della giornata di lavoro
Dedico questo secondo giornalino del 2017 alla Chiesetta del Porto. L'edificio sulle sponde del Canale Burlamacca e della Darsena Toscana che mi ospita dal ormai lontano 1972. Ma, soprattutto, alla piccola cappella che ne costituisce il cuore e il motivo di essere. Perché - mai dire mai nella vita! - per tanti anni, in particolare da quando sono rimasto l'unico ad abitare lì, alla morte di don Beppe Socci, mi sono considerato "ospite" della casa e "custode" della cappella. Mentre, da poco tempo, mi è accaduto di pensarmi "abitante" dell'intero edificio, cappella compresa. Ed è come se aprissi gli occhi su un luogo vissuto da sempre e mi lasciassi portare via dal gusto della scoperta. Di una storia, del suo spirito, come di ogni pietra riconoscibile agli occhi, ma anche al tatto, al suono, al colore, all'odore. La cappella, in particolare, mi ricorda il lungo percorso che mi ha accompagnato da quando, giovane prete, capii che mi ero consegnato ad un ruolo - quello clericale - che mi voleva "separato" nel nome di un "sacro" non santo ma connesso strettamente al potere. E quel mio istintivo cercare di mantenere le distanze da una parte di me che non volevo né potevo accettare, preferendogli una esistenza che portava con sé la cicatrice di una scissione come uno stigma. Ricordo ancora che un giorno, rientrando in casa dei miei, mi cadde l'occhio sull'orlo della tonaca da cui spuntavano le scarpe nere. Mi venne in mente che - fino alla morte - avrei indossato quell'uniforme. Non è che mi dispiacesse in sé stesso quel vestito. Fu la percezione istantanea del "per tutta la vita"... Ne ebbi una sensazione amara che mi restò dentro per tutto il giorno. Quella che per me aveva voluto essere una avventura in un mondo tutto da scoprire, iniziava a portare con sé i segni di un percorso che si trattava solo di ripetere alla ricerca della copia perfetta. Così vicina all'originale da potersi scambiare con essa. E l'originale si rivelava sempre più non Gesù, che rimaneva solo un'insegna, ma la disciplina alla riduzione di me a una "uniforme". Senza farne teoria e men che meno progetto per una alternativa di vita, confermai la scelta dell'ordinazione sacerdotale senza però tradurla per molti anni in un percorso ecclesiastico, vivendola laicamente quale presenza dedicata a tutto ciò che sentivo essere altro-da-me e che partendo dagli stretti paletti dei miei limiti, mi sospingeva alla scoperta di un orizzonte aperto all'infinito. Volevo essere sacerdote al servizio di quel incontro tra il finito e il non finito che trova il suo "tempio" nel cuore di un bosco, sulle alte creste innevate dei monti, dall'alto delle rocce a strapiombo sull'azzurro profondo del mare, nello stringersi intorno a un piccolo fuoco miracolosamente acceso al riparo di una cengia bagnati e intirizziti dalla pioggia battente di tutta una giornata, nel dare spazio al canto e alle battute salaci quando il rifugio prometteva una notte al
caldo riparo di un tetto, nel brodo che ustionava la gola ma la ripuliva dalle polveri ingoiate tutta una giornata sotto il sole implacabile in nuvole di pula intorno alla vecchia trebbia... Entravo in una chiesa volentieri da solo o in piccolo gruppo silenzioso, e ne carezzavo con rispetto le mura che per me non contenevano, ma rivelavano il mistero della profonda unità di tutto il creato. A quel tempo - ero ancora giovane - non capivo perché non riuscivo ad essere un prete come gli altri e mi portavo dietro quella vena di amarezza di fondo che mi rendeva silenzioso e scontroso come un vecchio cardo. Mi inventai perfino una definizione del mio stato e, a chi mi chiedeva riscontri del mio essere prete, rispondevo che io ero un "prete feriale", non un "prete festivo" e cioè della domenica, della ritualità strabordante anche durante la settimana. Un prete nascosto nelle pieghe della giornata di lavoro, di vita familiare (quella della piccola comunità) e di strada (negli anni '60/,80 la strada era ancora sinonimo di socialità diffusa). Solo ora mi rendo conto di aver risposto a una "vocazione". In fine vita, "quando ogni passione è spenta", come intitolava la scrittrice Vita Sackville-West un suo romanzo in cui la cenere della vecchiaia custodisce nuovi bagliori di vitali relazioni. Al termine di una carriera ecclesiastica che mi ha visto e mi vede parroco "a distanza" di parrocchie dove non risiedo e alla cui chiesa parrocchiale mi reco anch'io la domenica come uno dei parrocchiani, quello che sta più lontano come mi piace definirmi. Ed è il momento di far pace con questa mia piccola cappella che mi rimanda a un ruolo che ritorna dominante e implacabile: "Cerco il parroco" chiede il questuante quando gli apro la porta di casa. "Non c'è parroco; questa non è una parrocchia". "Ma come..." e lo sguardo accenna alla porta della cappella lì di fianco. "Insomma, il prete...". "Vede, questa è solo una piccola cappella per la preghiera personale... se si vuol fermare la porta è aperta... se vuole scambiare due parole, volentieri, se vuole prendere un caffé con me...". Vasi in-comunicanti! In pochi anni il titolo di "parroco" ha sostituito ogni altro appellativo ecclesiastico ed è pur vero che quando entrai in seminario la maggior parte dei preti non era parroco, mentre oggi una parrocchia te la appiccicano dietro senza badare troppo per il sottile. E "parroco", per quelli che suonano alla porta, vuol dire al 70%, portafoglio che si apre per una specie di gratta-e-vinci che può andare dallo spicciolino alla moneta di carta raramente di pregio. Ma guarda un po' dove ti porta la vita! Ti giri e ti rigiri, giri il mondo e ti ritrovi punto e a capo: non sei Luigi, sei "il prete"; come quando eri solo "oh bimbo, sta attento!"... ma Luigi dov'è, chi è? Credo di essere arrivato dopo un lunghissimo cercare al punto di non ritorno. Non posso più fuggire, non ne avrei neppure le energie sufficienti. Ho da confrontarmi con Dio: Lui mi aspetta, con pazienza infinita. Quei pochi metri che separano la porta di casa dalla porta della cappella, quella porta che apro al mattino appena sveglio e chiudo la sera prima di andare a dormire, aspetta che io vi sosti alla ricerca di me.
