LOTTA COME AMORE: LcA Dicembre 2018

I fiori del campo nascono seminati dal vento

Amare profezie

Chi leggerà questo ennesimo fascicoletto di Lotta come Amore, troverà in alcuni articoli note più o meno amare riguardanti deviazioni rispetto a percorsi di autentica e generosa testimonianza di uomini e donne che hanno lasciato traccia di sé nella storia dei poveri e nella ricerca di riscatti e nuovi percorsi di giustizia e dignità. Questo avviene anche nella Chiesa. La profezia disturba da sempre la pretesa linearità di progetti teoricamente anche di rilievo. Mi pare come se i tentativi di conversione al Vangelo della Chiesa stessa, anche quelli coniugati da piani pastorali sapienti e nati da lungo ascolto della realtà abbiano a partorire rigidità che finiscono per mettere in ombra, se non addirittura cancellare, ciò che era sorto in virtù di sperimentazioni in campo aperto, di sensibilità non riconducibili a quanto coltivato, ma nate apparentemente dal niente, come i fiori che nessuno ha
seminato se non il vento.
Ricordo alcuni scritti di don Sirio, pubblicati su Lotta come Amore nella seconda metà degli anni '70 nella forma di lettere "Alla Santa Madre Chiesa". Chiede ascolto don Sirio, non tanto per sé quanto per la testimonianza di quanti cercano di vivere il Vangelo nella fragile quotidianeità della loro vita innamorata di Gesù. Nel luglio 1979 così si esprime: "ti scrivo ancora una lettera: non so se sarà l'ultima, il Signore solo lo sa e sia fatto come a Lui piace. Può darsi però che anche la stanchezza, e quella dell'Amore è particolarmente micidiale, mi sopraffaccia e mi svanisca quella fiducia e quella fedeltà di attesa che ancora mi trepidano in fondo all'anima: difatti basta un accenno e si riaccendono subito le speranze. Ma se poi, come ormai succede puntualmente, ricadono spente, allora l'amarezza è ancora più amara e il vuoto è sempre più abisso senza fondo. Scrivendo a te, santa madre Chiesa, non è che scrivo al papa: non faccio distinzioni tra te e lui, ma nemmeno unificazioni. La Chiesa, non è un uomo, sia pure papa e tanto meno un personaggio anche se di eccezionale rilievo
nell'attenzione del nostro tempo. Da un papa mi attendo un cristiano, assolutamente null'altro. D'altra parte nella tua realtà storica santa madre Chiesa, il papa quasi ti
sostituisce se non proprio ti costituisce e alla fine risulti per quello che è il papa. Ne sei perfino la storia: storia di papi, storia di chiesa. Succede quindi che scrivere a te è come scrivere a lui, al papa felicemente regnante. Perché delle parole le ha dette lui ma non so bene se sono anche tue queste parole. Penso di no, anche perché sono contraddittorie, preoccupanti e bellissime, affogano le speranze e le riaccendono. Ma è meglio pensare che sono parole di uomo, anche papa e quindi parole (dal dire al fare c'è di mezzo il mare) e poi oggi sono così e domani possono essere altre. Tu saprai, santa madre Chiesa, che qui a Viareggio, dal 21 al 24 aprile scorso è stato tenuto il decimo convegno nazionale dei pretioperai italiani (vi erano anche rappresentanti dei pretioperai francesi). Un convegno semplice e schietto dove la visione di Fede è stata tutta impegnata nella ricerca di
un'analisi dell'ingiustizia che imperversa nel nostro tempo e particolarmente nella fabbriche e nella società. Ingiustizia che si perpetua anche nella scissione fra una scelta di Fede e l'operare la giustizia. Non sto a raccontarti di tutto il convegno, .. non posso però non raccontarti che per me, vecchio prete operaio, quel convegno ha significato come un dono. Perché è stato tenuto qui, nella mia città dove si è iniziata e allora sono stati durissimi tempi di solitudine e di isolamento, quest'avventura di un prete, che lascia la sua talare per sostituirla con la tuta operaia nel mantenimento e nella crescita del suo sacerdozio. Non ci aspettiamo niente, santa madre Chiesa, ma se è possibile, da te e quindi dal papa, dai vescovi ecc. chiediamo di non essere indotti in tentazione e cioè come è sempre successo che non succeda ancora di «essere costretti a scegliere fra Gesù Cristo e i nostri compagni di lavoro», E poi ti chiediamo che tu ci liberi dal male e, cioè dal perpetuarsi di una diffidenza assurda, di una emarginazione ecclesiale preconcetta, da una realtà di solitudine che scava inutilmente ferite irrimarginabili... Perdona la presunzione, ma devo dirti, cara santa madre Chiesa, che noi non ci preoccupiamo che ci manchi la tua benedizione, ma è motivo di grande pena che tu non senta il bisogno del nostro Amore e della realtà operaia che noi portiamo nella nostra carne e più ancora segnata a fuoco nella nostra anima sacerdotale...".

Luigi

I primi preti operai

Dalla “separazione” del sacro alla comunione con il creato.

Brevi note di viaggio di un prete operaio a cavallo del secolo.

