Tutta la storia umana è faticoso cammino verso la pienezza del Regno
Scrivo queste righe a chiusura del giornalino. Spero che i tempi di stampa e di preparazione per l'invio postale siano quelli soliti per cui dovreste leggermi intorno alla fine di ottobre. Saremo allora in autunno inoltrato, le giornate pesantemente accorciate dall'ora legale, i primi freddi e insieme i colori che avvampano i boschi e rimandano ai precoci tramonti che struggono l'anima. Ringrazio vivamente tutti coloro che mi hanno fatto arrivare segni concreti della loro vicinanza e amicizia.
Ringrazio gli amici che mi hanno scritto nei modi più diversi: dalla tradizionale lettera, alle e-mail, al bigliettino infilato sotto la porta... Da parte mia Lotta come Amore è una lettera scritta per ciascuno di voi, sempre con il cuore. Questa volta tra gli indirizzi non ci sarà più quello di Padre Dalmazio Mongillo. Un dolore forte, intenso per una notizia piombata fulminea. La difficoltà di comunicare con qualcuno per scambiare anche solo l'angoscia del lutto improvviso; la impossibilità materiale di partecipare al funerale perché troppo a ridosso della notizia per tentare in qualche modo di raggiungere Bari; la mancanza di un riferimento per mandare almeno le condoglianze ai familiari che sapevamo molto vicini a lui... Tutto questo, anche se sono passati più di due mesi, impedisce per ora ogni elaborazione del lutto. Eppure tanta storia, tanta vita abbiamo condiviso in un confronto non sempre facile, ma ugualmente appassionato e sincero. Chiedo a chi legge queste righe e ha notizie anche minime riguardo a Dalmazio di farsi vivo con me. Anche solo per condividere il dolore. Mi auguro, con Maria Grazia, di poter dedicare a Dalmazio il prossimo numero di Lotta come Amore. Per rivivere la tensione ideale e la speranza che abbiamo condiviso. E rinnovare ciò che la morte non può spezzare.
In questo numero
Raccolgo, come al solito, in questo numero un articolo di fratel Arturo tratto da Oreundici. Il suo scrivere è ormai un tutt'uno con il suo parlare e la sua parola un tutt'uno con il suo messaggio di vita di questi anni: "II cattolicesimo si trova di fronte ad una alternativa: o vivere la fede come adesione al suo contenuto di verità e come obbedienza ai comandamenti. O vivere la fede come donazione di sé al progresso del regno di Dio nella storia. In questa seconda la prima non è esclusa, mentre invece nella prima maniera di vivere la fede non è inclusa la seconda". Il progresso del regno di Dio nella storia presenta "varie provocazioni all'impegno dell'uomo nella società" e queste provocazioni sono legate al tempo e cioè relative anche se necessarie nel divenire del regno. Su questa falsariga si snodano le riflessioni di padre Agostino sull'Eucarestia nel campo Rom di Coltano (Pisa) dove abita da alcuni anni: "Trovo un legame stretto quanto appena affermato con la vita dei Rom e Sinti, in genere visti dall'opinione pubblica (se non sempre), come una realtà inutile, inefficiente.. .gran parte del mondo dell'esclusione lo è proprio perché visto e considerato inutile, fuori dal giro della produttività. Per me invece, proprio perché vivo l'Eucaristia dentro questo "spazio inutile ed escluso" mi ricorda che è l'azione di Dio (actio Dei) il senso ultimo del mio celebrare, e che questa non va calcolata ma solo accolta e creduta". Pochi giorni fa, proprio padre Agostino ha bussato alla porta della Chiesetta per un confronto e una richiesta di solidarietà con una famiglia Rom che da qualche anno vive nella periferia di Viareggio e cui sono stati tolti (dal tribunale dei minori su richiesta dei servizi sociali del Comune) i cinque figli e, poco tempo fa, anche l'ultima nata all'ospedale della Versilia. Scrive fratel Arturo nell'articolo qui riportato: "La profezia è la capacità di leggere il relativo perché la giustizia è un valore di tutti i tempi per tutti gli uomini, ma è solo la profezia che consegna alla giustizia la realtà di un volto che sanguina o che è solcato di rughe per fame e fatica". E io mi chiedo quale "relativo" nel caso di questa famiglia Rom? Il volto sanguinante dei figli troppe volte picchiati dall'ubriacatura serale del padre? Il volto della madre, costretta probabilmente ad una nuova gravidanza (la sedicesima, pare) perché è troppo importante un neonato per chiedere elemosine? Il padre, fuori luogo in questa nostra ordinata società, ma probabilmente anche nella convivenza di un campo Rom? Il volto dei Rom spinti sempre più in meccanismi di inclusione sempre e comunque nelle pieghe più povere della nostra società?...