Luigi
Ho ricordi dell'edificio esistente prima che fosse la chiesetta dei pescatori o la chiesetta di don Sirio. Un nome preciso non l'ha mai avuto; nella concessione iniziale del Demanio Marittimo si parla di "cappella con annessa abitazione del sacerdote". Per noi, amici che ci ritroviamo qui una volta al mese e per quelli sparsi un po' dovunque, è la Chiesetta del Porto inaugurata da una celebrazione eucaristica il 15 agosto 1956. Avrò avuto intorno a 10 anni e mio padre, appassionato pescatore a canna, mi portava con sè, a volte a pescare lungo il canale, alla bocchetta della Darsena Toscana, allora regno incontrastato delle barche da pesca che accettavano tra loro solo la vecchia draga ormai per lo più inoperosa. I ricordi a quell'età sono come vecchie fotografie che la memoria conserva ed io ho la "foto" di un abbaraccamento oltre un muretto, vicino al canale, di muri sbreccati e di lamiere ondulate a ricucire pezzi di tetto di una piccola costruzione ormai resa rudere. Due ombre vestite di nero vi si
aggiravano. Seppi, più tardi, che si trattava di Primetta conosciuta come la prostituta del porto e di sua madre; tutte e due ormai mal ridotte, con cinque bambini tirati su con l'aiuto dell'allora Opera di Maternità e Infanzia della vicina via Virgilio. Pochi anni dopo, al posto del rudere, una cappella che ricordo scura all'interno a contrasto con il sole che splendeva fuori. Ne ebbi timore e non vi entrai. Se qualcuno mi avesse detto che in quel luogo avrei trascorso più di 50 anni della mia vita, l'avrei preso come il frutto di una sbornia di vino adulterato. Eppure, entrai, non nella cappella ma nella abitazione, poco più di 10 anni dopo. Era l'estate del 1963. In seminario da due anni, in crisi per una situazione che così riassunsi al vice economo in un momento di confidenza. "Ho capito, gli dissi, perché ci tenete qui chiusi in seminario. Per osservarci e conoscerci meglio per quello che sappiamo fare. In modo tale da poterci comandare di fare tutto l'opposto, perché l'unica cosa che vi interessa (a voi, superiori) è tenerci al guinzaglio della vostra obbedienza". Gli occhi al cielo di quel uomo buono che era don Puccini, furono l'unica risposta che ricevetti. La stessa confidenza, con argomentazioni più ragionate, la feci poco tempo dopo a don Rolando Menesini, allora ancora parroco a Balbano, vicino Lucca. Capitai da lui quasi per caso, ma spinto dall'inquietudine di aver sbagliato tutto due anni prima, entrando in seminario con la stessa convinzione con cui si cambia vita per poi ritrovarmi in un mondo (quello ecclesiastico) che era più inerte e scontato del mondo che credevo di essermi lasciato alle spalle. Lui mi caricò sul suo Vespone e mi portò alla Chiesetta del Porto. Sapevo della Chiesetta, ma di don Sirio ignoravo tutto a cominciare dall'aspetto. Don Rolando invece si era avvicinato a lui fin dai tempi in cui Sirio era parroco a Bargecchia, sulla collina sopra Viareggio. E stava rinsaldando con lui una amicizia che li avrebbe portati di lì a poco a proporre al Vescovo l'inzio di una vita comune alla Chiesetta dove far incontrare il mondo del lavoro (Sirio avrebbe ripreso a lavorare a chiamata con gli scaricatori per aggirare il divieto vaticano del lavoro dipendente dei preti, salvo poche ridicole ore alla settimana) e il mondo della scuola (Rolando avrebbe continuato l'insegnamento della religione alle scuole magistrali parificate delle Mantellate a Viareggio) secondo lo slogan fatto proprio dal '68, "studenti e operai, uniti nella lotta!". Anche allora, se qualcuno mi avesse detto che avrei passato 50 anni nella Chiesetta del Porto, l'avrei guardato come dotato della più fervida delle immaginazioni. Ma quel incontro segnò un punto di non ritorno per la mia vocazione sacerdotale. Non ricordo niente di ciò che mi disse Sirio quel giorno in un breve colloquio personale. E probabilmente non capii niente di quello che mi disse, ma solo perché avevo già capito tutto di quello che mi interessava in quel tempo di crisi per me. Ciò che mi aprì la mente e il cuore fu la tavola apparecchiata nella sala di ingresso. Ancora una foto che conservo cara nella memoria. Questa volta con i colori del sole che entrava dentro l'ampia finestra e scaldava i colori del legno della tavola, della libreria già colma di libri e i mattoni rossi a facciavista. E, intorno alla tavola, Sirio immancabilmente a capotavola, Rolando, una giovanissima Maria Grazia (20 anni e il cuore aperto dalla lettura di "Una zolla di terra"), un pescatore con il volto cotto dal sale e dal sole, un "pellegrino" che aveva bussato alla porta, due donne rimaste un poco nell'ombra, un prete di Milano (don Piero che poi conobbi meglio ed apprezzai di più) che - su invito di Sirio che appena sceso dalla Vespa di Rolando, mi chiese a bruciapelo: "sai remare?" e, alla mia risposta affermativa - mi fu da lui affidato perché lo portassi su un gozzetto a fare il giro delle Darsene che ben conoscevo per le giornate di pesca con mio padre. Mi fu sufficiente quella tavolata, il parlare tranquillo e familiare, l'atmosfera scherzosa ma rivolta ai momenti essenziali della vita umana, così diversa dalle tavole ecclesiastiche che mi era stato dato di conoscere frequentando le canoniche nelle domeniche di servizio da seminarista nelle parrocchie. Capii in un attimo che tutto della vita del prete non si sarebbe giocato sulla moltiplicazione di replicanti come credevo di aver capito dall'impostazione dei buoni ritiri del seminario e da quegli esempi filtrati dalla direzione. Ora sapevo! Non mi interessava il "dove" e "quando". Sapevo di essermi consegnato all'obbedienza. Ma non fino al punto da farmi ingabbiare la fantasia e soprattutto lo stile di vita. Da quel giorno seppi che per me l'obbedienza si sarebbe sempre coniugata con la responsabilità mai delegata.
