LOTTA COME AMORE: LcA Giugno 2017

Vecchio e celibe: la vita come vocazione

Continuo a guardarmi indietro, non per nostalgie ricorrenti, ma per convincermi che la mia realtà
attuale non è la sommatoria di eventi di diverso spessore e direzione che si sono accatastati l'uno
sopra l'altro nel tempo, come tronchi d'albero ammassati nel letto del torrente della mia vita da
successive piene. Nella consapevolezza di dover resistere all'idea che tutto sia accaduto solo per
caso e cercare di individuare quei fili che misteriosamente mi portano oltre me stesso. Può essere
tutta una illusione questa mia, ma è lì che ho affidato tutta la mia vita che si è snodata fin dalla
prima età adulta nella fiducia di rispondere ad una vocazione, ad una "chiamata".
Scrivo queste righe iniziali al mattino nella solitudine della grande canonica di S. Pietro a Vico,
dopo una domenica di incontri, sollecitazioni le più diverse, una volta si sarebbe detto da quelle
materiali a quelle spirituali. Anche se, da tempo, la linea di demarcazione tra il materiale e lo
spirituale non mi pare più così netta, a favore di una confluenza che non si limita a mescolare le
carte, ma produce nuova energia e ribollire di acque di vita.
Ho appena preso un caffè, e l'odore che sprigiona la vecchia moka mi ricorda che sono ormai quasi
vent'anni che ho perso il gusto dell'ovvio quotidiano quando non vivendo da solo, come mi
accadeva senza soluzione di continuità per sessant'anni fin dalla nascita, era normale che il caffè al
fuoco, annunciato dall'odore che si spargeva per la casa, costituisse un punto di incontro tra più
persone. Perché "pareva brutto" farselo per proprio conto, anche se il rito veniva consumato nel
silenzio di una comunicazione impedita sia pure solo dalle rispettive preoccupazioni.
Sensazioni di ogni convivenza...
Un pensiero tira l'altro... come le ciliege!
Cosa c'entra l'odore del caffè con il mio entrare ventunenne in Seminario e il mio consegnarmi
all'impegno del celibato? Con tanto di meditazioni nei cinque anni tenute da diversi predicatori sulla
totale dedicazione di sé all'annuncio del Regno ed al primato della santità "rituale" nel servizio
sacerdotale?
L'invito all'integrità sessuale senza la minima concessione alle relazioni umane, alle emozioni e ai
sentimenti si incastrava bene con l'entusiasmo giovanile dell'offerta di sé e dell'impegno totale.
Credo che nella mia vocazione sacerdotale un ruolo non secondario l'abbia giocato quel misto di
paura e di orgoglio insieme che, di fronte alla complessità del futuro, cerca di fare un salto che
semplifichi le scelte di vita nel nome di un ideale superiore. Lasciando così incompiuti percorsi di
crescita che solo l'aderenza alla realtà del quotidiano nelle sue mille diramazioni, può assicurare.
Uno di questi è stata sicuramente l'educazione affettiva e il rapporto uomo-donna. Condizioni del
proprio essere che sono snodi importanti se non decisivi dalla nascita all'adolescenza e non si
recuperano più, se non attraverso una lunga opera di compensazione affidata alla vita, così come
difetti fisici che ci accompagnano dalla nascita e che riescono ad integrarsi in un corpo complesso
che si costruisce nel tempo.
Ho vissuto quindi gli anni del Seminario in quell'ardore che contiene lo slancio della ricerca di
perfezione e i momenti neri dell'esperienza del limite e della caduta. Il tutto calmierato dalla
possibilità, sempre a portata di mano, della confessione dei propri peccati e da quell'essere rimesso
sulla linea di partenza dalla relativa assoluzione in una condizione spesso più fragile e confusa di
prima.
D'altra parte il "mondo" in cui ci si muoveva non operava sulla distinzione, ma sulla separazione e,
dove era possibile, sulla rimozione e sul silenzio. Sono stato "accompagnato" in seminario dal
gruppo scout cui appartenevo da ragazzo e dal "rito" della partenza: era ancora - sia pure per poco
tempo - un gruppo strettamente al maschile. Pochi anni e si sarebbe concretizzata la pratica della
co-educazione e i gruppi misti al maschile e al femminile. Ma, in seminario, il nostro insegnante di
teologia morale, arrivato ai Comandamenti, dovendo affrontare il Sesto (che nella formulazione
stessa consegnava ogni minimo accenno di infrazione alla "purezza" alla stessa misura di gravità:
"Non commettere atti impuri"), prima di tutto fece chiudere i vetri delle finestre, aperte perché si
succedevano dolcissime mattinate di una primavera solare, per evitare che possibili (ma per niente
probabili...) ascoltatori potessero carpire chi sa quale segreto; poi, dopo alcune sue caratteristiche
contorsioni seduto in cattedra, ci ammannì questo discorsetto in tono complice e confidenziale: "
Siete tutti grandi, vero? Le sapete da voi queste cose... passiamo al Settimo Comandamento!". E
noi, ancora oggi, ci meravigliamo se larghissime quote del corpo clericale, non solo quello
conservatore e bigotto, sono inclini al silenzio e alla rimozione di tutto ciò che ha a che fare con il
sesso?