Domande, domande, domande, domande, domande... Quelle che, forse, hanno martellato don Claudio, parroco nella periferia di Viareggio, di cui pubblico la "Lettera ai parrocchiani". Quella profezia, di cui parla fratel Arturo, che mette in croce la parte più generosa del clero per una struttura non più sana di un ministero che ha bisogno di ripensarsi a partire dalla comune vocazione battesimale. Quella profezia che richiede l'esercizio dell'ascolto reso vita quotidiana, familiare, condivisa che, sola, può dare alla solitudine l'autentica dimensione esistenziale. Domande. Che provocano prima di tutto il pensiero come elaborazione e confronto di ogni vissuto, come ebbe a dire il grande teologo tedesco Karl Rahner invitando a: "tradurre il nostro agire in modi nuovi di pensare, piuttosto che il nostro pensare in nuovi modi di agire".
Come abbiamo ricordato insieme, io e le carissime sorelle Maura e Giulia, nella chiesa di Bargecchia, in alto sulla collina, nel cinquantesimo della loro professione religiosa come Piccole Sorelle. Nella memoria della storia di Sirio; memoria ancora viva che ci interpella alla vita.
Redazione
Nei miei incontri mi viene spesso rivolta la domanda: la povertà, benedizione o maledizione? La risposta è molto semplice. La povertà è cammino di liberazione e segno di libertà, è un cammino necessario per conquistare la pace del cuore e fare esperienza della libertà vera per cui siamo nati. Seguendo il gusto dell'epoca, Dante rappresenta la povertà di Francesco d'Assisi come un matrimonio d'amore tanto gioioso da fare invidia. "La lor concordia e i lor sembianti" convincevano molti a seguire il santo tanto che "il venerabile Bernardo si scalzò prima, e dietro a tanta pace corse, e correndo gli parve d'esser tardo" (Par. XI) La perfetta letizia, l'esperienza di una gioia che non è di questo mondo e che è quasi una prova dell'eternità beata, è possibile solo con il ridurre al minimo i bisogni e i desideri che ci spingono alla ricerca di una felicità provvisoria che è come il falso di un quadro di un grande autore. E questo spogliamento in vista di conquistare la verità più profonda della persona sembra essere una meta della spiritualità orientale più che del nostro occidente cristiano. Credo che sia dovuto anche al fatto che il cristianesimo nel mondo greco è stato sfidato dalla domanda sul senso del vivere, piuttosto che dalla domanda di un progetto reale dell'esistenza. Nel nostro tempo stiamo scoprendo lo squilibrio che vivono i seguaci di Cristo, fra una proposta di fede intesa come
ragione e la debolezza di un'etica capace di opporsi al consumismo dilagante, causa diretta di quella povertà-maledizione che è vera schiavitù del maggior numero di esistenze umane. La crisi è già aperta sul nascere del francescanesimo quando la prima generazione del poverello non avverte che la verità di Francesco consiste nell'essere vero e non nell'inseguire la verità come bene da conquistare, che diviene facilmente conquista di potere incompatibile con l'autentica povertà. "Ma il suo peculio di nova vivanda - è fatto ghiotto, sì che non puote - che per diversi salti non si spanda". Oggi la Chiesa cattolica è impegnata nel difendere la vita umana e si scontra con tecniche di manipolazione della vita. Ma questa discesa in campo, vista dalla parte dei poveri, lascia freddi e perplessi. Perché noi tutti individui e istituzioni siamo coinvolti nell'idolatria di mercato, causa di una quotidiana distruzione della vita in misure mai raggiunte per estensione e profondità. La campagna portata avanti con tutti i mezzi, mentre il continente africano agonizza, l'America Latina è paralizzata nel suo sviluppo, la gioventù dell'occidente cristiano è sempre più dominata dall'idolatria, ci fa pensare all'ironia evangelica che colpisce chi sputa il moscerino e inghiotte la trave. Oggi abbondano scrittori e scritti che mettono a nudo il funzionamento dell'idolatria di mercato e i suoi attentati alla vita. Anche senza fare lunghi studi in economia, un piccolo libro ci informa a sufficienza su questa guerra infinita che falcia milioni di esseri umani condannando alla fame, escludendo giovani forze dal lavoro, perché "ridondanti e dunque da eliminare". (AA. VV.,, Economia come teologia?, Ed. L'altrapagina, Città di Castello)
Invano il Concilio ecumenico Vaticano II ha solennemente e infallibilmente proclamato che il centro della predicazione di Gesù è il Regno: "regno di giustizia , di amore e di pace" che deve avvenire nel tempo per l'impegno e la responsabilità dell'uomo, chiamato a renderne conto il giorno della seconda venuta di Cristo, alla fine dei tempi. Oggi autori molto letti e fecondi come Bauman, mediante analisi acute e profonde della società, mettono allo scoperto la nostra responsabilità. Nel piccolo libro accennato sopra il teologo Enrico Chiavacci riprende la Gaudium e Spes: "Con la venuta di Cristo tutta la storia non è altro che il faticoso cammino della storia verso la pienezza del Regno. Il Regno non riguarda l'aldilà ma l'oggi, in cui la basileia di Dio si sta sviluppando. Dunque la presenza del cristiano, nella complessa e strutturata realtà sociale della famiglia umana, è un tema prettamente umano e attinente alla salvezza".
