POPOLO DI DIO: PdD anno 3° febbraio 1970

idee e esperienze della Comunità Parrocchiale di S. Maria

... Cosa si deve fare?

Sono tempi di crisi questi della Chiesa. Ormai anche chi ha gli occhi bendati e il cuore fasciato dagli ottimismi più ovattati non può non averne dura spietata esperienza.
Vi sono tensioni ormai alla radice delle cose. Un affastellarsi di legna secca e pare ormai che il fuoco già divampi: il problema è tutto soltanto nella impossibilità di prevedere la violenza dell'incendio e quanto e cosa sarà che rimarrà inevitabilmente incenerito.
La marea sale ad ogni giorno che passa: l'unica sicurezza è che non sarà un diluvio universale che tutto abbia a sommergere. C'è sicuramente un'arca di Noè che rimarrà a galleggiare portando con sé la speranza di nuovi cieli e di una nuova terra.
Ma ormai non è più possibile sapere e individuare come sarà quest'arca che porta con se la promessa, e chi è che vi sarà sopra imbarcato. E' il tempo della predicazione profetica di Giovanni Battista, sulle rive del Giordano, ai farisei e ai sadducei: "Razza di vipere! Chi vi ha insegnato a sfuggire l'ira che vi sovrasta? Fate dunque frutti degni di pentimento; e non crediate di poter dire dentro di voi abbiamo per padre Abramo. Poiché io vi dico che Dio può da queste pietre suscitare figli di Abramo. Ma ormai la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non fa buon frutto si taglia e si getta nel fuoco".

Ma ciò che angoscia, fino allo sgomento, è che non sembra che si alzi su dai nostri tempi un Giovanni Battista.
A volte si ha la terribile impressione di sentire muoversi le fondamenta della Chiesa, le colonne e gli archi piegarsi paurosamente, come quando la terra trema e viene soltanto l'istinto di fuggire, come se fosse da un attimo all'altro il crollo.
E non appare ancora un Francesco d'Assisi che metta sotto 1'architrave, a impedire la rovina, la sua spalla forte e robusta.
Ma forse non è nemmeno giusto aspettarsi che sia qualcuno a sopportare lo spaventoso peso, di tutto riprendere e rianimare per tutto riavviare sulla strada buona lungo la quale soltanto può camminare il Regno di Dio.
Forse è venuto il tempo - e sarebbe segno di meravigliosa crescita - in cui tutti siamo chiamati per un'elezione profonda da parte dell'espandersi sempre più a largo raggio dell'azione dello Spirito Santo, alla responsabilità della soluzione della crisi che travaglia e soffoca la Chiesa. All'impegno di rinnovare e ravvivare nella Luce di Dio e del Mistero Cristiano, 1'autenticità della Chiesa nel mondo, la visibilità del suo essere segno e realtà di Regno di Dio, la forza di salvezza del suo essere pugno di lievito nel seno dell'umanità.
Tanto più che non si tratta di salvare nel senso di conservare preservando dal rovinare, dall'incenerirsi, cose, valori, istituzioni, tradizioni ecc..legate al loro tempo, al loro momento storico e senza dubbio allora segno e manifestazione di Fede: per questa conservazione vi sono i musei con tanto di biglietto di ingresso e le cattedrali e i monumenti d'arte con tanto di via vai turistico, a naso per aria, per non perdere la gioia nemmeno di un capitello o di una pietra logorata dai secoli.
La salvezza da operare a costo di tutta una dedizione totale di sé (perchè così è 1'amore a Dio e all'umanità e quindi la fedeltà a Cristo), ciò che deve essere salvato è la Fede. La visione autenticamente religiosa, biblica dell'uomo in se stesso e quindi in tutta la sua esistenzialità, personale e comunitaria, individuale e universale. Il Mistero di Cristo come realizzazione dell'uomo fino alle misure di compimento totale della resurrezione. La Chiesa come continuità storica di Cristo e sua presenza incessante nella vicenda umana, compiere il destino dell'universo.
E' Dio da salvare. E' Cristo da continuare ad essere Resurrezione. E' la Chiesa da rendere sempre più miracolo di Fede.
Non si tratta più di valori marginali componenti più o meno riferibili, mediatamente o immediatamente, al problema religioso inteso nella sua essenzialità - perchè deve pure avere tutta l'enorme problematica religiosa, una sua essenzialità costitutiva, decisiva, determinante come è capitato nella storia della Chiesa, in altri momenti, che potrebbero essere giudicati anche più burrascosi, drammatici del nostro tempo.
Non si tratta di salvare lo Stato pontificio. E nemmeno il Primato di autorità del Papa. La libertà della scuola. L'indissolubilità del matrimonio. Il celibato dei preti ecc..tanto per citare qualcosa che via via ha impegnato la Chiesa, chiamando a raccolta le forze cattoliche, riuscendo soltanto in maniera che non può non terribilmente impressionare, a polarizzare tutta l'attenzione e uno sforzo di lotta in ciò che meno conta e importa e decide, col risultato di una distrazione pressoché totale nei confronti di ciò che è fondamentale, di ciò che sta alla radice.
E' per questa radicalizzazione e universalizzazione del problema religioso così propria del nostro tempo, che chi ha Fede è un chiamato e porta in se una responsabilità di salvezza di tutto quello che è oggetto della propria Fede. Che chi della propria vita ha fatto una scelta unica e assoluta, di Dio, porta in se stesso una responsabilità non più misurabile a seconda delle proprie forze e dell'incarico avuto e del posto che occupa, ma dipendente dalla misura di evidenza del suo essere in una realtà di vita che comporta, di per se stessa, un'unica spiegazione, soltanto una giustificazione, quella di Dio, quella raccontata unicamente dalle pagine del vangelo.
