POPOLO DI DIO: PdD anno 2° gennaio 1969

idee ed esperienze della Comunità Parrocchiale di S. Maria

Chiesa e uomini di chiesa

Volere o no, l'idea - e la realtà "Chiesa" da sempre (a parte i primissimi tempi), ma ora in modo particolare, appartiene al clero, si riferisce e significa il mondo degli ecclesiastici. Nonostante tutti gli sforzi da parte dei teologi, dei liturgisti e di tutta una pastorale, parlare di Chiesa e intendere la comunità di tutti i fedeli, l'insieme del popolo di Dio, l'unità di tutti i credenti in Cristo fino a significare il Mistero del Corpo Mistico, questa realtà di salvezza nata in Gesù Cristo e continuata dalla Chiesa nel mondo, nella storia dell'umanità, è fatica che non riesce assolutamente più a impedire che Chiesa siano intesi soltanto il Papa, i vescovi, i preti, i religiosi, gli "uomini di Chiesa", insomma.
Questo confondere uomini di Chiesa con la Chiesa, col Mistero cioè del Cristianesimo nel mondo, è una delle difficoltà più gravi per il Regno di Dio nel mondo.
Perché, allora, la Chiesa diventa clero, mondo ecclesiastico, cosa di preti, di frati, di vescovi e papi.
La Chiesa quindi risulta un mondo a sé stante, ben separato e ben difeso con particolari mentalità e sensibilità, cultura inconfondibile, una morale ben qualificata, un codice di un diritto speciale, una realtà economica tutta sua, un presentarsi esterno ben distinguibile, un linguaggio particolare (anche dopo l'abolizione della lingua ufficiale), una sua storia..
E il mondo civile, quello della gente, dei popoli, nel quale vive il mondo ecclesiastico. Popolazioni cristiane, civiltà cristiane, cultura cristiana, e nel frattempo terribile incomunicabilità, separazione nettissima, contrasti spietati, respinte feroci, dentro le proprie trincee da parte della Chiesa e di questo mondo, scavando sempre più una separazione a seguito di una distinzione per un qualificarsi sempre più netto e preciso di uomini come uomini di Chiesa e gli altri uomini, cioè l'umanità.
Finché durerà questa separazione, la Chiesa sarà sempre più l'insieme degli "uomini di chiesa" e il popolo rimarrà il popolo, semplice e passiva contenenza di questa realtà che gli rimane estranea fino ad essere spesso sentita come nemica.
Vi sarà sempre un mondo ecclesiastico e un mondo laico. I preti in quell'insieme di mentalità e di modi che li distinguerà e li separerà (anche se l'abito è un po' più maschile) dagli uomini veri.
Questa situazione di incomunicabilità per separazione fatta di differenziazione che arriva fino al contrasto, è stata molto scopertamente e onestamente notata da Paolo VI nel suo discorso agli operai di Taranto. Quelle parole che constatano amaramente la lontananza (e sembra quasi incolmabile) degli uomini di Chiesa e quindi della Chiesa, dal mondo operaio e cioè dalla realtà umana più viva e concreta, pronunciate nella notte dì Natale, nella celebrazione del Mistero della Incarnazione, di Dio cioè che supera la lontananza che c'è fra la Divinità e l'umanità (specialmente a seguito del peccato originale) per un incontro d'infinito Amore che è Gesù Cristo, quelle parole ci hanno profondamente impressionato, quasi sgomentato.
"Ci sembra che tra voi e Noi. non ci sia un linguaggio comune. Voi siete immersi in un mondo che è estraneo al mondo in cui noi, uomini di Chiesa, invece viviamo. Voi pensate e lavorate in una maniera tanto diversa da quella in cui pensa e opera la Chiesa... perché noi tutti avvertiamo questo fatto evidente: il lavoro e la religione, nel nostro mondo moderno, sono due cose separate, staccate, tante volte opposte".
La crisi che travaglia il popolo di Dio nel nostro tempo è determinata da questa amara constatazione di separazione e di lontananza della Chiesa dal mondo nel quale la Chiesa vive e per il quale la Chiesa è.
Gli uomini della Chiesa vivono il loro mondo ecclesiastico, obbediscono alle sue leggi e ne subiscono le esigenze in una concatenazione di dipendenze per un impegno a ritorno interno, quasi anelli di una catena che si risalda con l'ultimo anello per chiudere un mondo come se fosse destinato ad essere completo in se stesso e da immettere poi, così in blocco, dentro la realtà dell'esistenza umana, nella storia.
Come le cose siano andate e perché siano a questo punto (e sono secoli, ma ora il problema sembra che sia arrivato sull'orlo) non è compito nostro (e nemmeno ne abbiamo la capacità) approfondirlo. Non possiamo però non constatarne la situazione e non renderci conto di un problema così impressionante. Questo. Nei tempi passati la lotta è stata aspra e durissima per un contrastare spietato del mondo nel quale la Chiesa è e vive, contro la Chiesa e tutto quello che la Chiesa significa, dalle sue realtà dogmatiche fino ai clericalismi più spiccioli e banali.
Una insopportazione e una guerra prima e una respinta sempre più progressiva fino al tentativo di rinchiudere la Chiesa nel suo mondo ecclesiastico, nel castello incantato, aiutandola dall'esterno a tirar su anche i ponti levatoi.
