La rivoluzione non è una festa

Su una parete della facoltà di lettere a Pisa ho letto questa frase, tracciata a vistosi e significativi caratteri rossi: "La rivoluzione è una festa". Il senso della frase rivela una mentalità tipica all'interno del movimento studentesco. Affermare che la rivoluzione è una festa è indice di una tendenza ad esteriorizzare le situazioni e i valori, caratteristica della civiltà del benessere e dimostra la capacità del sistema a riassorbire ogni tipo di opposizione.
Questa tendenza trova tra gli studenti un ottimo terreno; la coscienza che essi hanno dello sfruttamento e dell'ingiustizia sociale - e si badi di non confondere con lo sfruttamento, l'inefficienza delle strutture scolastiche - è di tipo riflesso, di conseguenza l'opzione rivoluzionaria è in genere sentimentale o intellettuale.
Per il solo fatto che frequenta l'università, lo studente appartiene alla sola classe dei privilegiati, non a quella dei diseredati. La lotta che conduce non lo compromette quasi mai fino in fondo, non è ragione di vita. I motivi di opposizione li trova sui libri o nei giornali, raramente li sperimenta e soffre di persona. Tutto questo complesso di motivi comporta una superficialità di partenza che può essere superata approfondendo, non in modo intellettuale, ma reale, concreto, esistenziale la propria scelta rivoluzionaria. Si deve passare, non più a parole, ma nei fatti dalla parte degli sfruttati. Altrimenti il peso della scelta è transitorio ed inefficace.
Questa è anche l'analisi di C. Torres, un rivoluzionario, ma anche un sociologo: "Una delle cause principali per cui il contributo dello studente nella rivoluzione è transitorio e superficiale è il suo non volersi compromettere nella lotta economica, familiare e personale. Il suo anticonformismo tende a essere emotivo per sentimentalismi o per frustrazioni o intellettuale " (dal messaggio agli studenti).
Ma un discorso di questo genere è liquidato come moralistico dai più, indizio anche questo di superficialità e di una difficoltà inconscia, non ammessa di rinuncia a certi privilegi. Dico superficialità perchè un'analisi psicologica e storica della realtà dimostra in modo inequivocabile che le scelte pratiche derivano da situazioni pratiche, o ne sono fortemente condizionate. In altri termini una scelta politica rivoluzionaria è conseguente solo a una condizione sociale rivoluzionaria, una situazione che pone al di fuori dell'ambito del privilegio, che mi esclude dalla società facendomi contraddizione vivente.
Allora 1'alternativa, è naturale, diventa quasi motivo di conservazione biologica: io o il sistema, non c'è spazio per tutti e due.
Lo studente universitario è sociologicamente un borghese, appartiene cioè alla classe degli sfruttatori, partecipa ai privilegi e al potere. E' dunque un conservatore e lo schierarsi dalla parte degli esclusi non ne fa un progressista.
Questo è il limite di cui tener conto, limite da superare in un unico modo: comprometterci esistenzialmente, cioè in ogni settore della vita, nella rivoluzione.
Operare questa scelta comporta un approfondimento della lotta. In una reale situazione di esclusione dalla società, la volontà rivoluzionaria si radica, s'incarna, diventa qualcosa di noi, prepotente come un'esigenza biologica.
Al di fuori di questa logica non c'è la rivoluzione. C'è la festa. Ma le feste non fanno la storia.
E' necessario che la lotta studentesca si inserisca in questa logica, altrimenti, credo, cadrà nel vuoto, "è necessario che la convinzione rivoluzionaria dello studente lo porti ad un ingaggio reale, fino alle ultime conseguenze. La povertà, la miseria, la persecuzione non si devono cercare, però nel sistema attuale sono i segni che autenticano una vita rivoluzionaria. La stessa convinzione deve portare lo studente a condividere le strettezze economiche e la persecuzione sociale che pesano sugli operai e i contadini. E' così che la rivoluzione passa dalla teoria alla pratica". (Camillo Torres)


Giorgio


in Popolo di Dio: PdD anno 2° gennaio 1969, Gennaio 1969

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