Leggendo il bel libro di Antonio Schina, "Bruno Borghi - Il prete operaio", stampato per conto del Centro di Documentazione di Pistoia, mi sono immerso negli anni della mia gioventù che mi hanno accompagnato - in un lento, ma costante movimento trasversale a ritroso - nella discesa dei gradini della eccellenza sociale ed ecclesiastica; dall'approdo a Roma nel 1966, alunno del Collegio Capranica, luogo di formazione di Pio XII e di numerosi vescovi italiani e non, fino alla comparsa di un trafiletto ANSA sulla stampa nazionale che mi riguardava e annunciava nel 1973 "metalmeccanico si laurea in teologia" a segnare una curiosità contro natura del tipo: nato un vitello con due teste... Del fatto che fossi un prete, non veniva per niente menzionato. Conservo comunque con un certo orgoglio la lettera di felicitazioni del Cantiere navale in cui lavoravo.
Mi costò la carriera ecclesiastica la simpatia e l'amicizia per la Comunità di Bicchio (Viareggio) che, da una parte, mi convinse a farmi ordinare prete superando la delusione di essere entrato in seminario per vivere un'avventura e lo scontro con una "educazione" bacchettona e appiattita su schemi di separazione con tutto ciò che sapeva di umano, privilegiando un "sacro" bigotto e ripetitivo; dall'altra l'innegabile attrazione di un "mondo" in cui convivevano figure maschili e
femminili in una condizione di semplicità e di trasparenza nei confronti di tutto ciò che ci girava intorno; aperto e interessato alla vicenda umana, dai vicini di casa alle notizie e alle storie che provenivano dall'oltre oceano.
Non sapevo niente di Bruno Borghi, non mi risulta che con don Sirio Politi si siano mai incontrati e, anche nei primi anni di vita della Comunità di Bicchio, gli unici riferimenti a Bruno vennero da don Beppino Socci e don Beppe Pratesi che - prima di venire ad abitare a Viareggio - avevano vissuto il seminario e i primi anni di vita sacerdotale nella diocesi di Firenze. Ma anche loro scontavano qualche anno di distanza dal primo periodo di lavoro di Bruno, essendo più giovani di circa dieci anni. Non solo; negli anni '50 sicuramente, ma ancora nel decennio successivo, credo che le poche e frammentate esperienze di lavoro operaio da parte di preti, fossero vissute come avventure in campo aperto, uscendo dalle canoniche e dall'ombra del campanile per tuffarsi nelle acque della vita della
gente comune. Di quella realtà di popolo che solo in parte e in modi sempre più distaccati, viveva la chiesa come antagonista, collusa con le classi padronali, e il sacerdote ben piazzato al centro della vita borghese.
Gli incontri che precedettero l'inizio dei "convegni" dei preti operai, avvennero nei primi anni '60 tra preti e religiosi che vivevano il sogno di una chiesa liberata dal potere e tesa a divenire sorella della realtà umana immersa nella povertà e nelle periferie del mondo; ma non condividevano una comune testimonianza all'interno del mondo del lavoro. Quando nel 1969, si incontrarono per la prima volta come "preti operai" poco più di una trentina di preti a Chiavari, Sirio Politi e Rolando Menesini che venivano da Bicchio (Viareggio) e portavano la differente esperienza di lavoro legata all'artigianato popolare raccontarono che non di rado, prendendo la parola, molti dei presenti confessavano di aver creduto - fino ad allora - di essere gli unici in Italia ad aver imboccato la strada del lavoro operaio.
In un certo senso, quei preti che si incontrarono a Chiavari, come coloro - e Bruno è stato uno di quelli - che a quella data avevano già esperienza di lavoro dipendente, sono tutti "primi preti operai", anche se - in una scala temporale, Bruno Borghi è stato il primo prete a varcare come operaio dipendente i cancelli di una fabbrica nell'era moderna. Sirio Politi a Viareggio, come Carlo Carlevaris a Torino, e altri che ho avuto la fortuna di incontrare negli anni in cui iniziavo a
frequentare la Comunità di Bicchio, sono anche loro - per me - "i primi preti operai". Continuando a leggere il libro di Antonio Schina su Bruno Borghi, mi sono soffermato a pag. 22:
"Siamo nel 1951 e con questo colloquio tra il cardinale Della Costa e Bruno si chiude la breve esperienza al Pignone, con una grande sofferenza da parte sua:
- Guarda, non devi andare più.
- Ma come, questi operai con cui ho stabilito un rapporto, e poi soprattutto le speranze che sono nate in me, l'entusiasmo per una cosa così.
- No, no, basta da Roma è venuto quest'ordine.
- Ma guardi, Eminenza, che non...
- Non si discute più [..] vai cappellano a Pontassieve".
Poche righe più sotto, nota ancora A. Schina: "Le pressioni da Roma sono molto forti e vanno oltre le convinzioni del cardinale, che pure credeva alla necessità di sperimentare l'esperienza dei preti in fabbrica... C'è il peso della vicenda francese che proprio in quegli anni sta arrivando al suo epilogo... Tra il 1953 e il 1954 arriverà poi il provvedimento definitivo di chiusura: così i preti operai verranno distinti e divisi tra "soumis", obbedienti, che accettano di tornare nelle parrocchie e "insoumis", disobbedienti, che decidono di rimanere al loro posto". Mi sono chiesto allora: come mai l'arcivescovo di Lucca Antonio Torrini, nel 1955 dette il permesso a Sirio Politi di lasciare la parrocchia di Bargecchia e scendere a Viareggio per inserirsi - come operaio - nei Cantieri navali della Darsena, allora conosciuta come "la piccola Russia"? Il vescovo Torrini era stato a lungo Visitatore dei Seminari e quindi uomo dell'istituzione e delle regole, anche se aveva, con lucidità e coraggio personale, ascoltato e protetto - durante gli anni della guerra - i preti coinvolti nel nascondere ebrei e partigiani ricercati dai nazisti. Non poteva quindi non sapere quali resistenze, ma soprattutto, quali pressioni venissero da Roma contro l'esperienza dei preti operai. E se, a Firenze, il cardinale Della Costa aveva ritenuto quattro anni prima di impedire a Bruno Borghi di continuare a lavorare alla Pignone, cosa poteva essere accaduto fino al punto che a meno di 80 km di distanza un altro vescovo consentisse, quattro anni dopo, a un suo prete di entrare in fabbrica?
Nel numero doppio di Pretioperai (P.O. Europei - cronaca, storia, prospettive n° 30-31 Maggio 1995) ho trovato in una nota una citazione dal primo numero del 1994 di Témoignage Chrétien, pag. 22 che riporto integralmente. "Il 20 febbraio 1954 i P.O. di tutta la Francia si riuniscono segretamente per eludere i mass-media, al Café de la Paix, a Villejuif. Due giorni per prendere atto di una spaccatura tra loro preti-operai. Ciascuno dei presenti indica la decisione che ha preso. Circa la metà annuncia di continuare l'impegno operaio, molti sospendono la loro decisione. Quelli che hanno deciso di lasciare il lavoro sono dunque minoranza.