Ma ora, e per la prima volta, è nell'interno della Chiesa e del mondo ecclesiastico che sta nascendo e violentemente si sta prospettando il tentativo di rompere le difese, scavalcare le trincee, uscire all'aria aperta e rientrare nella realtà del mondo ristabilendo una comunicabilità, riprendendo una presenza viva, realizzando una incarnazione autentica per una partecipazione totale della vita attraverso un viverla seriamente e responsabilmente a tutti i livelli e per tutti i motivi che la vita comporta in se stessa e per i motivi che nascono e arrivano fino a violenze d'Amore a seguito della Fede in Gesù Cristo e di una consacrazione a Lui.
Una volta a far questo erano i santi.
Ora sono semplici cristiani. Poveri preti. Piccole comunità. E a volte sembra che questo sia o possa essere perfino il respiro affannoso in cerca di ossigeno buono, di popoli e di continenti.
Sta il fatto che la Chiesa è scossa da una presenza violenta di Spirito Santo. Perché è in ricerca di santità, cioè di una fedeltà al Mistero di Cristo che vuole essere vivo d'incarnazione nella realtà del mondo.
Ciò che non è assolutamente giusto è rimanere indifferenti quasi giudicando assurda una comprensione,, una comunione della Chiesa Mistero di Cristo e di tutta la realtà della esistenza umana. Sarebbe come giudicare impossibile un Cristianesimo fatto di Incarnazione, un'assurdità la Fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo.
D'altra parte è sciocco che gli uomini di Chiesa continuino a sperare che l'umanità diventi Chiesa così come gli uomini di Chiesa hanno fatto e stanno facendo la Chiesa. Sempre più il mondo moderno non sopporta una visione religiosa della vita e un sopportarla e viverla in modo devozionalistico, precettistico, formalizzato o per meglio dire "ecclesiasticizzato". Assistiamo sempre più ad una necessità di impostazione religiosa esistenziale in modo tale che il valore religioso e cristiano parta da una concretezza di serietà di cristianesimo impegnato e vissuto nelle realtà umane: da quelle di questa terra fino a quelle del Cielo. Sempre più viene richiesta al fatto religioso e cristiano una capacità di assolvere a tutto il problema uomo nel suo insieme di valori naturali e soprannaturali. La storia della salvezza comincia da questa terra e si conclude in Paradiso e è storia di incessante e totale liberazione perché gli uomini possano essere sempre più figli di Dio.
Il problema più grave della Chiesa dei nostri tempi (come in altri tempi, anche se a seguito di motivi diversi) è questa insopportazione di lontananza, di opposizione e di contrasti fino alla realtà di due mondi diversi, quello degli uomini di Chiesa e quello in cui vivono gli altri uomini.
Ciò che deve essere cercato e che deve risultare chiarissimo è che il motivo che spinge tentativi di superamento di questa separazione sia la consapevolezza di un Cristianesimo che è Mistero di Incarnazione cioè di partecipazione totale della vita fino alle misure di un assumersi tutta la realtà dell'esistenza, misure che sono precisamente quelle di Gesù Cristo che sono senza misura e l'Amore all'umanità sentita e amata come la massa di farina bisognosa di lievito, la terra senz'acqua, il buio senza luce..
Quando gli uomini della Chiesa sono in modo tale e agiscono e intervengono in modo tale da sembrare o addirittura da essere ostacolo al superamento di quella separazione, di quella lontananza, di quel contrasto, la Chiesa è sempre più quel mondo diverso abitato soltanto da uomini che sono gli uomini di Chiesa e rimane "estraneo" a quel mondo abitato dagli uomini senza specificazioni che sono l'umanità.
La storia ecclesiastica dei nostri giorni (da dopo la serietà prodigiosa di Papa Giovanni e lo sforzo impressionante del Concilio Ecumenico) si sbriciola in ricerche appassionanti o miserabili, dignitose o banali, a livello di comunità illuminate o di gruppi scontenti, a seguito di irrequietezze meravigliose o di mediocrità personali..., è storia di ricerche per trovare il sistema giusto, il rivoluzionamento adatto, la rottura inevitabile e la costruzione seriamente nuova perché la separazione sia superata, le distanze ravvicinate, gli abissi colmati fra la Chiesa e l'umanità in modo da realizzare il Popolo di Dio.
Sono le considerazioni del tempo di Natale. E la storia da dopo Gesù è tempo di Natale, cioè di Dio che si fa Uomo attraverso uomini che accolgono come ragione della propria esistenza il Mistero di Gesù Cristo nella sua incessante incarnazione, passione e morte per la salvezza di tutta l'umanità. Perché questa è la Chiesa.
Ma spesso chissà perché par d'essere sempre in tempo d'Avvento e vengono in mente le parole del profeta Isaia, "Voce che grida nel deserto, preparate le vie del Signore, fate retti i suoi sentieri. Ogni valle sarà colmata, ogni monte e ogni colle sarà abbassato, le vie storte diventeranno diritte e le scabrose vie pianeggianti ed ogni uomo vedrà la salvezza di Dio" (Lc. 3, 4).
E' la speranza, a volte tanto sofferenza, dei nostri tempi. E' la responsabilità che riguarda in modo diretto e personale e in misura terribile gli uomini di Chiesa, se vogliamo in totale obbedienza a Gesù che ogni uomo veda la Chiesa come la salvezza di Dio.

