LOTTA COME AMORE: LcA dicembre 2006

Qui si è sempre riaccesa la ricerca di una vita povera e libera

Lo spazio del cuore

Nel numero precedente del giugno scorso, avevamo avvertito della festa per il 50° anniversario della Chiesetta il 15 agosto. Pensavamo fosse giusto mantenere quel giorno; come un compleanno da festeggiare nella ricorrenza di quel lontano 15 agosto 1956. Poi, nel tempo in cui il giornalino veniva stampato e spedito, è maturata la convinzione di evitare che una data così immersa nel cuore di un periodo di viaggi e di vacanze potesse ostacolare la partecipazione e l'incontro dei più. Soprattutto volendo intrecciare intorno alla Chiesetta "una danza dei cuori" come scrive Maria Grazia, nell'articolo che segue, descrivendo la bella festa di sabato 2 settembre.
Abbiamo comunque mantenuto anche la ricorrenza del 15 agosto e quel giorno abbiamo celebrato messa e cenato insieme in un clima sereno e partecipato da tanti amici venuti anche da fuori. La Chiesetta non poteva raccogliere tutti, ma con l'aiuto di un microfono e di una cassa portati da Mario Bindi, la maggior parte dei convenuti ha potuto partecipare pur stando fuori della porta spalancata per l'occasione.
Erano anni che non passavo il 15 agosto alla Chiesetta, in quanto intorno a quel giorno si imperniano, ormai da tempi "immemorabili", i tre giorni di riflessione e di incontro alla Cascina G ad Ottiglio di Casale Monferrato. E sono anni che vi partecipo con Beppe Giordano nella fraterna e gioiosa amicizia con don Gino e gli altri che usano riunirsi con lui.
In comunione e in comunicazione con loro, mi è sembrato che "si aprissero i cieli" di un incontro, mai terminato, con Sirio, Beppino e le tante persone - uomini e donne -, con cui si sono intrecciate e si intrecciano i fili più intimi della vita.
Ho capito che la Chiesetta esprime davvero bene - nella sua essenziale semplicità e nella impossibilità fisica di ospitare anche solo la piccola folla che, nell'occasione, si è radunata intorno - la povertà di un segno che insieme indica, ma nello stesso tempo non si sovrappone né mette in ombra la realtà indicata: non le pietre, i marmi, i mattoni. Non l'organizzazione, le gerarchie, il potere. Non il rito, il merito, la buona opera. Ma le persone nel loro incontrarsi in una comunione che genera ancor più la sete e la fame di una misura piena, colma, traboccante della vita accolta come dono prezioso e sorprendente. E fede è intuire questa sorpresa e saperla dono d'amore e sentire che questo amore nasce nel cuore di Dio e non può non comunicarsi a tutte le creature. Oggi come sempre.
Per la prima volta, devo confessare, in tanti anni, ho fatto pace con la Chiesetta, scuotendomi di dosso quella sensazione di dover convivere comunque con un segno "ecclesiastico". Accogliendola come luogo di confluenza, di incontro, di passaggio. Piccolo tetto a custodire la speranza dell'umanità pur stanca e scoraggiata, la fiducia dell'umanità resistente, l'amore dell'umanità liberata dalla paura di se stessa. E chi, se non Gesù che "ha condiviso in tutto" la nostra condizione umana, poteva trovar riparo sotto quel tetto?
Così, nel mettere insieme queste paginette,
mi sono ricordato di uno scritto di don Beppe (Beppino) in cui descriveva la Chiesetta e la sua gioia nel ritornare fisicamente ad abitarvi, dopo gli anni trascorsi ad accudire i "suoi" quattro bambini: "Sono contento di essere riapprodato a questo angolo di terra che per me rappresenta un punto di riferimento interiore, uno spazio non solo materiale e geografico, ma anche uno spazio del cuore, dello spirito. Un'ansa del fiume dove ho avuto la grazia di scoprire il tesoro da tempo cercato, la perla preziosa, la terra intravista nel sogno: un angolo di mondo in cui, passo dopo passo, si è dipanato il filo della Fede, dell'Amore, della Speranza".
Anch'io, forse, sono riapprodato con lui.

