per se, ma si donava sempre a tutti». Questo uomo, che si vedeva camminare quasi sempre curvo a causa dei suoi tremendi mali di stomaco: o che seduto, con le braccia conserte si comprimeva lo stomaco, che sul letto di morte confesserà di «non aver vissuto, in dieci anni, un ora sola senza sentire atroci dolori», era ancora capace, alla fine di una giornata e in una estrema prostrazione fisica, di giocare ai maestri o alla bambola, con dei bambini, di dedicarsi interamente agli amici.
Del resto, egli frequentava quasi sempre soltanto povera gente, coloro che non avevano nulla o che non si stupivano di nulla. Erano i poveri i suoi veri amici. Erano sempre sulla sua bocca.
Così, quando egli si accingeva a predicare, tutti sapevano che avrebbe parlato dei Poveri. La terribile notte che precedette la sua morte, agitato ed immerso in un bagno di sudore, pur privo di forze, ad un certo punto si voltò bruscamente verso coloro che lo assistevano dicendo: «su, facciamo cinque minuti di ricreazione... parliamo un po' dei Poveri». Era solo questo che poteva farlo riposare: parlare dei poveri, essere in mezzo ai poveri, fra tutti coloro che si trovavano nel bisogno: o perchè privi di cibo o di riscaldamento, o perchè ammalati, o perchè abbandonati da tutti, o perchè disperati.
Era facile essergli amico. Bastava non avere un cuore chiuso. Ecco la ragione della sua predilezione per i fanciulli, per i poveri, per gli ammalati, i fidanzati, le famiglie dove ci si amava... per tutto ciò che era aperto o che si apriva all'amicizia, per tutto ciò che ricordava la povertà o qualcosa di non soddisfatto.
Era spietato, invece, con la durezza di cuore e con tutto quanto dimostrava ostinazione, indifferenza, sclerosi, impermeabilità. Allora le sue collere erano terribili.
Qualche volta l'amore esplodeva in Lui. Bisognava averlo udito tuonare (il termine non è eccessivo) contro l'ingiustizia, l'egoismo, il denaro. Chi della carità ha un concetto limitato da reticenze o da compromessi, e non sa che anche l'amore è collera, ne era scandalizzato. Veniva scandita allora l'imprecazione: «Guai a voi» indefinitivamente ripetuta dal discorso della montagna, o l'imprecazione di Gesù «Guai a voi, o ricchi»...
Aveva una spaventosa avversione al denaro, per esso concepiva una specie di odio: egli capiva che il denaro è il grande ostacolo dell'Amore, il grande artefice dell'insensibilità, dell'indurimento dei cuori.
Tanta era l'angoscia che gli causava il pensiero del denaro - sempre ingiusto quando viene accumulato, perchè è un insulto alla miseria e perchè rende impossibile la fraternità a causa delle differenze che provoca fra gli uomini - da esclamare qualche ora prima di morire «due ostacoli impediscono il riavvicinamento delle classi: il denaro e la durezza di cuore, ciò mi fa morire... mi fa morire...».
Moriva veramente sfiancato da tante corse, nonostante il male che dentro lo rodeva, dai tanti colpi che aveva battuto alle porte in cerca di denaro per chi non ne aveva.
Sì, fu in quel momento veramente che trovò la sua fisionomia definitiva, il suo volto di indigente, di errante, di affamato. Fu proprio allora che compì la sua vocazione di piccolo povero dell'amore di Gesù e dei suoi fratelli.
Non doveva cadere in altro modo: avvenne la sera del mercoledì 19 Gennaio a Lhorme, dopo aver bussato a un ultima porta: nel gesto del mendicante.
Aveva 43 anni. «Egli possedeva l'immaginazione di chi sa amare, l'immaginazione della sua passione per Gesù Cristo»: così siglano la sua vita, gli amici.


d. R. M.