disse: NO

Di buon mattino, 25 Febbraio 1943, il contadino F. Jagerstatter uscì di casa cercando di non farsi notare. Non si avviava al lavoro consueto dei campi, ma alla solitaria testimonianza di umile operaio del Regno di Dio. "Oggi mi avvio su un cammino difficile" dove né la sua chiesa, i suoi sacerdoti, la mamma e i suoi compaesani potevano e volevano aiutarlo. Solo con Dio era risoluto più che mai. Non si faceva illusioni circa la sua sorte. Una donna lo intravide dalla finestra allontanarsi a passo lento, arrestarsi un istante, poi tornare indietro come per abbracciare con un lungo sguardo tutto il paese prima di riprendere decisamente la strada per Titmoning. "Dio ti accompagni, Franz" fu l'abituale saluto del suo migliore amico già al lavoro nella sua fattoria: Jagerstatter, scuotendo tristemente la testa, rispose "Non mi vedrai più". Stava infatti avviandosi coscientemente alla morte. Era stato richiamato alle armi al centro di mobilitazione di Ennz e da anni aveva deciso, di dire "NO". Infatti, ricevuto l'ordine di prendere parte a una guerra che giudicava ingiusta, una guerra che serviva i disegni di un regime politico immorale, Franz rispose col rifiuto a sottomettersi. Come cristiano preferiva combattere con la parola di Dio più che con le armi. Egli amava in modo appassionato l'Austria e rifiutava di servire l'oppressore del proprio paese. Sapeva che sarebbe stato giustiziato, ma preferiva morire a quel modo piuttosto che fare il male.

Franz Jagerstatter era nato il 20 maggio 1907 a Santa Radegonda, piccolo paese dell'Austria superiore. Suo padre morì nella prima guerra mondiale. Visse la sua giovinezza nel lavoro dei campi - trascorse anche tre anni nelle miniere di. ferro - e fu spensierato come molti della sua età. I compaesani ricordano Franz con simpatia e con affetto: "Era un tipo formidabile". Giovane simpatico, brioso, robusto, dinamico: bravissimo alle bocce, buon cacciatore, appassionato del giuoco, delle carte e della danza, sensibilissimo alle belle ragazze. Intelligente ed accanito lettore, aveva compiuto con buoni risultati il corso di scuola elementare. Pronto a distinguersi e ricco di spirito di iniziativa, era sempre disponibile a battersi e a trascinare gli altri nella battaglia. Per cocciutaggine non aveva tralignato dalla famiglia. Come cristiano ci dà testimonianza in una sua lettera: "La mia esperienza personale mi ha insegnato quanto sia penosa la vita di un cristiano tiepido: è vegetare più che vivere". Però si interessava vivamente di problemi religiosi, partecipava a corsi di istruzione religiosa.

Prese piena coscienza dei valori cristiani quando, nel 1936, sposò una bravissima ragazza di un paese vicino: da tempo Franz cercava un impegno cristiano serio e coerente e la sua compagna lo aiutò a trasfondere nelle proprie azioni il cambiamento che già sì era operato nel profondo del suo animo. Al ritorno dal suo lavoro di minatore a Steiermark, tutti notarono in Franz un fervore insolito. Roma fu la meta del suo viaggio di nozze. Ogni mattina si recava a Messa e si comunicava: in segno di rispetto per il Sacramento ricevuto digiunava fino a mezzogiorno. Il suo tempo libero lo dedicava alla preghiera e alla lettura del Vangelo, seguiva e partecipava vivamente e appassionatamente gli avvenimenti del suo tempo. Era un buon contadino e lo fu fino alla fine, la sua vita religiosa lo aveva costretto ad organizzare il suo lavoro, mai a trascurarlo. Dal carcere non smette di interessarsi del buon andamento della sua terra e manifesta il suo amore per essa: "La natura sembra indifferente ai mali che opprimono 1'umanità: benché dalla mia prigione non veda un gran che, mi pare tuttavia che quest'anno le piante e i fiori siano più belli del solito", e con delicatezza - dopo la condanna a morte Luglio 1943 - raccomanda al suocero "Non fate lavorare troppo duramente i miei, che resti loro almeno un po' di tempo da dedicare alla meditazione e alla preghiera". Anche in prigione trascorreva lunghe ore in contemplazione e in preghiera e si imponeva digiuni e penitenze e supplicava il cielo di sostenerlo e di illuminarlo. Durante la guerra, quando i generi di consumo erano razionati, Jagerstatter riempiva un tascapane di viveri che, con discrezione, distribuiva fra i poveri del paese: anche se lui e la sua famiglia, vivevano in condizione di povertà. Non gradiva chiacchiere inutili e non parlava mai male di nessuno. Pronto a dare una mano a chiunque ne avesse bisogno, senza interesse; nella sua mansione di sacrista della parrocchia rifiutava ogni forma di compenso. Si comportava a quel modo perché "ci credeva".

La sua fede cristiana confermò la sua fiera e virile opposizione al nazismo. I suoi compaesani erano indispettiti dal fatto di sentirsi dire da Franz che l'opposizione al nazismo doveva essere manifestata apertamente. Rispondeva al saluto "Heil Hitler!" "Puah Hitler". Quando una potente organizzazione rurale manifestò cedimenti nella sua opposizione al nazismo, Franz si dimise. Il giorno più penoso nella vita di Jagerstatter fu il 10 aprile 1938: un plebiscito ratificò all'unanimità l'annessione dell'Austria alla grande Germania. Non solo i suoi compatrioti capitolarono senza resistenza di fronte al nazismo, ma persino le gerarchie della Chiesa cattolica austriaca approvarono e sostennero 1'annessione: "Se il clero austriaco, invece di giungere al punto di andare a congratularsi con il partito per avere compiuto quella buona azione, e di aiutarlo a raccogliere la quasi totalità dei suffragi, avesse manifestato un'opposizione vigorosa fin dal 10 aprile, indubbiamente pochi preti sarebbero rimasti in libertà per esercitare il sacro ministero, ma almeno la Chiesa avrebbe evitato un tragico errore". Così scrive il contadino austriaco: lui votò contro l'annessione. Non solo egli rifiutava
di contribuire finanziariamente al regime nazista, ma ne respingeva anche ogni beneficio. Non chiese mai gli assegni familiari per le tre figlie, ai quali aveva diritto. Poco dopo l'invasione nazista quasi tutto il raccolto della regione venne distrutto dalla grandine; la sovvenzione straordinaria del governo agli agricoltori fu da Franz rifiutata.