E' poi arrivato l'atteso 2 settembre. La festa, preparata dall'amore, dall'energia, dalla cura e dalla attenzione di Maria Grazia, è stata una serata meravigliosa. La stessa Maria Grazia ne ha scritto un ampio resoconto che leggerete volentieri e che vi darà un'idea di quante persone hanno partecipato portando ognuna un contributo di affetto, di coinvolgimento, di fattività e creatività. Non ho timore di dire che sono rimasto letteralmente sommerso da tutta la situazione che si è andata man mano delineando con l'affluire della gente e gli ultimi ritocchi alla Chiesetta e al "campo della pace". Sommerso, incredulo e sorpreso insieme. Fortunato ad abitare quel luogo così abbondantemente abitato, amato, cercato.
In modo tutto particolare, è stato ricordato don Sirio. Riporto qui nel giornalino la sintesi della sua vita che hanno presentato a quattro mani Riccardo Mazzoni e Rebecca Palagi, in parallelo con la storia dell'edificio poi divenuto chiesetta e la storia del periodo in cui Sirio è vissuto. Credo che anche chi non l'ha conosciuto (son quasi vent'anni che è morto e a me sembra ancora ieri..) può avere un'idea del percorso di quest'uomo ancora molto amato a Viareggio e non solo.
Ho poi aggiunto, dopo l'articolo di don Beppe cui facevo cenno prima, anche uno stringato riassunto di una delle favole raccontate con magica maestria da Elisabetta Salvatori quasi al termine della serata.
Mi è parso il regalo più bello che Maria Grazia ha voluto fare alla Chiesetta e a me, questo voler tentare di intrecciare la memoria di una storia del recente passato, - storia di Sirio, di Beppe, della Chiesetta e della sua piccola comunità - con giovani che questa storia non conoscevano, ma che hanno risposto con tanto calore e partecipazione personale attraverso le cose belle che ciascuno di loro ha voluto fare. Con il rispetto e insieme il desiderio di entrare in contatto con l'energia che ancora oggi emana questa esperienza di vita e di fede. E che ha trovato il suo simbolo nell'espressione del cuore.
Così, alla fine della festa, ho voluto ringraziare:
"E' la Chiesetta che vi ringrazia tutti veramente. Questa piccola costruzione affogata tra gli alberi, nascosta anche a chi ci passa vicino. La Chiesetta è abituata al silenzio, all'ombra, ormai da anni. Ma non è un silenzio chiuso in sé. Non è un nascondimento dovuto a paura, a tentazione di isolamento. E' come un volere entrare ancora di più nel cuore della vita, della storia della gente. In modo sommesso e quieto, come di una compagnia che si affianca lungo la strada senza nulla pretendere. E vi dico che in questi anni, da quando con la morte di Beppe sono rimasto l'ultimo abitante di questa casa, tante storie i mattoni, le mura, ma anche le mie orecchie hanno ascoltato. Storie a volte molto pesanti, storie che ti levano la voglia di fare qualcosa perché quando i problemi ti appaiono così pesanti, non vien fuori neanche il coraggio di pensare a una soluzione.
E questo però non vuol dire che allora uno chiuda gli orecchi o che la Chiesetta si rinserri in se stessa, perché già ascoltare è condividere, perché già - e qui le favole che abbiamo ascoltato prima si sono intrecciate anche a quello che è stato detto lungo tutta la serata, - ascoltare è accogliere l'altro dentro di sé nella comunione del cuore. La piccola casa che è il cuore è veramente una grande cosa. E' questa la parola che vorrei dirvi stasera da parte di questa Chiesetta la cui porta rimane aperta dalla mattina presto fino a sera. Io la chiudo quando vado a dormire, ma se c'è qualcuno che ci dorme dentro accosto semplicemente il battente e lo ritrovo aperto la mattina dopo, senza che sia stato toccato nulla.
Quello che voglio dirvi, quello che vuole dirvi questa Chiesetta è di guardarvi, di guardarci. Siamo così tanto diversi tra noi. Diversi per età, diversi per genere, diversi per condizione economica, diversi per cultura.. e sono così tante le differenze. Eppure abbiamo avuto la capacità di stare insieme, di parlarci, di ascoltarci. Va bene, e allora cos'è questo? Un momento di distrazione? Un momento in cui ci immergiamo in un sogno che è solo astrazione? Oppure appartiene a quel "piccolo passo" cui accennava Mariella prima parlando di don Beppe e dei suoi consigli così "semplici" eppure sempre così essenziali per la vita? Piccolo passo eppure così decisivo. Cosa vuol dire ascoltare - la magia della parola cui accennava Stefano Pasquinucci -, se non che, se abbiamo pazienza - ma la pazienza forte, la pazienza non rassegnata, la pazienza di quelli che nel vangelo sono chiamati miti, cioè gente dal cuore infaticabile -, questo può far sì che al di là delle stanchezze, delle delusioni, riusciamo a trovare degli spazi, dei modi per convivere. Perché sarà la notte buia descritta nell'ultima favola da Elisabetta, del lupo e dell'agnello che non si riconoscono per via del buio e quindi fanno amicizia, ma noi abbiamo bisogno di riconoscerci al di là dei denti che uno si trova in bocca, delle appartenenze a una parte o l'altra, del rinchiudersi nelle nostre case, nelle nostre cose, del sentirci sempre in credito verso la fortuna, verso gli altri, verso la vita che ci deve dare di più, di più..
Questa è una traccia, una strada. La porta aperta della Chiesetta può essere un segnale, questo luogo minuscolo può essere uno spazio dove riacquistare forza e fiducia e insieme la capacità di incontrarci e di riconoscerci.
Grazie! E come diceva Sirio: "A gran cuore!".

Il 2 settembre non sarà l'ultimo appuntamento di questi anni, intorno alla Chiesetta. Come annunciato, durante la festa, è iniziato un concorso tra le scuole d'arte della provincia di Lucca (Istituto d'Arte Stagio Stagi a Pietrasanta, Istituto d'Arte A. Passaglia e Liceo Artistico di Lucca), per la decorazione in pannelli di ceramica della parete della Chiesetta lato mare. Agli studenti che decidono di partecipare, stiamo presentando la vita di Sirio e di Beppe in modo che loro illustrino quello che ritengono importante e particolarmente significativo. Il progetto premiato sarà realizzato e posto in opera nell'autunno del prossimo anno.
Nel 2008, a dieci anni dalla morte, vorremmo ricordare don Beppe con un "convegno" di forme "alternative" di solidarietà sociale, nell'intento di cercare di capire la sua ricetta per "mettere insieme" la gente come solo lui sapeva fare.
E, sempre in quell'anno, - sono venti dalla sua morte - con l'aiuto di una Fondazione diocesana sarà ristampato il primo libro di Sirio, "Una zolla di terra" con i contributi di Luisito Bianchi e di Arturo Paoli.
A proposito di Arturo, questa volta ci scuserà se abbiamo messo la sua "posta" in fondo al giornale. Ma anche lui si unisce alla danza dei cuori e propone un percorso decisivo: "Credo che per mettere pace nel cuore non basta perdonare come spesso viene consigliato. Bisogna elaborare, chiarire, sciogliere il nodo".