Luigi
Fu all'inizio del 1972 che la Chiesetta del Porto divenne la mia attuale residenza. Condivisa con don Sirio, Beppino e Maria Grazia, la Chiesetta rappresentò (dopo che don Miro Matteucci fu nominato parroco del quartiere di periferia di Viareggio, il Varignano; lui che vi abitava da quando nel 1965 Sirio e Rolando accettarono di iniziare - insieme a Maria Grazia - quella avventura calda e appassionata che è stata la Comunità di Bicchio) il ritorno ad una testimonianza di vita che sgorgava dall'ascolto del Vangelo e dal giocarvi tutto di sé, caratteristica più di una "fraternità" che di una parrocchia. Allora mi fu dato dai miei compagni la possibilità di ricavare una cameretta dalla parte a ovest della grande sala, sacrificando un caminetto d'angolo che non cessava di fare fumo, ma che - ancora in quegli anni - costituiva l'unica fonte di riscaldamento nelle case povere della maggior parte della gente. Sirio aveva la sua a fianco della cappella, Maria Grazia quella "degli ospiti" da lei stessa abitata nel percorso di avvicinamento a Sirio, Beppino la piccola stanzetta all'ingresso, così piccola da assomigliare a una cabina di nave da carico. Assaporammo per alcuni anni la vita di una famiglia. Intorno a Sirio, noi tre eravamo "i giovani". Di lì a pochi anni ognuno di noi avrebbe approfondito il solco della propria vita pur rimanendo la Chiesetta punto di attracco della "navigazione" di ciascuno. Ma intanto era la cucina, la stanza che ci raccoglieva per il pranzo e la cena, alla fine della giornata conclusa in cappella con la celebrazione della messa o una lunga preghiera silenziosa. Ci raccoglievamo intorno al piccolo tavolino anche se avevamo ospiti amici che frequentavano la casa e eravamo affezionati a quello spazio che della casa e della famiglia che l'abitava rappresentava il cuore. Noi di casa si andava in cappella passando dalla camera di Sirio che era quella più frequentata con la finestra aperta sul canale, il mercato del pesce, le barche che si accalcavano per scaricare il pescato. La sala era un po' il nostro "laboratorio" aperto all'incontro per i tanti anni di "scuola popolare", gli incontri di preparazione del "teatro", le discussioni di gruppo da noi indette o ospitate. Nuvole di fumo denso e fortissimo l'odore delle sigarette che ci accompagnava tutta la notte, dopo serate appassionate. Durante il giorno, il lavoro. Beppe rovesciava anche l'anima in mare, sui grandi pescherecci detti "lampare" per i gozzi che venivano calati in mare al centro della rete immensa con forti lampade che avevano il compito di attirare e far concentrare i grandi banchi di pesce azzurro che allora ancora popolavano il mare da Civitavecchia su fino a Genova. Maria Grazia si iscrisse alla Scuola Infermieri e iniziò quel lavoro nell'ospedale della città. Sirio mantenne fedelmente il suo impegno con Rolando (don Rolando Menesini, compagno della prima ora di don Sirio, rimase nella casa di Bicchio, essendo parroco di quella frazione, fino al 1991) e continuò a raggiungerlo tutte le mattine nell'officina di ferri forgiati. Sirio mi trovò lavoro a 300 mt. dalla Chiesetta, su un barcone in via di trasformazione che mi dette il battesimo del lavoro industriale dopo gli anni di lavoro agricolo. Poco alla volta la cappella ritornò ad essere lo spazio di una preghiera personale, la sala il luogo aperto a tutto l'impegno profuso in quegli anni nella lotta per la pace e le sue attività, la cucina - alla sera - si affermò ancora di più come il cuore pulsante della casa e della piccola famiglia che continuava ad abitarla. Le due panchette di legno di ciliegio, la lampada in ferro forgiato sagomata da Sirio come un fiore che dà luce al tavolino d'angolo, le due sedie impagliate da Beppe, dicono del ruolo assunto da questo luogo raccolto di incontro e di vita. Anche oggi, che vivo da solo nella Chiesetta da quasi 20 anni, è questo l'angolo in cui mi sento veramente a casa. E' l'angolo opposto alla porta di ingresso e, per chi viene di fuori, l'abitazione sembra esaurirsi nella sala con la sua ampia vetrata e la parete colma di libri fino al soffitto. Chi vi occhieggia dall'esterno non coglie la presenza e spesso mi sento dire: "non ho visto nessuno, non c'era nemmeno una luce accesa". Oppure chi suona il campanello crede che io sia lì vicino in mezzo ai libri al grande tavolo lungo la vetrata, e non ha la pazienza di aspettare che io arrivi dall'angolo opposto della casa. Per cui quando arrivo ad aprire la porta non vedo nessuno perché nel frattempo
chi mi sta cercando comincia a fare il giro della casa per cogliere qualche segnale di umana presenza. A voi capita mai di ritirarvi dentro la pancia della mamma?