Oggi, grazie a questa svolta del pensiero filosofico e parallelamente alle indicazioni dello Spirito Santo che appaiono molto chiare negli atti conciliari del Vaticano II, il cattolicesimo si trova di fronte ad una alternativa: o vivere la fede come adesione al suo contenuto di verità manifestata negli articoli del Credo e resa accessibile attraverso i vari catechismi che rendono pedagogicamente accettabile un catechismo ufficiale edito dal centro della Chiesa e come obbedienza ai comandamenti. O vivere la fede come donazione di sé al progresso del Regno di Dio nella storia. In questa seconda la prima non è esclusa, piuttosto a partire da quella il cristiano sincero, aprendosi all'azione dello Spirito Santo, giunge a convincersi che il senso vero della propria esistenza è quello di impegnarla integralmente per un mondo di giustizia, di fraternità, di pace. Nella prima maniera di vivere la fede invece non è inclusa la seconda. Mettendo al centro il Regno di Dio, come ha chiesto lo Spirito Santo nel Concilio, appare evidente quel relativismo cristiano che recentemente è stato citato dal cardinale Martini nell'omelia pronunciata nel duomo di Milano l'8 maggio scorso. Il Regno di Dio si realizza nel fluire della storia che presenta varie provocazioni all'impegno dell'uomo nella società del suo tempo. Questo impegno è la ragion d'essere di ogni esistenza umana, Gesù la contempla alla luce di Dio. Il cardinale Martini nelle sue parole sembra indicare un'istanza superiore alla Chiesa: "sarà allora quando verrà il Signore che finalmente sapremo. Allora si compirà il giudizio sulla storia e sapremo chi aveva ragione. Allora le opere degli uomini appariranno nel loro vero valore e tutte le cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno". Il cristiano non ha una marcia in più degli altri, dovrebbe averla perché la sua fede dovrebbe averlo portato a dissetarsi direttamente alla fonte dell'amore, ma spesso non dona questo amore, lo ritiene per sé impaludandolo. Viene alla mente spontanea la parabola del Samaritano che trasmette la vita a un morto, mentre i due trascurano il fratello in preda alla morte per non perdere il diritto di approssimarsi alla fonte della vita. I segni dei tempi sono relativi perché legati al tempo, eppure Gesù li mostra come necessari per il nostro impegno nel divenire del Regno.
La profezia è la capacità di leggere il relativo, di vedere che la giustizia è un valore di tutti i tempi per tutti gli uomini, ma è solo la profezia che consegna alla giustizia la realtà di un volto che sanguina o che è solcato di rughe per fame e per fatica. Nella mia lunga vita ho avuto la possibilità di vivere un periodo a Roma dove ci scontrammo con dei valori umani che si dibattono su un piano strettamente logico e razionale, anche se destinati a entrare nel tempo e quindi nella relatività, come la conciliazione fra l'obbedienza e la libertà, la difesa dello spazio della laicità dallo spazio del sacro e del religioso. Il ricorso costante allo Spirito di Dio mi apparve e mi pare ancora oggi indispensabile per vivere quella vicenda senza perdere l'unità di un progetto di vita che avevo scelto con una coscienza chiara e libera. La vita con i poveri mi ha avvicinato a una religiosità incarnata che mi ha portato a riconoscere la teologia della liberazione, le varie filosofie fenomenologiche fra cui distinguo il pensiero di Lévinas, come il filo rosso del Regno di Dio. E oggi penso che non si sveleranno mai del tutto i sensi che contiene la parola conciliare di povertà della Chiesa e nella Chiesa, se non cogliendo questi avvenimenti come profezia cioè come presenza dello Spirito di Dio nella storia. In questa luce storica appare in tutta la sua evidenza il Gesù dei Vangeli che si identifica con il progetto Regno di Dio che chiarisce nelle parole più vicine all'uomo: "sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Gv. 10,10).
Oggi non è possibile pensare a un mondo diverso, se non partendo dalle vittime di quelli che tolgono la vita. La forma concreta di togliere la vita a una parte sempre più estesa di esseri umani consiste nel fatto che l'economia finanziaria si sviluppa senza nessun legame con l'economia reale. In poche parole esiste denaro che trasmette vita e denaro che trasmette morte perché è denaro che produce denaro, spogliato dal suo essere simbolico che è quello di alimentare la vita. Questo meccanismo non l'ho mai trovato nei libri di teologia morale, e nemmeno di spiritualità. Ma è impossibile non interrogarsi a fondo, non cercare di chiarire la causa di questa morte sempre più avida di vittime umane, senza sentire l'assoluta falsità delle nostre parole consolatorie e il vero autentico relativismo dei programmi di studio dei futuri pastori che vengono preparati in lunghi anni di separazione dalla vita reale, a respirare in colonie asettiche, lontane dalla concretezza quotidiana dove appare evidente il senso vero del mondo nella lotta impari tra la morte e la vita. E qui, in questo tragico mondo reale, si rinnova lo spezzarsi del velo del tempio e il senso vero del povero e giusto che agonizza sulla croce. E quanto lussuoso infantilismo si nasconde nel nostro stile di vivere la nostra fede.
Arturo Paoli
Da diversi anni vivo all'interno del campo Rom di Coltano (PI), dentro questo spazio mi sento accolto e accolgo, ma nello stesso tempo ogni giorno devo sempre ricominciare per rinnovare questo spazio. Questo spazio è il luogo dell'ospitalità. Non vivo in mezzo a loro da "padrone" in abiti del volontario, o del benefattore: mi sento un po' come loro ospite e amico.
