Problemi fra i preti

Cari amici,
gli incontri di quest'anno, conclusi ad Arliano, hanno permesso di conoscerci meglio ed hanno maturato la proposta concreta di ritiri mensili per piccoli gruppi di sacerdoti. Una proposta volontaristica certo, ma che richiama immediatamente un contenuto abbastanza delineato per esperienza comune di preghiera, amicizia e lavoro: un tentativo per aiutarci a ritrovare noi stessi in un sacerdozio autentico, vera incarnazione dei valori della morte e risurrezione di Cristo.
Per quanto mi riguarda, desidero continuare a condividere una ricerca che spero comune e quindi capace di trovare cuori disposti a rischiare una stabilità, fosse pure acquistata a caro prezzo, per inoltrarci nelle Sue vie che sono sempre così diverse dalle nostre.
Una serie di incontri, di situazioni...: sto chiedendomi spesso, in questi giorni: come mai non sono povero?
Come mai non sono povero?
E la domanda non può lasciarmi indifferente perché inevitabilmente me la ritrovo dinanzi, spietata esigenza di un'Amicizia sincera. Posso lottare con me stesso per accogliere nel mio cuore le contraddizioni della vita, sapendo che sarò consolato; posso accettare di essere scavato fino a misure di fede infinita, sapendo che possiederò la terra; posso lasciarmi accecare dall'amore, sapendo che vedrò Dio; ... ma se non sono povero, il Regno non mi appartiene.
E la domanda non può lasciarmi indifferente perché se non sono Regno di Dio a nient'altro son buono che ad essere gettato nel fuoco, albero senza frutto, sarmento separato dalla vite, lievito invecchiato e inacidito.
Come mai non sono povero? Non lo sono perché non ho il senso dell'attesa, ma l'istinto e la prepotenza di chi vuol incidere il suo solco nella vita, a fondo e subito. "Il Regno dei cieli, infatti, è simile ad un padrone di casa che, di buon mattino, uscì a prendere a giornata dei lavoratori per la sua vigna" (Mt. XX, 1-16). Beati quelli della prima ora, fonte di speranza per chi ha ancora davanti a sé lunghe ore di attesa. Beati loro, semplice ma limpida manifestazione del Regno, nostra Gioia e Consolazione. Ma beati anche coloro che rimangono fedeli all'attesa, incuranti del sole che brucia ogni energia, del disprezzo di coloro che son sempre sulla sponda buona, del senso di meschinità e di impotenza che stringe il cuore perché manca il lavoro e sembra soffocare ogni scintilla d'umanità. Beati questi poveri, piaghe aperte in attesa di una Misura colma e traboccante! Perché, in fondo, la paga del padrone non manca di una sua logica: Egli sa troppo bene che è il solo a poter trar frutto dalla sua vigna, e ciò che ama negli operai non è tanto il lavoro quanto il rendersi disponibili ed accettare, non un contratto di lavoro, ma un rapporto d'Amore.
E' triste che proprio in noi sacerdoti sia così viva l'insofferenza per l'Attesa, la brama per l'incidenza, il risultato, l'interesse. E' desolante in noi giovani quest'impronta di stanchezza senile che ci spinge a rifugiarci subito nelle braccia di un padrone, - chiunque egli sia -, perché non ce la sentiamo di fare a meno di esser rispettati, amati, considerati.
Abbandonare la ricerca del Regno, l'attesa di una Chiamata inequivocabile perché l'Amore segna tracce indelebili nel cuore, tutto per rifugiarci in un lavoro a responsabilità limitata nei confini ben segnati di un gruppo, di una parrocchia, di un "ambiente". Incapaci poi di capire che se siamo dei poveri sfruttati è perché i padroni che non sono Lui badano solo al proprio interesse e non possono fare altrimenti. Incapaci di capire che reagendo per la via delle rivendicazioni 'sindacali', accettiamo una condizione di dipendenti: noi, consacrati da Dio ad essere incarnazione viva di libertà, perché mossi solo dall'Amore!
E' necessità urgente prima per me ed insieme per voi, accettare il crescere di noi stessi, della nostra coscienza, della nostra responsabilità. Non per fama e popolarità, ma nell'ascolto attento dello Spirito che illumina la Vita del Cristo, per una realizzazione seria del nostro sacerdozio. Questo vuol dire non impegnarsi in tutto ciò che non sia direttamente Regno di Dio: l'arrivismo, l'attivismo apostolico, il 'sindacalismo' presbiterale, l'assenteismo piagnucoloso e stranito, il concordismo a tutti i costi, ecc..
Questo vuol dire avere il coraggio, in qualunque situazione, di ripensare il proprio essere in rapporto all'unico valore che è Gesù Cristo. Vuol dire impegnarsi in povertà, amore e verità anche quando non è possibile portare avanti riforme liturgiche o formare gruppi di studio. Vuol dire spendere qualche ora nell'Adorazione silenziosa, anche se non c'è nessuno in Chiesa, con il cuore aperto al mondo. Vuol dire accettare di essere segno dì una continua presenza di Perdono sulla terra, anche se la teologia della penitenza ci fa invidiare il IV secolo. E questo non perché, ahimè, non possiamo fare altro, ma perché Povertà e Amore e Verità e Adorazione e Perdono sono valori del nostro sacerdozio, il lievito di una realtà che tende, nella sua fermentazione, a dilatarsi a misure di magnifica pienezza.
Questi valori, proprio perché Suoi, sono la nostra forza. E se abbiamo voglia di provare sul serio, lo avvertiamo subito: è sufficiente realizzare un'unghia di vera Povertà per sentire vacillare la fiducia in chi fino ad allora ci amministrava su basi di interesse. E' una forza che ha l'aspetto di una dolcezza irremovibile. E non è colpa nostra in fondo se lo scopriamo solo a fatica, dopo che ci hanno insegnato a livellare tutto ad una inoffensiva mediocrità; non è colpa nostra se ci hanno insegnato a vedere il Cristo che vive nei poveri, "esortandolo, consolandolo e confortandolo con una spugna inzuppata nell'aceto", invece di insegnarci ad essere crocifissi con Lui "sul legno della maledizione,... della instabilità ed incertezza per il domani, dello sfruttamento, della discriminazione, ecc..." (cfr. lettera dell'Isolotto al vescovo di Parma). Ma non per questo siamo dispensati dal cercare di scoprire e di capire, anche se questo vuol dire lasciar tutto perché si è rintracciata la Via. Ricordiamo che questa è forza immensa perché non è logorata dal tempo, né soffocata dallo spazio: ha davanti a sé i secoli e le terre senza confini.
Dobbiamo ammettere questa realtà di violenza nella nostra vita, non per se stessa, ma come logica conseguenza dell'entrata assolutamente nuova di ciascuno di noi sulla scena del mondo. Non siamo chiamati tanto a fare qualcosa (altri verranno dopo di noi e faranno certamente meglio): siamo chiamati ad essere, sopra e prima di tutto, noi stessi, in quel nodo unico e irripetibile e perciò intrasferibile - che è la nostra persona. Ed è in questa vicenda assolutamente nuova, è questa persona unica che Dio vuole incontrare ed amare in misure così grandi da suscitare una risposta altrettanto piena.
Ed io non sono povero perché la moneta della Cultura mi permette ancora di pagare una maschera di rispettabilità e di saggezza, nascondendo lo smarrimento e l'incertezza di fronte a questo calare del Mistero di Dio nel profondo della mia storia.


don Luigi Sonnenfeld

Collegio Capranica
Roma



in Popolo di Dio: PdD anno 1° dicembre 1968, Dicembre 1968

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