Il ricco e il povero

Un giorno venne al mondo un bambino povero: sua madre si chiamava Maria, discendente da nobile famiglia decaduta. Maria, il giorno in cui doveva partorire, si trovava in viaggio. Si chiusero loro in faccia tutte le porte; per loro non c'era posto da nessuna parte...
Davano fastidio: "Figurarsi, tutti hanno già trovato da sistemarsi. Avrebbero dovuto prevederlo, no? E poi avrebbero dovuto pensare a fare qualche economia! Del resto che cosa potremmo fare? Non pretenderanno che per loro abbandoniamo il nostro appartamento e andiamo a coricarci sulla paglia! Siamo nel nostro diritto, siamo persone oneste e tutto ciò che abbiamo è stato guadagnato onestamente! Del resto, essi troveranno certamente posto da qualcuno. In questo momento, anche noi abbiamo le nostre difficoltà... prima dobbiamo pensare a noi...".
Così mentre le porte si chiudevano, e anche i cuori, per un attimo semiaperti, si serravano nella loro durezza iniziale, e tutto rientrava nell'ordine, pure per ordine - per ordine divino - il Figlio di Dio si coricava sulla paglia e nasceva in una stalla.
In quel giorno, il Figlio di Dio fece la sua prima esperienza umana del cuore del ricco. In quel giorno, assunse definitivamente la parte del povero entrando egli stesso nelle file dei poveri; quel giorno incominciò la maledizione dei ricchi.
Essi avevano scacciato Gesù Cristo, questo strano fanciullo che discende solo tra i poveri. E la maledizione continua...
Gesù Cristo vive nei suoi poveri e agonizza tutti i giorni, e muore nei suoi poveri... mentre i ricchi organizzano le loro feste e trovano tutto questo molto naturale. Essi fanno provviste, mangiano, bevono, si vestono e arredano la casa e a caro prezzo si divertono spendendo patrimoni; ballano e si mascherano perfino da sembrar poveri per divertirsi!
Ma nel giorno del giudizio, quando ogni uomo si troverà davanti a Dio con il solo bene e il male fatto, verrà chiesto se, nel corso della vita, si è servito Dio nei suoi poveri, nei suoi infelici.
«Fra di loro ci fu una discussione per sapere chi doveva essere considerato il più grande. Egli rispose loro: Fra i pagani, i re fanno sentire il loro imperio, e coloro che detengono il potere si fanno chiamare benefattori. Ma fra voi non sia mai così il più grande deve essere come il più piccino, e il capo come colui che serve. Infatti chi è il più grande? Chi si trova a tavola o colui che serve? Non è chi si trova a tavola? Ebbene, io, fra voi, sono come un domestico».
Quindi, il ricco non pretenda di essere il discepolo di Colui che, la vigilia della passione, cingendosi di un asciugatoio, lavò i piedi ai suoi apostoli e disse loro che nella sua Chiesa questo deve essere l'atteggiamento di colui al quale è conferita «l'autorità».
«Voi mi chiamate Signore e Maestro, e lo sono, in realtà. Ma ecco che io sono tra voi come un servitore».
Bisogna che il più capace sia il più povero; l'autorità non da diritto a nulla, se non a servire due volte.
Ma ciò che è più grave, è che l'amore per il denaro rischia di diventare una malattia incurabile: il ricco è sordo, muto e cieco. Mentre è ricco, tutto è in ordine; è il disordine, infatti, che lo rende povero. Ma quando si crede leso, il ricco protesta in nome della giustizia.
Sistemando se stesso, il ricco tradisce i suoi fratelli: rinuncia a camminare insieme con gli altri, all'aiuto vicendevole. Il ricco non può osservare il mondo con occhi fraterni... Il Cristo è venuto a salvare i poveri dalle mani del ricco. Il ricco porta dovunque la divisione: attraverso la miseria e l'invidia..., soprattutto introducendo a poco a poco nel mondo l'ossessione del denaro; a causa sua, il denaro diventa la misura dell'uomo!