Luigi

La Chiesetta del Porto racconta...

1956 - 2006 50°Anniversario

Lo scorso due settembre, fra l'acqua del canale e il verde delle piante che ombreggiano la Chiesetta., in centinaia e centinaia abbiamo trascorso insieme un lungo pomeriggio e una memorabile serata.
Penso che a tenerci insieme sia stato un sogno che ancora ci riempie il cuore. Nei mesi precedenti avevo suonato un flauto magico che ripeteva due sole note: Don Sirio e Chiesetta del Porto. Al richiamo di quella musica speciale qualcosa di leggero aveva iniziato a volteggiare nell'aria: una frotta di emozioni, persone che ci contattavano, liete alla notizia che si avvicinava il 50° della Chiesetta e che volevamo festeggiarlo insieme. Ci offrivano aiuto, chiedevano di partecipare, ci donavano i loro ricordi. Da quel momento, la coralità è stata il leitmotiv dei nostri incontri, di tutti, quelli preparatori e quelli della giornata finale, perché il percorso e la meta da raggiungere non vivono l'uno senza l'altra. Quell'incontrarci, mettendo insieme passione ed energia, è stato il nucleo del nostro lavoro, durante il quale si sono intessute relazioni che ancora ci nutrono.
L'invito era per le 18,30, ma già un'ora prima lo spazio era fiorito di persone che si fermavano interessate a leggere i pannelli che Paola Benedetti aveva disposto con arte, incorniciandoli con il color ruggine di una lunga rete da pesca. Vi era tratteggiata con scritti e foto l'incredibile storia di Don Sirio e della sua Chiesetta: speriamo di potere esporre questa bella mostra anche il altre occasioni. Il pannello più grande era stato fatto dai pescatori, compartecipi con noi della giornata: tante foto della darsena Toscana, soprattutto dei primi del '900. Su uno schermo TV passavano le immagini di un video creato da Luca Guidi con passione, intrecciando sue foto con frasi di Don Sirio: la colonna sonora è quella de <Il pescatore> di De André
Fra le numerose persone incontrate in quei primi momenti, due in particolare mi hanno colpito. La prima è Silvano Francesconi, che avevo invano cercato anni fa, quando cominciai la stesura di un volumetto sulla storia dell'edificio che più tardi ospitò la Chiesetta del Porto. Si tratta dell'allora giovane muratore che nel lontano '56 costruì con estro e perizia la parete di fondo della cappella, quella a pezzi di travertino, che pare quasi un mosaico. Il secondo è il Granaiola, la cui ditta edile lavora per il cimitero di Capezzano: fu lui a murare la tomba in terra che accolse Don Sirio per i primi 14 anni dopo la sua morte e sempre lui ne curò lo spostamento in Chiesetta. Ambedue avevano saputo dai giornali del cinquantesimo anniversario e si erano detti che non potevano mancare!
E poi, naturalmente in anticipo, erano arrivati amici di vecchia data, gente che non vedevamo da 20, 30 anni, ma la cui vista allargava subito il cuore, come se il tempo non fosse passato. Fra questi ci fu la sorpresa di Carmine ed Eliana, arrivati da Milano, con qualche capello bianco, ma sempre uguali: nel '70 la coppia ci raggiunse in quel di Bicchio con due bambini piccoli per unirsi alla nostra vivace comunità.
Il programma iniziò puntuale, non potevamo permetterci di ritardare perché gli interventi erano tanti. Volevamo offrire una pluralità di eventi che permettesse a chi interveniva di goderne anche in maniera indipendente, a seconda di cosa lo interessava: musica, recitato, immagini, microstoria della città, ricordi dei protagonisti, perfino una magnifica zuppa di pesce offerta all'ora di cena dai pescatori e cucinata dallo chef Amelio Fantoni e, più tardi, le favole recitate da Elisabetta Salvatori.
Per potere tenere insieme un progetto così ampio e fluido, occorreva un professionista che unisse alla provata esperienza uno spessore di sentire. Ho scelto Stefano Pasquinucci che già conoscevo ed apprezzavo e con il quale, dopo questa esperienza, i legami si sono approfonditi.
Lui con perizia e passione è riuscito a creare un clima spontaneo, dietro il quale vi era il paziente e faticoso lavoro di comporre e gestire una scaletta che cresceva di giorno in giorno. Fra l'altro, per rendere vivace la giornata, Stefano ha avuto l'idea di rendere l'incontro itinerante, nel senso che il programma si è svolto in punti diversi.
L'inizio è stato davanti alla Chiesetta, il cui interno era stato ornato di fiori dalla sensibilità artistica di Michela, una delle tante persone conosciute per l'occasione. Nel piccolo spiazzo hanno parlato Italo Castellani, vescovo di Lucca, che pur non avendo conosciuto Sirio di persona, ha saputo rievocarne la figura con garbo e vivacità; Mauro Rossi, Assessore alle attività portuali del Comune di Viareggio, che ha rievocato con passione il significato della presenza di Sirio in città per i giovani di allora; Don Luigi ed io.
A questo punto, per creare il clima giusto, Stefano ha proposto un brano scritto nei primi anni '60 da Don Sirio. La lettura è stata punteggiata dai rintocchi della campana del campaniletto a vela, restaurato per l'occasione.