La prova di forza è evitata: l'obbedienza di cui danno prova i domenicani placa le congregazioni romane; esse eserciteranno minori pressioni sui vescovi per ottenere l'applicazione delle sanzioni previste e nei termini stabiliti contro i ribelli". E' forse in questo allentamento della pressione vaticana, nella personale sagacia del vescovo Torrini e nella fiducia da lui riposta in Sirio Politi di cui conosce e stima la serietà di intenti e la fede profonda, che viene accordato il permesso di entrare nella vita operaia, pur in presenza di un atteggiamento negativo del Sant'Uffizio. Torrini, di fronte alle prime richieste di don Sirio, si rivolse a lui con parole paterne esortandolo a non eccedere nella lettura di libri francesi che potevano portarlo su strade rischiose. E Sirio, pur confermandogli le letture che stavano alla base di una chiesa che si misurava a partire dal basso, gli rispose: "C'è un solo libro che mi sconvolge e che è alla base di ogni mio pensiero e progetto di vita". "Ah, sì? - e quale sarebbe?" riprese il vescovo. "Il Vangelo!". C'è comunque un particolare che accomuna le figure di Bruno Borghi e Sirio Politi, al di là dei pochi anni che separano le rispettive esperienze: entrambi, il primo giorno di lavoro, entrano in fabbrica indossando la veste talare e se la tolgono per iniziare il lavoro. Ma, mentre Bruno viene accolto molto bene dagli operai, Sirio inizia il percorso in una solitudine e una diffidenza generale.
Solo dopo mesi di osservazione si guadagnerà fiducia e rispetto da parte degli operai. Diversità di ambienti o un clima di contrapposizione che, in pochi anni, sta arroventando il Paese? Questo particolare (non seguito, a quanto ne so, dai preti che entrarono in fabbrica negli anni successivi) che accomuna i due preti operai italiani degli anni '50, mi par significativo di un percorso che arriva fino ai nostri giorni in un crescente "abbattimento di mura" che dà ragione
all'immagine di una "chiesa in uscita", soprattutto da se stessa.
Ne ho ritrovato una traccia nell'articolo scritto, dopo la morte di alcuni preti operai di Torino, da Enrico Peyretti su <Il Foglio> del settembre scorso che lui stesso mi ha consegnato in un incontro, breve e intenso, giusto per un abbraccio, alla stazione di Viareggio, prima che prendesse il treno per casa.
"Il prete operaio è un prete rientrato nel popolo... è uscito da quella separatezza, si è confuso con i lavoratori, si è fatto <uno di loro>. Ha scelto la classe povera di allora, anche le sue lotte di solidarietà e giustizia, spesso criticato dalla chiesa ufficiale come per una contaminazione del sacro col mondo, e in pericolo di contagio marxista... Quel tarlo dell'individualismo, emerso poi come causa della crisi della sinistra, corrotta dal liberismo, era già visto dai preti operai per la loro sensibilità morale: essi contribuirono quanto poterono a tener vivo un filone di pensiero-azione per la giustizia, perciò anche per gli ultimi più ultimi, privi di una forza organizzata. Il prete operaio si è declericalizzato. L'abito e l'aura del <separato> scompariva dalla sua persona...
Spesso (dalla fine degli anni '60 in Italia) i compagni ignoravano che quell'operaio fosse un prete, e lo scoprivano col tempo in quel compagno di fatica, nel rapporto personale, non per un titolo sacro su di lui. Così il prete operaio ha contribuito, anche consapevolmente, alla demolizione del <clero sacro>, istanza evangelica sollevata nel Concilio, anche se poco riconosciuta nella successiva pratica ecclesiastica, fino a ritorni recenti di clericalismo.
I preti operai hanno contribuito molto a ricondurre il ministero presbiterale nel corpo vivo del <popolo di Dio> che è tutto profetico, sacerdotale, regale. Questo loro contributo deve rimanere. .. Insomma, i preti operai hanno lavorato per la dignità umana, da consapevoli e grati figli di Dio, non solo nella società, ma nella chiesa stessa. La fatica quotidiana, la solidarietà, sanno anche purificare la fede, fanno riconoscere come davvero Dio guarda e cerca i suoi figli, fuori dagli orpelli teorici e rituali di cui gli scribi caricano le spalle dei poveri, e stanno a guardare e a giudicare. .. Complessivamente il loro fu un atto originale, un'assunzione di responsabile iniziativa, una presa di parola dignitosa e libera. Di questo c'era bisogno nella chiesa, a questo portava il Concilio ben
compreso. Di questo c'è bisogno sempre, anche oggi. Senza fughe solitarie, la comunità ecclesiale, come ogni comunità umana, ha bisogno non di sudditi obbedienti e passivi, ma di liberi creatori di iniziative inserite nel cammino comune, anche assumendo il rischio della sperimentazione...
L'esploratore non va per un suo gusto solitario, ma per cercare una strada utile a tutti. Così furono i preti operai". Oggi, un tempo in cui appare chiaro - come commenta un amico su fb - che "la salvaguardia del pianeta è ormai la priorità delle priorità. Stiamo modificando il clima, abbiamo distrutto, inquinato
e resi insicuri vasti territori, abbiamo riempito il mare di plastica e stiamo distruggendo la biodiversità; intere specie animali spariscono giorno dopo giorno, tante altre sono al lumicino. Il predominio umano si sta dimostrando egoista, violento, insensato e - senza una rapida inversione di tendenza - foriero di devastazioni globali (i primi segnali sono già evidenti). La cura dell'ambiente - oltre ad essere una priorità per la salvaguardia del pianeta (e di chi ci vive) - può anche rappresentare un poderoso motore per un nuovo sviluppo e un rilancio dell'occupazione; l'umanità ha i mezzi, le conoscenze, le tecnologie ed il bisogno di farlo. Perché non si fa? Quello dell'ambiente è il principale tema intorno al quale poter costruire inedite "alleanze" (culturali ed economiche) globali così come locali. Per affrontare questi temi occorre un nuovo approccio politico che assuma la sostenibilità ambientale come stella polare nella formazione di tutte le decisioni a tutti livelli, ad iniziare da quelli locali. Per impedire il degrado del pianeta occorre superare la politica, l'economia e la cultura del "qui e subito" e progettare nuove soluzioni per poter garantire cibo, acqua, cure, energia, istruzione e servizi ad una popolazione umana che tra trenta anni supererà i 10 miliardi di individui; una situazione che - se nulla cambia - potrebbe essere caratterizzata da una biosfera irreparabilmente lesa, da un occidente ricco, obeso, sempre meno incline a riprodursi e perciò vecchio (questione demografica) e per di più assediato da un sud del mondo giovane e prolifico, che difficilmente sarà disposto a rimanere ancora escluso da una più ragionevole redistribuzione della ricchezza e dei saperi. Se oggi le migrazioni hanno come motore prevalente la speranza di una vita migliore, domani - a seguito del riscaldamento globale - interi popoli potrebbero essere costretti a muoversi solo per garantirsi la sopravvivenza. E se qualcuno pensa che questi temi possano essere affrontati nazione per nazione nella migliore delle ipotesi si illude altrimenti è oggettivamente corresponsabile dei danni a venire. (Marzio Francesconi)
L'esodo continua senza soste e ci proietta verso sempre nuovi orizzonti. Una volta che si è attraversato un confine, anche solo legato alla singola identità personale, non ci si può fermare. Non si riesce a evitare di lanciare il cuore in un "oltre" incessante. Anche quando si fa sera, e l'invito non è più ad aprire o approfondire strade nuove, ma a sostare, a fermarsi, a sedere alla tavola della condivisione di sé. Fin nel superare gli argini del tempo e dello spazio. E sfociare in mare aperto perché la vita si mescoli solo alla vita.