E' venuto il tempo, grazie a Dio, nel quale non ha più senso, anzi è un'assurdità, fare una scelta di Dio a cuor leggero, per un lustro personale o un accomodamento del problema della propria vita. Manifestarsi come cristiano non permette più (o se non altro sempre meno) un gloriarsene di Cristo a spese di Lui e a vantaggio personale e non è più possibile parlare di Cristo e di Vangelo in quel modo enfatico, altisonante, retorico a cembalo sonoro e a bronzo squillante.
Più che rempirsene la bocca ed esprimerlo in liturgie trionfalistiche, anche la chiesa sta duramente esperimentando, anche se in modo ancora molto incerto e quasi riluttante, quanto il Mistero di Cristo è indispensabile che debba essere prima vissuto e predicato, quanto ogni parola richiede di essere pagata da un consenso totale di tutta una testimonianza.
Doveva essere da un pezzo che si sarebbe dovuto ben sapere che Dio non passa più attraverso la legge, il precettiamo, il moralismo. E l'aver creduto e fatto molto di più fiducia sul Diritto Canonico che sul Vangelo, è stato un grosso peccato che soltanto nel nostro tempo si sta cominciando a scontare.
E' anche di qui che tutta una istituzione sta paurosamente rivelando la sua fragilità e inconsistenza. Tutta una struttura messa su a prezzo di fatica pazzesca e spesso rifacendosi a sistemi e risorse assurde, sta crollando a pezzo a pezzo, come una vecchia costruzione di altri tempi.
Lo smarrimento, l'angoscia, la paura, il guardarsi qua e là senza sapere dove agguantarsi, lo struggersi per inventare iniziative, 1'ansia di mettere insieme riforme, la prudenza che arrischia accenni di coraggio, l'autoritarismo che non riesce più a non scoprire pudori e timidezze, la conservazione che sempre più fatica per non apparire un museo, la cultura che ormai sta accogliendo ogni arditezza ...è lo spettacolo non eccessivamente entusiasmante che la Chiesa, diciamo così, ufficiale, offre al nostro tempo.
Eppure se avessimo Fede, quanto un granello di senapa, dovremmo rallegrarci ed esultare e colmarci di speranza che lo Spirito Santo stia agitando così fin dal profondo le acque stagnanti della nostra santa Chiesa cattolica, apostolica, romana. Se non altro perchè una passività, supina e scolorita, non continua a svuotare di vitalità il Popolo di Dio, disincarnandolo come sempre in una religiosità devozionistica e trionfalistica.
Ormai sta avvenendo il miracolo di un risvegliarsi della coscienza personale, di gruppo, di comunità.
La responsabilità è un autentico, fondamentale valore umano e infinitamente di più lo è in una misurazione cristiana dei valori.
E' in questa realtà di coscienza personale e nella misura consapevole della propria responsabilità, che è ormai necessario e doveroso e bellissimo cercare il proprio impegno nella Chiesa e quindi in tutta la realtà umana: il suo precisarsi, in concretezze ben definite e in misure più che sia possibile esatte. Quando questa coscienza e responsabilità individuale diventa comunitaria per quella realtà di comunione così essenziale nel mistero cristiano, è nella coscienza e responsabilità potenziata e moltiplicata dal valore comunitario, che devono essere cercati gli impegni concreti, la loro modalità di attuazione e la loro misura.
Non è più il tempo, grazie a Dio, di aspettarsi tutto dalla Chiesa. Di riversare ogni responsabilità sul Papa. Di non muovere un dito senza il consenso del Vescovo. Di pendere in ogni cosa dagli uomini del clero. E di rimanere condizionati soltanto alle iniziative degli amici già impegnati - o muoverci solo dietro a esperienze già provate e approvate..
E non soltanto perchè forse nessuno sa bene, fino ad avere la sicurezza di fare una proposta, cosa si deve fare. Dato che ormai è un barare al gioco troppo scoperto un proporre di fare che in fondo significa soltanto un non fare come un crescere che è soltanto un conservare, un riformare che è in definitiva semplicemente un consolidare, un mutare ciò che poi concretamente non muta niente, qualcosa di nuovo che a ben guardare è come un vestito rivoltato..
Ma anche e specialmente perchè essi e cioè Papa, vescovi, clero, ecc...se sanno ciò che in questi nostri tempi deve essere fatto per tutto rinnovare e ravvivare ecc. dovrebbero sapere ( e non è giusto pretendere e aspettarsi che sappiano altro e tanto meno tutto) ciò che sono loro a dover fare, ciò che a loro è richiesto, tutto quello e fino in fondo, che è, secondo la loro coscienza, responsabilità personale e cioè proprio dell'essere Papa, vescovi, sacerdoti ecc. e che può essere estremamente diverso (e dovrebbe tanto esserlo specialmente nelle misure) da quello che è richiesto a me, a te, a noi, a tutti gli altri.
E1 veramente venuto il tempo (e non può essere che un gran motivo di gioia anche se il rischio può apparire tanto impressionante) nel quale è la crescita di ciascuno nello scoprire e nel realizzare a costo di qualsiasi misura di Fede e di Amore, la propria responsabilizzazione personale, che progredisce il Regno di Dio. L'anonimato a folla, a moltitudine, a popolo, non è secondo la dignità dei figli di Dio, dei quali Gesù Cristo è il primogenito.
La prima cosa da fare, a nostro giudizio, è darsi un nome e cognome, un volto preciso, idee chiare, una coscienza sicura, una personalità ben definita, e caricarsi di responsabilità.
E' soltanto a seguito di questo compromettersi personalmente e com'unitariamente e nella misura di disponibilità a pagare di persona, che è possibile scoprire cosa si deve fare e avere la forza di farlo.
Diversamente non rimane che intristire nella solita lamentosa passività che mentre uccide noi, soffoca il Regno di Dio.