Luigi
Ricordo che quando morì mio padre, dal vecchio ospedale - che allora chiamavamo "nuovo" - tornammo a piedi a casa, traversando tutto il centro di Lucca. Camminavamo a passo svelto, mentre mia madre ripercorreva per noi, ma forse più per se stessa, i momenti salienti della vita di mio padre. Le loro scampagnate sulla moto, le partite di caccia e poi la guerra, il rastrellamento e la lunga separazione fino al ritorno di mio padre dal nord in bicicletta dopo la liberazione... "è passato tutto così in fretta... è passato tutto così in fretta!". Molto spesso, quando esco fuori e, seduto su una delle panchine, guardo la Chiesetta e mi viene in mente quel ritorno dall'ospedale dove morì mio padre... "è passato tutto così in fretta". Quante cose! E' tutto un modo di essere che è mutato sotto i miei occhi. Un modo di vivere, di interagire, di lavorare... E la Chiesetta è rimasta lì, lambita dai mutamenti ma ancora uguale a se stessa, con il pavimento della cappella di mezzane rosse cui si sono aggiunte nuove macchie scure o biancastre, ormai senza rimedio perché le ginocchia non sono più quelle di una volta e si rifiutano di appoggiarsi in terra per levarle a spazzola e lisciva. Il pavimento della casa di marmettola verde scuro, logorato dall'uso, si riveste di magnificenza nelle giornate di pioggia, quando trasuda umidità dal terreno e sembra appena appena lucidato a specchio. Nell'arredo poche cose son cambiate e per lo più si tratta di avvicendamenti e qualche tributo alla modernità. Quando esco al mattino presto, mi corrono dentro le immagini di un film che ha quasi 50 anni. E avverto l'inevitabile rallentamento nel ricambio delle mie cellule quando mi sembra di intravedere, nelle prime sfumate nebbie autunnali, la vecchia draga a cucchiai che se la dorme cullata dal moto ondoso, come se fosse sempre lì all'ormeggio, lei sicuramente ridotta a brandelli di ferro da rifondere ormai da decine di anni. Il diporto, bello ricco slanciato luccicante, ha invaso i bozzoni di prepotenza e non è più - da tanto - prodotto sugli scali dei cantieri che vi si affacciano. La vetroresina, ha dapprima reso inutile quell'affaccendarsi di decine di operai intorno allo scafo che nasceva e cresceva come l'abito su misura sul manichino del sarto. Poi le tecniche compiuterizzate di taglio e modellatura dei metalli mutuati dall'industria aeronautica, hanno fatto il resto. Non restava che attrezzarsi per trasporti eccezionali garantiti dalla viabilità autostradale per poter costruire ovunque ciò che Viareggio onorava con i suoi marchi. Ora, nelle provincie limitrofe, ci sono spazi in terra e in mare per costruire barche smisurate che dicono più di ogni discorso quanto i ricchi stiano diventando sempre più ricchi. Ai poveri non resta che la lenta e quasi impercettibile migrazione che da sempre ha portato verso il lavoro e non il contrario, come gli stormi dei gabbiani in eterno volo verso il cibo. Anche il varo di queste imbarcazioni, rifinite a Viareggio e prefabbricate da ogni parte del mondo purché il lavoro costi meno, non ha più l'emozione di un incontro nuziale tra la barca che scivola via sullo scalo unto a "sugna" e l'acqua che l'accoglie tra le sue braccia. E la benedizione del prete e le tradizionali parole augurali, se ancora rimangono, non sono più altro che concessioni a usanze ormai morte, senza alcun richiamo alla vita. Così la Chiesetta vive ancora come un segno impolverato e sepolto in un mondo che non ha più bisogno di sognare perché convinto di poter realizzare ciò che una volta era avvolto nel mistero. Si è perso il valore simbolico su cui si incentrava la comunicazione e la relazione tra umani e con l'intero universo. E la dimensione religiosa, privata dell'indeterminatezza della gratuità, nel contesto umano, è sempre più costretta nell'abito efficiente della carità. Mi sono ritirato dentro le mura della cappella nei pomeriggi afosi dell'estate passata.