Diversi sacerdoti erano stati interrogati da Franz, "Si aveva moralmente il diritto di partecipare alla guerra nazista?" Tutti lo consigliarono a sottomettersi: anche il Vescovo di Linz che Franz era andato a visitare rispose: "Ogni uomo deve sottomettersi alle responsabilità loro imposte dall'autorità". Jagerstatter per non rinnegare Cristo non si sottomise. "E' meglio adattarsi subito a sacrificare la propria vita che esporsi al peccato prima di morire". Nessuno riuscì a convincere Franz ad accettare il servizio militare (neppure negli ausiliari): attraverso il sacrificio della propria vita, egli intendeva anche proclamare l'iniquità di un regime che combatteva una guerra ingiusta e che perseguitava la Chiesa. In attesa del processo, dal carcere di Linz scrive alla moglie e alle bambine interessandosi di loro e dei suoi compagni di prigione. Chiede una stella alpina per un povero francese che è stato condannato: "Vorrebbe inviarla alla fidanzata che ama molto i fiori". Per sé ha tanta fiducia in Dio "Finche si può pregare, è possibile dare un senso alla vìta", "quali che siano le prove che ci riserva l'avvenire, tutto finirà bene per chi persevera nell'amore del Signore".

4 maggio 1943, Franz viene trasferito alla prigione di Berlino "Non preoccuparti per me - scrive alla moglie - il Signore non mi abbandonerà". Per smuoverlo dalla sua decisione fecero notare a Franz che milioni di altri cattolici, seminaristi, preti combattevano al fronte e che nessun Vescovo aveva esortato a non prendere parte alla guerra, il contadino rispose: "Non è stata concessa loro la Grazia". Fu sollevato quando apprese che un altro, padre Reinìsch, aveva percorso la sua stessa via. Processato il 6 luglio 1943, fu condannato a morte. Venne decapitato il 9 agosto 1943. Franz Jagerstatter, contadino austriaco, obbediente alla propria coscienza, andò sereno incontro alla morte: "Chi non teme la morte è l'uomo più ricco e più felice della terra", così aveva scritto.


don Rolando

(da "Il testimone solitario", G. Zahn, Gribaudi editore
"Fede e violenza", T. Merton, La Morcelliana


tempo di Amore

Siamo all'inizio di un nuovo anno e rinascono le speranze e si ravviva la fede e l'amore perché Dio ci dona ancora il miracolo della vita, ci offre il tempo, ci immerge nello spazio, nelle cose, fra le persone e tutto ciò che vediamo e tocchiamo e ancora di più quello che solo il cuore che non ha confini ricorda e conosce dobbiamo amare, adorare, raccogliere e portare a Dio.
Inizia un nuovo anno del nostro sacerdozio, di questo meraviglioso accendere vita divina, di questo offrire l'acqua che ci sgorga dal petto, dell'amore che impariamo dal cuore di Dio e diamo agli altri.
Si è compiuto finalmente il tempo quando non è più possibile fermarci ne voltarci indietro perché la vita ci chiama.
Bisogna rispondere ponendo mano al faticoso lavoro dell'aratro, tutti noi che possiamo, insieme, non importa come o quanto, se vicini o lontani. Per noi donne il lavoro sarà di metterci per la strada confuse fra gli altri e andare in cerca di chi soffre, leggere nel cuore degli uomini parlandone a Chi da noi non desidera altro se non questo presentarGli il mondo chiedendoGli di venire.
Per le benedizioni che Dio ci ha dato e i doni di cui ci ha colmato, poiché siamo vita del mondo e questa vita la cresciamo e l'amiamo e possiamo tanto bene comprendere il mistero di un'Esistenza che è sempre stata e non morirà mai - dobbiarno mettere questo nostro essere al servizio del mondo: legame fra l'uomo e Dio, piccola immagine di un'altra Realtà, indicazione e certezza di una speranza che non vuole mai morire.
Non siamo chiamate noi donne al particolare anche se ne abbiamo la terribile tentazione - non si può fermare il nostro cuore a un uomo o a un figlio, siamo fatte per scomparire offrendo, per quel meraviglioso amore gratuito che Gesù ci ha insegnato, amore dell'essere amato, ricerca del suo bene.
Dobbiamo chiedere continuamente con forza e con fede l'una per l'altra e per tutte e per il mondo intero che Dio rinnovi in noi la sorgente di questo amore che accese all'inizio dei tempi quando come un miracolo offerse all'uomo la fonte della vita, l'universo stesso, il legame che l'unisse a Lui - amore che benedisse trasformandolo in Maria, creatura diversa, non più segno ma realtà vivente: Dio fra noi.
Da allora questo è il nostro sacerdozio sul mondo, di noi che non possiamo pronunciare le parole di consacrazione sulla materia che ci rappresenta per renderla corpo e sangue anima e divinità del Figlio di Dio trasformando il mondo in Dio. E' un altro il nostro sacerdozio identico e diverso umilissimo nascosto velato mai stanco, ansia del mondo che cerca il suo Dio.
Ne ha bisogno il mondo della donna così come ce l'ha rivelata Gesù, la nuova creatura nata dalla Sua Redenzione, quella creatura nella quale ho sempre avuto così immediata fiducia e profondo rispetto. Lui ha saputo trasformare e liberare la donna amandola fino in fondo, più di qualsiasi altro uomo, tanto da scoprirne a lei stessa le possibilità di amore e la vastità della sua anima.
Da Lui in poi possiamo amare senza più riserve ne veli né timori, e dobbiamo vivere tutto questo nella Chiesa che Gesù vuole a immagine della madre Sua con cuore aperto dilatato amante, cuore coraggioso e tenace, materno e sacerdotale.
Solamente accogliendo la realtà umana completa uomo - donna, il cuore della Chiesa guidata dallo Spirito, potrà essere quale Dio la cerca e la sogna: pugno di lievito, sale della terra, luce del mondo.