"Ogni mattina, appena tacciono le sirene dei cantieri, suono la piccola campana posta sul tetto della Chiesetta: è nascosta fra i pini ed è di tra il verde che sbucano fuori i rintocchi a distendersi nel bosco degli alberi delle barche assiepate tutt'intorno, quasi accovacciate sull'acqua a dormire ancora, nonostante lo splendore del sole.
È l'ora della messa, è l'ora del lavoro e mi accompagna all'altare l'orchestrale di una musica vera. Alla fuga classica dei primi colpi di mazza rispondono suoni più lontani, colmati di eco profonde, il martellare secco dei calafati e poi le lamiera battute a suono metallico. Si accende, allora, qualche rumore di peschereccio e spesso fanno coro quelli dei grossi motoscafi in prova; le voci delle seghe a nastro cantano l'ultima pena del legno mentre irrompe violento l'inno trionfale dei martelli pneumatici che raccoglie ed unisce ogni altro rumore in un a solo potente."

È stato il momento di spostarci davanti al Moletto Sanità, dove Zeffiro Rossi ha raccontato un brano della microstoria di Viareggio, condendolo con il buon sapore di episodi personali. È seguita una breve visita al <Crocifisso dei Pescatori>, il bel murale che Giovanni Lazzarini dipinse circa trent'anni fa sul lato monti della Chiesetta e che il Comune si è impegnato a restaurare.
Per la quarta tappa il gruppo si è portato sul lato mare, dove si apre lo spazio verde che Sirio chiamava il <Campo della Pace> e che negli anni '90 è stato sistemato su progetto di Franco Anichini. Ci siamo avvicinati al grande Monumento al Lavoro formato da una gigantesca ruota dentata e da un'ancora, lì si è dato il via ai ricordi: dalla Capitaneria del Porto, rappresentata dal comandante D'Aniello, a chi era presente già negli anni '50 e via via fino agli anni '80. Lisandra Biagini, Brunello Consorti, Giuseppe Balloni, Antonio Dalle Luche, Giovanni Merlini si sono susseguiti in un caldo raccontare, offrendoci il tesoro dei loro ricordi personali.
Poco lontano ci attendevano le due gradinate dei mattoni a bella vista che formano l'anfiteatro, attorno al quale si è svolta la parte teatrale e quella cantata. È stata la volta di una breve rappresentazione della vita di Don Sirio, ad opera di Riccardo Mazzoni e di Rebecca Palagi che ne scrivono il testo: Rebecca reciterà la parte di Don Sirio, Riccardo sarà la voce narrante. Se vi interessa leggere il testo, potete trovarlo nel sito di Riccardo, http://riccardomazzoni.splinder.com. Samanta Barontini ci ha regalato il piacere di ascoltare la sua splendida voce in due interventi cantati; Tiziana Baldassarri ha scelto e letto per noi delle poesie di Kahlil Gibran, un poeta cristiano maronita, libanese di nascita, che canta la pace, la speranza, l'amicizia.
Questi artisti fanno parte del gruppo versiliese <Il teatro della parola> che si è raccolto l'anno scorso intorno a Stefano Pasquinucci: sono giovani e per me raccontare loro la storia di Don Sirio, la mia - legata alla piccola Comunità del Porto - quella della Chiesetta, è stato un piacere perché il loro coinvolgimento, l'attenzione con la quale mi ascoltavano, mi hanno dato la sensazione di potere operare un passaggio di testimone fra generazioni, un valore sorgivo dal quale può nascere nuova vita per la cara Chiesetta.
Dopo i giovani, è venuta la volta dei vecchi: sono gli antichi teatranti, attori e coro, che Don Sirio aveva riunito negli anni '70 per portare sulle scene il suo teatro. Erano presenti numerosi, generosi come allora, il tempo sembrava non essere passato e i capelli bianchi quasi non si vedevano, mentre recitavano dei brani e cantavano alcune canzoni.
Era ormai l'ora di cena, in molti ci siamo accalcati intorno al peschereccio appena attraccato che aveva a bordo enormi pentoloni di fumante e profumato cacciucco. Quanto lavoro per quella zuppa e quanta ansia nei giorni precedenti, quando il mare brutto sembrava impedire la pesca... Insieme al pane e al vino ha costituito la cena conviviale che ci ha permesso di fare una sosta, di scambiare le prime impressioni, di salutare gli amici, di stringere mani e di accettare, grati, i tanti ringraziamenti per quanto avevamo organizzato.
Nel dopo cena ci siamo goduti il contributo di Elisabetta Salvatori, un'attrice di prosa versiliese che amo particolarmente: l'avevo contattata un paio di mesi prima, presentandomi e chiedendole di intervenire all'iniziativa. Lei non aveva conosciuto di persona Don Sirio, ma di fama sì, e disse con molta semplicità che sarebbe stato un onore. Quella sera recitò tre favole della tradizione toscana imperniate sulla solidarietà e l'amore, con quel suo stile tutto particolare. Nel buio della sera, accanto all'acqua del canale, ci siamo lasciati incantare dalla sua figuretta sottile e avremmo voluto che non smettesse più.
Poi sono continuati gli interventi, uno degli ultimi quello di Nicoletta, la presidente del Comitato Matteo Valenti. Li avevamo invitati perché Matteo è purtroppo morto sul lavoro, tragicamente, troppo, due anni fa. E il Comitato si è costituito per ricostruire la verità su quell'incidente e per far sì che non accadano altre morti. Ed era importante che la Chiesetta rendesse omaggio a tanto impegno, visto quanto Sirio era sensibile a quel problema, al quale aveva dedicato il suo primo lavoro teatrale. E Nicoletta è intervenuta, facendoci la sorpresa di leggere un lungo brano del teatro di Sirio, quello della moglie dell'operaio morto sul lavoro.