Ho cercato di sondarne l'anima. La storia che vi è racchiusa. Uno scritto di Sirio mi detta la traccia perché credo davvero che "la morte non chiude la storia". Per lui - dopo la sua sofferta uscita dal mondo del lavoro dipendente in obbedienza alla chiesa - si era aperto di nuovo un cammino di solitudine e di separazione. E si era aggrappato alla campana e all'annuncio della celebrazione della messa come a un voler esserci ancora dentro quel mondo di vita che in breve tempo l'aveva commosso di un amore viscerale e profondo. Cosa c'è in queste quattro mura, edificate per proteggere la piccola comunità del borgo di mare dalle insidie delle malattie infettive portate da contatti lontani e poi divenuta rifugio per chi non aveva una casa fino a richiamare l'attenzione di un uomo di Dio che desiderava vivere nella povertà del lavoro delle mani come il suo amico Gesù? Di seguito lo scritto di Sirio dei primi anni '60 e ancora a seguire i miei pensieri terra terra, sulla Chiesetta oggi.
Luigi
Mi sono accorto di suonare la campana della mia Messa, nella minuscola chiesa nascosta fra il lavoro del porto e dei cantieri, mentre sta morendo, in quella sua voce roca e bassa da baritono raffreddato, lo squillo violento, spiegato, splendente della sirena del cantiere qui accanto. Suonano le sirene qua e là al mattino, quasi come a richiamo fra loro, si svegliano una con l'altra e gridano squillanti <buon giorno> nel sole ora già acceso e alto sull'acqua ferma del porto, segnando sull'acqua luminosa le ombre chiare delle barche. D'inverno è ancora buio, l'aria è pesante d'umidità, spesso piove e allora le sirene non sono grido allegro ma feriscono l'aria fredda tagliandola a lunghi e penosi lamenti. Avevo la fune in mano della piccola campana, stamani, e la sirena urlava come pazza. Era inutile che suonassi i poveri tocchi della mia piccola campana finché durava quel grido violento: nessuno l'avrebbe udita, timida e riservata com'è. Ho aspettato perché bisogna andare d'accordo. Che serve metterci in contrasto: tu suoni la tua sirena e io la mia campana? No, no. Ogni cosa al suo posto perché tutto avrebbe il suo significato preciso e il suo valore, se fossimo disposti alla pace. D'altra parte io sono qui non per imporre qualcosa, stavo pensando tenendo la fune in mano mentre la sirena gridava, e in pochi istanti ho rivissuto tutto il mio problema. Sono venuto a offrire qualcosa, è sicuramente una gran cosa, ma ho voluto essere come quelli che offrono ai passanti, all'angolo della strada, la loro merce, in silenzio, senza richiamare attenzione, senza dare fastidio. Ogni mattina che suono la campanella, quasi nascosta sul tetto dal verde dei pini, è con trepidazione, con timore, forse vi è perfino un'ombra di pudore. Lavorano già, là fuori, da un pezzo e caricano e scaricano i motovelieri di tronchi. pesanti, di marmo, di mattoni. Di qua sta ancora agitandosi il mercato del pesce e grida ancora, scandendo i numeri, quello che offre, all'incanto, le cassette colme di pesce azzurro, fresco d'acqua di mare. È l'ora che se ne vanno al lavoro all'imboccatura del porto i rimorchiatori e le bitte e qui dietro fanno la curva del canale in questo momento: sento il respiro affannoso di vecchio fumatore a pipa, del rimorchiatore a vapore. E sulla strada filano in bicicletta o in moto gli operai del cantiere: la sirena sta suonando e i cancelli si chiudono, il cartellino non si timbra e si perde un'ora guadagnando soltanto un cicchetto e un avviso a muoversi la mattina. A quei tempi, a quest'ora, a questi minuti, e spesso erano istanti, anch'io ero a correre a perdifiato sulla strada: le curve strette strette in bicicletta e arrivavo e la buttavo là contro il muro e saltavo - e spesso erano spinte allegre, fra gli operai felici di rimproverarmi il ritardo - saltavo a timbrare il cartellino perché vi fosse stampigliato 7,25 e non, misericordia, 7,26. A quei tempi era quasi buio anche d'estate quando suonavo appena appena la campana, perché il silenzio della darsena è stupendo al mattino e mi dispiaceva turbarlo, tanto sapevo che a quell'ora quasi nessuno l'avrebbe ascoltata la mia campanella per venire così presto alla mia Messa di prete
operaio. Ora la sirena non mi chiama. Ma gli altri li chiama ancora, con quel grido prepotente. Sa di essere lei a comandare a tanti uomini, li tiene prigionieri, legati mani e piedi dal suo gridare e ne è orgogliosa, lo sento bene, spesso l'ho giudicata perfino cattiva, quasi che gridasse con malignità, come una suocera rabbiosa. Ora non mi chiama più. Sento le sirene più lontano alzarsi improvvise su dal silenzio del mattino e chiamare. E questa qui accanto comincia con voce dolce e suadente, si alza a ventata stupenda e vola lungo un arcobaleno di voce. Si ferma lassù in alto, a compiacersi un istante e poi ritorna adagio a calarsi calmandosi come dopo una violenza d'amore. Ma non le ubbidirò. Non potrà convincermi. Non ne ho paura. Appena, appena, ora, mi fa battere il cuore, ma non per timore di fare tardi, è soltanto palpito di rimpianto, di nostalgia, Perché forse mi sembra d'essere meno vivo a non correre per la strada dietro la sua voce che fa correre milioni di uomini, meno fra loro schiavi di quel grido, non sincero per sincerità di fatica e di stesso lavoro. Quell'urlo di sirena copriva un silenzio nascosto e segreto. Mi sperdeva dentro