La Comunità

Celibato o no

In questi giorni si sta aggravando sempre più la contesa, in seno alla chiesa, celibato o matrimonio per i preti.
E l'andamento della lotta sta acquistando modi e misure tali che ad essere prete ne viene quasi come un'umiliazione, come una strana vergogna ad andare per le strade e a parlare con la gente. Si ha l'impressione come di un pudore offeso un'intimità sotto gli occhi e la curiosità di tutti, un qualcosa di così strettamente e gelosamente personale che tutti strapazzano e sistemano a loro piacimento.
Un problema di matrimonio o no con tutto quello che il matrimonio è e significa e comporta, alla mercé del pubblico, di esplosioni a favore, qua e là, di resistenze e conservazioni arroccate in posizioni tradizionalmente strategiche.
Ti sposerai o no, secondo chi vincerà in questo "braccio di ferro" (come oggi scrive un quotidiano) fra il papa e il clero olandese e le forze che si stanno piano piano allineando.
Si sta diffondendo sempre di più (e non soltanto nel clero) una strana ed assurda psicosi circa il problema. E non può non angosciare profondamente la misura di sopraffazione nel momento così carico di responsabilità che la chiesa sta attraversando che questo problema del celibato o matrimonio del clero ha raggiunto. Il dar moglie ai preti è ormai un impegno di partecipazione al progresso della chiesa da parte di larghi strati dell'opinione pubblica, della stampa, del progressismo cattolico. E naturalmente di tutto un clero che nel matrimonio intravede la via giusta per attualizzarsi col mondo moderno e risolvere così i propri complessi.
Lasciamo pure da parte le motivazioni strettamente teologiche, che però dovrebbero avere il loro giusto peso nel trattare il problema. Gli approfondimenti indispensabili di lettura del vangelo per cogliere il pensiero di Cristo, perché anche la sua opinione non può non avere il suo peso, evidentemente. Il rispetto in qualche modo dovuto al pensiero della chiesa lungo i secoli anche se disgraziatamente manifestato e affermato nei termini di una legge. La problematica di una pastorale e cioè della presenza del prete come l'uomo in una logica di totale disponibilità al regno di Dio fino ad essere l'uomo della scelta di Dio come l'unica motivazione di una vita.
Ma nel come si sono impostati i problemi, e nel modo in cui viene condotta la lotta, l'accentuazione così estrema del problema fino a renderlo così pressante e urgente da antecedenza e preminenza assoluta, questo non può che sgomentare e affliggere profondamente. Come se nella chiesa non bollissero altri e più terribili problemi. Come se intorno alla chiesa non bruciassero momenti di storia carichi di richieste infinite e di partecipazione e di incarnazione fino a giustificatamente pretendere quasi una esclusività di attenzione e una convergenza di energie proprie dell'Amore cristiano.
Ancora una volta i problemi all'interno della chiesa e agitati furbescamente dalla gerarchia o sollecitati dalla base, ma sempre tipicamente e miseramente ecclesiastici, come sempre, divorano il pugno di lievito e abbandonano a se stessa la massa della storia in una disincarnazione che non può essere che tradimento davanti a Cristo e davanti al popolo.
E' un discorso evidentemente molto lungo e terribilmente scabroso, ma di fronte all'attuale battaglia per il matrimonio dei preti non può non venir su come pena angosciante il rimpianto di altre battaglie molto più serie per una identificazione del mistero cristiano e una partecipazione onesta e generosa all'andamento della storia, non combattuta e nemmeno impostata se non da gruppi sparuti, spinti sempre ai margini dall'alto e dal basso clero, a morire d'inedia.
E gli esempi sono quante sono le pagine della storia della Chiesa. Non è possibile non pensare all'imborghesimento progressivo del clero, mai combattuto seriamente ma sempre favorito dalla comune reazione del clero. Ai patti lateranensi come spinta irresistibile verso un professionismo ecclesiastico. Al connubio Chiesa e Stato del dopoguerra, fino alle epiche imprese dell'Azione Cattolica. Fino al fiume di milioni che hanno fatto del clero un detentore di privilegi e di potere fino alla nausea. Fino alla sistemazione a funzionario statale e parastatale della vecchiaia e delle malattie del clero, attraverso la "provvidenza" dell'INPS. Senza contare, perché il conto è impossibile, di quello che ha comportato d'imborghesimento nel clero, la scuola e gli stipendi dell'insegnante di religione.
E' umiliante come la gerarchia abbia proposto, seguendo l'andamento accomodante dei tempi, sistemazioni così tipicamente professionistiche, amministrative, anche se velate di apostolato e di pastorale, e il clero non abbia reagito e non abbia lottato per rivendicare la sua libertà di ministro unicamente di Cristo e di annunciatore del Vangelo fino ad esserne indicazione vivente. E' venuta fuori soltanto la lotta quando una lotta si è cominciata a fare, per il matrimonio, per la famiglietta cristiana all'ombra del campanile, per completare lo sfruttamento in atto da secoli, di Dio e dei santi. Perché la conversione al borghesismo della chiesa sia totale, definitiva, irrimediabile.
Mi avrebbe molto favorevolmente impressionate per il rivelarsi come motivazione seria di partecipazione totale del sacerdote alla vita, alla durezza quotidiana dell'esistenza, il suscitare il problema della famiglia per il clero, se prima fossero avvenute altre lotte.
Quella per esempio del rifiuto dei benefici. Fino alla lotta contro il capitalismo delle Curie, cominciando da quella romana. La lotta contro ogni ombra di privilegio. Contro gli stipendi delle prestazioni religiose di qualsiasi genere. Contro lo sfruttamento economico della fede popolare. Contro gli intrallazzi politico-religiosi. Contro l'autoritarismo della gerarchia e lo sbriciolamento del clero in interessi individualistici e campanilistici e carrieristici..
La lotta per rivendicare i diritti e la capacità di guadagnarsi con le proprie braccia il pezzo di pane. Di poter vivere in una casa d'affitto. Di realizzare una pastorale di offerta e non di pressione. Una partecipazione operaia alla classe operaia. Un assumersi il problema dei poveri a tutti i livelli e al di là di ogni prudenza e saggezza tipicamente ecclesiastica. Di pagare di persona la parola che si annuncia. Un essere in qualche modo quel pane che si dà da mangiare alla Messa.
In una riunione di clero, racimolato in tutta Italia, raccogliendo tutti quelli, a nostra conoscenza, che vivono di lavoro manuale, nel dicembre scorso, non siamo riusciti a superare il numero di venti. Venti che vivono di lavoro manuale contro i cinquantamila sacerdoti in Italia che vivono sfruttando la religione o al massimo i valori della cultura. Questa battaglia del lavoro non ha trovato né trova consensi, né nella gerarchia (e si capisce perché dolorosamente) e tanto meno nel clero ( ed è difficile capirne il perché, dato il progressismo del clero e tutto l'insieme delle problematiche neuro-psichiche, socio-fisiche di cui dicono che il clero è complessato e di cui è in affannosa ricerca di soluzione e di liberazione).
Erano e sono queste le lotte da fare anche, se volete, per acquistare il diritto e la dignità a impostare il problema della famiglia per il clero: perché al sacerdote non mancasse questa partecipazione alla vita e questi doveri verso l'esistenza che sono i figli, realizzata soprannaturalmente attraverso la chiesa e naturalmente con la donna.
E' molto difficile e doloroso accettare e sopportare senza rossore che questi nostri terribili tempi moderni abbiano offerto al clero segni e occasioni soltanto o quasi ( almeno a quanto sembra) per acutizzare e portare ai limiti del patologico la sessualità del clero da risolversi inevitabilmente col prendere moglie.
Non so quanto sia onesto credere che il matrimonio sia il toccasana dei problemi del clero. E tanto più ci vuole coraggio a immaginare che il matrimonio comporti una crescita di Regno di Dio del sacerdote in quanto sacerdote.
Tanto più poi che si scopre, così come si stanno proponendo le cose alla lettura della stampa, delle inchieste, delle indagini, della cronaca, ecc., un giudicare e sentire la donna (e quindi il matrimonio e la famiglia) come una risorsa risolutiva dei propri problemi, in una strumentalizzazione irrispettosa e disonesta, scoprendo vuoti paurosi di visione religiosa nei confronti della donna, dei valori cristiani del matrimonio, di sensibilità seriamente cristiana nei confronti della famiglia e offrendo quindi spettacolo poco edificante di impreparazione al matrimonio che pare quasi invocato e preteso non molto di più che come una legittimazione di bisogni irrimandabili e irrinunciabili, pare quasi, secondo tutta un'impressione, alla stessa maniera dei militari che rivendicano il diritto di avere le case di tolleranza. O, per non dimenticare motivazioni più scoperte, più frequenti e più pulite, alla maniera degli scapoloni, dei vedovi che guardano alla donna per risolvere il problema della perpetua ormai introvabile e sempre più troppo costosa, incapace poi, nonostante il lavare, lo stirare e l'accudire alla cucina, di risolvere la solitudine del prete e della sua casa canonica.
Non rimane (sembra ormai che disgraziatamente non ci sia altro da fare ed è cosa da disperazione che non ci sia altro da fare) che aspettare come va a finire la lotta "a braccio di ferro" fra gli olandesi, ormai diventati lo spirito santo della chiesa e il Papa, il povero Papa oppresso dai problemi delle famiglie cristiane perché non dà loro di poter fare liberamente meno figli che sia possibile e dai problemi dei preti che aspettano da lui il permesso di poter mettersi liberamente a fare dei figli. Una Chiesa che è obbligata a convergere tutto il suo impegno di regno di Dio nel breve giro delle camere da letto.
La reazione può dormire sogni tranquilli. Una volta si sarebbe detto: il diavolo può ben dormire tra due guanciali.
E al Regno di Dio non rimane che fare assegnamento soltanto sul valore della attesa di tempi migliori.