" Essere ospite non significa dare, fare, insegnare, programmare, raggiungere obiettivi, ma ascoltare, imparare, condividere, stare, aspettare, saper tacere, saper ricevere, lasciarsi amare e amare" (da una riflessione delle suore Luigine, Rita e Carla di Torino). Sento questo luogo come la "mia Chiesa", anche se non è registrata in nessuna Curia Diocesana.. .ma avverto che questa stravagante Chiesa aiuta ad essere sempre più vera l'Altra, la provoca continuamente, la invita a rimettersi sempre in movimento, a non aver timore di scoprire e di vivere il Vangelo come esodo continuo, a sentirsi più nomade che sedentaria, a non temere di apparire inutile e al margine.. .e di lasciarsi fare anche da chi lotta e vive il margine. Questa nostra piccola Chiesa al margine, (mi riferisco al cammino dell'Unpres settore di Migrantes), non è solo una ricchezza per me, lo deve essere soprattutto per le comunità cristiane.
Le Eucaristie che celebro al campo le faccio da solo dentro la mia roulotte, essendo i Rom tutti Mussulmani, ma questo non mi impedisce a volte di partecipare a momenti di preghiera e riflessione comuni, in genere sono ricorrenze particolari, funerali, feste religiose...
Quindi, quando celebro non c'è una comunità cristiana, che fisicamente si raduna intorno alla mensa Eucaristica per spezzare insieme il Pane della Parola e del Corpo di Cristo.
A cosa può servire questo mio celebrare in solitudine l'Eucaristia, Sacramento che di per sé, rappresenta il mistero più alto della comunione, della fraternità? Scrive il teologo Severino Dianich in un suo libro:
" Nel rito quindi non avrebbe senso voler valutare i risultati di un 'azione in rapporto ai mezzi adottati: da questo punto di vista si potrebbe qualificare il rito come 'inutile ', tanto quanto è 'inutile ' la poesia, il gioco, la contemplazione. E' da parte dell'uomo la creazione di uno spazio vuoto, perché possa essere occupato dalla presenza e dall'azione di Dio" (Trattato sulla Chiesa, ed.Queriniana, pag.304) Trovo un legame stretto quanto appena affermato con la vita dei Rom e Sinti, in genere visti dall'opinione pubblica (se non sempre), come una realtà inutile, inefficiente.. .gran parte del mondo dell'esclusione lo è proprio perché visto e considerato inutile, fuori dal giro della produttività. Per me invece, proprio perché vivo l'Eucaristia dentro questo "spazio inutile ed escluso" mi ricorda che è l'azione di Dio (actio Dei) il senso ultimo del mio celebrare, e che questa non va calcolata ma solo accolta e creduta.
A volte celebro la Messa durante la notte, è un'occasione preziosa, non solo per la calma esterna: il campo durante la notte sembra raccogliersi attorno al mistero dell' Eucaristia, il silenzio aiuta di più, anche i rumori del campo, meno chiassosi sembrano partecipare: i latrati dei cani, quelli delle macchine che ogni tanto vanno e vengono, la voce che grida il nome di qualcuno, una donna che spacca la legna per poter riscaldare la baracca della sua famiglia, oppure è la musica di un noto cantante Rom che tenta di consolare l'animo di qualcuno, il pianto di un neonato che reclama il latte materno, la bottiglia vuota di birra gettata per terra e che va in frantumi... tutto questo sono come delle antifone vive che accompagnano e scandiscono la mia semplice liturgia. Rumori e suoni che riassumono aspetti diversi dell'esistenza di questa gente: gioie, attese, delusioni, fallimenti, speranze, paure.. .cammini non certo facili, perché spesso sono ostacolati anche da diffidenze, sospetti, pregiudizi innati nella nostra società e tra i Rom stessi.
"Benedetto sei tu o Padre, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questi doni: il pane e il vino. Sono i frutti della terra e del lavoro dell'uomo e della donna, te li presento insieme alla vita di questo popolo, vita sospesa tra speranze e paure, tra rancori e slanci di gioia, tra diffidenza e riconciliazioni improvvise.. .fa che tutto questo diventi per me cibo e bevanda di salvezza!"
Celebro l'Eucaristia perché Cristo viva in questo "fuori luogo" e trasformi le esistenze di queste persone in un tempio spirituale gradito a Dio, nonostante tutto.
I Rom sono visti come dei "fuori luogo", non solo perché vivono geograficamente in spazi separati dai "luoghi comuni", che sono quelli della società, anche la Chiesa vive ed opera in questo luogo comune.
Facilmente chi sta con loro, prima o poi avverte anch'egli di essere visto e considerato un "fuori luogo": dalle istituzioni, dalla gente comune, dalla stessa congregazione di appartenenza, dalla Chiesa stessa.. .ma l'essere un "fuori luogo" sempre coincide con lo stare "fuori posto"?