Era quasi mezzanotte quando alla fine ci siamo sciolti: tante ore passate insieme come in un sogno, lasciandoci trasportare dai ricordi, in un gioco di rispecchiamento come altre volte è accaduto. È il gioco dei cuori che amano e che si riconoscono, che parlano lo stesso linguaggio, che condividono un uguale sentire, uno spazio comune abitato da tutti. Abbiamo scoperto che il nostro spazio, la nostra terra di origine è la Chiesetta, il verde accanto, una distesa aperta eppure definita dal basso muretto di mattoni: un luogo umile, semplice e vero come chi vi ha abitato.




Maria Grazia Galimberti

Don Sirio e la Chiesetta del Porto

Ecco il testo del canovaccio abbiamo utilizzato per rievocare la storia di Don Sirio e della Chiesetta del Porto nella bellissima, affollatissima e creativissima festa di ieri, magistralmente condotta con animo nobile da Stefano Pasquinucci. Si tratta di un assemblaggio di testi tratti da documenti storici, libri, scritti e dichiarazioni di Don Sirio. La voce narrante (in tondo) è la mia (Riccardo), la voce recitante (in corsivo) quella di Rebecca. Dedicato a Maria Grazia Galimberti e a Don Luigi Sonnenfeld, memorie storiche della Chiesetta.

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Quando Sirio Politi nacque nel 1920 a Capezzano, il piccolo edificio che, opportunamente ristrutturato, doveva diventare la sua Chiesetta del Porto esisteva già da qualche anno. Era il presidio della Sanità marittima - del resto il nome "Moletto Sanità" ancor oggi caratterizza l'intera zona - costruito verosimilmente nella seconda metà degli anni Dieci. Questa stazione di disinfezione costituì fino alla fine degli anni Trenta l'unico punto sanitario nel quale si potevano disinfettare oggetti provenienti da bastimenti posti in quarantena o in odore di qualche pericolo, in "bandiera gialla" come si usava dire per l'obbligo assegnato alle imbarcazioni infestate di issare sul pennone un giallo vessillo. Un inventario redatto nel 1931 descrive la grande stufa costruita su modello dell'Ingegner Torriani con la quale si disinfettavano gli effetti personali dei marittimi delle imbarcazioni trattenute in rada col sospetto di quarantena.

L'edificio, situato in una zona appartata, ormai in disuso, dopo la seconda guerra mondiale subì un progressivo degrado al punto da essere definito "il cantaccio". Fu occupato da una giovane donna dedita alla prostituzione, la "Primetta", con la madre e quattro figlioli. Tutti coloro che hanno conosciuto la "Primetta" tendono a descriverla come una ragazza buona, ingenua, invecchiata anzitempo a causa delle spaventose condizioni di vita a cui era sottoposta.

In quegli anni Don Sirio era il parroco di Bargecchia; giovanissimo, aveva preso il posto di un confratello, Don Giuseppe Del Fiorentino, barbaramente ucciso dai tedeschi. Era allora un prete come tanti, anche se forse più vivace di altri. Tuttavia durante un decennio di esperienza parrocchiale maturò lentamente in lui una lenta trasformazione. Il sacerdote ancora legato alla forma e alla tradizione lasciò il posto a un innamorato dello Spirito che avvertiva il bisogno di spogliarsi di tutto e vivere povero tra i poveri.

"Non posso più stare qui. E' vero, è un posto incantevole, la gente mi vuole bene.. Ma io ho bisogno di uscire da questi privilegi, troppo stretti per me, e guadagnarmi da vivere, con il sudore, come tutti gli altri. E proprio per questo Gesù mio portarti sempre con me.."

Fu così che Sirio incontrò il "cantaccio" e decise di costruirvi la sua piccola chiesetta.

"Ho chiesto aiuto ad un amico dirigente della compagnia del porto... vorrei trovare una barca... una stanzetta tutta per me e una piccolissima Cappella per Gesù, cullate dall'acqua. Lui invece mi ha portato qui e mi ha indicato questo posto. Lì abitano due povere donne: la Primetta e sua madre. Vivono in condizioni spaventose.. con i bambini.. Bisognerebbe trovar loro una casetta nuova e poi.. eccolo... Il posto per una Chiesa e un prete. Basterà tirar su un tetto a chiglia, un muro di fondo costruito con pezzi di travertino, dove poter murare il tabernacolo... E una stanzetta accanto. Dove abitare io e Gesù. Io ospite suo. E dovrò trovare un lavoro".

E il "cantaccio" divenne la chiesetta di cui oggi festeggiamo i 50 anni. L'albero maestro di un veliero fece da trave portante per la ristrutturazione. La parete di fondo fu costruita a blocchetti di travertino. Una lastra di ferro con una catena in croce formò il tabernacolo, assemblato con maestria da Antonio Giorgetti, discendente di una famiglia di fabbri ferrai della Darsena. Al di sopra il pittore Beppe Domenici dipinse Gesù crocefisso su una tavola di rovere. Un solido blocco di travertino costituì l'altare. Di pietra vecchia e massiccia furono fatti i sedili per i fedeli. Il tutto collegato da catene di vecchie navi. Perché nella piccola chiesa a far motivo di raccoglimento e di preghiera fosse tutta la Darsena nel suo vivo quotidiano lavoro di cantieri navali, di pesca e di trasporti marittimi. Povere cose ma dignitose, com'è povero e dignitoso il lavoro del carpentiere, del pescatore e del marinaio e come deve essere povero e dignitoso chiunque va in cerca di Dio e vuole trovarsi in preghiera con lui. Anche la "Primetta" ebbe una casetta nuova tutta per lei dove far crescere i quattro figli. Il 15 agosto 1956 Padre Ubaldo Forconi dei Servi di Maria celebrò la prima messa. Vent'anni dopo, nel 1976, il pittore Giovanni Lazzarini decorò le mura esterne con un murale raffigurante il Cristo crocifisso che santifica con la sua presenza ieratica l'ambiente popolare della Darsena.