don Sirio

Comunione cristiana

Bonhoeffer

Innumerevoli volte una comunione cristiana si è spezzata perchè viveva sulla base di una chimera. Proprio il cristiano impegnato che viene posto per la prima volta in una comunione cristiana dì vita, porterà spesso un'immagine ben determinata del tipo di vita cristiana comunitaria, e sarà teso alla sua realizzazione.
E' però grazia di Dio che tutti i sogni di questo genere naufraghino rapidamente. La grande delusione circa gli altri, circa i cristiani in generale e, quando va bene, anche circa noi stessi deve sopraffarci, poiché precisamente così Dio ci vuole condurre alla conoscenza di un'autentica comunione cristiana. Dio per pura grazia non permette che noi viviamo, anche solo per poche settimane, in una chimera, che ci lasciamo andare a quelle beatificanti esperienze, a quella confortevole euforia che viene sopra di noi come un'ebbrezza.
Infatti Dio non è un Dio delle emozioni, del sentimento, ma della verità. Solo la comunione che penetra l'esperienza della grande delusione, con tutti i suoi fenomeni spiacevoli e difficili, incomincia a essere ciò che deve essere davanti a Dio, incomincia a raggiungere nella fede la promessa che le è stata assegnata. Quanto prima viene per i singoli e per la comunione questa delusione, tanto meglio per gli uni e per l'altra. Una comunione, però che non fosse in grado di sopportare o sopravvivere a una tale delusione, che dunque si aggrappa alla chimera, quando questa deve essere frantumata, perde nello stesso momento ogni promessa di stabile comunione cristiana, deve presto o tardi infrangersi. Ogni chimera umana che venga introdotta nella comunione cristiana impedisce 1'autentica comunione e deve essere infranta, affinché la vera comunione possa vivere. Colui che ama il suo sogno di comunione cristiana più della comunione stessa, questi diventa il distruttore di ogni comunione cristiana, nonostante la sua intenzione sia la più onesta, seria e generosa possibile.
Dio aborre i sogni ad occhi aperti: essi infatti rendono orgogliosi ed esigenti. Colui che si plasma l'immagine di una comunione esige da Dio, dagli altri e da se stesso il suo adempimento. Egli entra nella comunione dei cristiani come uno che esige, instaura una legge propria e giudica in base a quella i fratelli e Dio stesso. Egli sta duro come un rimprovero vivente per tutti gli altri nel cerchio dei fratelli. Egli agisce come se fosse lui solo a dovere creare la comunione cristiana, come se la sua chimera dovesse vincolare gli uomini. Dove la sua immagine svanisce nel nulla egli vede infrangersi la comunione, diventa prima accusatore dei suoi fratelli, poi di Dio, poi disperatamente di se stesso.
Poiché Dio ha già posto 1'unico fondamento della nostra comunione, poiché Dio da tempo, prima che iniziassimo una vita in comune con altri cristiani, ci ha fuso in un sol corpo con essi in Gesù Cristo, per questo noi entriamo nella vita comune con altri cristiani non come coloro che esigono, bensì come coloro che rendono grazie e che accolgono. Rendiamo grazie a Dio per quello che ci ha fatto. Rendiamo grazie a Dio perchè ci dà fratelli che vivono sotto la sua chiamata, sotto il suo perdono, sotto la sua promessa. Noi non reclamiamo per quello che Dio non ci dà, ma rendiamo grazie a Dio per quello che quotidianamente ci dà. E non è abbastanza quello che ci è dato: fratelli, che, nel peccato e nella necessità, assieme a noi camminano e vivono sotto la benedizione della sua grazia? Il dono di Dio è forse in qualsiasi momento, anche nei giorni difficili e travagliati di una fraternità cristiana, meno di questa grandezza che nessuna idea può esaurire? Non è forse vero che anche là dove peccato e incomprensione gravano la vita comune, anche ivi il fratello che pecca è ancora sempre il fratello, col quale io comunitariamente sto sotto la Parola di Cristo, e il suo peccato diviene per me motivo sempre nuovo di rendere grazie, perché ad ambedue è dato di vivere sotto 1'unico perdonante amore di Dio in Gesù Cristo? Non sarà in questo modo precisamente l'ora della grande delusione riguardo al fratello che riuscirà per me salutare oltre ogni confronto, perché mi farà conoscere in modo radicale che noi, l'uno e l'altro, non possiamo vivere mai sul fondamento di parole e opere proprie, bensì solamente in verità dell'unica parola e dell'unica opera che ci congiunge, e cioè del perdono dei peccati in Gesù Cristo?
Dove cadono le nebbie mattutine delle chimere, colà sorge il chiaro giorno della comunione cristiana. Nella comunione cristiana accade, a proposito dell'azione di grazie, quello che avviene del resto in tutta la vita cristiana. Solo colui che rende grazie per il dono minuscolo riceve anche quello grande. Noi impediamo a Dio di elargirci i grandi doni spirituali che egli ha in serbo per noi perché non rendiamo grazie per i doni quotidiani. Noi pensiamo che non dovremmo dichiararci contenti della piccola misura di conoscenza, di esperienza, di amore spirituali che ci vengono donati e che dovremmo sempre soltanto, bramosamente ricercare i grandi doni. Ci lamentiamo poi perché ci mancano la salda certezza, la forte fede, la ricca esperienza che Dio ha invece donato ad altri cristiani, e queste rimostranze le riteniamo pie. Preghiamo per le grandi cose e dimentichiamo di rendere grazie per i quotidiani, per i piccoli doni (che poi in verità piccoli non sono!).
Ma come può Dio affidare cose grandi a colui che non vuol prendere con riconoscenza il dono minuscolo dalla sua mano? Se noi non rendiamo grazie quotidianamente per la comunione cristiana in cui siam collocati anche là ove non c'è nessuna grande esperienza, nessuna riscontrabile ricchezza, ma molta debolezza, molta poca fede, molta difficoltà, se per di più ci lamentiamo con Dio sempre e soltanto perché tutto è ancora così misero, così minuscolo, perché corrisponde così poco a quello che ci aspettavamo, in questo modo noi impediamo a Dio di far crescere la nostra comunione secondo la misura e la ricchezza che in Gesù Cristo è in serbo per tutti noi.
Questo vale in modo particolare anche per quelle lagnanze, che si sentono spesso, di pastori e di membri zelanti di una comunità sulla loro comunità. Un pastore non deve lamentarsi della sua comunità, certo non davanti agli uomini, ma neppure davanti a Dio: una comunità non gli è affidata perché egli ne diventi davanti a Dio e agli uomini l'accusatore. Colui che perde la fiducia nella comunione cristiana in cui egli si trova ed eleva accusa contro di essa, prima di tutto esamini se stesso, che non sia soltanto la sua chimera che viene qui frantumata da Dio, e nel caso che scopra che le cose stanno così, renda grazie a Dio, che lo ha condotto in questa angustia. Se invece scopre che le cose stanno altrimenti, eviti tuttavia di diventare l'accusatore della comunità di Dio, ma ben più accusi se stesso per la sua mancanza di fede, chieda a Dio conoscenza del suo proprio fallimento e del suo particolare peccato, preghi per non diventare reo dei propri fratelli, operi nel riconoscimento della propria colpa come intercessore per i suoi fratelli, esegua quanto gli è stato affidato, e renda grazie a Dio.