Egli si crede autorizzato a scialacquare denaro: non riesce a concepire di averlo ricevuto in delega, perchè solo Dio ne è il proprietario.
In ciascuno di noi c'è un ricco insaziabile ed egoista, dal cuore duro, che va ridotto all'impotenza: conosciamo benissimo tutta la violenza dei suoi desideri.
E' per questo che la Chiesa deve continuare a gridare l'anatema contro il ricco.
Essa deve predicare a tutti la povertà, al ricco come al povero...
Il ricco ambisce un ordine mondano che cristallizzi la sua preminenza; gli verrebbe perfino voglia di dire che. come fra gli angeli esistono le gerarchie, così devono esserci, su questa terra, i ricchi e i proletari; egli, nel suo intimo, è persuaso che la religione è fatta per ispirare il rispetto per la proprietà a coloro che non posseggono nulla.
Il ricco ha il terrore di essere privato dei suoi beni; perciò, in vista della difesa del suo denaro, non considera inutile di poter contare sulla religione e riesce a servirsi di tutto il repertorio virtuoso: «i valori spirituali», eccetera.
Ancora al ricco vanno attribuite le trovate dei compromessi sistematici fra politica e religione, «queste due forze della conservazione».
Ma non illudiamoci, questo ossequio interessato del ricco verso la Chiesa dura solo fino alla prima occasione in cui essa lo contraddirà o lo biasimerà. Basta che si verifichi qualche scontro e vedrete come il ricco parlerà subito di «tagliare i viveri» al clero o ai vescovi. e lo fa, in realtà, molte volte: «Perchè essi non sono più delle nostre idee», si giustificano.
Non c'è nulla di più terribile dell'anticlericalismo del ricco benpensante. Nessuno dovrebbe secondo la mentalità del ricco, resistere al suo dominio, nemmeno Gesù Cristo.
Dicevo: il ricco si crede naturalmente cristiano perchè è ricco. Infatti, almeno a una certa età, si ama l'ordine, si desidera essere in regola con la propria anima. Il ricco va alla Messa la domenica, e ogni tanto, compie qualche gesto generoso; forse farà celebrare delle messe... perchè non è raro il caso che una certa inquietudine lo prenda al ricordo del suo passato: egli diventa pio per compensazione. Assume una condotta più regolata.
Ma non è Dio che gli parla, perchè Dio parla al cuore dell'uomo e il ricco ha il cuore sbarrato. Dio non è un uomo d'affari; Dio non si compera, ma il ricco non se ne accorge; la peggiore maledizione che pende sul suo capo, è che si crede salvo, si crede fedele.
Il ricco ha invaso le navate delle chiese di Francia, dove il povero è tollerato solo in certe ore e a certe condizioni; ha accaparrato la cultura e, qualche volta, perfino i preti.
E è facile con questa mentalità, finire per credere che Dio è onorato di avere dei fedeli così distinti... che non tocchi a Lui di ringraziare?... ma Dio non ha che la sua grazia da offrire e questa nel ricco non si vede.
Il ricco si crede generoso ma non è mai accaduto che una sua donazione gli abbia fatto correre il rischio della povertà. La sua larghezza non lo ha mai privato di nulla; ha semplicemente accresciuto la sua vanità e la sua falsa sicurezza. Se almeno riuscisse a capire che quanto elargisce non è che una debole e parziale restituzione di ciò che ha tolto ai poveri di Gesù Cristo!
I ricchi fanno pensare a coloro che si sono imbarcati per primi su una nave carica.... hanno una paura tremenda che anche i poveri riescano a salire.