Luigi Sonnenfeld

Meno armi e più severità per le licenze

Il racconto e l'impegno di chi ha subito una tragedia

Pensavamo succedesse solo nei film, roba da farwest. Urla, spari, fuoco, panico, inseguimento, fughe, sconcerto, rabbia, paura, morte. No, non è la sequenza di una pellicola cinematografica, è successo proprio qui, in Italia, in Toscana, a Massarosa, una piccola frazione in provincia di Lucca, in una calda giornata di luglio, mentre tutto scorreva apparentemente calmo come ogni giorno nell'azienda dove tante persone lavorano ancora oggi, ma dove quel 23 luglio del 2010 Luca Ceragioli, mio marito, e il suo collega Jan Hilmer, persero la vita per mano di un ex collega con gravi disturbi psichici che deteneva una pistola e un regolare porto d'armi, e che quel giorno era con loro in riunione per chiedere consigli su una sua fantomatica attività lavorativa.

La lotta per evitare altro dolore

Inutile cercare di raccontare il dolore che ha devastato due famiglie e tanti amici di due persone davvero speciali, un dolore che dopo otto anni fa bruciare ncora le ferite di questa tragedia. Invece vorrei raccontare, facendomi portavoce anche di chi in questi anni ha condiviso con me un cammino di ricerca e di speranza, quello che è successo nelle nostre coscienze e quello che forse sarebbe potuto accadere se avessimo lasciato che il mondo che ci era crollato addosso ci seppellisse
togliendoci anche il poco fiato che avevamo. Ci è stato chiaro fin da subito che qualcosa non ha funzionato nel nostro sistema legislativo se un soggetto che per due volte ha tentato il suicidio e con un passato di gravi disturbi psichici e sociali, avesse un'arma detenuta regolarmente. Una delle prime frasi che ho sentito tra le lacrime e la disperazione delle mie figlie è stata "non deve succedere ad altri quello che è successo a noi". Ognuno di noi, all'interno del proprio cammino di elaborazione della perdita, è riuscito a trovare lo spazio per affermare il valore della giustizia intesa come impegno nel voler colmare le lacune legislative in merito al possesso di armi da fuoco, sempre strumento di offesa letale.