Sono passati 50 anni da quei tempi per me iniziali. La strada tracciata dai solerti predicatori degli
esercizi spirituali prima dell'inizio delle scuole in seminario, esemplificata nella concretezza della
giornata tipo del presbitero formato don Abbondio, è rimasta nell'archivio della mia memoria come
tutto ciò che a me non è mai accaduto. Posso dire quindi che mi è accaduto di tutto, eccetto forse
quello che ci si aspetterebbe da un prete così come lo si dipinge convenzionalmente, nel privato e
nel pubblico.
Per quanto riguarda il celibato posso dire che - sia chiaro, nel mio caso,- lo leggo sempre più come
una vocazione e sempre meno (ma in me questo ha sempre contato il giusto) come un dovere di
stato.
All'inizio della mia vita sacerdotale la condizione celibataria faceva parte del "pacchetto" che mi
avrebbe portato verso nuove "terre" idealmente immaginate della condizione umana. Poi, man
mano che entravo in contatto con la realtà multiforme dei destini personali e la complessità delle
storie di vita di donne e uomini, nel pieno dell'età adulta ho iniziato a percepire un solco fertile là
dove, nello sfumare del mio sogno idealizzato di vita "altra", mi sembrava di vedere solo una ferita.
Quanti uomini si trovano nella condizione di non poter vivere e quindi sperimentare quella
completezza umana che solo l'incontro uomo-donna può dare? Ho vissuto e lavorato nel mondo
dell'handicap fisico e mentale, ho ascoltato per lungo tempo le pene di chi sente urlare nella propria
carne il bisogno di un affetto e non trova risposta per via di una instabilità psichica che ne mina
ogni capacità di normale relazione. Ho conosciuto storie incredibili di fedeltà e di astinenza da parte
di lavoratori del mare con imbarchi di lunghi mesi in mare; e quell'arrangiarsi per un'illusione di
amore che ti lascia più solo che mai, umiliato nel sentirsi preda di un istinto animale... Sono sceso
nei bassifondi di una umanità abbandonata al proprio destino, vi ho incontrato dei fiori di una
purezza indicibile in tanta melma. E palate di sofferenza alla ricerca di redenzione. L'essere meno
uomo accettando di non entrare nel percorso umano di completamento dell'essere nel "noi" e di
affrontare la solitudine del singolo, mi ha consegnato ad essere parte di una compagnia eterogenea e
multiforme di quella porzione di umanità diffusa che sono "i poveri della terra" e che "nessuno può
contare".
Sento di essermi consegnato poco alla volta a questa condivisione, inizialmente accettata, e poi non
voluta e non cercata ma che ha acquistato campo in me attraverso le mie fragilità e le mie
debolezze. E ora, con mille titubanze, la sto riconoscendo e accogliendo. Tutto questo può essere
anche solo frutto della mia ormai conclamata senescenza... certo! Eppure guardandomi indietro
leggo quelle che possono essere chiamate, se prese una per una, quali sbandate condite di delusioni,
fughe dettate da vecchie paure, indecisioni puerili, come un filo sottile, un sentiero incerto eppure
battuto che mi porta a casa. Quando ormai scende la sera della mia vita, è vero. Uno tra gli ultimi, è
così. Ma a casa. Quando non ci sarà più né uomo né donna...
Luigi
Luigi

La castità nelle relazioni umane

Castità è una parola quasi sempre non compresa, anzi misconosciuta e derisa, soprattutto perché è
confusa con l'astinenza sessuale, con il celibato.
L'etimologia ci suggerisce che è casto (castus) colui che rifiuta l'incesto (in-castus). L'incesto
avviene ogni volta che non si vive la distanza e non si rispetta l'alterità, che non è solo differenza.
Non è casto chi cerca la fusione, l'attaccamento, il possesso: segno di tale ricerca è l'aggressività
che, in questi casi, facilmente si accende e si manifesta.
La sessualità - ne sono convinto più che mai dopo una vita vissuta osservandola, contemplandola,
vivendola nella pace e nella fragilità - sta nello spazio del dono, perché richiede di dare e di
ricevere e si colloca sempre nella relazione tra due soggetti. La sessualità non si riduce alla
genitalità, e dunque la capacità di dono e di accoglienza è più ampia di quella esercitata nella
genitalità: investe, infatti, l'intera persona e le sue relazioni. Per questo la sessualità è cosa buona e
bella, ma il suo uso può essere intelligente o stupido, amante o violento, legato all'amore o
semplicemente alla pulsione. La sessualità ci spinge alla relazione con l'altro, ma dipende da noi
cercare, in questa relazione, l'incontro o il possesso, la sinfonia o la prepotenza, lo scambio e la
condivisione o il narcisistico possedere l'altro.
Potremmo dire che la castità è l'arte di non trattare mai l'altro come un oggetto, perché in questo
caso lo si "consuma" e lo si distrugge. Arte difficile e faticosa, che richiede tempo: non si nasce
casti ma al contrario - va detto con chiarezza - si nasce incestuosi, e l'esercizio di separazione e
di distinzione ci conduce verso una soggettività vera e autonoma. La castità conferisce alle relazioni
umane una trasparenza che permette alle persone di riconoscersi nel rispetto del loro essere più
intimo.