Maria Grazia

famiglia di Dio

L'idea della famiglia tradizionalmente intesa, così come è andata delineandosi in tanti secoli di civiltà occidentale, sembra ormai superata, disgregata da un egoismo che spinge l'individuo a chiudersi nel proprio io senza più accettare il legame indissolubile di una famiglia, o superata da un ideale di Amore universale che cerca e crea comunità più ampie.
Di fronte a questa realtà può sembrare superato anche il parlare d'ella Sacra Famiglia, troppe volte idealizzata come tipo di quella famiglia che oggi non si accetta più, una famiglia chiusa in se stessa, con un io appena un po' più allargato ai legami di sangue.
Troppo spesso la vita di Nazareth è stata descritta con accenti sentimentali, con un sentimentalismo idilliaco e disincarnato, senza legame alcuno con la realtà umana in cui invece era immersa; eppure nel Vangelo non c'è nulla che giustifichi questa idealizzazione romanticheggiante.
Non mi interessa sapere con precisione di sociologo quale tipo di unità familiare si viveva negli anni dell'infanzia di Gesù; non sono in grado e non voglio fare un'indagine in questo senso. Non posso però fare a meno di notare, e mi ha sempre colpito in maniera notevole, che, per un'intera giornata di cammino, dei genitori, certamente pieni di amore per il loro unico figlio, non si siano accorti della sua assenza e abbiano tranquillamente creduto che il ragazzo, poco più che dodicenne, fosse presso parenti e amici, nella carovana che tornava da Gerusalemme. La famiglia di Giuseppe e Maria doveva certamente allargarsi fino a comprendere un certo numero di parenti più o meno stretti.
Del resto spesso nel Vangelo compaiono questi "fratelli" di Gesù che vogliono ricondurlo a casa, appellandosi proprio a quei legami familiari che Gesù supera chiamando madre e fratello chi fa la volontà del Padre Suo.
Già nel Tempio a dodici anni Gesù rivendica il suo appartenere a una famiglia più grande e parla di Suo Padre e delle cose di Lui di cui si deve occupare. Ed è proprio questo Suo essere tutto preso dal Padre che rompe il cerchio familiare, lo allarga fino a far diventare Sacra la Sua famiglia umana, che è perciò famiglia di Dio.
Ecco allora che in questo senso la Sacra Famiglia è ancora un ideale e un modello valido.
Forse anche Maria può aver sentito la tentazione di un piccolo mondo tutto suo, un mondo del quale si possono conoscere e abbracciare le dimensioni. Dopo l'Annuncio dell'Angelo non si è più manifestato nessun volere divino, non è forse possibile sognare una vita semplice, con Giuseppe e con il piccolo Gesù, una vita fatta di piccole gioie e piccole intimità familiari, senza significati universali, senza valori religiosi?
Ma ecco di nuovo delle parole tanto terribili, il cui senso non si comprende in pieno, ma si intuisce per un certo tremare del cuore, come già quelle dell'Angelo e quelle del vecchio Simeone.
"Perché mi cercavate? Non sapevate che io mi devo occupare di quanto riguarda mio Padre?"
Sono parole terribili da conservare gelosamente nel cuore anche se fanno male.
E' tanto naturale, tanto umano questo desiderio di vivere al di là delle dimensioni religiose, ripiegati in un mondo fatto delle proprie misure. Ed è tanto più facile in una donna questo sogno di vedere un limite concreto al proprio essere. Darsi sì totalmente, ma sapere per chi e a chi ci si dona. Essere totalmente dono di sé, ma per il proprio sposo, per i propri figli.
Grandezza e limite di una maternità fisica che prepotentemente chiede di limitare ogni maternità spirituale, e tentazione terribile anche in ogni generazione secondo lo spirito, che tenderebbe ad escludere ogni altra possibilità di essere ancora una volta dono.
Che cosa può mai dare chi non ha più nulla di suo perché già tutto ha donato?
Da qui nasce il ripiegarsi per impedire all'Amore di riversarsi in noi come Fonte viva che rende capaci ancora di essere dono.
Ma basta lasciare che il Figlio si occupi di quanto riguarda il Padre ed ecco di nuovo la possibilità di essere Famiglia di Dio.
Questa breccia nel piccolo mondo familiare apre il cuore fino alle misure di Dio e lascia entrare in esso tutto il mondo.
Da qui la possibilità, e a momenti la si sente in tutta la sua realtà meravigliosa e concreta, di essere con ognuno degli uomini della terra, famiglia di Dio.
Creare con tutti questa realtà nuova in una maternità feconda e verginale. E allora Sacra Famiglia è il mondo intero e nessuno ne resta fuori, nessuno ne è escluso.