Fu quell'ambiente, non sempre favorevole alla Fede, allo spirito religioso, ad accogliere Don Sirio nella sua decisione di farsi prete-operaio. Tre anni di partecipazione a tutta la vita operaia, prima al Cantiere Picchiotti, poi al Cantiere Itoyz. Lavoro duro, stanchezza terribile, quasi insopportabile. La difficoltà del mestiere non bene posseduto, le umiliazioni del non riuscire. Le parole d'incoraggiamento, di pazienza, di amore fraterno. Ma anche pregiudizi da sfatare, diffidenze da vincere. Un prete è a lavorare nella condizione operaia perché il lavoro ha una dignità da salvare, perché il Figlio di Dio ha lavorato per tanti anni, perché la condizione operaia è vita di gran parte dell'Umanità e ha diritto di essere vissuta e raccolta da Sacerdote e portata, nella sua anima e sul suo altare, a Dio. L'ambiente popolare della Darsena capì, non la gerarchia ufficiale ecclesiastica che impose a Sirio un umiliante e ottuso aut-aut.

"Ed io sono stanco.. così stanco da non sapere come arrivare all'ora dell'uscita. Ma oggi è l'ultimo giorno, e nessuno sa. Timbrerò il mio cartellino per l'ultima volta. Si sentiranno abbandonati, come mi sento io, abbandonato dalla mia Chiesa. Proprio lei ha distrutto, annullato il mio cuore, finito, morto".

Sirio non se la sentì di abbandonare la Chiesa. Ma il Cristianesimo è anche etica personale, libero arbitrio, scelta di giustizia e di amore. Il Prete deve partecipare, per quanto è possibile al suo dovere di Amore universale, alla lotta per il pane. Ed ecco che un Prete cammina mescolato fra gli operai per le vie della città a protestare per i licenziamenti, a chiedere pressioni su chi di dovere per avere il lavoro. Sirio fondò anche un mensile che ebbe molto seguito tra gli operai, chiamandolo appunto "Il nostro lavoro".

"Hanno occupato la Fervet. Sono andato ma la direzione non mi dato il permesso di entrare... Dio però ha voluto che qualcuno chiedesse una Messa, per la domenica. Sono andato... Ma non sono passato per la porta principale. Arrivato al muro, gli operai mi hanno calato una scala, e una volta salito, mi hanno aiutato a scendere dall'altra parte. E non ho solo scavalcato un muro, ma un abisso di divisione. E la direzione mi ha pure mandato a dire che per la violazione di domicilio, bla bla bla.. Opportuni provvedimenti. E mi sono chiesto se Dio era più al di là o al di qua del muro.."

Il sogno di una vita comunitaria. Il vescovo, dimostrando finalmente fiducia e aperture inaspettate, dà l'approvazione per la nascita di una comunità contadina a Bicchio. Ancora il lavoro come elemento di unione, questa volta il lavoro di artigiano del ferro battuto, con l'amico Don Rolando. Vivevano in campagna, con tutte le metafore della fertilità, della gemmazione, della vita come potenziale prefigurazione del paradiso se vissuta con gioia e rispetto. L'anima più contemplativa e lirica, più mistica di Don Sirio trova il giusto accoglimento.

.. E le viti gemmeranno di germogli che ci riempiono la cantina di meravigliosa fragranza, di bicchieri di sangue vivo della terra, limpido come la cordiale amicizia dei contadini dalle mani dure e quindi dalla stretta sincera".

Il ribollio della fine degli anni '60 lo rigettò nella mischia e nel '71 ritornò in città. Don Sirio ospitò don Luigi, don Beppe e Maria Grazia nella sua chiesetta in darsena. Era troppo figlio del suo tempo per evitare la lotta aperta. Tutte le battaglie ecologiche lo videro in prima fila ad agire e combattere. Durante una manifestazione contro una centrale nucleare, avendo occupato insieme ad altri la ferrovia, fu denunciato e condannato a sei mesi con la condizionale. Poi con il referendum il sogno diventò realtà.

"Questa vittoria ha dimostrato che l'utopia è una forza nascosta nell'immaginario, nella fantasia, nei sogni impossibili, nell'inconscio del cuore. Che può cambiare, rovesciandola, la storia, le leggi e la cultura dominante ed arrogante. Ora altre utopie..."

Da questi temi al pacifismo e all'antimilitarismo e ai problemi della pace, il passo è molto breve.. Gli sembrava inconcepibile credere in Dio al di fuori di una coscienza dell'attuale realtà storica.

"La pace nasce spontanea dalla convergenza dei popoli. Dall'incontro, dall'integrazione delle culture, dal rispetto vicendevole delle religioni, dall'uguaglianza delle razze, dal superamento dei confini, dalla sparizione degli eserciti, dalla distruzione di ogni armamento... un'altra utopia..."