Si pensi all'incontro sessuale dei corpi nella loro nudità e all'intimità che ne deriva. Quando i corpi
nella nudità si incontrano e si intrecciano, si accende una conoscenza reciproca che non è
comparabile a quella che possono avere l'uno dell'altro anche gli amici più intimi. Condividere il
corpo, condividere il respiro, condividere il letto crea un'unione che è "conoscenza unica", è -
oserei dire, citando Giovanni Paolo II - «liturgia dei corpi», è conoscenza di una profondità unica.
Quando si tocca un corpo, non si tocca qualcosa, ma una persona, che non è un oggetto di piacere,
che non può essere consumata, ma che è possibilità di comunione autentica. Senza questa
comunione non è possibile la castità ma solo l'obbedienza alla pulsione, all'estro, al possesso.
Scriveva Rainer Maria Rilke: «Non c'è nulla di più arduo che amarsi: è un lavoro, un lavoro a
giornata... L'amore è difficile e non è alla portata di tutti».
L'atto sessuale, compiuto nei tempi e nei modi che gli amanti sanno discernere come belli, buoni e
«giusti», è conoscenza, e non si deve avere paura di affermare che proprio il piacere sommo
dell'atto sessuale incendia tale conoscenza. Ma non è facile distinguere questo piacere sommo
dell'incontro dei corpi, dei cuori, delle intelligenze, dalla pulsione. Sì, la pulsione da sola, con la sua
prepotenza, può creare l'inferno, eppure essa ci abita, e, se non ci fosse, non saremmo naturalmente
capaci di darci e di accoglierci. La pulsione da sola può addirittura portare a un'unione dei corpi che
conosce solo l'attimo fuggente e a un'eccitazione dei sensi che conosce la senescenza precoce dei
sensi stessi. Non è anche per questo che sovente le storie d'amore, anche sigillate pubblicamente,
conoscono la fine e dunque il fallimento dell'amore? L'amore tra due persone è un lungo cammino
che solo la misericordia di Dio può far leggere come cammino possibile senza interruzioni: da parte
degli amanti c'è sempre un venir meno, un non essere adeguati all'altro , un'incapacità di essere
sinfonici.
L'amore deve vincere sempre, ogni giorno, su tutte le forze che gli sono contrarie perché
obbediscono solo alla pulsione, la quale non vuole il bene dell'altro, anche se autorizza a dire che
all'altro si vuole bene.
Quando, di fronte all'altro soggetto, non si sa stare con rispetto, come davanti a un mistero, a una
trascendenza; quando non si è capaci di inchinarsi di fronte all'altro e di farlo per amore; quando
non si percepisce il segreto dell'altro, che sfugge alla nostra presa, allora non si è capaci di castità.
Ecco la difficoltà della castità, quasi impossibile, invivibile si potrebbe dire; Gesù, del resto, ci ha
messi in guardia: «Chiunque guarda una donna per bramarla, ha già commesso adulterio con lei nel
proprio cuore» (Matteo, 5, 28). Guardare una donna per bramarla non è vederla in quanto donna, ma
è ridurla a un oggetto, dunque non percepire in lei la persona "altra"; significa passare accanto a una
possibile relazione autentica, per percorrere altre vie che non portano alla comunione.
Ma proprio mettendoci di fronte a questa esigenza, comprendiamo le nostre fragilità, le nostre
incapacità, e misuriamo la dominante animale che è in noi e che non sempre siamo capaci di
sottomettere e di ordinare.
Proprio per questo - io credo - Gesù ha annunciato il mistero della sessualità e l'ha legato in
modo escatologico al regno di Dio veniente. La castità è un lungo tragitto, e si sarà casti veramente
solo se si accetterà di morire, se si sarà capaci di fare della morte un atto, un atto di scioglimento di
legami.
Noi cantiamo troppo facilmente il celibato che fa professione di castità, dimenticando che il celibato
è una situazione che si vive, mentre la castità è a un altro livello: non è una situazione, ma una
dinamica che non raggiunge mai pienamente il suo obiettivo. Noi umani siamo così deboli,
conosciamo così poco le nostre profondità, non abbiamo presa sulle profondità delle nostre
profondità e siamo abitati da pulsioni e desideri non sempre distinguibili. Proprio per questo, oso
dire che chi fa professione di celibato, può promettere davanti a Dio ed esprimere con i voti questa
situazione, mentre la castità non dovrebbe essere una promessa, perché a essa il soggetto può
tendere, ma mai viverla senza incrinature né contraddizioni.
Il celibato cristiano richiede di cercare la castità ma non si identifica con essa. Del celibato si può
dire che è "grandezza", ma si deve dire che è anche "miseria", quella miseria che ognuno conosce
nelle sue contraddizioni alla castità: contraddizioni a livello di pensieri, parole, azioni e anche
omissioni, perché a volte la castità vera esige di omettere, soprattutto nel rapporto con il Signore, un
investimento di ciò che deve essere investito solo nella relazione sessuale tra umani. La magia è
anche volere con Dio rapporti che il Signore ha voluto soltanto tra umani: rapporti buoni e belli, ma
umani! Ecco perché io penso che non si possa vivere il celibato senza credere, accogliere e vivere la
misericordia del Signore. Maior est Deus corde nostro (1 Giovanni, 3, 20).
Enzo Bianchi

San Pietro mi chiederà: "Sei stato umano?"