La nascita di ognivolta

E così nel 2012 nasce "ognivolta Associazione familiari e amici di Luca e Jan". Ci siamo costituiti proprio il 23 luglio, perché questo giorno diventasse oltre che memoria anche speranza in un futuro che comunque abbiamo scelto di vivere. "Ognivolta" è un invito a riflettere su ciò che ci gira intorno, evocando a ciascuno di noi il richiamo di un'attenzione alnostro quotidiano in cui abbiamo bisogno fermarci "ogni volta che...", e ogni volta far sì che le nostre scelte siano migliori perché la
prossima volta sia meno dolorosa. Nel nostro cammino non abbiamo mai cercato di colpevolizzare soggetti, enti, associazioni. La nostra è una lotta pacifica alla ricerca di una maggiore sensibilità e confronto. Un confronto che attraverso le nostre svariate attività comincia dai giovani, adulti di domani, nei quali è importante
sollecitare uno spirito critico in merito al possesso di un'arma da fuoco. Proprio per questo abbiamo istituito da anni una borsa di studio nell'Istituto Commerciale "Carlo Piaggia" di Viareggio, incentrata sul tema del possesso di un'arma, e più in generale sull'idea di una difesa nonviolenta Abbiamo organizzato convegni a Viareggio e a Lucca sul tema "Sicurezza nell'uso delle armi da fuoco in Italia" nei quali si è affrontato il tema sviscerando più aspetti, da quello degli interessi
legati alla diffusione delle armi, all'idoneità nel rilascio di un porto d'armi, fino all'analisi del Ddl presentato in Senato sulle modifiche alla legge sul porto d'armi. Sono intervenuti rappresentanti delle istituzioni politiche, sanitarie, legali, delle autorità di sicurezza, di categorie sportive, di associazioni dei cacciatori. Sono state occasioni per analizzare il tema da diversi punti di vista, in modo da cercare una strada comune che conduca ad una maggiore sicurezza sociale.

L'opera di sensibilizzazione

Ogni anno organizziamo anche una "giornata di sensibilizzazione" dandole ogni volta una connotazione diversa per renderla un momento di arricchimento e di crescita. Nei vari anni abbiamo invitato fotografi, pittori, che, con la loro arte, hanno espresso temi ed emozioni legati in qualche modo allo spirito dell'associazione. Fondamentale per noi è far sapere che ci siamo e che possiamo divenire una risorsa per tutti quelli che purtroppo sono stati colpiti dalla nostra stessa tragica sorte,
un punto di appoggio e riferimento. Anche se niente ci restituirà i nostri cari, noi stessi sappiamo quanto sia importante condividere il cammino insieme a persone che hanno subìto il nostro stesso lutto.
Abbiamo conosciuto i familiari delle vittime della strage di via Carcano a Milano, siamo entrati in contatto con la città di Aci Castello, con i familiari dell'avvocato ucciso al Tribunale di Milano, cercando di creare una rete per rafforzare la nostra lotta, per unire le nostre energie, per intrecciare le nostre speranze, anche quando il ripetersi continuo di stragi per mano di squilibrati in possesso di armi ha minato la nostra fiducia e le nostre attese. Desideriamo condividere il lavoro di questi anni sulla conoscenza delle leggi e sui possibili miglioramenti, i risultati del confronto con gli addetti ai lavori e con alcuni politici sensibili a questo problema. E' importante sapere che non si è soli, che qualcuno prima di noi ha già intrapreso questa strada così faticosa, che ci richiede un impegno civile nonostante il dolore, la disperazione e la rabbia.

La difficoltà in Parlamento

Diverse proposte di legge sono state presentate in questi annio. In particolare ci riferiamo al Ddl 1558 del 2009 presentato dalla senatrice Marilena Adamo e da altri firmatari, decaduto nel 2013 e ripresentato con alcune modifiche con il Ddl 583 del 2013 assegnato alla Commissione Affari Costituzionali dalla senatrice Manuela Granaiola. Come ben potete immaginare tali disegni di legge hanno subìto attacchi e pressioni ostative da parte di categorie che vedono in essi una minaccia alle
loro attività o alle pratiche sportive o di caccia. Sia Marilena Adamo che Manuela Granaiola, oltre ad alcuni nostri politici locali, in questi anni hanno lottato insieme a noi, facendoci partecipi delle loro richieste, delle loro proposte in Parlamento, spesso rimaste senza risposta. Nel giugno 2017 siamo stati ricevuti in Senato per una conferenza stampa e per la consegna di una raccolta di firme per sollecitare il Ddl. Speriamo che questa battaglia possa continuare e trovare riscontro anche nelle coscienze di politici attualmente in carica al Governo. Ci teniamo altresì a sottolineare il nostro impegno per un continuo confronto con quanti, nella catena del rilascio del porto d'armi e nei controlli di identità dei medesimi, possano comunque far funzionare meglio le norme che già esistono, nell'attesa, che auspichiamo possa avvenire presto, di modifiche anche sostanziali della normativa attualmente in essere, a partire dai medici di base che con il rilascio del certificato anamnestico sono i primi ad attestare l'idoneità per ottenere un porto d'armi.