una folla che correva alla fatica. Mi chiamava ogni giorno da un mondo lontano e staccato, obbligandomi a vivere, allo scoperto, nella dura realtà quotidiana, invito ad una incarnazione fino alla croce. Ora sono io a chiamare con una povera corda in mano e una campanella sul tetto, mezzo nascosta dai pini, in un angolo di terra, quasi interamente circondato dall'acqua e dalle barche di pesca. Non vi sono case e famiglie qui d'intorno. Non vi è nessuno che aspetta che la campanella suoni, per venire alla Messa. Allora che suono a fare questa piccola campana sul tetto? È vero, non è per chiamare qualcuno. Non è per dire: ci sono anch'io. E nemmeno è per dare importanza alla chiesetta. Non vi sono motivi e è per questo che tiro la fune con timidezza, quasi con pudore, come di una cosa abusiva, strana, assurda. Mi ci vuole coraggio. Lo sento bene che è un atto di Fede. Adesso la sirena ha terminato il suo borbottare affiochito da baritono raffreddato. E su quel tetto della mia chiesetta, fra i pini, quella povera campanella batte piccoli tocchi, pressanti, fitti, fitti, uno accanto all'altro, quasi a rincorsa. Ho ripreso coraggio perché ogni atto di Fede è sempre coraggio. E tiro la fune della campana con convinzione e sicurezza. Non è per chiamare qualcuno o per attirare attenzione. È però il segno d'inizio del Mistero che lega Dio agli uomini e gli uomini a Dio. Batte i suoi tocchi sul mondo intero questa piccola campana, stamani. E suona dopo la sirena che chiama al lavoro, perché il dovere lo unisce e lo raccoglie in chiese fatte di fatica, di sacrificio, di pena, questo popolo umano in cui la ricerca del pane quotidiano scava abissi di dolore e quindi di bisogno di Dio. · E adesso suono con violenza - e sembrano singhiozzi i tocchi sul tetto - perché so bene che la mia campanella sta chiamando veramente qualcuno: chiama Lui, Dio, Gesù, a venire fra noi, fra loro, fra tutto il popolo congregato al lavoro. Chiama la Pace, la Giustizia, l'Amore. Chiama la Salvezza, la Redenzione a scendere dal Cielo nel vivere e nel morire degli uomini. La sirena e la campana. Gli uomini e Dio. Il mondo operaio e la Chiesa... e mi avvio con un'infinita speranza nel cuore a celebrare la Messa.
don Sirio
Prima di iniziare a scrivere queste righe, avrei voluto ascoltare di nuovo dopo tanto tempo, il suono della piccola campana sul tetto della cappella, ma i perni non ingrassati necessitano di essere
sbloccati. Anche le mie giunture si sono in parte "arrugginite" e non sono più in grado di muovermi sul tetto con sufficiente disinvoltura. Così, sul momento ho desistito. Ma riproverò. Ricordo che il suono della campanella non ha niente di argentino, ma somiglia piuttosto al suono prodotto da un martello su una lamiera. Ma neppure nel porto, tra i cantieri, risuonano più le sirene che chiamavano al lavoro gli operai. Il dialogo - sia pure impari in quella che allora veniva definita "la Darsena rossa" - descritto da Sirio e appena riportato, tra "la sirena e la campana", emblematico del confronto serrato tra il mondo operaio e la chiesa del dopoguerra, ha ceduto il passo ad uno sbriciolamento di interessi e di relative istanze sotto la bandiera dell'individualismo in una opacità di prospettiva che, una volta schiarendosi ha reso indiscutibile l'assoluto dominio del capitale sull'umano. Don Sirio morì all'inizio del 1988, alla vigilia del crollo dell'impero sovietico. "La sirena e la campana" fu da lui scritto all'inizio degli anni '60 mentre stava prendendo corpo il Concilio Vaticano II° e un vento teso provvedeva ad aprire i finestroni dei chiostri e delle chiese per far entrare aria nuova e fresca in ambienti troppo a lungo rinchiusi su di sé. Anni, quelli della sua scelta di condivisione del mondo del lavoro, in un crescendo di guerra fredda, di cortine di ferro, di scontri in atto qua e là nel mondo, di una folle corsa agli armamenti ormai in grado di distruggere ripetutamente la terra e i suoi abitanti. Messo da parte dalla "sua" chiesa dopo tre anni di fuoco nel crogiolo dei cantieri navali, Sirio rimane tenacemente immerso in una fede sofferta ma incrollabile. La messa che continua a celebrare ogni mattina nella cappella semideserta quando i suoi compagni entrano al lavoro, è un gesto di amore che lo coinvolge totalmente e ne fa un portatore incrollabile di speranza. La mia è tutta un'altra storia. Sono stato messo da parte dalla vita che passa, dagli anni che portano alla pensione. Un distacco dal mondo del lavoro avvenuto a tappe: un primo sganciamento dal lavoro manuale e gli ultimi dieci anni della vita lavorativa progressivamente spesi nell'organizzazione e nell'impresa del lavoro di altri. Contemporaneamente sono entrato in quel tratto di vita "al singolare" che si sta prolungando in una vecchiaia di cui sperimento il calare delle energie, il bisogno crescente di tempi di inazione pena quel rimanere boccheggiante che segnala l'impossibilità di procedere oltre. Negli ultimi tempi della sua vita Sirio soleva tirarsi sù citando a voce alta quello che era sicuramente un "dittaggio" raccolto dalla bocca di altri vecchi prima di lui: "povero vecchio dalla testa bianca, il coraggio l'avresti; è la forza che ti manca!". Ora mi rendo conto che ogni tanto ripeto anch'io quella frase dentro di me, non per arrendermi, ma per resistere. Lo sguardo mi cade spesso sul motto