Sperimentare sulla propria pelle questa "estraneità" non è sempre facile, eppure è fondamentale arrivare a scoprire la ricchezza che c'è in questo sentirsi un pò stranieri, anche in casa propria. Vivere il margine con serenità, superando il rancore (i Rom in questo sono dei veri maestri), nonostante le difficoltà, aiuta a crescere umanamente e spiritualmente. Soprattutto è la Parola di Dio ad offrirci una abbondanza di stimoli e potenzialità: cosa significa per me vivere l'Eucaristia all'interno di questo "fuori luogo"? "Stringetevi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo". (!Pt2, 4) Anche negli Atti degli Apostoli è presente e raccontata la "marginalità" delle prime comunità cristiane, costrette in alcuni casi a ritrovarsi in clandestinità per "spezzare insieme il pane di Cristo", una Chiesa quelle delle origini, vista anch'essa come un "fuori luogo" da molti, in modo particolare dalla religione ebraica di allora, ma poi lo sarà anche in altre realtà e contesti culturali.. .fino a Roma. Sarà la famosa Lettera a Diogneto a riassumere in modo esemplare questo sentirsi per vocazione da parte del cristiano un "fuori luogo", che pur vivendo nelle stesse città degli uomini, mantiene in relazione ad esse una distanza.. .perché la sua patria è oltre!
In un certo senso la Chiesa nasce come un "fuori luogo", non solo per circostanze storiche particolari ma è anche grazie all'azione particolare dello Spirito Santo che la Chiesa di Gesù Cristo, morto e risorto fuori le mura, essa si diffonde nel mondo intero per vivere e annunciare il Vangelo del Regno di Dio, partendo non da luoghi puri, privilegiati e forti, ma proprio dalla Croce di Cristo, il "fuori luogo" per eccellenza. (Eb.13, 12)
"E'veramente cosa buona e giusta, nostro dovere Padre Santo, renderti grazie sempre e in ogni luogo per Gesù Cristo tuo amatissimo Figlio. Egli è la tua Parola vivente, perché ha assunto anche il volto del Rom e non ha avuto paura di sporcarsi e con gioia pianta la sua tenda dentro la vita di questa gente, non per controllarli, non per integrarli o contarli ma solo per amore cammina con rispetto e delicatezza dentro le loro esistenze. Noi ti rendiamo grazie Padre, perché permetti che tuo Figlio sia ospite e pellegrino in mezzo a loro, che condivida la vivacità dei loro bambini e il grande rispetto che hanno i vecchi dentro le loro famiglie, che conosca la sofferenza di chi si sente disprezzato, rifiutato e messo fuori perché giudicato inutile e un vuoto a perdere...che veda il coraggio di questa gente, la loro capacità di resistere e reagire gioiosamente alle tante difficoltà, dispiaceri e tragedie. Nella sua vita, il tuo Figlio Gesù passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male, lo faccia anche verso coloro che sbagliano, che rubano, che mancano di rispetto verso i più deboli, che tradiscono la fiducia a causa dei soldi e per coloro che sono facile preda di vizi. Anche qui come il buon samaritano versa nelle loro ferite ancora aperte, l'olio della consolazione ~ e il vino della speranza."
L'Eucaristia diventa lo spazio che mi aiuta a scoprire e a confidare sulla Grazia divina, anche quando segue cammini spesso a noi ignoti, se non proprio strani secondo le nostre categorie morali e sociali... Da questo fuori luogo, osservatorio privilegiato (almeno per me) anche per guardare il mondo, gli avvenimenti, la città, la Chiesa... la stessa che ha accettato questa nostra presenza dentro le carovane dei Rom e Sinti, ma fatica ad entrare senza pregiudizi e a mani nude, preferendo mantenere un rapporto di distanza, quando non arriva addirittura ad appoggiare atteggiamenti xenofobi con un silenzio complice a manifestazioni di rifiuto e intolleranza verso i Rom.. .e celebrare con serenità scandalosa la Messa domenicale! ! "...perché molte volte i cristiani hanno sconfessato il Vangelo e, cedendo alla logica della forza hanno violato i diritti di etnie e di popoli, come quelli degli immigrati e degli zingari". (Giovanni Paolo II)
Signore, pietà!
Dio Onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
campo Rom di Coltano (PI) 6 Maggio 2005 - Giurgevdan (giorno di S. Giorgio), festa del popolo Rom
Padre Agostino Rota Martir
Carissime sorelle, Piccole Sorelle di Gesù. Sono salito volentieri sulla collina di Bargecchia, appena alle spalle di Viareggio, per vivere con voi l'incontro, nella chiesa parrocchiale, in occasione del quale avete ricordato i 50 anni della prima professione e Carla Francesca, nata come voi a Bargecchia ma in anni più recenti dei vostri, ha pronunciato i voti perpetui.
Una festa davvero simpatica, partecipata nell'accoglienza che le famiglie del paese hanno voluto dimostrare ospitando nelle loro case la trentina di Piccole Sorelle convenute per l'occasione e offrendo la cena a tutti gli intervenuti.