Vincenzo dei Paoli è corso in aiuto dei più bisognosi: la gente moriva di fame ed egli l'ha nutrita. Ma adesso, bisogna avere il coraggio di dirlo, la carità che copiasse quella di Vincenzo dei Paoli potrebbe nascondere la più sottile ipocrisia e tradirne lo spirito: la miseria oggi non ha più lo stesso volto. Possono anche esistere condizioni di vita meno insufficienti; ma si può soffrire di più perchè si scoprono meglio le proprie aspirazioni profonde, insoddisfatte.
E' nata l'idea di giustizia sociale: sindacati, assicurazioni, giusto salario... non basta più donare in modo paternalistico, parziale, sotto forma di opere buone, ciò che ai lavoratori spetta per giustizia. Per questo bisogna accettare di diventar poveri, accettare l'idea di uguaglianza, fondamentale per l'uomo. Se non si arriva a questo il problema operaio non sarà mai risolto.
Nessun diritto di proprietà giustifica certe discriminazioni, certe ineguaglianze scandalose, provocate spesso da disonestà iniziali.
Un cristiano non può ammettere certe differenze di alloggio e di nutrizione, lo sfruttamento dei ragazzi, dei lavoratori, degli anziani e lo sfruttamento della donna....
Ciò che è più offensivo per i poveri è il disprezzo ostentato dal ricco, la disistima, il suo atteggiamento di superiorità, come se il ricco fosse di un essenza superiore.
Esteriormente il povero si trova in condizioni difficili. Prima di tutto egli non sa difendersi perchè non è colto, non è fine, non comprende nulla... i suoi difetti sono grossolani come il suo vestito e il suo modo di esprimersi. Non conosce la riconoscenza.... non sa fare economie, più gli si dà meno lavora....
Supponiamo che tutto ciò sia vero.
E' il caso di meravigliarsi che ciò si verifichi nei figli di coloro che a causa di una intollerabile avidità per il denaro, sono stati talmente sfruttati, ai bei tempi del liberalismo, da non aver avuto più il tempo, non dico di essere cristiani ma di essere uomini?
Il ricco disprezza il povero solo perchè gli rimprovera di non possedere più ciò che egli ha tolto. E' il caso di disprezzare il ladro o il derubato? Il ricco ha tolto al povero il benessere, la proprietà, la cultura, la religione.
Gli ha rubato Dio.
(«Gli scritti spirituali» di P. LYONNET pag. 291-298)
Ed. Borla Torino


Perché sono obiettore di coscienza

Nel numero precedente abbiamo pubblicato tre lettere di Giuseppe Gozzini Siamo lieti di poter offrire ai nostri amici questa dichiarazione sull' obiezione di coscienza, nella quale Giuseppe Gozzini esprime la chiarezza delle sue convinzioni e offre la ricchezza meravigliosa della sua povertà cristiana.
La Redazione

Il giorno 12 Novembre ho rifiutato di indossare la divisa militare perchè il servizio militare contrasta con la mia coscienza di cattolico. Sono convinto poi che nell'esercito tradirei non solo la mia risposta personale al Cristo e la mia vocazione nella Chiesa, ma anche il mio impegno di uomo nella Società ed il mio dovere di cittadino di fronte allo Stato.
A non pochi un contrasto così palese in me, tra la fedeltà allo Stato ed una viva presenza nella Chiesa risulterà inconcepibile, anche perchè finora il rifiuto di servire la patria in armi è stato prerogativa dei Testimoni di Geova (un centinaio dal 1946 ad oggi), coi quali mi trovo a condividere le sofferenze, pur non abbracciandone la fede e gli ideali.
D'altra parte la qualifica di obiettore di coscienza è troppo generica per gettare un po' di luce sulla mia posizione, pur essendo chiaro (almeno per me) che l'obiezione di coscienza non si limita al servizio militare: ogni volta che un uomo rifiuta di divenire complice di una situazione ingiusta, di eseguire comandi e compiere azioni contrarie ai suoi principi, si ha obiezione di coscienza.