Ricordo molto bene quando ci fu una svolta nel mio rapporto con la donna. Ho tuttora difficoltà a
tenere in ordine le mie cose personali, a fare una valigia o un sacco da montagna: il mio è sempre
rimasto un pigiare alla rinfusa finché, dopo infiniti tentativi, la cerniera scorreva fino in fondo o i
lacci riuscivano a stringere la "bocca" dello zaino. Da ragazzo era mia madre che mi preveniva
sempre. E mi "preparava la valigia" per assicurarsi che non mi fossi dimenticato nulla di ciò che
riteneva indispensabile. Rito che mi diceva ogni volta (in un linguaggio che ho capito sempre
troppo tardi) di come mai avrebbe voluto lasciarmi andare.
Dunque: vivevo i primi anni di sacerdozio ancora da studente nelle facoltà teologiche romane e non
mi rendevo conto che mi stavo allontanando dalla possibilità di iniziare, come i miei compagni, il
ministero sacerdotale attraverso un incarico pastorale, una casa sia pur piccola da abitare e da
gestire, un ruolo sia pure in subordine che allora diventar parroco era una carriera da fare. Abitavo -
dopo la "licenza" in teologia - presso la Comunità di Bicchio, vicino a Viareggio. Ospite, amico di
don Rolando e di Sirio, e pian piano - visto che la mia permanenza si prolungava -, inserito nella
vita quotidiana e nei lavori dell'accoglienza e della casa. Passando i mesi, mi si presentarono i primi
accenni di una autonomia per me problematica nell'accudimento del mio - peraltro essenziale -
guardaroba. Tra un atto e l'altro della vita giornaliera ne parlai con le due ragazze che completavano
allora la Comunità e ne ebbi una risposta chiara e indiscutibile: dovevo imparare a fare da me. Al
più mi avrebbero dato delle dritte, per esempio come attaccare un bottone. Fu così che - al netto
delle ricadute in pigrizia e bambinismo - evitai di cercare nella donna, insieme all'affetto, quella
cura materna che oggi - in un contesto culturale molto diverso da quello degli anni '60 dello scorso
secolo - può stare ancora nelle aspettative dell'uomo.
Credo che risalga ad allora una specie di contrappasso nei meccanismi poco decifrabili dei miei
innamoramenti per cui spostai inconsciamente la mia attenzione su donne "difficili" dal punto di
vista maschile: indipendenti, poco disponibili a rimanere in secondo piano, capaci di sostenere un
confronto di volta in volta faticoso eppure ricco di sviluppi e prospettive. Compagne, direi. Rapporti
affettivamente coinvolgenti, ma, per più ragioni non maturati e non richiesti a livello di coppia.
Il mondo del lavoro manuale in cui ero entrato al compimento dei miei trent'anni, intriso di materia,
per niente sindacalizzato, che spietatamente metteva a nudo la mia impreparazione, assorbiva quasi
del tutto le mie energie. La mia identità sacerdotale ("chi Luigi, ... il prete?), sia pure ridotta
all'osso, costituiva per me la traccia della mia vita in quell'altalena tra ambiente universitario e
immersione in un mondo di polveri niente affatto sottili e marciume rugginoso. Ricordo che -
manovale non specializzato, su una piccola nave da trasporto in trasformazione -, inforcavo ogni
mattina gli occhialetti dorati con la montatura ben fissa sugli orecchi che mi ero fatto fare per
andare in montagna, ma che - in quell'ambiente - mi davano un'aria da intellettuale appena uscito
da un deposito di carbone... Lo facevo come una sfida, per dichiarare a me stesso e all'ambiente cui
ero ormai legato chi ero e da dove venivo... Sbaglierò, ma, in questi giorni, me l'ha ricordato - da
lontano, vero! - l'orgoglio e insieme la leggerezza con cui una ragazza nordafricana che fa servizio
volontario nel trasporto dei disabili, porta il velo in capo sulla divisa dell'associazione cattolica per
cui fa servizio..
Eppure, in quegli anni, due amici - con i quali avevo condiviso gli ultimi tre anni di vita di
Comunità -, due amici preti operai, iniziavano una vita di coppia e mettevano su famiglia.
Non li ho affatto sentiti allontanarsi né venir meno ad un impegno fino ad allora condiviso. E' vero
che la Comunità di Bicchio stava iniziando a scomporsi, fedele ad una delle pochissime regole non
scritte: che cioè ogni membro della Comunità doveva anteporre alla Comunità e alle sue esigenze le
proprie scelte personali e il proprio percorso di vita. Ma il loro cammino personale e di coppia mi
ha sempre destato non solo rispetto, ma anche ammirazione sincera per come hanno sempre
indirizzato le loro famiglie in esistenza povera, condivisa, sempre accogliente.
Uno di questi due amici chiese ed ottenne (appena in tempo, perché le autorità ecclesiastiche, subito
dopo, si sono dapprima irrigidite e poi - mi sia permesso dirlo - imbarbarite) la dispensa necessaria
per il matrimonio religioso. Invitato, andai volentieri e, dopo che lui ebbe parlato manifestando tutta
la sofferenza del suo animo sinceramente sacerdotale, pronunciai anch'io poche parole di augurio,
stima e fiducia. Poi aggiunsi, rivolto all'amico: "Non ti preoccupare troppo... quando sarà la nostra
ora e arriveremo di fronte a S. Pietro, non ci verrà chiesto se siamo stati preti, laici, o che so io. Ma
semplicemente, "sei stato un uomo?".