L'appello per dire addio alle armi

Chiediamo alle autorità politiche di riprendere in esame le proposte di legge che ncora aspettano di essere analizzate dalle Commissioni di competenza e di sollecitare un iter legislativo che porti al più presto a rivedere alcune norme che, allo stato attuale, non garantiscono la sicurezza della collettività minata da armi da fuoco detenute da persone che potrebbero farne un uso letale, stravolgendo la vita di famiglie come le nostre. Dalla nostra storia speriamo possa continuare a crescere un sentimento di rifiuto di tutto ciò che genera violenz, un "addioallermi", nella certezza che si possa costruire un futuro migliore privo di rassegnazione e rabbia, ma generatore di sentimenti di pace e di sereno impegno civile.Il racconto e l'impegno di chi ha subito una tragedia
Pensavamo succedesse solo nei film, roba da farwest. Urla, spari, fuoco, panico, inseguimento, fughe, sconcerto, rabbia, paura, morte. No, non è la sequenza di una pellicola cinematografica, è successo proprio qui, in Italia, in Toscana, a Massarosa, una piccola frazione in provincia di Lucca, in una calda giornata di luglio, mentre tutto scorreva apparentemente calmo come ogni giorno nell'azienda dove tante persone lavorano ancora oggi, ma dove quel 23 luglio del 2010 Luca Ceragioli, mio marito, e il suo collega Jan Hilmer, persero la vita per mano di un ex collega con gravi disturbi psichici che deteneva una pistola e un regolare porto d'armi, e che quel giorno era con loro in riunione per chiedere consigli su una sua fantomatica attività lavorativa.

Gabriella Neri - 24 luglio 2018 - addioallearmi.it

Dal Salvador l'autolibro di San Roque

<< Vamos a ver si sirve >>

Questo il titolo del libro che ho ricevuto dopo una telefonata di presentazione da Andrea Marini, prete operaio di Brescia di cui ricordo la frequentazione a cavallo degli anni '60 e '70 quando ancora era viva la comunità di Bicchio e, in seguito, le tracce che lo portarono in San Salvador dove mi riconduce la pubblicazione da lui curata nel 10° anniversario della morte di Cesare Sommariva, prete operaio di Milano che, con lui, ebbe un trascorso di anni, di testimonianza e di lotta in San Salvador.
Nella "nota previa alla traduzione italiana" (pag.7), Andrea Marini rende "Gracias a Dios e alla Virgen del Libro, a Romero, a Cesare e a: <Quando ai povericristi/e, fin da piccoli, si dà veramente la parola, questi la prendono e perfino la scrivono. Perché senza automemoria scritta, non c'è autofuturo tra uguali>". E, aggiunge "Per questo nella pur povera edizione originale erano aggiunte pagine bianche e 'in costa' indicato che l'organo di lettura attiva poi non sono gli occhi, ma la biro: per correggere, precisare, aggiungere in vista del secondo Autolibro...". Due domande concludono la "nota previa" e l'introduzione: "Ma può restare proditoriamente <incompiuto> il vero sogno culturale e pastorale di Cesare perfino nel decennio del suo Transito?" e, "sarà un sogno proibito o meglio un passaggio più etico alla ominizzazione e planetizzazione?". Questi interrogativi ci offrono una prima descrizione dei motivi della pubblicazione di questo "secondo Autolibro", ma essi sono esplicitati subito all'inizio e, dopo aver elencato 14 motivi per cui <non è un libro per>, vengono elencati ben 17 motivi per cui <sì, è un libro per> :
1. Continuare il nostro auto camminare senza Cesare;
2. Mantenere la nostra memoria storica e condividerla;
3. Insegnare la nostra metodologia;
4. Riconoscerci nell'evoluzione scientifica;
5. Stimolare la vita;
6. Svegliare la ragione;
7. Trasformare la persona in soggetto;
8. Cambiare la menzogna con verità;
9. Rianimare ossa aride;
10. Per la maggioranza che desideri conoscere il lavoro della S. Roque;
11. Conoscere la storia del cammino graduale dei 5 settori;
12. Essere auto scrittori della nostra propria storia;
13. Liberare dalla paura;
14. Sbarcare adeguatamente nel territorio;
15. Formare un tessuto umano trasformatore;
16. Insegnare alle future generazioni affinché auto scrivano la propria storia;
17. Parlare la lingua della ragione.
E' ancora nella Prefazione curata collettivamente che vengono raccolti i motivi suddetti: "In questo nostro Autolibro abbiamo deciso di relazionare in forma breve gli accadimenti
che marchiano la storia del nostro territorio della San Roque in El Salvador. Nello stesso tempo vogliamo condividere i fatti che fecero sorgere in modo differente una presa di coscienza nel nostro popolo emarginato in questa periferia sud-est di San Salvador. Originariamente l'attuale Parrocchia San Roque negli anni '60 era una Cappellania chiamata San Martin (de Porres) appartenente alla Parrocchia della Merced, poi accudita da Gesuiti spagnoli, fino ad essere prediletta negli anni '70 dall'allora padre Oscar Romero (come sacerdote nel 1970; come vescovo ausiliare nel 1973 e come arcivescovo nel 1977 quando eresse Parrocchia San Roque).
Qui troveremo l'auto scrittura di molte persone che condivisero in questo camminare vita-sanguelacrime- sorrisi-tristezze-gioie-canti-pensieri... tra ben altre cose che suscitarono vita e speranza in più di vent'anni di lavoro pastorale, avviati da Padre Cesare. Durante il quale l'esperienza della relazione ci ha insegnato che possiamo vivere uniti in un <intertessuto> come una comunità territoriale. Ossia riconosciuto come polo salvadoregno in interscambio con il polo italiano di volontari con due preti operai, i loro gruppi e comunità di origine e di riferimento. Creando così una bipolarità alternativa a quella che propone il sistema.
Da questo punto di vista incontriamo una serie di esperienze che dimostrano che veramente è possibile costruire un mondo senza padroni, né lor signori, né borghesi, nel quale la vita sia possibile per tutti e per tutte, condividendo il pane che si spezza e non si compra discriminati dal sistema.
Nello stesso tempo con la scrittura personale, comunitaria, spontanea e coordinata di più di 200 persone che ringraziamo veramente, fino a effettuare un corso metodologico di auto scrittura. Perché senza auto memoria scritta e insegnata non c'è futuro per le e i poveri, ma invece saremo sempre scritti e insegnati dal sistema. E' per questo che nella stessa Bibbia è <scritto> più di 160 volte il verbo <scrivere>, nonostante più si sappia, più si soffre. E scrivere è soffrire ancora di più".