Progetta di realizzare un campo della pace nel parco circostante la chiesetta, coinvolgendo artisti, intellettuali, poeti. Tiene in gran conto l'arte e l'artigianato. Prima di partire da Bargecchia aveva dipinto di sua mano una Resurrezione di Cristo nell'abside della chiesa. Nel '79 aveva inaugurato in via Virgilio un laboratorio conosciuto come "il capannone" dove si eseguivano lavori artigianali spesso ispirati agli antichi mestieri: ferro, rame, impagliatura di sedie, ceramica, legatoria di libri, cuoio, falegnameria; vi partecipano anche portatori di handicap o persone con disagi fisici e psichici che qui trovano occasione per ravvivare le proprie capacità.

Ma nel 1986 una grave malattia comincia a dare i primi segni..

"Una malattia strana quella che mi è stata riservata, e ancora dopo estenuanti ricerche, non è stata diagnosticata con precisione".

Passa due anni tra l'amata Chiesetta e gli ospedali..

"... questo mondo dominato dalla scienza e da uomini che la rapportano al malato in maniera fondata sul potere e di conseguenza sulla paura, dove la sensibilità è inaridita dalla ricerca scientifica".

E vive la sua malattia come una via necessaria per il compimento di tutte le sue scelte, dalla scelta di Gesù a quella operaia, alla realtà di lotta, nella vita sociale ed ecclesiale, fino all'esaurimento delle forze fisiche..

"Arrivare in un luogo ed essere tutto lì. Niente è rimasto di me nel luogo di prima perché ho dato tutto. Sono libero totalmente e quindi appartengo a questa terra dove sono arrivato".

Riccardo Mazzoni - Rebecca Palagi
2 settembre 2006


Seguendo il fiume

Una delle immagini più popolari per indicare il passare del tempo, lo svolgimento dei giorni e quelli della vita, che fin da bambino mi è rimasta impressa nella memoria è quella del fiume: il suo incessante andare, lo scorrere senza posa delle sue acque, le grandi piene d'autunno e di primavera. Per diversi anni sono vissuto in mezzo a due fiumi, non molto grandi ma abbondanti d'acqua, che avevo imparato a conoscere molto bene per un buon tratto. Ed è su quella striscia di terra fertile fra i due fiumi che ho praticamente iniziato la mia scoperta del mondo, degli altri, della storia umana. I miei primi ricordi sono legati alla memoria lucidissima di avvenimenti di guerra: bombardamenti, passaggio di truppe, incursioni tedesche, fuga in massa verso i rifugi sulle colline. Paura e avventura incomprensibile per un ragazzo di pochi anni: poi tutto si è come disciolto (per riaffiorare con prepotenza molto dopo) e nella mia vita ha ripreso sempre più spazio il fiume, che rimane perciò come l'immagine più indicativa ed espressiva di quello che può essere la vita.
"La vita è come un fiume": seguendo questo inarrestabile fluire mi sono trovato coinvolto in un cammino dove la Fede in Dio e l'Amore per Gesù Cristo hanno costituito sempre più la ragione fondamentale e la motivazione profonda di tutta una ricerca. Ed insieme la spinta a cercare di legarmi alla storia concreta delle persone che ho incontrato nel misterioso intreccio delle vicende: è stato uno scorrere ed un andare continuo, come dietro ad un sogno di cui all'inizio era difficile decifrare tutto il possibile significato.
Lentamente il fiume ha percorso un buon tratto del suo viaggio, trascinando nella corrente - a volte tranquilla e appena increspata dal vento, a volte tumultuosa - tutta una serie di briciole di storia quotidiana, di persone carissime e tanto amate, di delusioni, di sconfitte, di visioni, di sogni.. Nell'acqua di questo fiume che è la mia vita, come la vita di tutti, è trascorsa una vicenda fatta di mille piccoli fili tessuti giorno dopo giorno, di mille briciole per un pane a volte dal sapore dolcissimo a volte amaro; di tante gocce d'amore e di dolore che hanno sempre accompagnato il cammino.
Ora il fiume, dopo un largo giro, mi ha ricondotto nell'angolo della darsena, fra le piccole mura della Chiesetta del porto. Sono ritornato insieme - sotto lo stesso tetto - ai miei compagni dell'inizio del viaggio, nella casa che assomiglia ad una tenda oppure ad una barca che galleggia al punto di confluenza fra il mare e l'acqua di deflusso del padule circostante.
Sono contento di essere riapprodato a questo angolo di terra che per me rappresenta un punto di riferimento interiore, uno spazio non solo materiale e geografico, ma anche uno spazio del cuore, dello spirito. Un'ansa del fiume dove ho avuto la grazia di scoprire il tesoro da tempo cercato, la perla preziosa, la terra intravista nel sogno: un angolo di mondo in cui, passo dopo passo, si è dipanato il filo della Fede, dell'Amore, della Speranza.
So che il fiume continuerà senza soste la sua corsa: non so fin dove, né fino a quando, né attraverso quali percorsi. Mi abbandono senza riserve alla corrente di questa avventura portando dentro di me la certezza che essa è segnata essenzialmente dalla Bontà di Dio, dall'amore e dall'amicizia di tante persone, dal soffio dello Spirito che ha sempre sostenuto e alimentato la ricerca di nuovi orizzonti e nuove sponde. Tanto più che - in quest'angolo di mondo che è l'isoletta della darsena - il fiume acquista contemporaneamente le dimensioni del mare.

don Beppe
(da LcA n. 1 gennaio 1987)