Non saprei davvero dire perché non cercai anch'io di intraprendere la loro strada. Da una parte,
forse, avevo ancora bisogno di aggrapparmi a una identità sia pure divenuta estremamente precaria.
E' stato quello il tempo in cui mi sono sentito più interpellato da una domanda spesso ripetuta nel
giro dei preti cui periodicamente mi avvicinavo: "ma tu, lavorando per così tante ore, quando lo
trovi il tempo per fare il prete?".
Seguirono per me anni (la prima metà degli anni '80) in cui mi raccolsi intorno a me stesso. Anni in
cui intuivo che qualcosa stava muovendosi in me verso un dipanarsi del mio groviglio interiore. Ho
letto, proprio in questi giorni, dei post su facebook che (non ho avuto voglia di verificare, ma va
bene così) parlavano delle aragoste che, man mano che il corpo cresce, bisogna che abbandonino il
loro guscio divenuto stretto e si nascondono per fuggire i predatori in anfratti di roccia in attesa che
il nuovo guscio prenda forma e le difenda. Ripensandoci è un po' quello che è successo a me in quel
periodo vissuto nella rarefazione del quotidiano di una vita vissuta alla Chiesetta del Porto in cui
eravamo come una famiglia, perché ognuno di noi stava approfondendo il solco personale del
proprio impegno e della propria ricerca. Anch'io percepii, in qualche modo, la direzione della
corrente. Soffrendo per la mancanza di quel nido, caldo di affetti e di rassicurazioni, che era stata la
Comunità, cercai di superare le mie paure e di abituarmi al volo. Il mio corpo, - povero corpo
intelligente e buono! -, mi dette una mano e accolse tutta la mia sofferenza immettendola in una
grave polmonite che mi costrinse, per oltre due mesi, in ospedale e in una vera convalescenza, ad
affrontare la solitudine e a prendere maggiore consapevolezza delle mie capacità e dei miei limiti
nel far fronte alle durezze dell'esistenza. Fu in quegli anni che mi venne in mente di spendere tutte
le ferie in un colpo solo e viaggiai (con il furgoncino della ditta) per un mese in solitaria, passando
da un B&B all'altro tra Inghilterra del nord, Scozia e Galles. Scopo del viaggio: scoprire "chi sono
io per me stesso" e, quindi, "sono in grado di sopportarmi?". Forte della esperienza di convivenza
con il mio io, tornai a Viareggio. Ignaro che, nel giro di tre anni sarei ripartito per una nuova e assai
più lontana avventura.
Luigi

Ho imparato a fidarmi più del corpo

che della mente

In quella "terra di mezzo" che furono per me gli anni tra la metà degli '80 e gli ultimi anni '90
accaddero tante cose nella mia vita in generale ed anche nella mia vita affettiva. Due volte piansi a
dirotto, di quel pianto prolungato che nasce dal cuore e stenta a fermarsi perché le lacrime
contengono tutto il non detto e forse l'indicibile di anni. Una prima volta accadde alla mia prima
partenza per Assella in Etiopia dove iniziai un servizio che si prolungò nei cinque anni successivi
con rientri a Viareggio ogni 5/6 mesi. Alla Chiesetta, in quel tempo, vivevamo stabilmente Sirio ed
io. All'ora della partenza, ci abbracciammo, Sirio cominciò a piangere e io con lui. Rimanemmo a
lungo così senza dire parola. Abbracciati e piangenti. Sirio iniziava il suo ultimo percorso di dura
malattia che lo portò alla morte... io tagliavo il cordone ombelicale che tanta vita fino ad allora mi
aveva trasmesso. Una seconda volta, ad essere travolto dalle lacrime che mi scuotevano dentro e
che non riuscivo (né tentavo) di fermare, fu appena dopo la morte di Beppino, una decina di anni
dopo. Vivevamo insieme, dopo il suo ritorno alla Chiesetta al termine dei suoi davvero impegnativi
dieci anni da "ragazzo padre" e dopo la morte di Sirio. Beppino morì dieci anni dopo nel corso di
una mattinata drammatica; il cuore - il suo grande cuore - schiantato da un infarto devastante.
Pochi giorni dopo, durante un lungo percorso analitico che mi aiutò a a mantenere il timone alla via,
scoppiai subito a piangere e consegnai all'analista un'ora di pianto dirotto, irrefrenabile, continuo;
cui fece seguito un ritorno alla Chiesetta quieto e raccolto. Infilai la chiave nella toppa e aprii la
porta. Non ci sarebbe stato più nessuno ad aprirmela dall'interno. Come a non pochi uomini accade,
per lutti o abbandoni, iniziai alla soglia dei 60 anni a vivere da solo.
Alla mia partenza per l'Etiopia, anni prima, lasciavo - tra le altre cose - anche una dichiarazione
d'amore in piena regola che non interruppe una serena amicizia e una reciproca stima, ma mi
permise la consapevolezza di poter comunicare le mie emozioni, anche le più intense senza che
prendessero il sopravvento sul livello più profondo del mio sentire. E una disponibilità a vivere la
sfera affettiva senza raccontarmi una cosa per un'altra, lasciando comunque che a decidere la
direzione delle relazioni fosse, in ultima analisi, il dialogo, il confronto, la comunicazione reciproca
anche nel ribollire della emotività. Con tutta l'approssimazione, le incertezze, fragilità e
contraddizioni dell'umano procedere.