D. Bonhoeffer ("De la vie communautaire)

Il lavoro manuale del prete

Qualunque prete aprendo la Bibbia e leggendone le prime pagine potrebbe convincersi di essere preservato, per la propria vocazione, dal peccato originale non portando su di se i segni della maledizione: "col sudore di tua fronte mangerai il pane".
Naturalmente si è solleciti a portare avanti motivi per giustificare il carattere di "lavoro" all'attività pastorale, specie all'amministrazione dei Sacramenti, che continua ad essere fonte prima di sostentamento per il clero. E aiuta a ciò tutta una particolare considerazione del popolo che vede nel prete un uomo disponibile per ogni servizio cultuale e punto d'incontro con il mondo politico ed economico, definendo così i criteri per giudicarne l'operato, il "lavoro".
D'altra parte il minimo accenno ad un lavoro, specie se manuale, fatto da preti crea un'atmosfera di diffidenza poiché un tale atteggiamento mantiene un sapore ereticale, di cosa strana e perciò stesso disgustosa.
Sembra paradossale che nella Chiesa nascente fosse proprio l'atteggiamento opposto fonte di scandalo. Ma non ci si può meravigliare al vedere allora il lavoro al posto d'onore: non poteva essere ritenuto motivo di degradazione dal momento che Dio aveva scelto un lavoratore manuale come padre di suo figlio e questi aveva lavorato a lungo con le proprie mani. Le tracce di Cristo erano ancora troppo fresche perchè il cristianesimo nascente potesse ricadere negli errori che Lui era venuto a combattere.
Gesù non si comportò come un prete ieratico: gettò in faccia ai farisei la loro vanità, disse di essere venuto per servire, lavò i piedi a coloro che dovevano succedergli. Era venuto per portare una liberazione anche cultuale: non vi è più un tempio, una sola casa consacrata a Dio. Dio è adorato in ogni luogo. Dio è presente ovunque ci si riunisca in suo nome. Questo spiega perché i primi ministri della Chiesa siano stati cittadini come gli altri, aventi per sola distinzione sociale quella dovuta al rispetto che ispira ogni persona consacrata a Dio con l'imposizione delle mani, ma senza distinguersi per alcuna concessione di privilegi o esenzione da compiti sociali. E questo è talmente vero che se si fa eccezione per il tempo apostolico, i nomi di questi primi ministri sono praticamente sconosciuti, allorché, di contro, la storia ci ha trasmesso quello dei grandi convertiti, dei martiri, dei benefattori della Chiesa.
Se dal punto di vista sociale non esiste, nella Chiesa dei primi secoli, alcuna differenza tra clero e popolo, non poteva esservi per la stessa ragione, alcuna differenza materiale. Il padre di famiglia che, all'inizio, presiedeva gli uffici liturgici e agiva come capo della comunità, viveva del suo lavoro, qualunque fosse.
Questo è talmente elementare da non aver bisogno di alcuna giustificazione storica.
La necessità di aiutare materialmente il clero si imporrà nella misura dello sviluppo della funzione clericale, esigendo questa tutta una disponibilità del prete. Normalmente quindi i ministri della chiesa sovvenivano alle loro necessità con il loro lavoro. Solamente nella misura in cui un dato ministro si consacrava esclusivamente alla evangelizzazione, la comunità aveva il dovere di sovvenire ai suoi bisogni allo stesso modo in cui sovveniva alle necessità dei poveri e di ogni uomo nella miseria.
Un simile quadro è così diverso da quello attuale da impegnare tutta la forza di revisione della Chiesa per riconoscersi nel suo volto giovanile. E non può non saltare agli occhi come il motivo dominante dell'amore della Chiesa al lavoro non fosse apologetico o di apostolato, e neppure segno di solidarietà con gli uomini, ma unicamente fedeltà a Cristo ed ai valori da Lui particolarmente amati.
Nello spirito di Paolo, per esempio, il lavoro fa parte dell'esistenza dell'uomo nuovo: "Spogliandovi dell'uomo vecchio che si corrompe...rivestitevi dell'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità. Così dunque...chi rubava non rubi più, ma lavori onestamente colle sue mani per avere di che dare a chi ha bisogno". Il cristiano, dice Paolo, deve lavorare per conservare la sua indipendenza. Deve essere d'esempio per i non cristiani: "Noi vi esortiamo, fratelli, ad abbandonare ancora di più e a mettervi d'impegno a vivere d'amore e d'accordo, occupandovi delle cose vostre e lavorando con le vostre mani, come vi abbiamo raccomandato; in modo da comportarvi onestamente davanti agli estranei, senza aver bisogno di nessuno".
Perchè lavorando si serve Cristo: il lavoro, per duro che possa essere resta intimamente legato al comandamento dell'Amore. Non basta quindi a Paolo di predicarlo; deve anche viverlo. Non ignora affatto che avrebbe potuto assicurarsi l'esistenza con i frutti delle sue funzioni spirituali, ma ciò che gli preme è andare fino in fondo alla sua chiamata, realizzare la sua missione. Egli vuole che il suo esempio sia limpido al punto che si rifiuta di accettare ogni diritto che gli provenga dal suo ministero che egli riconosce solo come dovere e compito da assolvere. Egli è il servo, lo schiavo di Cristo, 1'uomo di fatica, ad immagine di Colui che essendo nella condizione di Dio ha assunto per amore nostro, la condizione di schiavo.
Si comprende allora come chi non cessava di ripetere "Siate miei imitatori come io lo sono del Cristo", abbia dato 1'esempio su un punto tanto decisivo.


da "Le clergé et le travail manuel", Collectif
Desclée 1969


André Bergonier, prete di pieno vento...

"Io sono sulla banchina del porto perchè Cristo deve essere là"
Mercoledì 24 novembre 1965 sono le 11 e 30 del mattino, da sette ore gli scaricatori si danno da fare con le balle di caffè brasiliano di un cargo nel porto di Marsiglia. Ultima cala e poi 1'ora della pausa di mezzogiorno. André Bergonier scaricatore occasionale, colpito dal carico staccatosi dalla gru precipita nella stiva. Sette metri di caduta, morte istantanea. Corre un nord-africano: dà 1'allarme, riconosce l'uomo dal corpo senza vita e grida "è il prete"!
Era prete da due mesi, scaricatore sconosciuto da quattro anni, per gli amici "Dedè", uno dei tanti.
"E' necessario pregare con più ardore che mai perchè la chiamata che io sento si realizzi, perchè le difficoltà umane si appianino, perchè soprattutto la volontà di Dio, qualunque essa sia, si compia. Dio esigerà di più da me? Può darsi che io abbia altre sofferenze? L'essenziale è di tutto fare e di tutto vivere nell'Amore esclusivamente nell'Amore".
Chi era questo prete scaricatore, morto sul lavoro "fratello dell'umanità" come lo chiamava un compagno mussulmano?
André nasce a Chartres il 19 gennaio 1929. Vive in una famiglia ligia all'ordine e alle tradizioni. Non avrebbe mai voluto un'esistenza monotona. Era un meditativo dalla volontà forte sino alla temerarietà. Con un fondo di indipendenza.
A dieci anni, mentre si trova nel sanatorio, perde la madre di trentadue anni: ebbe tanta forza da dominare la sua pena. Studia presso i Fratelli delle Scuole Cristiane e al liceo della "Prytané de la Flèche". Suo padre si risposa nel 1942 e André ritrova nella sua casa una presenza materna alla quale resterà sempre attaccato. Nel 1951 entra nell'Accademia Militare di Saint-Cyr: sembra la strada definitiva data la fierezza di questo giovane ufficiale "tirato a quattro spille".
"Fino a venti anni, io mi ero nutrito di libri di guerra, d'avventure, di biografie di uomini illustri, perché io volevo vibrare per qualche cosa che mi superasse". André desidera l'assoluto.

DALL 'UNIFORME ALLA TUTA .
Agosto 1952 - Febbraio 1954. Da quattro anni è tormentato dalla chiamata di Cristo: una chiamata dei primi tempi volta ora verso il mondo del lavoro. Questo giovane senza sotterfugi, dall'ardore contenuto, poco loquace, sollecito di concretizzare piuttosto che perdersi in spiegazioni senza fine. Il suo sguardo acuto, con occhi di un nero castagno, un sorriso che si espandeva con scoppi di risa nei quali egli era disinvolto e rilassato. La sua fisionomia lo rendeva simpatico sotto un'andatura un po' impacciata. Tutto confluiva a dire di lui: è un uomo. Dolce e ostinato nella sua fedeltà il contrario del "come tu mi vuoi".
Lascia l'Accademia, taglia tutti i ponti per essere cristiano in questo mondo in gestazione. Lavora in un cantiere di Nanterre. Non può avere ripensamenti perché si tratta direttamente della causa di Dio. André se ne infischia della posizione assicurata, dell'avvenire sistemato, del denaro e di tutti gli idoli riveriti. "Andare a fondo con speranza senza voltarsi indietro per domandarci se è bene". Sua unica sofferenza è l'aver dimenticato Cristo sino a venti anni; ora crede nell'amore, è immerso nel mondo del lavoro perché crede in Gesù Cristo e che tutti gli uomini sono fratelli.