La posta di fratel Arturo

Essere pace è la condizione necessaria per essere costruttori di pace. Tutti i trattati, le convocazioni per parlare della pace, tutte le iniziative falliscono o perché non arrivano ad essere efficaci nella realtà o perché i loro protagonisti non sono esseri pacificati. Io credo che questa sia la spiegazione per cui la pace resta generalmente un desiderio. Confesso che mi faccio spesso la domanda: io sono pace? sono tra quelli che hanno raggiunto l'identità del discepolo e diffondono la pace con la sola presenza? entrano in una casa, si presentano a un convegno di amici, e in tutte le occasioni portano pace? Premetto che a mettere guerra nel nostro cuore sono i desideri e le relazioni. La società attuale non è pacifica, è in stato di guerra perché il suo metodo di suscitare i desideri per vendere e consumare è un metodo violento. Mette in agitazione i cuori e non permette loro di riposare in se stessi finché non posseggono l'oggetto desiderato che potrebbe anche essere una persona. L'oggetto una volta ottenuto non è pacificatore perché porta in sé il vuoto dell'altro generando scontento e delusione. Diman tristezza e noia recheran le ore ha cantato Giacomo Leopardi. D'altra parte come è possibile non accogliere quei desideri se l'uomo è essenzialmente desiderio e relazione? E' possibile seguendo il metodo francescano che è quello di trasformare le relazioni con le cose da relazione concupiscente (voglio possedere, devo possedere l'oggetto del desiderio) in relazione contemplativa (mi fermo a contemplare la bellezza, la perfezione, l'armonia dell'oggetto del desiderio). La prima trasmette tristezza e noia, la seconda gioia e libertà. Ma questo vuol dire essere poveri e santi. Francesco segue povero e scalzo Gesù che ha scoperto sulla strada povero e scalzo. E parlando delle relazioni umane è impossibile che non mettano guerra nel nostro cuore, a cominciare da quelle nella famiglia. Tutte le persone in qualche momento si sono credute vittime di ingiustizie e spesso non è un'esagerazione della fantasia, ma invece di elaborare questa convinzione ricorrono ad "attacchi psicologici come la maldicenza e l'ostracismo sociale e lo spostamento che consiste nello sfogare la propria rabbia su una persona diversa da quella che l'ha provocata che non si ha il coraggio di affrontare"(1).
Credo che per mettere pace nel cuore non basta perdonare come spesso viene consigliato. Bisogna elaborare, chiarire, sciogliere il nodo. Nessuno dimentica un torto ricevuto specialmente quando questo ha avuto un rilievo importante nella piccola storia della nostra vita. Bisogna che questi torti da memorie avvelenate diventino carezzevoli, liete come il ricordo di una passeggiata sulle montagne con una compagna di scuola che vi affascinava. Ma possono diventare liete le memorie di fatti tanto duri che hanno sconvolto la nostra vita e messa su un'altra rotta? Prima di tutto avendo chiaro che noi non siamo e non saremo mai vittime innocenti, qualunque sia il torto ricevuto. Pensiamo a fondo alla storia di Gesù che è il modello più trasparente della vittima. Pensiamo alle sue continue provocazioni di violare la legge, lavorare di sabato, anche se il lavoro era dare la vita, mettersi a tavola con i peccatori e gli stranieri, offendere la sacralità del tempio con invettive e violenza contro quelli che avevano messo banchetti e tendaggi nella zona permessa loro. La reazione dei sacerdoti non poteva che essere la condanna a morte perché questo agire non rappresentava altro che empietà, un rifiuto di obbedire alla legge così come suona. Per questo nel racconto dell'esecuzione del Figlio dell'uomo si fa ricordo di una morte volontariamente accettata. I veri martiri non cadono in un tranello, sanno fin da principio di entrare in un cammino pericoloso, vogliono abbattere un muro, aprire un varco, interrompere la continuità dell'universo, prevedono di non ricevere offerte floreali, ammirazione e gratitudine. E i persecutori non sono assetati di sangue ma fedeli servitori di ciò che credono essere la verità e addirittura si sentono i salvatori del popolo. Si tratta qui di fatti grandiosi ed eroici; ma in tutti i casi solo sciogliendo il nodo la pace entra nell'intimo della persona e fuga l'amarezza nascosta nelle piaghe più remote del cuore.
Appare sempre più evidente il bisogno dell'uomo di essere toccato, ferito dall'altro che soffre o che esige da lui di essere guardato e capito in tutte le sue esigenze vere. Questa corsa alla guerra attraverso le armi e l'economia può essere arrestata solamente se si fermano quelli che sono travolti nella corsa, e si aiutano a recuperare quella capacità essenziale che è stata lasciata sui bordi della strada per entrare nella corsa folle. Bisogna che precedano in questo recupero quelli che sono abituati abituati a pensare e a scrivere senza il fine di servire il sistema. Bisogna che vincano un certo pudore molto diffuso tra gli intellettuali dell'occidente: che non si vergognino di essere umani e capaci di ascoltare quei racconti troppo terreni di coloro che hanno lo stomaco vuoto, che non hanno lavoro e si sentono più numeri che persone. Che non si vergognino ad ascoltare la donna diventata unicamente oggetto erotico, quando un piccolo barlume di luce la sveglia dal sonno e pensa che oltre alla possibilità di diventare una 'executive' (cioè da oggetto scartabile oggetto di lusso) ha la possibilità di diventare costruttrice di amore, capace di mettere nel mondo dinamiche di amore senza il quale la pace resta un'utopia sempre più lontana.

Arturo Paoli

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