Tra le altre cose che lasciavo, non vorrei dimenticare... una figlia!
E' vero che, a quel tempo, era già cresciuta, dagli anni in cui mi ero vista saltare sulle ginocchia la
piccola figlia di una coppia di amici in via di separazione. La piccola si era rassicurata con la mia
presenza e aveva comunicato alla madre tutta contenta: "ora ho due babbi!". Poco tempo dopo,
mentre eravamo in viaggio per una breve vacanza in montagna, mi fermai a una stazione di servizio
per far benzina. Alla pompa c'era un giovane che fu attirato da quella creatura con gli occhi a
mandorla sdraiata sui sedili posteriori e mi disse: "Bellina! O dove l'ha trovata?". E io, d'impulso:
"Trovata? Come trovata? E' mia figlia!", cogliendo contemporaneamente nello specchietto
retrovisivo il volto di lei illuminato da un sorriso solare. Fu così che in una successiva
conversazione telefonica con mia madre le comunicai che un amore antico aveva prodotto un
giovanissimo frutto. Ero abituato, con mia madre, a giocare con le sue apprensioni sul mio conto
raccontandole cose strampalate che provocavano un accenno di preoccupata paura che svaniva
come nebbia al sole quando la misura dell'invenzione risultava evidente. Quella volta. no. Segno
che avevo incrociato il suo immutato giudizio ché la mia vocazione fosse dovuta ad una delusione
d'amore. E comunicò trionfante alle mie sorelle e fratello che l'elenco dei nipoti andava aggiornato,
cosa che lei fece puntualmente con tanto di foto nel novero dei volti di famiglia e la celebrazione,
con puntuale regalo, del compleanno come a tutti gli altri familiari.
Vissi con questa mia figlia, incontrata per caso, tutto l'arco dei sentimenti paterni, innamorato,
geloso, preoccupato, protettore di lei fino al fatidico momento tanto atteso e temuto nello stesso
tempo da ogni padre (immagino!) quando lei mi disse: "Luigi, ti devo dire una cosa. Non importa
che ti preoccupi più di portarmi alle feste e di venirmi a prendere... Ora c'è il mio uomo".
Compagno, fidanzato, cavalier servente, figura paterna, nonno... quanti ruoli ho rivestito con donne
diverse, con maggiore o minore linearità, con tutti i miei limiti, la mia approssimazione umana... Mi
sono chiesto, a volte, perché. Posso pensare che sia stato tutto un tentativo di rientrare nella pancia
della mamma qualunque fosse, volta volta il suo nome: persona, gruppo, istituzione... chissà? Posso
pensare di aver risposto con fiducia a richieste inespresse eppure presenti nel percorso delle
persone... chissà? Non posso negare di aver a volte fatta confusione pur nella speranza di non aver
fatto danni gravi alle persone se non per il riflettersi di stati d'animo complicati dal sovrapporsi di
intenzioni che potevano dar luogo a letture dal risultato in fin dei conti indecifrabile. A migliorare la
lettura dei miei stati d'animo e della collocazione dei miei sentimenti, ha - almeno in parte -
rimediato, da parte mia l'accettare di ricoprire comunque un ruolo e attenermi a quello. Come nel
caso corrente di un donnone dalla pelle nera che mi ha scelto come figura paterna e io - rassegnato e
ringhiante - accolgo i suoi baci delicati e il suo sguardo struggente come espressione trasparente di
spirito filiale.
Tornai dall'Etiopia imbarcato in fretta e furia nell'areoporto di Addis Abeba su un aereo che aveva la
benzina appena sufficiente per raggiungere lo scalo estero più vicino. Ormai l'esercito di liberazione
eritreo e tigrino dilagava dal nord e solo la fuga del dittatore Menghistu garantita e imposta dalle
potenze che curavano i propri interessi economici e politici dell'area, salvò la popolazione della
capitale da un ulteriore bagno di sangue. Ciò che avveniva all'esterno trovava un'eco profonda
dentro di me. Durante i miei lunghi soggiorni ad Assella si erano spente molte luci. Nonostante il
successo (lo posso dire...) del mio lavoro nel cercare di realizzare una formazione pratica che
aprisse porte concrete al lavoro senza dimenticare di incentivare le motivazioni personali in un
contesto culturale e sociale dalle radici antiche, altre rispetto a quelle europee, devastate da anni di
costrizione forzata a collettivizzazioni di stampo staliniano, ne uscii con le ossa rotte. Non solo
fisicamente, ma soprattutto moralmente. Non voglio dilungarmi sui motivi di questa mia
depressione che mi afferrò fin quasi da subito di quei cinque anni di lunghi soggiorni, sulla
possibilità di nuovi cammini umani che non fossero l'arrivare dove già eravamo noi occidentali
nell'esaltazione dell'individualismo, la competitività, il merito, l'economia, il denaro, il potere... La
chiesa missionaria, pur nel rispetto e nel riconoscimento del valore e dell'abnegazione dei singoli,
nell'amicizia fraterna con molti dei suoi membri, mi fece tornare indietro agli anni del mio
inserimento nel mondo del lavoro e alle riflessioni condivise negli incontri dei preti operai. A quel
"eravamo partiti per evangelizzare e siamo stati evangelizzati" che ben descrive l'essere entrati in un
mondo altro in punta di piedi e scoprire che quello che credevamo di portare come novità di vita era
già presente e sorprendentemente ci veniva incontro.