Vi sono varie forme di coscienza e «molte sono le mansioni nella casa del Padre», che chiama chi vuole e dove vuole. La mia obiezione di coscienza presuppone tutta una concezione dell'uomo, figlio di Dio e dei rapporti tra gli uomini, tutti fratelli in Cristo, come traspare dalla rivelazione cristiana, di cui vorrei essere umile testimone. Ma presuppone anche una vocazione personalissima, maturata in me durante lunghi anni, a vivere il più integralmente possibile quella non violenza evangelica fondata sulla legge nuova che mi comanda di «amare il prossimo come me stesso» e che si realizza, come stile di azione e di presenza, nella resistenza attiva al male con la forza dell'amore, nel rifiuto della «violenza connaturale all'uomo», come se la natura non potesse essere redenta dalla Grazia.
La Chiesa mi insegna che il Vangelo non è un sistema di tipo teorico, un codice morale, ma è la Parola rivelata e il Cristo non è un personaggio storico o un grande filosofo, ma la Verità fatta carne. Quindi l'annuncio di «pace agli uomini di buona volontà» che parte dalla capanna di Betlemme e finisce sulla Croce come perdono universale e riconciliazione fra Dio e gli uomini, non è un insegnamento morale, ma una verità che il cristiano deve «incarnare» nella sua vita come membro di quel Corpo di Cristo che è la Chiesa.
Di fronte alla pace gaudente dei militaristi di tutte le razze, per me cattolico la pace porta il segno dei chiodi ed è il bene per cui devo soffrire di più sulla terra: si tratta per me di amare sempre il prossimo anche quando è il nemico militare o l'avversario politico, anche quando ha la pelle di colore diverso o appartiene ad un'altra classe sociale ecc., perchè il resto «lo sanno fare anche i pagani». Di fronte alle scelte temporali, nel giuoco dei rapporti di forza, quando - come oggi - non è più necessario volere la guerra per farla ed è messo in pericolo il destino stesso dell'uomo, c'è il rischio che la mia «obiezione di coscienza» di fronte al servizio militare risulti anzitutto un sacrificio egoistico, come un «salvarsi la propria anima» ed appaia inoltre agli occhi degli amici {anche i più vicini) come puro profetismo, pacifismo astratto, aristocratico individualismo o peggio. Invece, quanto al mettere in pace la mia coscienza, devo dire che mai come in questi giorni la mia coscienza è un vulcano, perchè capisco benissimo che rifiutare il male implicito per me nel servizio militare, non è ipso facto fare la pace. L'assenza o la quiete delle armi non è ancora la pace che deve essere un impegno di ogni uomo e deve essere costruita insieme giorno per giorno almeno con gli stessi sacrifici di mezzi e di ingegno, di sudore e di sangue impiegati per la guerra. Per me il male non è la guerra. Semmai è un male presente anche in quello che per eufemismo chiamiamo «tempo di pace», perchè mette le sue radici in altri mali: l'ingiustizia, la fame, lo sfruttamento, l'ignoranza, la malattia ecc.; di fronte ai quali vorrei esercitare molto più positivamente la mia «obiezione di coscienza». Inutile quindi aggiungere che sarei disposto a servire la patria in un servizio civile alternativo che mi offra questa possibilità.
Sembreranno le mie giustificazioni troppo altisonanti di fronte ad un atto come il rifiuto del servizio militare che, pur essendo così carico di sanzioni giuridiche, tuttavia, così poco incide socialmente sulla realtà degli uomini. Ma il problema per me, non è quello, banale in fondo, il portare o no la divisa militare, ma quello di agire nel presente hic et nunc per sbarrare il cammino alla violenza, istituzionalizzata.