UN CAMMINO ARIDO.
Dal novembre 1955 al giugno 1961 entra nel seminario della missione di Francia a Pontigny. Fa il corso normale degli studi senza mai perdere di vista il mondo degli operai e dei poveri, mondo da cui è sbocciata la sua vocazione sacerdotale.
1961: André è diacono. Rimanda il sacerdozio perché la sua situazione d'attesa sia urgenza apostolica alla chiesa per i preti al lavoro. In questi anni collabora con una comunità di preti e di cristiani a Marsiglia e lavora sul porto come scaricatore. E in pieno accordo con il suo vescovo.
7 settembre 1965 è prete "ma io mi sento uomo come gli altri". Sa che è necessario attaccarsi sempre di più a Cristo. La sua indegnità - anche se lo fa soffrire - non gli mette dubbi sulla via dove lui si è incamminato.
André non si appartiene, appartiene totalmente all'immensa famiglia di uomini alla quale ormai egli è ancora di più donato. Il suo è l'itinerario di un uomo che nella povertà e nello spogliamento totale di se ha incontrato Cristo nei suoi fratelli. "Non vi è avventura più grande del giocare la propria vita per Dio". Esistenza di un prete che vive alla sua maniera la grande tradizione di fede della chiesa con una profonda attenzione alle richieste umane del mondo operaio.
Di natura silenzioso, André non provava affatto 1'imperioso bisogno di confidare la grande passione che gli si era annodata nel più profondo del cuore. "I silenziosi, sono i soli di cui la parola conta". La sua vocazione coincide esattamente con il tempo in cui la chiesa, per un momento desiderosa che dei preti condividessero la vita degli operai, volle mettere fine, per dei lunghi anni, a quella che disgraziatamente fu chiamata "1'esperienza dei preti operai". André affermava la sua certezza d'essere chiamato al sacerdozio e di essere inseparabilmente legato al mondo operaio. Come risposta alla chiamata di Dio andò a lavorare due anni in una officina a Colombes. Per lui la chiamata del mondo operaio era tutt'uno con l'appello di Dio. "Io mi sento per principio della Chiesa e per principio legato al mondo operaio. Nella mia vita, la chiamata di Dio si è fatta attraverso la Chiesa ed il
mondo operaio. E' la Chiesa che mi dona il Vangelo, è il mondo non cristiano che lo reclama". La sua vocazione è una storia di fedeltà alla prova dei fatti.

UOMO COME GLI ALTRI
Egli crede decisamente all'impossibile con la certezza che, malgrado i colpi duri egli ha Gesù Cristo e la missione. Come diceva uno dei suoi compagni, la vocazione di André era "personificata" più che personale: in lui Dio aveva unito la chiamata al sacerdozio e ai poveri. Più volte Dedé confesserà nelle sue lettere "le mie preferenze personali non mi hanno mai spinto verso l'officina". Paradosso di questa vocazione, l'appello si fa imperioso durante gli anni che Dedé domanda di restare diacono a Marsiglia per essere richiamo vivente, nella Chiesa, di una missione che egli ha sempre considerato come urgente: "L'evangelizzazione dei più diseredati per una presenza totale nella vita operaia". Questa contestazione nella Chiesa sarà pari alla sua fede in essa. Credere a fondo alla missione della Chiesa, cercare di restare fedele alla chiamata che ha orientato la sua vita, è duro: "L'essenziale sta nel non mettere mai in discussione la Chiesa". La Chiesa dei poveri, egli non sapeva definirla altrimenti che con la sua vita semplicissima. Era sconcertato dalle grandi discussioni fra preti. Per il suo gusto dell'assoluto ha forse minimizzato le realtà che fanno parte del peso della vita: "Necessità delle organizzazioni politiche e sindacali, la vita di gruppo, le ideologie..". Eppure Dedé sempre si è rimesso in questione quando si tratta di stanare in se stesso l'incredulità del mondo.

IL SUO ARGOMENTO
Volentieri, avrebbe risposto a chi l'interrogava, come il Maestro "Venite e vedete", la vita di lavoro giorno per giorno, le pene e le gioie partecipate, l'amicizia con la gente semplice, il colpo di mano, questa era la sua via e il suo mistero di comunione con Cristo.
"Il mio argomento, è la mia vita". "Evangelizzare è prima di tutto una maniera d'essere con la gente". Sono parole di Dedé. Infatti l'evangelizzazione non consiste solamente nel leggere e spiegare il Vangelo, ma soprattutto nel viverlo. La parola deve rivelare il senso profondo di quello che è vissuto. Il "venite e vedete" è un'altra cosa che "Io so, io so" di coloro che studiano e compilano rapporti su rapporti per conoscere la realtà del mondo del lavoro. I poveri non si sono mai ingannati. Hanno riconosciuto in André uno di loro. In lui, alcuni hanno fatto conoscenza con Gesù Cristo. In presa diretta con gli uomini del suo tempo, André ha vissuto, come egli diceva, 1'Assoluto dell'Amore di Dio in mezzo agli uomini. Lunghi paragrafi delle sue lettere manifestano questo assillo di Dio come il tratto dominante di una vita nella sua intimità, insospettato agli amici. La vita di Dedé fu semplificata ed unificata intorno all'essenziale. Al di là di un cammino dentro la notte, André era un uomo fondamentalmente felice: Dio era il suo alto incontro. Aveva appreso ad essere prete dal di dentro del mondo operaio. La Chiesa dopo aver studiato le sue attitudini a vivere come prete fra i non cristiani, l'ha inviato in mezzo ad essi. Per la sua Chiesa, come per coloro che l'avvicinarono, Dedé è stato un uomo che "fa questione". "Il destino eterno dell'umanità mi ha talmente ossessionato che mi sento profondamente ingaggiato nella condizione carnale di questa umanità".
Questo lungo cammino a tastoni - 13 anni - è stata una vocazione battistrada nella Chiesa di quello che sarà domani un sacerdozio nel cuore degli uomini. Dedé deve sempre rendere conto alla chiamata che è in lui, questa per lui è l'unica maniera di essere prete, uno statuto di esistenza e non una forma particolare di ministero: non prese mai in considerazione una possibilità di essere prete senza raggiungere gli uomini là dove essi sono. Il lavoro manuale in regime di salariato ebbe nella sua vita una preferenza - altro che incompatibile con il sacerdozio! - perchè è la condizione comune degli uomini: il prete dispensato dal condividere la sorte comune degli operai è solo una eccezione per il servizio speciale del Vangelo. I preti al lavoro non sono dei preti eccezionali ma in condizioni di esistenza che li rende uguali a tutti gli uomini. Operaio fra gli operai, Dedé non fu un contemplativo nella maniera di un p. Peyriguère in Marocco o di altri, in India o altrove. Per lui tuttavia, ci fu soprattutto il tempo di Nazareth. Nuovo modo di vivere il sacerdozio e André lo comprendeva. L'avrebbe compreso ancora di più se più a lungo avesse vissuto. Non ha contestato tutte le forme di ministero parrocchiale o altre. Si è prestato con applicazione ai compiti parrocchiali o di insegnamento che non erano chiaramente congeniali alla sua vocazione. Egli è di coloro che offrono ai preti di parrocchia un altro stile di vita, un modo di esistenza che somigliava di più al suo. La sua vita e la sua morte sono un segno per coloro che s'interrogano sulle strutture stanche e sclerotiche della Chiesa, sulla loro maniera di vivere separati, sulla loro assenza dalle comunità vive degli uomini.

DEDE' UOMO DI DIO
"Vi sono è vero dei momenti in cui uno sente il bisogno di riposarsi su delle fedeltà profonde e dure, di rifiatare nella via che uno percorre, che ci impegna: ma il riposarsi, il rifiatare è rompere questa fedeltà, spezzare la propria vita. Deve essere ritrovato il senso profondo della missione: il lavoro di Cristo fra gli uomini. Noi dobbiamo prendere in braccio il corpo, e afferrare come la missione è abbarbicata nella nostra fedeltà personale". Dedé non aveva teorie né sul sacerdozio né sulla vita operaia, viveva la fede nella condizione semplice della gente ed era sempre tormentato perchè il mondo operaio era tanto più povero per la mancanza dell'annuncio di Gesù Cristo. Un gruppo di amici "non credenti" dicevano di lui: "Dei preti non ci interessa. Noi vogliamo degli uomini di Dio. Dedé era un uomo di Dio, il nostro prete."
Aveva scritto prima di morire: "Lasciamo sempre più che gli altri entrino nella nostra vita ed entriamo sempre più noi nella vita di Dio. Custodire di lassù tutto il sorriso, la gioia, la speranza. Essere di già donne e uomini della Resurrezione."
Dedé, prete e scaricatore, morto nel buio della stiva fu uomo della Resurrezione.