Mirella

nuove esperienze

Una delle prime sensazioni che si riceve quando si viene a contatto con gli operai, è la percezione chiara di non trovarsi a posto, a disagio come degli estranei. Noi, seminaristi o preti, avvertiamo fortemente il nostro disagio di fronte a questa gente, e ancor più il loro disagio nei nostri confronti. La nostra vita, la nostra cultura, i nostri interessi, la nostra fede ci caratterizzano e ci separano dagli uomini. Ci riesce difficile percepire le sfumature del loro linguaggio, le componenti della loro vita di ogni giorno, cose semplici, lontane da schemi culturali, genuine e profondamente umane, e in molti casi lontane da ciò che noi chiamiamo fede, religione.
E' la cultura che ci separa. L'operaio non ha cultura, non sa parlare, ragiona "con le mani", noi con le nostre "categorie". La vita dell'operaio è segnata dalla fatica, la fatica fisica. Chi ha condiviso per un po' di tempo la loro vita ne sa qualcosa. Il lavoro manuale prende per se ciò che di meglio c'è nell'uomo, la maggior parte delle sue energie, frustrando, spesso le doti morali e intellettuali. L'operaio in fabbrica non è più un uomo, è il numero tale o il pezzo tale dell'ingranaggio produttivo. Non c!è più personalità. Quando si è spossati da un lavoro spersonalizzante, la cultura, la fede, la cura della famiglia diventano un lusso.
E' importante per noi entrare nella vita dei poveri d'oggi, degli operai: è l'incarnarci che conta, non l'interessarci vagamente al problema. E' indispensabile per questo una scelta chiara consapevole, una scelta di vita. E' uno dei modi forse fra i più radicali di realizzare oggi il comandamento dell'amore. Come Cristo.
Preti e seminaristi di fatto appartengono ad una classe: sono coloro che comandano e hanno i soldi, una cultura. Esistono le classi perché esiste la concentrazione del denaro, del potere, un certo tipo di cultura. E queste cose sono in mano a pochi, mentre dovrebbero essere di tutti. Ci sono degli esclusi. La lotta, lo scontro diventa inevitabile. Sta a noi farci trovare dalla parte giusta, dalla parte di Cristo, cioè dalla parte di coloro che soffrono, che non sanno nulla delle beatitudini ma le vivono. Il prete deve realizzare con gli uomini una comunione di vita, sentire come propria la crisi di fede, di speranza, soffrire il rifiuto di Dio da parte degli uomini.


I chierici operai di Torino

(dagli incontri su "Chiesa e mondo operaio")