Se fosse sufficiente affermare il «Tu non uccidere», fare il servizio militare, ma non voglio «lasciare uccidere», non voglio che la violenza trionfi nelle varie forme con cui l'uomo, immagine di Dio, è calpestato. Questa decisione non mi isola dall'impegno nella storia degli uomini e dal rischio comune nella realtà di tutti, non è senza incidenza nella vita sociale di fronte alle esigenze del bene comune, perchè - mentre mi appello ai valori umani distrutti da ogni struttura militare, chiedo la libertà di realizzarli, di renderli vivi, di attuarli nella mia esistenza concreta, nei rapporti tra gli uomini, nelle istituzioni della vita civile. So bene che nella situazione storica attuale la pace e la guerra non dipendono solo da me, e nemmeno dalle singole nazioni, forse neppure dai blocchi militari contrapposti. Ma appunto per questo la pace nella giustizia, non la pace armata, la riconciliazione universale degli uomini con Dio e tra di loro deve essere oggi l'impegno di ogni individuo, dei singoli stati, di tutte le alleanze internazionali.
L'assurdo storico-politico cui siam giunti è che gli stati non possono più farsi la guerra, ma il mondo può essere distrutto con una scelta che sfugge al giudizio ed alla volontà dell'uomo. Per riprendere in mano il proprio destino, per costituire la pace, fino ad oggi, nessuno stato ha mai speso materialmente nulla e nessuno individuo (salvo luminose eccezioni) ha messo sul piatto la propria vita.
A questo punto salta fuori il rospo: «Tu parli bene, però vai a sbattere la testa contro l'implacabilità della legge italiana che ti condanna fino a quarantacinque anni e finisci per trovarti in una situazione-limite, in un vicolo chiuso, finisci per non essere utile né a te stesso né agli altri». Ma le leggi sono onera degli uomini e per cambiarle, basta volerlo in tanti, bisogna porre continuamente sul tappeto il problema del riconoscimento giuridico dell'obiezione di coscienza senza stancarsi e sopratutto inquadrandolo in una vasta rivoluzione della vita civile.
.... Certo noi tutti «obiettori», resistiamo fin a quando abbiamo fiato e fin quando ce lo concedono le autorità militari. Ma al di là di questo scottante e terribile «impasse» (che non è certo risolto per me, perchè evidentemente non si decide una volta per tutte), vorrei concludere queste mie parole (che vorrebbero essere soprattutto un segno di amicizia per amici e nemici) con un passo della esortazione di Papa Giovanni XXIII proprio negli ultimi giorni della vigilia conciliare:
«Siate uomini pacifici, siate costruttori di pace. Non attardatevi sui fatui giuochi di polemica amara ed ingiusta, di avversioni preconcette e definitive, di rigide catalogazioni di uomini e di eventi. Siate sempre disponibili per i grandi disegni della Provvidenza. La Chiesa questo e non altro vuole con il suo Concilio».
Con la Chiesa prego ed attendo dal Concilio che sia anche riaffermato il primato della coscienza per tutti gli umilissimi e, spesso, indegni «costruttori di pace», come me, e difesa la libertà di coscienza come fondamento della stessa fede.
Carcere Militare Giudiziario Firenze, 17.12.62


Giuseppe Gozzini

(citazione)

IL DENARO
«Vi supplico, non amate mai il denaro: abbiatene orrore, come se si trattasse del male stesso; è l'artefice della menzogna e della morte. Chi lo cerca, immagina di volare verso la sicurezza o la potenza, e invece, calpestando i cadaveri di chi ha ucciso con il proprio egoismo, precipita nell'indigenza e nell'isolamento, e morirà nella solitudine; perchè per lui non esiste più l'Amore: ne da offrire né da accettare».
«Il denaro insinua che amare significa divertirsi.... che squallido amore quello dei ricchi, che triste amore quello di coloro che non possono stare insieme se non hanno il denaro; questo denaro che a poco a poco altera ogni valore, deforma ed imbratta i volti una volta limpidi e puri, distrugge pure il vigore dello slancio, questo denaro non può accedere alla culla dell'amore».
P. Lyonnet


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