don Rolando

André Bergonier - L. Rétif ed Casterman


La violenza del divorzio

Volevo scrivere una pagina sulla non violenza, e riflettendo pensavo che il non violento ha risolto il problema della sua vita in modo radicale, l'ha come unificata, la vita, l'ha essenzializzata, e ha reso quasi impossibile lo sbriciolamento quotidiano in una serie di problemi che ad ogni passo ci opprimono: il benessere, il superfluo, la povertà, la castità e il numero dei figli, la famiglia o gli altri, la verginità o il matrimonio, il divorzio o no, la comunità o il messaggio da offrire al mondo. Non vi è più spazio per questi dubbi - seppure essi sussistono ~ perchè si è scelto qualcosa tanto più quando scegliere qualcosa ha voluto dire scegliere Qualcuno.
Chi è disposto a preferire la via dell'amore fino al punto di cercare un dialogo con i nemici, di volere e domandare l'incontro con ogni mezzo, di rifiutarsi di uccidere 1'avversario, è necessariamente povero, qualunque sia la somma che guadagna, è necessariamente puro nel suo entrare nella vita, nel percorrerla, nel viverne le situazioni concrete, che siano di verginità o dì matrimonio, con tutti i loro problemi.
E mi è venuto in mente, come contrasto con questa serietà di scelta, il divorzio, e l'ho rivisto in tutta una vastità di problematica, così come l'ho sempre pensato e mi è parso più che mai chiaro ed evidente in quale modo sbagliato si è quasi sempre affrontato il problema, quante volte nel valutarlo ci si è fatti fermare da problemi minori e collaterali per una mancanza di chiarezza di fondo che facesse decisamente superare il fatto immediatamente politico, sociale, giuridico.
Il divorzio o no cosi come tanti altri avvenimenti incisivi per la vita di migliaia di persone, è un po' il banco di prova, non già del connubio Chiesa e Stato, del concordato, dei partiti politici, ma della nostra posizione interiore di fronte ad alcune realtà, della chiarezza, di alcune idee di fondo che ci danno di vivere con coerenza o meno.
E' chiaro che il discorso è prima ancora che cristiano, umano. Che coinvolge lo stesso essere dell'uomo e della donna: questo meraviglioso portare dentro di noi, nascosto come un pugno di lievito, ma chiaro come la luce, scritto nei corpi nel cuore nell'anima, il nascere crescere e evolversi dell'universo, la legge che ne regola l'andamento, la spinta all'unione di tutto ciò che è molteplice e diviso, il mutarsi incessante di ciò che è statico in ciò che è dinamico, il susseguirsi della tenebra e della luce, dell'aridità e della vita per sbocciare nella coscienza e conoscenza del creato che è nel cuore dell'uomo. L'uomo e la donna, nati da tutto il creato, ne portano la voce nel cuore e nel corpo, unendosi lo pacificano, ne vivono la spinta all'ascesa, la gioia della vita, il bisogno di esprimersi. Nella stabilità della loro unione vi è qualcosa che trascende il tempo.
Vi è un altro discorso, profondamente, immediatamente, seriamente umano su cosa voglia dire affrontare la vita insieme con tutti i suoi problemi e le sue lotte, spendere insieme il tempo che si ha, mettere in comune tutto ciò che si possiede, dai valori che nel corso degli anni ci nascono e crescono dentro fino a quanto si può avere di esterno a noi in cose possedute.
Ecco che quando questo vivere in comunione con altri la propria vita e realizzato non da piccoli o grandi gruppi ma da due oersone, e specialmente da un uomo e una donna, umanità completa, viene ricostituita la coppia umana, l'integrità, la completezza dell'essere umano. E' strano pensare che si possa affrontare la vita con più uomini o più donne contemporaneamente o successivamente, e continuare a realizzare un discorso di "unione".
Si perderebbe in modo immediato una completezza unitaria, qualcosa si rompe, un dono avuto in fondo senza merito, una profondità di verità anche umana che il cristianesimo ci aveva offerto e che noi non avevamo compreso, l'unione stabile dell'uomo e delle donna, questa indicazione precisa offerta così largamente a noi occidentali, questa perla preziosa vivente nella nostra storia, questa possibilità di affrontare la vita e tutti i suoi problemi con modi cristiani di esistenza, già unificati alla base, già un tutt'uno, già infiniti piccoli nuclei di umanità completa.
E' chiaro che la visione cristiana offre considerazioni diverse da quelle semplicemente umane, viene ad arricchire all'infinito, a spiegare, a colmare i vuoti che la vita ci scava dentro, a lenire le ferite che quotidianamente riceviamo: viene a rendere tutto un'altra cosa, necessariamente un qualcosa di diverso.
Perchè ora il mistero della vita, la fatica dell'andare, la gioia del riposo, nel matrimonio o in un'altra via scelta, non lo affrontiamo più da soli. E' venuto Gesù Cristo. Ci ha tracciato una strada ed ha detto: io sono la Via. Ci ha raccolti nel Suo cuore ed ha detto, io sono la Vita, io il cibo, io la bevanda. Non dipendiamo più da noi ma da Lui.
E vivere - in questo caso i1. matrimonio - significa camminare su quella strada che è Lui, accettare le sue scelte e i suoi modi, fare riempire da Lui e da Lui solamente i vuoti creati dal dolore, dalle incomprensioni, dalla morte, dalla malattia. Accettare anche noi, perché è con Lui e su di Lui che camminiamo, la Sua profonda fedeltà all'umanità, il Suo non abbandonarci mai, la sua capacità di amare chiunque, anche i nemici, la pena immensa del Suo cuore di fronte alla malattia e alla morte - il Suo essere disposto a morire pur di donarci la vita.
Cosi anche noi nella fedeltà l'uno all'altro, pur nella difficoltà, nelle incomprensioni, nelle malattie, nel carcere, nell'inganno avuto - e non è così tutta la vita, e non vi è dappertutto questa fatica del vivere? Come posso dirmi cristiano e poi sgomentarmi perchè amare è troppa fatica, troppa pena accettare, troppa croce accogliere, troppo pesante combattere per tenere a galla certi valori nonostante tutto. Come sottrarmi io, che ho scelto in Cristo di accogliere la vita per portarla a Dio, la vita in tutto ciò che offre di buono e di cattivo, la vita mia, degli altri , del mondo - e amarla stranita e assurda come è perchè vi è nascosta in essa qualcosa di Lui - come faccio a dire sì, sono cristiano, e non amo l'umanità nel volto di mio marito o di mia moglie.
E come possiamo noi cristiani distrarci e farci confondere da argomenti di politicanti, da una presentazione che punta sulla nostra buona fede che crede nel rispetto della libertà altrui e dice: se la maggioranza lo vuole è giusto che io consenta. Come faccio a dire: non posso obbligare gli altri quando questo significa rinunciare a una preziosità nella quale si crede, che già esiste, il cui sparire anche solo su un piano giuridico ci renderebbe più poveri.
L'unica cosa buona che ne verrà se ci sarà questo povero divorzio, è che il Concordato ne avrà un gran colpo, che diminuiranno i matrimoni religiosi, e che noi cristiani avremo l'occasione pratica per capire quanto poco avevamo capito e fatta nostra la novità del modo cristiano, di affrontare la vita, e ci verrà il desiderio di ricominciare, costruendo finalmente sulla roccia.