Padre Cesare... Cesare Sommariva
(vedi Pretioperai, n. 79-80 Dicembre 2008 in www.pretioperai.it)
Cronologia sommaria
1933 - Nasce a Milano l'8 gennaio in una ricca famiglia della borghesia milanese.
1951 - Ottenuta la maturità classica al collegio Gonzaga, entra nel seminario diocesano.
1955 - Viene ordinato sacerdote il 26 giugno.
1956 - E' nominato coadiutore alla parrocchia di Pero. Arriva ad insegnare nei corsi di apprendistato all'Alfa Romeo, ma è successivamente dimesso per il suo insegnamento "pericoloso"; va ad incontrare don Lorenzo Milani subito dopo la pubblicazione di Esperienze Pastorali: con lui continuerà a confrontarsi fino alla sua morte; seguirà con attenzione la pubblicazione di <Lettera a una professoressa>, essendo le condizioni fisiche di don Milani ormai pesantemente aggravate.
1970 - Lascia la parrocchia di Pero per collaborare con don Aldo Farina (fino ad allora assistente diocesano dell'A.C.) a formare una nuova parrocchia nella periferia di Sesto San
Giovanni. Con don Aldo fa vita comune in una casetta del quartiere operaio; a loro si aggiungerà nel
1972 don Giorgio Bersani, che l'anno dopo inizierà a fare l'operaio all'Ercole Marelli con il consenso dell'autorità ecclesiastica (il primo caso nella diocesi di Milano).
1974 - Lascia la parrocchia di Sesto per fare la vita del prete operaio, ospite in una cella del convento circestense di Chiaravalle; dopo un breve periodo in una fabbrica chimica, viene assunto alla Redaelli di Rogoredo, la grande acciaieria nella periferia Sud di Milano: fino alla crisi dell'azienda, seguirà il massacrante orario di lavoro dei tre turni.
1977 - Ottiene di fare vita comune con altri due preti operai, don Sandro Artioli e don Luigi Consonni: nasce la Comunità San Paolo, così denominata per scelta del Cardinale Giovanni Colombo.
1980 - Con la Comunità San Paolo ottiene l'incarico pastorale del quartiere Stella di Cologno Monzese.
1985 - Entra in contatto, insieme al gruppo dei preti operai lombardi, con la componente cristiana più schierata con la lotta di liberazione in Salvador. Essendo ormai andato in
prepensionamento in seguito alla crisi delle acciaierie in tutta Europa, decide di "vedere fino a che punto è possibile" sperimentare anche laggiù le pratiche di intervento culturale in mezzo al popolo, nelle quali la sua esperienza è ormai comprovata.
1986 - Arriva così alla parrocchia di San Roque, nella periferia più povera di San Salvador, negli anni in cui sta crescendo lo scontro tra l'esercito del dittatore Duarte e la guerriglia del Fronte di Liberazione Farabundo Martì (nel 1980 era stato assassinato il vescovo Romero). Incomincia il lungo periodo salvadoregno della sua vita, fatto di molti viaggi di lunga durata, nei quali don Cesare arriva anche a provare le prigioni salvadoregne, per un lungo giorno e una terribile notte.
1992 - L'esercito chiude la parrocchia di San Roque, sospettata di collusione con la guerriglia. Il Cardinale Rivera y Damas nomina don Cesare parroco: la chiesa viene riaperta e la parrocchia, nell'arco di pochi anni, diventa un modello di pastorale: suddivisa in 5 settori distinti, nei quali è altissima la partecipazione del popolo povero; e nei quali don Cesare impegna il massimo possibile dello sforzo di formazione non solo religiosa, ma anche sociale.
1996 - Durante i tre anni salvadoregni in cui è stato Fidei Donum in Salvador, Cesare contrae una seria forma di epatite, che negli anni successivi si aggrava sempre di più. La malattia non gli impedisce di fare ancora per 7 anni la spola tra le due sponde dell'Atlantico.
2004 - Ultimo e definitivo rientro dal Salvador. Cesare sprofonda sempre di più nella sua malattia, ondeggiando continuamente tra una lucida, sofferta depressione e un abbandono radicale al suo Dio. Fino alla morte, il 20 maggio 2008.
Merita di essere riportato, a questo punto, il messaggio che gli amici - salvadoregni e non - di don Cesare considerano il suo lascito testamentario e che rappresenta la conclusione del suo scritto "L'umano educatore". "A conclusione di tutto, possiamo porre le tre leggi dell'umano educatore: 1. non avere paura; 2. non far paura; 3. liberare dalla paura. Dicesi umano educatore colui che sa stabilire una relazione tra umani, senza paura, senza far paura, liberando dalla paura. Il contenuto della relazione non conta. Quello che conta è una relazione nuova, in cui non ci sia nulla che possa avere a che fare con la PAURA. In un mondo in cui i poveri sono oppressi, i prepotenti trionfano, i miti sono disprezzati, occorre realizzare relazioni pulite e dolci, non sporche di premi, castighi, obblighi, non seduttive né sdolcinate, ma relazioni in cui ci siano nuovi incontri, nuovi riti, nuovi ritmi. Per questo noi non saremo mai istituzione, perché ogni istituzione chiede i suoi servi, include ed esclude, e per far questo usa il premio e il castigo e il sapere. Tutte cose che provocano la paura di non essere premiato, di essere castigato, di non sapere. Noi non costruiremo un'organizzazione, noi simo e saremo solo un investimento di desideri di liberazione dalla paura. Il costo di tutto ciò è il pensare, lavorare, muoversi da minoranza, con tutto quello che significa di impotenza e di libertà. Di noi non deve rimanere nulla al di fuori di avere un tempo e per un tempo camminato assieme ricercando libertà e liberazione. Questo patto fra uomini e donne che si riunivano per
dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore nel mondo. Nessuno educa nessuno. Gli uomini si educano fra loro nella costruzione di un mondo di libertà.
Questo è il punto a cui siamo arrivati e lo abbiamo scritto per averlo ben chiaro nel cuore e nella testa".
I due interrogativi iniziali trovano una ragione d'essere nella Postfazione di Andrea Marini che, dopo aver ricordato come Cesare fosse metodologicamente attento ai dettagli, "figuriamoci se avrebbe ceduto sulla qualità della sostanza culturale e pastorale... soprattutto sul sogno della scuola statale Rosa Bianca modello di qualità nel territorio di San Roque per i ragazzi poveri e respinti dalle scuole limitrofe.
E allora come fu possibile che proprio chi in Lombardia conosceva da sempre il vero Cesare abbia potuto credere invece proditoriamente al vicentino Cavallo di Troia-ingravidato d'oltralpeultimo italiano accolto in San Roque, che ipocritamente tentò di spuntare una scuola privata e fondamentalista waldorfiana sulla nostra collina?
Cesare si sentì sconfitto in casa sua, nella partita più sognata, ma confermò che sceglieva di comunicare morendo, e non di morire comunicando, come fa la maggioranza delle persone.
Luigi