inciso sulla pietra tombale di Sirio, già posta sull'erba del cimitero di Capezzano Pianore e traslocata con le sue ceneri nella cappella: "La morte non chiude la storia". Era il ritornello di un canto dei suoi testi teatrali, scritti e messi in scena per scuotere e rinnovare una coscienza per la pace e la giustizia, nonostante il sangue versato da testimoni martiri. Cosa mi vuol suggerire oggi quella frase? Anche se tutto è cambiato ed è "morto" tutto il contesto in cui si è svolta una storia (la sua, quella della Chiesetta del Porto come segno di una presenza amica nel mondo operaio e di una condivisione quotidiana della fatica delle mani), com'è che questa storia non si chiude e com'è che può continuare a scorrere sia pure come piccolo rivolo d'acqua sul selciato assetato di vita della povera gente? Non suona la piccola campana sul tetto della cappella. La Messa viene celebrata una volta al mese per raccogliere un gruppo di amici che continua a incontrarsi con me. Le letture della liturgia mi aprono il cuore e riverso sui partecipanti le mie riflessioni, i miei interrogativi, la sostanza delle mie preghiere. Ascoltano pazientemente quelle mie frasi in parte sconnesse, colte nel fondo dell'anima là dove a stento riesco a decifrare frasi di senso compiuto. Sono spesso solo come invocazioni di un mondo che forse esiste solo nella mia immaginazione... Ma che mi rasserena e mi conforta e non mi importa che sia intelligibile, almeno non più di quelle nenie che modulano i pastori nelle notti solitarie, alla luna e ai loro animali. Mi vergogno di questa mia pochezza e della presupponenza che non mi aiuta a cambiare, a cercare
con maggiore buon senso un dialogo, una comunicazione, una interazione capace di superare la soglia della cappella e balbettare almeno qualche parola al mondo intorno. Ma non riesco a schiodarmi di lì. Sento che sto sempre più rischiando di venir risucchiato da quel mondo di povera gente che mi gravita intorno. Gente di strada, straccata ormai dalla vita e in condizioni di non riuscire a tirarsi fuori da una ricerca della pura sopravvivenza del giorno per giorno. Finisco per vivere i loro ritmi, le loro opache vicissitudini, il loro contentarsi del momento in cui si può evadere dalla condizione di miseria per la ricchezza di un caffé, di qualche sorsata di "castellino" o di birra, per un panino. Avverto questo morire dentro. Forse è così che deve essere. E mi accorgo di avere sempre più gli occhi come loro. Occhi spenti, un po' sempre abbassati, quasi a chiedere scusa di esistere, a volte pretenziosi ed esigenti ma solo per una stanchezza infinita e una disperazione che li annega dentro. So che devo resistere - anche per loro - e cercare di rialzare la testa e il cuore. Forse è così che si muore, ma - nello stesso tempo è solo così che la storia non si chiude: quando non ci si arrende anche se ci riesce solo rimanere aggrappati a un sogno.
Luigi
In queste ultime paginette cerco di raccogliere il "sogno" che anima e sospinge in avanti le mie giornate. Non sono esattamente le mie attività che, intese in senso stretto, sono solo quelle possibili ad un vecchio che vive da solo (ops... scusa York!). Ma ciò che attiva le mie giornate e le rende brevi e sempre fin troppo corte per il tenere insieme direzioni differenti, problematiche che forse solo nella mia mente e nel mio cuore possono trovare connessione.
IL LAVORO CHE NON C'E' (... e la casa?) Gli ultimi miei 25 anni di lavoro si sono svolti nel capannone della Darsena, in via Virgilio 222. Prima il progetto di lavoro artigiano nel contenitore capace di raccogliere mestieri diversi, poi - man mano che il disagio e la disabilità vi trovavano occasione di semplici e povere produzioni in grado di "raccontare" esistenze invisibili - la dimensione cooperativa fino alla logica impietosa dei servizi per una pluralità di enti pubblici sempre più in affanno ad elemosinare visibilità e sempre meno in grado di dare indirizzi per una concreta politica sociale e solidaristica. Ora, mentre il contatto con il mondo del lavoro per me si fa sempre più debole e datato, mi rendo conto di quanto sia centrale il bisogno di lavoro nella marginalizzazione crescente. Che si tratti di italiani residenti o di immigrati e migranti, il lavoro continua ad essere il perno per una possibilità di svolta nella loro vita. E' possibile fare qualcosa, localmente è chiaro? E' tanto che ci penso e non mi riesce tirar fuori un ragno dal buco... Il primo passo è trovare un/a "alleato/a"! Non vorrei essere sempre più schiacciato nel ruolo di erogatore di servizi assistenziali sia pure minimi per i quali si bussa alla porta perché ci sta un prete. Non è che mi rifiuto di fare la mia parte, ma - come a volte dico con un'aggiunta di teatralità indicando la gente in strada e le case - "io conto per uno, chiedi in giro...", di fronte a richieste da centro d'ascolto caritas. Ascoltare le ascolto le persone, con il loro bagaglio di vita avvitata su se stessa, ed è tutto quello che posso fare nella mia condizione: dar loro la visibilità della narrazione di sè. Cercare di collegare e comunque dare forza a catene di solidarietà concreta e fattiva come quelle che potrebbero aprire non dico strade, ma anche solo tracce di viottoli verso un lavoro possibile, mi pare sia - come sempre - un moltiplcatore di speranza di vita e di condivisione. "LOTTAcomeAMORE"