Durante la messa concelebrata, ogni tanto, mi sorprendevo a sbirciare, in alto, nell'incavo dell'abside affrescato più di cinquant'anni fa da don Sirio, allora vostro parroco a Bargecchia. Quella "Trasfigurazione" ancora così piena di vita, di movimento, lasciata da Sirio come un ultimo gesto di amore:
"Vogliate bene a Gesù sopra tutte le cose. Vi ho tanto parlato di Lui! Perché crediate in Lui e Lo amiate: il Figlio di Dio, Colui che ama in maniera infinita ciascuno di voi. Ve ne ho dipinta - più grande e più bella che mi è stato possibile - la dolce Immagine sullo sfondo della vostra Chiesa: ogni volta che alzate gli occhi a guardarla abbiate un palpito d'Amore a Lui anche per me". E' stato come ritrovarci insieme, ancora una volta, per ripartire e scendere dalla collina della nostra vita, delle nostre radici. E mescolarci di nuovo con l'umanità che vive e respira l'aria della città, della convivenza così difficile e anonima, della confusione e del rumore che nasconde la solitudine e ne fa invisibile catena ad imprigionare i suoi figli.
Ricordando, ancora una volta, il "progetto" di questo amico grande e forte che ci ha voluto bene come figli, fratelli e sorelle: "Sono convinto che per me sarà anche troppo poter fare il povero prete capace soltanto di dire una parola buona, paternamente, a chi forse non ha nessuno che gliela dica: poter vivere silenziosamente accanto a chi lavora a chi soffre cercando soltanto di essere un po' di Amore per tutti"(don Sirio, Lettera di saluto ai parrocchiani). Che ne è oggi di questo progetto che ci ha coinvolto e "portato via" in questi lunghi anni di vita? Siamo stati poveri con i poveri? E soprattutto abbiamo portato con noi le parole d'Amore per tutti? Ho visto nei vostri volti, ho letto nei vostri occhi la felicità e la sorpresa di un cammino di vita che si è snodato così a lungo senza perdere contatto con la fonte che lo ha generato. Ma le domande che ho posto sopra non vogliono condurre ad un bilancio di tutta la nostra vita fin qui vissuta.
Queste domande sono per l'oggi e, in prospettiva, per il futuro, qualunque esso sia. Se è vero che oggi l'umanità si scopre sempre più composta di poveri che fanno da sgabello ai piedi di un ristretto gruppo di ricchi. Essere poveri oggi vuoi dire fare nostri i desideri e i bisogni di una umanità confusa e lacerata e condividere gli sforzi anche schizofrenici di riuscire a cogliere delle traiettorie di senso in un mondo sempre più corrispondente alle nostre decisioni e alle nostre scelte e sempre meno derivante dai modelli "autorevoli" della natura e/o della mano sapiente di un dio. Fino a ritrovarsi in un cammino senza più distinzione con i compagni di strada: "Perché è qui il mio racconto, io ho creduto, umilmente e ingenuamente, che il gran problema del rapporto tra clero e il laicato potesse essere affrontato e in parte risolto, attraverso un cambiamento radicale del clero. Abbreviarne le distanze, cancellare le differenze, spazzar via i privilegi, camminare sulla stessa strada, essere uguali o meglio ancora sotto i piedi di tutti, essere gli ultimi, senza diritti e solo con infiniti doveri.. .non essere più preti, clero, mondo ecclesiastico, ma semplicemente degli accattoni della bontà altrui, dei coinvolti e possibilmente dei travolti dalle lotte per la libertà, la giustizia, la testimonianza di una alternativa che si chiama Regno di Dio al regno degli uomini, (don Sirio, Un'utopia per la Chiesa, Lotta come Amore, dicembre 1987).
Luigi
Dopo quasi 12 anni (era il 31 ottobre del 1993), "volati", per così dire, mi è particolarmente faticoso salutare tutti, perché si è trattato di anni, per me, speciali. Anni di crescita sia come uomo che come credente che come parroco, così come credo siano stati anni di crescita per l'intera comunità. Ma che significa poi crescere? Sicuramente maturare nuove motivazioni ascoltando il Signore che ci parla in molti modi, in tutte le persone e le situazioni. E' questa la principale preoccupazione che muove la mia vita, per questo mi sono tanto impegnato (e divertito!) nel cercare di annunciare la sua Parola così come mi era dato di comprenderla. Ho trovato qui al Varignano una Parola del Signore particolarmente arricchita dalle tante "povertà" dalle quali ogni giorno ci parla e non saprei pensare una esperienza altrettanto grande in un'altra parrocchia!
Ho chiesto al Vescovo di sostituirmi solo perché sento la necessità di una pausa nel mio cammino. Ho chiesto, se possibile, di nominare due nuovi parroci per dare ulteriore impulso alla vita di questa nostra comunità alle cui molte domande non mi sento più di riuscire a dare risposte adeguate. A partire dal prossimo mese di ottobre i nuovi parroci inizieranno il loro servizio (non è stato possibile prima).
Nel frattempo è incaricato per ogni necessità d. Paolo Rossi, il Vicario pastorale di Viareggio, co-parroco di don Bosco, a cui potete rivolgervi da subito. Il sabato e la domenica verrà a celebrare con voi l'Eucarestia d. Luigi Sonnenfeld, già parroco della Darsena. Spero che nella casa canonica possiate sempre trovare qualcuno ad aprire la porta o a rispondere al telefono, infatti un gruppetto si sta organizzando per una specie di "autogestione". Si tratta di fare qualche piccolo sacrificio in attesa dei nuovi parroci che vorrei trovassero una comunità ancor più viva di quando c'era il "vecchio" parroco.