Come poteva portare il vangelo ai poveri, accogliendolo a sua volta da loro, una chiesa come quella
etiope che contava allora circa 300.000 fedeli (su 40 milioni di abitanti) di cui i 2/3 religiose,
religiosi e chierici? Moltissime le opere, certo! A vantaggio di una popolazione stremata dalla fame
endemica e da malattie cronicizzate. Ma la gran parte a senso unico, rivolte a soddisfare il bisogno
per giustificare la presenza in campo agli occhi (e ai ricatti) del potere al comando.
Ne sono uscito con molte "cicatrici", ma vivo, per una buona condizione fisica e psichica
nonostante l'inevitabile scontro con la malaria. Ma soprattutto per il forte legame con la mia
"famiglia" della Chiesetta del Porto sia pure provata dalla malattia e dalla morte di Sirio proprio in
quegli anni. E decisiva è stata l'amicizia con una collega nella missione di Assella con la quale
condividevo la stessa posizione di "personale aggregato" e, nonostante avessimo vissuto fino ad
allora in paesi diversi, scoprimmo di avere anche storie e sensibilità con molti punti di contatto.
Man mano che il regime dittatoriale ad Addis Abeba perdeva colpi, si indurivano le condizioni
generali del paese e anche la vita alla missione di Assella risentiva di restrizioni nei movimenti,
difficoltà di approvvigionamento, complicazioni nei rapporti interni, rarefazione della
comunicazione in genere. Messi in difficoltà da questa situazione, abbiamo cercato di far fronte ai
rispettivi compiti quotidiani aiutandoci reciprocamente a sostenere l'isolamento e le motivazioni che
ci avevano portato lì in una relazione sempre più aperta, intima e fiduciosa. Una volta rientrati a
casa con percorsi e in tempi diversi, facendo i conti - ognuno nei propri ambienti - con la difficoltà
di riassorbire le ferite aperte dagli scontri con la realtà attraversata, scontri tanto duri da mettere in
questione l'assetto della vita precedente l'esperienza etiope, ha preso forma la domanda se andare
verso una futura vita di coppia.
Ha, di seguito, prevalso la serena consapevolezza di voler proseguire l'avventura della vita nella
fragilità della solitudine confortata da una intimità di cuore che la distanza non avrebbe cancellato.
Durante quel tratto di vita, ho imparato, sia nella malattia che nella relazione affettiva, a fidarmi di
più del corpo, a non temerne le improvvise sorprese, a decifrarne il linguaggio. Ho scoperto nel
corpo una bontà sorgiva, una capacità di farsi carico di tanta sofferenza pur di richiamare la mente
al suo compito di cercare la ragionevolezza e il bene complessivo, piuttosto che lasciarsi tentare da
proiezioni sempre più ardite nel mettere al centro della vita l'idea più che la persona. Far dialogare
la mente e il corpo in reciproco ascolto, - anche se non esime (tutt'altro...) dalla fatica della ricerca,
dell'imboccare strade che si perdono e del dover ricominciare a orientarsi -, produce un equilibrio
interiore che fa sì che non si perda il buonumore alla base di ogni serena umana avventura.
E il mio sacerdozio? E il celibato?
Credo che la mia netta non-voglia di festeggiare l'anno scorso i 50 anni di ordinazione sacerdotale,
per cui mi limitai ad accettare un semplice pranzo familiare di un decina di persone, sia dipesa non
solo dalle mie (un po' sciocche, devo ammettere) ritrosie, ma da un capovolgimento maturato in me
a poco a poco e consolidato non saprei io stesso quando. Il fatto di essere stato ordinato sacerdote e
poi, tutto sommato, tenuto spesso in panchina dai vescovi che si sono succeduti anche perché
sostanzialmente (se il paragone può rivelare qualcosa di me) contento di poter giocare "da prete"
quando richiesto per sostituzioni temporanee in incarichi parrocchiali o di insegnamento, ma
contento ugualmente di continuare "ad allenarmi" anche senza giocare da titolare in squadra, ha
provocato in me la ricerca di uno spirito sacerdotale assai poco riferito al fare e piuttosto incentrato
sull'essere. In questo assai vicino a quello che viene chiamato sacerdozio battesimale o dei credenti.
Fino ad esprimere il mio sacerdozio ministeriale nelle circostanze in cui non c'erano altri preti o
comunque si trattava di condividere con altri preti un impegno di cura, insegnamento, presidenza
ecc. E il mio celibato è il risultato non tanto di un impegno preso e difeso da sempre e per sempre,
quanto una condizione accettata come una delle regole di fatto per esercitare il sacerdozio
ministeriale cui non sono venuto meno forse solo perché lo svolgersi della vita concreta mi ha
mostrato il celibato a poco a poco come consono al mio modo di essere. E, di converso, al modo
con cui esercito il sacerdozio ministeriale quale servizio povero e ascolto sincero dell'esercizio del
sacerdozio battesimale dei credenti.