Questo giornalino... è stato stampato e spedito ininterrottamente dal 1960. "Una lettera scritta agli amici" diceva Sirio, e per amici intendeva tutti quelli che negli anni lui/noi abbiamo incontrato. Fino a spedirne intorno a 2500 copie in Italia e non solo. Gratuitamente; perché - diceva Sirio - nessuno che scrive una lettera agli amici, chiede di restituire il prezzo del francobollo. Di contro tanti hanno contribuito volontariamente e liberamente alle spese di stampa e di spedizione. E il nostro orgoglio di essere stati sempre i primi a contribuire con il nostro lavoro. Pochi anni fa mi sono dovuto arrendere ai tagli statali dei fondi per l'editoria e quindi all'aumento quintuplicato delle spese postali. E alla sempre maggiore difficoltà di Poste Italiane a onorare la consegna della posta privilegiando il ruolo bancario. Una operazione di dimagrimento dell'indirizzario ha portato alla spedizione di due numeri l'anno per 500 copie circa. E comunque ogni spedizione incontra sempre maggiori difficoltà, e non è possibile sapere quanti giornalini ogni volta arrivano a destinazione. Ho messo in rete da alcuni anni tutto quello che è stato inviato sotto i titoli che si sono succeduti nel corso del tempo. Da "La Voce dei Poveri" al "Il nostro lavoro", dal ciclostilato "Popolo di Dio" al attuale "Lotta come Amore": www.lottacomeamore.it Mi piacerebbe concludere la spedizione in abbonamento postale e spedire a tariffa normale (anche se si aggrava l'onere finanziario) a chi ne fa richiesta rinnovandola ogni tanto in modo da mantenere aperto un "dialogo" a distanza sempre sull'onda della gratuità e dell'amicizia. Il 2018 e il 2020 segnano due ricorrenze collegate a Beppino e Sirio. Il prossimo 19 gennaio saranno 20 anni che don Beppe Socci è morto. Il 19 febbraio, 30 anni dalla morte di don Sirio Politi. Il 1 febbraio del 2020 saranno invece 100 anni dalla nascita di don Sirio. Anniversari che misurano inesorabilmente il tempo che passa e che ripropongono segni per una memoria viva che vanno preparati per tempo. Il giornalino farà la sua parte, se non nelle ricorrenze precise, almeno nel corso degli anni relativi. Vedremo. Intanto prepariamoci a vivere questo tempo, guardando vanti con fiducia, confortati dalla silenziosa presenza di questi due amici che ci hanno insegnato con il loro esempio, ad amare la vita.
PARROCO "A DISTANZA" Cinque anni fa ormai, la morte di don Beppone Giordano mi ha consegnato a un "servizio" nella parrocchia di S. Pietro a Vico a 35/40 chilometri dalla Chiesetta del Porto a Viareggio. E' passato il primo anno, angosciato, con il cuore in gola. Tra il dolore per l'amico di tante giornate, la solitudine che ancora una volta consegna ad un percorso tutto da inventare e la sempre maggiore difficoltà di risparmiare energie, non sono tuttora in grado di dire a me stesso come ho fatto a non crollare. Tre anni abbondanti per l'inevitabile passaggio di consegne, le misure da prendere, le partite da chiudere... Un susseguirsi di alti e bassi, di squarci di azzurro e dell'alzarsi di nebbie impenetrabili con la conseguente tentazione di abbandonare tutto. Amicizie vecchie e nuove mi hanno sostenuto e mi sostengono, una buona dose di testardaggine e la facilità di sorridere di poco e di entusiasmarsi di niente. In questo ultimo anno mi è diventato chiaro il possibile senso di questo mio servizio "controcorrente". La sensibile e crescente carenza di preti (che maschera una crisi generale di partecipazione alla vita della chiesa e delle sue tradizionali organizzazioni) ha indotto anche la mia diocesi di Lucca a volersi immaginare meglio assestata sul territorio. Così la parrocchia di S. Pietro a Vico (fondata nel VI° secolo da un vescovo che volle costituire un lascito a favore di una sua figlia...) si unirà alla parrocchia contigua di S. Cassiano a Vico. Poco più di 5000 anime, come si diceva una volta. Due paesi, due parrocchie le cui chiese sono distanti meno di 1 km. in linea d'aria, ma così diverse che non sarà facile metterle insieme. Un parroco (io) "a distanza" (la domenica due messe e una sera la settimana al più, un incontro), l'altro che ha superato felicemente l'invidiabile età di 90 anni di cui 50 celebrati in quella parrocchia. Inutile dire che andremo avanti così, ogni parrocchia sul suo binario, finché dura. Quando uno di noi due parroci o tutti e due, ci arrenderemo, sarà nominato un nuovo parroco per tutte e due le parrocchie. E allora cambierà tutto o quasi...
Inutile quindi per me cercare a S. Pietro a Vico una organizzazione sia pure nella linea di partecipazione attiva dei laici... tanto poi potrà cambiare tutto. Ho creduto e manifestato alla gente di S. Pietro che la cosa più sensata che possiamo fare e per cui posso dare una mano, è cercare di crescere la comunicazione di base e l'esperienza del lavorare inieme. Se queste capacità crescono, poi potranno essere utilizzate anche quando si tratterà di vivere più d vicino con i parrocchiani di S. Cassiano. Crescere la capacità di ascoltarsi e di parlarsi, fondamento di un andare avanti insieme. Proprio quello in cui mi riconosco più carente! Lo scherzo del destino, mi porta in fine vita a dare quello che non ho. Se Dio mi ha portato fin qui, mi affido a Lui e oserò camminare sull'acqua.
Luigi Sonnenfeld
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