So di portare un po' di disagio a molti e ne chiedo scusa ad ognuno, Dio solo sa se lo vorrei, ma volersi bene comporta un po' di sofferenza... In particolare chiedo ai più giovani, ai ragazzi e ai bimbi, di non sentirsi "abbandonati", lo sapete bene che non è così, perché il bene che provo per voi lo provo per tutti e temo che la mia attuale stanchezza non mi aiuti a mostrarlo. Avrei voglia di ringraziarvi uno per uno e non so come fare perché mi ci viene da piangere anche solo a scriverlo... ringraziare tutti coloro che si danno da fare per gli altri nelle differenti attività: mi piace quello che fate e come lo fate e mi piace pensare che nessuno abbia mai voluto dimostrare a me quanto è bravo, ma solo servire il Signore nei fratelli! ! ! Per questo so che continuerete con altrettanto entusiasmo. Voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato a crescere, a capire quanto è buono il Signore e quanto ho bisogno degli altri. Voglio chiedere perdono a chi ho trascurato, non ascoltato o non mi sono sforzato di capire... sono tanti gli sbagli che mi vengono in mente che quasi quasi rimango per correggermi! Spesso ho pianto con voi, anche quando non sono uscite lacrime, soprattutto di fronte ai figli più piccoli e ai giovani; spesso ho avuto paura di non fare le cose giuste, anche se, come sapete, sono abbastanza presuntuoso... ma mi sono anche divertito tanto! Sono riuscito e voi me lo avete permesso sopportandomi, a fare il prete come mi sembrava più giusto (speriamo che anche il Signore sia d'accordo!), cercando di non separare mai la mia vita dai miei discorsi (bravino, no?). Qualche parola grossa" mi è uscita di bocca, ma non ha mai dimorato nel mio cuore.
Mi sono divertito durando fatica; a volte non sono stato abbastanza umile da chiedere aiuto, altre volte ho detto cose che hanno creato confusione, ma ho sempre cercato di aprire a voi il mio cuore. Vi porto dentro uno per uno, tutte le preoccupazioni, i segreti, le paure, le gioie; tutte le speranze che abbiamo condiviso, ma soprattutto la gioia e la serenità con le quali abbiamo cercato di essere cristiani insieme. Ritengo che al Signore siano piaciute alcune delle cose che abbiamo fatto, per le altre chiuderà un occhio e ci darà nuove possibilità, ma credo che anche lui si sia un po' divertito con noi e che ci voglia benedire, accompagnando i nostri passi, ovunque andiamo... Con affetto profondo vi abbraccio...
vostro d. Claudio
Claudio Leone
A metà ottobre avrò terminato il compito di andare sabato sera e domenica mattina a dir messa al Varignano, quartiere di periferia popolare a Viareggio. Questo a seguito dell'uscita dalla parrocchia di Claudio lì da dodici anni con un lavoro intenso e positivo di presenza generosa e impegnata nelle relazioni umane. E nell'andare alla chiesa parrocchiale, sagoma anonima di capannone affiancata da un cantiere rabberciato in cui si sta completando una barca in ferro assai grande, ho rivissuto la storia di quel quartiere e, soprattutto della parrocchia che ha visto, dagli anni '60, alternarsi tre figure di sacerdoti così diverse e, insieme, così incisive nell'impostazione, ognuna, di un diverso modello di chiesa. Delle motivazioni che hanno portato Claudio ad uscire dalla parrocchia e cercarsi una casa e un lavoro, non so niente di più di quanto lui stesso faccia trasparire nella lettera ai parrocchiani, ma la situazione che ho appena sfiorato mi ha fatto riflettere sulla condizione del parroco oggi. Innanzitutto mi è tornato alla mente un discorso di Roberto Berton, prete operaio a Marghera. Nelle sue complesse analisi critiche era arrivato a dire che i veri preti operai (che vivono la condizione di dipendenza e di sfruttamento) sono oggi i preti a parrocchia. Ben inteso quelli che si impegnano in questo compito a tutto campo, con una donazione di se che li assorbe totalmente. Non ricordo quali erano le argomentazioni che portava per giustificare questa sua conclusione, ma per me, nel passaggio dalla "cristianità" (diciamo cinquant'anni fa?) alla progressiva "scristianizzazione" (diciamo oggi?) il prete a parrocchia ha compiuto un percorso non indifferente. La professione di parroco era socialmente riconosciuta (nel paese tre autorità: il prete, il maresciallo e il farmacista). E riconosciute erano le sue mansioni da prete (e quindi le attese da parte della gente). Poi, come il maresciallo che si levava la divisa e andava a caccia, anche il prete andava a caccia, accomodava gli orologi e gli organi, insegnava latino, giocava a carte, studiava, affrontava problematiche sociali.. .ecc. ecc. Aveva cioè uno spazio pubblico in cui esercitava il suo ruolo, e uno spazio privato in cui non dismetteva il ruolo, ma comunque venivano più fuori le inclinazioni, le capacità, le scelte personali. E per il singolo prete era più facile "misurare" il proprio impegno professionale e, nello stesso tempo, esser consapevole di quanta energia poteva mettere nel fare ciò che egli stesso preferiva o a cui dava particolare importanza. Al di là di ciò che il ruolo esigeva. Oggi il ruolo del prete è molto più sfumato. Molto meno richiesto sul piano sacrale e religioso, si trova a gestire uno dei pochi "sportelli" rimasti aperti su un territorio sempre più composito e frammentato. E cioè la parrocchia. Sempre più spesso solo, il prete a parrocchia si confronta con un vasto arco di bisogni che interpellano, con martellante insistenza, la sua coscienza cristiana e la sua fedeltà ad un impegno di dedizione. Confuso, impreparato, il più delle volte si rifugia nella professionalità specifica di uomo di chiesa, al servizio di una comunità sempre più piccola e marginale, e bisognosa a sua volta di presenze e di servizi rassicuranti che lo assorbono in una routine di per se insignificante.