Maria Grazia

La scuola nei Seminari

Abbiamo ricevuto da amici seminaristi questo progetto di scuola teologica nei Seminari.
Condividiamo in genere le idee espresse anche se giudichiamo il tono e il modo un po' eccessivamente polemico: sta di fatto che la crisi dei seminari non è certamente risolvibile con liberalizzazioni varie e trasformazioni marginali. E tanto più il gravissimo problema delle "vocazioni sacerdotali" e della loro preparazione alle responsabilità del Sacerdozio nel Regno di Dio nel nostro tempo.
LA SCUOLA DI TEOLOGIA si configura oggi come qualunque altra scuola, di lettere, matematica, medicina.. Come ogni altra scuola mira alla specializzazione. Usa gli stessi strumenti scolastici (lezioni cattedratiche, testi, esami, voti...) e unicamente questi.
Pensiamo alla scuola di teologia come ad una scuola di fede che si propone di interpretare la vita e il mondo secondo il pensiero di Dio, che vuole rendere "la fede viva rischiarandola con la dottrina" che annuncia una notizia di gioia per chi la dice e per chi l'ascolta.
IL PROFESSORE OGGI è lo specialista, l'esperto. A lui importa di avere spiegato bene, e che la maggioranza degli allievi abbia capito quello che ha detto lui.
Pensiamo al compito del professore come ad un carisma da mettere al servizio degli altri (servizio d'insegnamento per edificare la Chiesa). Pensiamo alla scuola come ad una comunità che si raduna per interpellarsi sulla Parola di Dio. E in essa c!è chi è dottore e chi è profeta..
LA FRANTUMAZIONE DELLE MATERIE, l'abnorme crescita di certe parti di pura erudizione rendono la teologia un ammasso di verità o nel migliore dei casi una cultura particolare, ma non danno il senso del messaggio di salvezza, per il quale decisiva non è l'intelligenza ma 1'opzione.
E invece una lettura lenta, attenta, comunitaria (e non solo esegetica) del Vangelo è lasciata agli individui o agli sforzi troppo brevi dei gruppi nella preghiera del mattino. Certe pagine terribili che scardinano il nostro pensare umano, sono sorvolate tranquillamente.
NEL NOSTRO TIPO DI SCUOLA non sono previsti la ricerca in comune, il confronto di idee, il lavoro di gruppo... Solo il professore può parlare. Agli allievi non resta che prendere appunti e studiarseli per proprio conto.
L'ESAME E' IL CULMINE DELL' INDIVIDUALISMO, è il momento-chiave dell'attuale struttura scolastica, ognuno deve prepararvisi da solo e ripetere poi da solo al professore tutto quello che riesce a ricordare. Da quel momento non interessa più che il compagno abbia capito o no, che abbia avuto possibilità di studiare o no, che riceva un bel voto o no..
E' francamente mistificante parlare tanto di comunità, di carità, se si lasciano sussistere strutture squisitamente individualistiche. Non bastano le parole e neppure le buone intenzioni quando la realtà delle cose è diversa. Il vivere in comunità, il porsi socialmente significa, non mirare a realizzarsi individualmente ma a promuoversi insieme.
La scuola (e quella teologica in particolare) ha senso ed utilità quando cerca e dà delle risposte vitali, quando provoca un comportamento e non un puro arricchimento intellettuale. Essa è in funzione della vita, e non viceversa. Nel nostro caso, invece, potrebbe succedere qualsiasi evento nel mondo, nella nostra cittadella Chiesa, e noi imperterriti continueremmo il nostro trattato, il nostro argomento, passando sulle teste degli uomini, perdendo tutte le occasioni di coglie re i segni di Dio nel nostro tempo.
Neppure i fatti che ci coinvolgono direttamente, i nostri problemi, le nostre azioni politiche e pastorali sono verificate insieme. La pretesa di astratta scientificità ci conduce a mantenere 1'equidistanza, 1'equilibrio, che finisce per diventare neutralismo e DISIMPEGNO.
Si dice che la scuola deve diventare pastorale. Perchè lo diventi autenticamente ci paiono necessarie due condizioni:
"L'approfondimento degli insegnamenti della rivelazione e l'intelligenza della fede non sono possibili che nella misura in cui si è generosamente impegnati a viver nella propria vita il Vangelo".
Le cose insegnate e imparate devono essere messe a confronto, non teorico, scolastico, ma concreto, politico, con le situazioni. E' una presa di giro venirci a insegnare cose che in diocesi per es. sono considerate eresie o almeno pallini, o che le strutture attuali non possono tollerare.
IN CONCRETO PERCIÒ MIRIAMO A:
L'abolizione della figura del professore:
Rifiutiamo il professore come puro espositore, come puro esperto. Deve invece rendersi responsabile di quello che dice e delle conseguenze operative che ne derivano, e della comunità scolastica in cui lavora.
Rifiutiamo il professore come detentore di potere, per cui bisogna studiare, sapere e ripetere all'esame quello che il professore dice e insegna a scuola e nella forma in cui lo insegna.
Rifiutiamo il professore per la discriminazione che opera nella comunità, per cui gli si devono dei riguardi particolari, per cui il suo programma e il suo parere sono decisivi, per cui è da evitarsi, almeno in scuola, ogni scontro e persino il confronto.
L'abolizione dell'esame:
Rifiutiamo l'esame come criterio discriminante individualistico, rivelatore di potere detenuto dal professore, da manovrarsi con accorgimenti tattici dagli allievi.
Rifiutiamo che tutto dipenda dal professore, magari anche dalla sua digestione. E non intendiamo neppure più stare al gioco: far finta di avere capito, dargli sempre ragione, studiare il suo pallino...

L'abolizione del voto:

Rifiutiamo il voto come criterio che accentua l'individualismo strutturale della scuola, e anche come criterio inutile per chi non mira alla carriera ecclesiastica.
Una forte riduzione della scuola cattedratica:
riteniamo finita l'epoca dell'imbonimento.
E' pure ora di finirla con le finte riforme che non sono altro che scopiazzature delle lezioni cattedratiche, quali le relazioni tenute dagli allievi o dai gruppi. I professori in ogni caso dovrebbero capire che persino dispense ben fatte sono molto spesso più chiare delle loro lezioni, e inoltre risparmiano notevolmente tempo e fatica.

una rottura sincera del legame tra risultati scolastici e Ordinazioni
Il prete non è un laureato, uno specialista.
Convogliare tutte le energie per istituire la facoltà teologica finisce per mistificarne ancora di più la figura.
non rifiutiamo naturalmente
di studiare, di ascoltare chi sa, la scientificità degli studi, la cultura, i libri...purché tutte queste cose non vengano assolutizzate.
PER ATTUARE QUESTI CAMBIAMENTI occorre che tutti insieme si ricerchi e si esperimenti. A questo punto la nostra proposta non può indicare che genericamente alcuni tipi di azione. Le scelte concrete dovranno essere studiate e concordate insieme, tenendo conto delle circostanze e del grado comune di coscienza e di volontà.
Si potrà dunque ricorrere ad azioni di pressione, da attuarsi nelle strutture esistenti (come assemblee, manifesti...) oppure contro di esse (come controcorsi, rifiuti collettivi a dare l'esame o a partecipare alla scuola..) E si dovranno pure esperimentare nuove forme di studio, una ristrutturazione di corsi in tempi, ritmi, ambienti, gruppi diversi (l'orario, le vacanze estive, l'edificio del seminario...non sono sacri!),nuovi tipi di valutazione (di maturità, collettivo?)...
Sono uscito di casa ed ero ancora un ragazzo. Quell'uscire di casa è voluto dire, lo ricordo bene, uscire dalla famiglia naturale. Con tutto l'affetto infinito di mio padre e specialmente di mia madre, entrando in seminario io sono diventato un orfano. E ragazzo solo, abbandonato ad estranei con mentalità così assurde, con regolamenti così aridi, in un'enorme casa anonima, sono cresciuto orfano. La Chiesa è stata un collegio spietato per demolirmi e poi ricostruirmi in meccanismi prestabiliti non so perché e non so da chi. Certo non da una Madre. Ma non sapevo nulla della Chiesa che stava per generarmi. Conoscevo il Vescovo per il terrore di quando veniva a scuola a interrogare sull'aoristo dei verbi greci e sulla metrica di quell'antipatico sciocco che era Orazio. Qualche conversazione se il mangiare era passabile. E quelle cerimonie ufficiali, e quei pontificali aridi e brulli come le prove generali su un palcoscenico, a teatro vuoto. Tutto qui.


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