i fatti della Bussola

Siamo una parrocchia di Viareggio e quindi oltre a tutti gli altri motivi, sentiamo un dovere particolare di riflettere sui fatti della contestazione giovanile, alla Bussola di fine d'anno.
Ci rendiamo conto quanto sia difficile un discorrere intorno a ciò che è successo in quella diaccia notte che concludeva il '68 e iniziava il '69 nei pressi di un locale di divertimento dove la gente con quattrini a disposizione, cercava di spengere la tristezza di un anno in agonia e di riaccendere le speranze di un anno che cominciava. Il tutto bevendo e ballando.
E' difficile e penoso parlarne perché quei cinquecento ragazzi (più o meno che fossero) radunati un po' di dovunque, non hanno soltanto disturbato la quiete pubblica, guastato gli interessi di un locale alla moda, sciupato la serata di fine d'anno a molta gente "perbene" e fatto prendere una nottata di freddo ai disgraziati della polizia e compiute molte altre cose più o meno allegre o assurde che siano.
Ciò che complica molto l'argomento è che con una gazzarra da ragazzacci hanno sgomentato l'opinione pubblica, sollevato una montagna di problemi, acceso infinite discussioni e specialmente - e la cosa fa davvero impressione - sono riusciti a spaventare, a incutere terrore fra tutti i benpensanti.
Sono sorti comitati cosiddetti di salute pubblica per la difesa della patria civiltà. Gli armaioli hanno venduto un buon numero di pistole perché i privati non si sentono più al sicuro. Tanto più che ormai è evidente che la polizia, anche se ha ancora le armi, non ha più il coraggio di usarle e fare dei vuoti esemplari.
Esecrazione quindi da una parte, facile immediata e violenta. Speculazione politica dall'altra per un approfittarsi di qualsiasi cosa pur di gettare la croce sul governo, agitare i parlamentari, preoccupare i partiti o accenderli di bramosie da beccamorti.
E' davvero formidabile la possibilità di girare intorno ai problemi, di disfarsene disinvoltamente, di cercare di piegarli a proprio vantaggio da parte di questo nostro buon mondo borghese o proletarieggiante che sia.
Perché un fatto di cronaca (diciamo pure nera, dal momento che c'è stato un ferito grave) di teppismo e di brigantaggio, se proprio lo si vuole chiamare così, è diventato un avvenimento d'importanza nazionale? Fin quasi a sembrare che scuotesse i cardini della convivenza civile?
Lasciamo stare la speculazione politica: questa ormai c'è sempre come di mestiere. Certa gente e certe organizzazioni vivono soltanto, pare, sulle disgrazie, i disastri, la miseria umana. Specialmente poi e tanto più quando ci va la polizia di mezzo.
Ci viene in mente però che tutto lo sgomento dell'opinione pubblica, della gente perbene, nei confronti di tutta la contestazione giovanile sia la paura che tutto un certo mondo, tutta una sistemazione di cose, quasi l'insieme di una civiltà, sia in pericolo. E non proprio i valori di fondo, quelli che contano veramente, come la libertà, la giustizia, la parificazione sociale, la liberalizzazione della cultura, ecc. sono sentiti in pericolo (e difatti non lo sono), ma tutto il resto che costituisce "l'esterno" della nostra civiltà: il benessere pacchiano, l'individualismo più spietato, 1'indifferenza più fredda, il classismo più assurdo, il dio quattrino, il divertimento a costo di tutto, il materialismo pratico.
I riflessi dell'opinione pubblica dimostrano, a seguito del giudizio pressoché generale circa i fatti della Bussola e di tutta la respinta della contestazione giovanile comunque si esprima, che la gente non vuole saperne che tutto questo "progresso" sia in pericolo.
Quei cinquecento ragazzi la sera dell'ultimo dell'anno hanno dato noia a tutti, bisogna riconoscerlo. Hanno inquietato profondamente tutti. Hanno scocciato terribilmente tutti.
Per questo, assai più che per quello che hanno compiuto d'eccessivo, di scalmanato, di violento (il blocco stradale, per esempio, da riprovare nel modo più assoluto, bottiglie d'acido, ecc.), l'opinione pubblica ha sistemato un problema profondo che sarebbe giusto affrontare con serietà e responsabilità, giudicando il tutto teppismo, banditismo, oppure dall'altra parte, nascondendo la faccia per il tradimento delle proprie ideologie, spostando tutto il problema su quello delle accuse alla polizia.
Quei ragazzi, mi hanno fatto molto riflettere e mi hanno profondamente inquietato. Perché loro hanno fatto con la violenza, pagando di persona con quel freddo di quella notte e rischiando pericoli e guai senza fine, ciò che io sacerdote dovrei fare per fedeltà alla mia scelta cristiana e sacerdotale.
Mi vergogno assai di non inquietare, come sarebbe giusto e doveroso - sia pure, evidentemente, in un altro sistema - questo mondo così pacioccone e bonaccione nel quale vivo. Che sotto una vernice di benessere nasconde ingiustizie impressionanti e sfruttamenti insopportabili. Che nell'affermazione della libertà realizza in fondo l'unica vera e terribile libertà, quella del danaro. Che nei valori "uomo" intende e cerca soltanto l'immediato e il materiale e il personale...
E un prete che non è ministro d'inquietudine è un prete che cura i mali con gli impacchi.
La nostra parola pietistica, devozionale in una liturgia sentimentale, privilegiata. La nostra vita allineata sull'andazzo dei più, ricopiata - sia pure purificandola - dagli schemi vigenti della vita borghese. La nostra testimonianza diluita e sbiadita in indicazioni vuote di concretezza esistenziale, così mal pagata di persona.
Quei cinquecento giovani non sono partiti quella sera dalle nostre associazioni, non hanno la benedizione di assistenti ecclesiastici, non sono assolutamente Chiesa (e quindi possiamo stare tranquilli nei confronti della polizia, non avremo sicuramente grane e possiamo, con buona pace di tutti, non essere considerati un pericolo dall'opinione pubblica così timorosa per la sicurezza tranquilla dei suoi svaghi e dei suoi interessi), ma non riesco a non sentirli, in qualche modo, popolo dì Dio che, pur senza saperlo e volerlo, cerca d'impedire che l'umanità si sbricioli in individualismi spaventosi e si spappoli nel marcitoio comune del benessere egoista, e sia pure in modi da condannarsi e da respingersi, tenta di affermare, o se non altro, di rimettere in un certo rilievo, problemi da non trascurare e valori da tenere almeno in una qualche considerazione.
E spesso può darsi che ciò che con preoccupante faciloneria viene considerata opera del diavolo, può essere invece azione profonda, anche se sgomentante, di Spirito Santo. Se vogliamo guardare seriamente e in vista del Regno di' Dio che deve realizzarsi a costo di tutto, la storia.
Chi deve semmai preoccuparsi responsabilmente del problema è chi avrebbe il dovere e la missione di realizzare quel medesimo Regno di Dio nell'Amore. Perché è vero che quando viene a mancare la violenza dell'Amore, interviene spietata e spaventosa la violenza dell'odio.


don Sirio

La Croce dei Poveri

La vita che stiamo facendo ogni giorno, perduti e nascosti fra i braccianti agricoli dell'azienda dove lavoriamo ci aiuta a scoprire con nuova chiarezza e forza certe realtà del Vangelo, finora rimaste soltanto al livello di "parole". Diventano piano piano carne e sangue della nostra vita. Concretezza quotidiana di un'esistenza umana che, in questo, assomiglia alla normalità dell'esistenza della grande maggioranza degli uomini. "Se uno mi ama prenda la sua croce e mi segua", queste parole di Gesù, che ci raggiungono nel vivo del nostro doloroso e faticoso cammino di uomini come un invito ad andare avanti nella speranza, mi venivano in mente mentre salivo per le piagge dei campi carico di grossi fastelli di salci appena appena tagliati.
Ho pensato alla grande croce che ogni giorno gli uomini che lavorano devono portare sulle proprie spalle e - tante volte - anche sul cuore. A questa grande croce dei poveri, che essi portano con grande dignità, senza eccessivi lamenti, con impegno e serietà spesso davvero straordinari. La croce del pane guadagnato con la fatica di tante ore di lavoro, della casa, dei figli tirati avanti proprio per la fedeltà a questo peso di tutti i giorni. Ed è una fatica e un peso che essi portano non solo per se, ma anche per coloro che hanno pensato bene di scrollarsi di dosso questa croce che è di tutti e hanno cercato qualcuno che la portasse anche per loro. E l'hanno subito trovato: "i poveri li avrete sempre con voi". Sono proprio loro, i poveri, che hanno curvato le spalle e hanno preso su di se, come il Cristo, la croce quotidiana di chi ha preferito i palazzi lussuosi, le vesti sfarzose, il pane non sudato.
E anche se non lo sanno, essi, sono sempre con Lui, col Cristo, sui Suoi stessi passi, sullo stesso sentiero, perchè continuano il Suo stesso destino e, con Lui, preparano e fanno la salvezza del mondo.
Siamo molto felici che l'Amore di Dio ci abbia concesso la gioia di entrare a far parte di questo popolo, sentiamo che il nostro sacerdozio è stato arricchito, completato, inserito più profondamente nella "storia della salvezza" che di continuo" si svolge sulla terra. Questa croce che finalmente abbiamo ritrovato anche come preti di Gesù Cristo ci fa scendere nell'intimo del destino umano, arricchisce e rafforza il nostro cristianesimo, la nostra consacrazione all'Amore e al Servizio.
Siamo contenti di aver ritrovato la "nostra" Croce: l'avevamo perduta di vista, ci avevano anche detto che non era conveniente e giusto portarla, volerla riprendere sulle proprie spalle. Ora che invece ci è stato possibile riabbracciarla, abbiamo avuto l'immensa gioia di fare una scoperta che ci ricolma il cuore di felicità, su quella croce abbiamo ritrovato anche Lui, il Signore Gesù, che ci attendeva. "Far vedere il Cristo... Mio Dio quanti apostoli per parlare del Cristo, quanti pochi forse per viverLo!
Far vedere il Cristo, predicarLo in silenzio.. Lasciare che Tu viva la Tua incarnazione, lasciarTi vivere in noi la Tua vita."
Père Albert Peyriguère