Quando il prete è uomo fatto di stoffa buona e generosa, per cui non riesce a stare all'interno di una onesta professionalità impiegatizia, gli si apre davanti un terreno tanto vasto quanto impervio che ne assorbe ogni energia. Sfumando lo specifico, tutto gli è richiesto e tutto appare dovuto. Coinvolto in un ruolo "di cura" si trova a condividere con la casalinga la lacerante impossibilità di sapere se l'aver cura di madre è frutto di donazione di sé o inevitabile conseguenza del ruolo. Come meravigliarsi dell'emergere, anche drammatico, di uno stato di crisi? Credo che i "responsabili del personale" della chiesa (la parola vescovo non ha forse il significato di "sorvegliante"?) dovrebbero porsi questo problema anche nel suo versante strutturale. Il prete a parrocchia non può più essere lasciato solo, a galleggiare in un ruolo tanto indefinito quanto onnicomprensivo (al di là dell'emozione che crea, ci si chiede davvero cosa ci sia dietro espressioni del tipo: "sacerdos alter Christus"?). Può essere una strada da percorrere quella di condividere il compito di "cura" con altri preti (non più un prete per ogni campanile, ma una equipe per un territorio), facendosi carico di una realtà sufficientemente ampia mentre le parrocchie ivi costituite si organizzano, per la vita quotidiana, con le energie realmente presenti (persone, famiglie che vi abitano)? Non so. Certo che nella situazione attuale non si va più in là della strategia del tappabuchi. E questo non contribuisce a frenare una emorragia che è prima di tutto di motivazioni. E di credibilità quando si chiede di impegnare la vita.
Luigi
Centro Spiritualità Nonviolenta
E' stato recentemente presentato dal Comune di Agnone (Alto Molise) e dal Centro di Spiritualità Non violenta il libro di Remo de Ciocchis intitolato "II volto della non violenza e pratica dell'amore". Il volume di 148 pagine è il settimo della Collana di riflessioni e di esperienze nonviolente delle Edizioni dell'Amicizia di Agnone. Il primo capitolo ("Significato della non violenza") evidenzia soprattutto le radici della nonviolenza, che viene intesa come concreto amore. Il secondo capitolo ("Azione della nonviolenza") rileva come la non violenza opera a 360 gradi e deve investire tutta la vita dell'uomo: il mondo intcriore con l'autocontrollo del corpo e dello spirito, i rapporti interpersonali con la reciproca tolleranza, la vita sociale e politica con l'attuazione dei principi di libertà e giustizia, gli animali e l'ambiente naturale, che bisogna proteggere, e infine Dio, supremo fine della nonviolenza-amore. Il terzo capitolo ("Obiezioni alla nonviolenza") affronta, considerandole infondate, tutte le critiche fondamentali che vengono fatte al discorso della non violenza e cioè la nonviolenza è un'utopia, la nonviolenza è una dottrina di deboli, l'astrattismo dei nonviolenti, la pericolosità del sacrificio, il radicalismo nonviolento che risulta controproducente, l'inefficacia della nonviolenza. Il quarto capitolo ("Vivere la nonviolenza") sottolinea come la nonviolenza vissuta è la via di santità e di salvezza in Dio.
In questa pubblicazione viene chiaramente affermato che la dignità dell'uomo è nel vivere l'amore non violento in maniera integrale. Ciò significa che l'amore deve essere presente in ogni momento della nostra vita. Non è sufficiente vivere la nonviolenza in modo parziale. L'impegno socio-politico, per esempio, non deve essere assolutizzato a scapito degli altri aspetti della nonviolenza.
L'importanza del libro sta nel fatto che in maniera sintetica, organica e profonda viene espresso tutto il discorso dell'amore.
Piccola chiesetta
del porticciolo
antico
a due olivi
ancorata
sembri
una barca
che trasporta
la pace.
Un saluto
a Dio
prima d'affrontar
l'incognita
del mare
e forse
una preghiera...
Ancora
silenziosa,
confusa
tra i natanti,
quasi nascosta
in quella tua
timidezza!
Antonio Del Testa
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455