Il Cristo dei pescatori

murale di Giovanni Lazzerini detto Menghino

immagine:  Il Cristo dei pescatori Parete nord della Chiesetta del Porto in restauro

Giorno dopo giorno sta riprendendo colore e calore il murale sulla parete nord della Chiesetta del Porto. Opera del 1976 di uno degli artisti più versatili della Viareggio del dopoguerra, rivisitata anni dopo da Riccardo Monari, era di nuovo in condizioni deteriorate dal passare degli anni, le intemperie, la povera sostanza del muro su cui era dipinta.
Le mani di Corrado Giovannetti con l'aiuto di Carlotta Mori stanno lavorando a un "rifacimento" del murale nella sua completezza corredata da semplici opere accessorie e se ne prevede l'inaugurazione a primavera dell'anno che viene.
Il Comitato che si è fatto carico del "rifacimento" ha ottenuto un finanziamento dalla Fondazione Banco del Monte di Lucca per oltre il 30% del costo totale previsto. La quota restante per oltre € 5.000,00 si spera di raggiungerla tramite una raccolta fondi orientata anche a raccogliere piccole somme che possano testimoniare quanto la città di Viareggio e non solo tengono a questo particolare angolo della Darsena storica e alla Chiesetta del Porto. Il murale infatti riprende quella che era l'attività principale di quei luoghi, con al centro il vecchio Mercato del Pesce, ora Museo della Marineria.

Per questo abbiamo aperto un cc postale n° 1043204526 intestato alla Chiesetta del Porto con causale "Restauro murale Menghino".

Inno alla messa sul mondo

"Il sole ha appena completato di illuminare ogni estremo confine del primo oriente.
Una volta di più sotto la fluttuante cascata dei suoi raggi si risveglia la superficie viva della terra, sussulta e reinizia il suo sorprendente lavoro. Dio mio, ti offrirò l'anelato raccolto di questo primo sforzo.
Ti presenterò nella mia coppa la linfa di tutti i frutti che saranno polverizzati. O Signore, metterò alla tua presenza le profondità della mia anima totalmente aperta a tutte le forze che tra un istante si leveranno da tutti i punti del globo e convergeranno verso lo Spirito.
In altri tempi si trascinavano al tuo tempio le primizie dei raccolti e il meglio delle greggi. L'offerta che realmente ti aspetti, quella che tu necessiti misteriosamente tutti i giorni per appagare la tua fame, per saziare la tua sete, non è niente meno che lo sviluppo del mondo sospinto dal progressivo camminare universale.
Ricevi, Signore, questa Ostia totale che la Creazione, mossa dalla tua attrazione, ti presenta nella nuova aurora. Il pane, nostro sforzo, non è in se stesso, lo so, che una immensa scomposizione. Il vino, nostro dolore, pure non è che una bevanda dissolvente. Però, in fondo a questa massa difforme, hai posto, sono sicuro perché lo sento, un desiderio irresistibile e santificatore, che ci fa
gridare, dall'empio al fedele: <Signore, rendici UNO>.
Theilhard De Chardin

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