i due don Beppe

La rivoluzione non è una festa

Su una parete della facoltà di lettere a Pisa ho letto questa frase, tracciata a vistosi e significativi caratteri rossi: "La rivoluzione è una festa". Il senso della frase rivela una mentalità tipica all'interno del movimento studentesco. Affermare che la rivoluzione è una festa è indice di una tendenza ad esteriorizzare le situazioni e i valori, caratteristica della civiltà del benessere e dimostra la capacità del sistema a riassorbire ogni tipo di opposizione.
Questa tendenza trova tra gli studenti un ottimo terreno; la coscienza che essi hanno dello sfruttamento e dell'ingiustizia sociale - e si badi di non confondere con lo sfruttamento, l'inefficienza delle strutture scolastiche - è di tipo riflesso, di conseguenza l'opzione rivoluzionaria è in genere sentimentale o intellettuale.
Per il solo fatto che frequenta l'università, lo studente appartiene alla sola classe dei privilegiati, non a quella dei diseredati. La lotta che conduce non lo compromette quasi mai fino in fondo, non è ragione di vita. I motivi di opposizione li trova sui libri o nei giornali, raramente li sperimenta e soffre di persona. Tutto questo complesso di motivi comporta una superficialità di partenza che può essere superata approfondendo, non in modo intellettuale, ma reale, concreto, esistenziale la propria scelta rivoluzionaria. Si deve passare, non più a parole, ma nei fatti dalla parte degli sfruttati. Altrimenti il peso della scelta è transitorio ed inefficace.
Questa è anche l'analisi di C. Torres, un rivoluzionario, ma anche un sociologo: "Una delle cause principali per cui il contributo dello studente nella rivoluzione è transitorio e superficiale è il suo non volersi compromettere nella lotta economica, familiare e personale. Il suo anticonformismo tende a essere emotivo per sentimentalismi o per frustrazioni o intellettuale " (dal messaggio agli studenti).
Ma un discorso di questo genere è liquidato come moralistico dai più, indizio anche questo di superficialità e di una difficoltà inconscia, non ammessa di rinuncia a certi privilegi. Dico superficialità perchè un'analisi psicologica e storica della realtà dimostra in modo inequivocabile che le scelte pratiche derivano da situazioni pratiche, o ne sono fortemente condizionate. In altri termini una scelta politica rivoluzionaria è conseguente solo a una condizione sociale rivoluzionaria, una situazione che pone al di fuori dell'ambito del privilegio, che mi esclude dalla società facendomi contraddizione vivente.
Allora 1'alternativa, è naturale, diventa quasi motivo di conservazione biologica: io o il sistema, non c'è spazio per tutti e due.
Lo studente universitario è sociologicamente un borghese, appartiene cioè alla classe degli sfruttatori, partecipa ai privilegi e al potere. E' dunque un conservatore e lo schierarsi dalla parte degli esclusi non ne fa un progressista.
Questo è il limite di cui tener conto, limite da superare in un unico modo: comprometterci esistenzialmente, cioè in ogni settore della vita, nella rivoluzione.
Operare questa scelta comporta un approfondimento della lotta. In una reale situazione di esclusione dalla società, la volontà rivoluzionaria si radica, s'incarna, diventa qualcosa di noi, prepotente come un'esigenza biologica.
Al di fuori di questa logica non c'è la rivoluzione. C'è la festa. Ma le feste non fanno la storia.
E' necessario che la lotta studentesca si inserisca in questa logica, altrimenti, credo, cadrà nel vuoto, "è necessario che la convinzione rivoluzionaria dello studente lo porti ad un ingaggio reale, fino alle ultime conseguenze. La povertà, la miseria, la persecuzione non si devono cercare, però nel sistema attuale sono i segni che autenticano una vita rivoluzionaria. La stessa convinzione deve portare lo studente a condividere le strettezze economiche e la persecuzione sociale che pesano sugli operai e i contadini. E' così che la rivoluzione passa dalla teoria alla pratica". (Camillo Torres)


Giorgio

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