Luigi

Lavorare insieme uomini e donne

Negli anni a cavallo del secolo la mia collocazione lavorativa si spostò - sempre nello stesso
contenitore del "capannone" - dal lavoro artigianale a lavoro di cura nel sociale. La forma
organizzativa nascente della cooperativa, mi catturò tutta l'attenzione e l'energia.
Lavoravamo insieme, uomini e donne. Con storie, sensibilità, attitudini diverse all'interno di un
incubatore - il "capannone di via Virgilio" - fecondato dalle energie di vita del percorso di Sirio e di
noi preti operai, suoi amici che abbiamo condiviso con lui la nascita di quel antico sogno nuovo
nella centralità di un lavoro condiviso e aperto alle nuove generazioni.
Così scrivevo su questo giornalino dieci anni fa, nel ricordo di quegli anni vissuti in un fermento di
larghi orizzonti.
Giuliana Martinelli
Un sabato pomeriggio, colorato di sole ancora caldo di questo bel mese di ottobre, ero a Stiava
vicino Viareggio per l'intitolazione del locale Centro di Socializzazione a Giuliana Martinelli. Nata
e vissuta a Stiava, nel Comune di Massarosa, educatrice, morta un anno fa dopo un lungo e
doloroso calvario, lasciando il marito e una bambina di quattro anni. Mi hanno chiesto un
intervento, ma quando ho iniziato a parlare un fiume di ricordi mi ha travolto e sono riuscito solo a
balbettare il sogno che quel luogo fosse seminato di rispetto, sincerità accoglienza e incontro. Ho
lavorato con Giuliana dal 1999 al 2002, quando entrò in maternità per la sua bambina. Erano anni
di crescita della cooperativa per gli inserimenti lavorativi, anni di lavoro duro in cui si alternavano
avventure esaltanti e disavventure davvero disastrose. Io ero il boss e Giuliana mi era stata
indicata dalla direttrice della cooperativa di assistenza come una educatrice che poteva essere
invitata a completare la sua formazione con una esperienza di gestione del personale. C'era un
lavoro di coordinamento da iniziare da zero con una squadra di una quindicina di spazzini molto
eterogenea e con esperienze lavorative che lasciavano immaginare solo difficoltà. Giuliana accettò
l'incarico. Ebbi modo di apprezzare la sua professionalità, in un contesto votato alla confusione.
Annotava tutto e rielaborava le note. Lasciava poco al caso, ma la sua partecipazione
all'evoluzione dei problemi era sempre calda, mai distaccata. Non è stato facile per nessuno
lavorare con me: poche parole, un lasciare intendere più per silenzi che le cose andavano, precise e
immediate le disapprovazioni. Sono sempre stato uno "scorfano". Sembrava non soffrire di questo
mio carattere. Forse avvertiva (non solo lei, spero) che la fiducia era a tutto tondo. Due logiche
diverse le nostre. Da parte mia la preoccupazione della gestione complessiva, della riuscita del
lavoro, del contenimento dei costi; da parte sua i lavoratori (uomini e donne), con i loro profili
spesso assai problematici, la difficile composizione delle squadre, l'assillo del controllo,
l'attenzione alle motivazioni personali e del gruppo. E' con Giuliana che credo di aver vissuto con
più chiarezza l'incontro/scontro del maschile e del femminile riguardo al lavoro e alle relazioni che
nel lavoro si esprimono. Era anche il tempo in cui in cooperativa e non solo, si poneva attenzione a
quelli embrioni di gestione "al femminile" che parevano suggerire modi "altri" che non fossero
quelli verticistici e competitivi tipici del modello maschile. Si ragionava, nelle pieghe del lavoro, di
quel "rimescolamento delle carte" che il lavoro sociale, connotato dall'aver cura tutto al femminile,
poteva introdurre attraverso l'interpretazione al maschile. E di quella contaminazione provocata
dall'introduzione nel lavoro sociale di criteri di efficienza, di compatibilità, di obiettivi da
raggiungere, tipici del lavoro di produzione. Anni, quelli di fine ed inizio secolo, in cui nel nostro
ambiente di lavoro si respirava ancora il fervore tipicamente artigiano dell'impresa in cui investire
tutto di sé. Una presunzione di "innocenza" di chi è rivolto al bene, se vogliamo; un atteggiamento
del cuore ancora tutto fasciato di fanciullesca onnipotenza e, insieme, i tratti adulti di chi non
rinuncia all'idea che lo "star bene" richiede apertura alla condivisione e alla solidarietà. Per
Giuliana si è aperta la durissima strada della malattia. Non ci siamo più visti. Non ho difficoltà ad
ammettere che il mio rinunciare ad andare a trovarla, nei periodi di remissione, a casa sua sa di
vigliaccheria.
Avevo - ma non vuole essere una scusante per ciò che non ammette scuse - l'impressione che
ognuno di noi fosse avviato in un percorso in cui la vita, per strade diverse e, ahimè la sua di vera
croce, ci stesse proponendo un confronto in cui le idealità tanto amate dovevano passare al vaglio
della carne e del sangue diventando parte viva di noi. Non più nella trasparenza non corrosa dal
tempo del pensiero e dello spirito, ma nella opacità feconda della materia vivente affidata alla
storia di ogni essere.
Per me, la fatica di un quotidiano che si prolunga in una non-decisione rispetto a dove gettare il
cuore oltre. Per lei un andare incontro alla consumazione affinando la capacità di starci tutta in
quel corpo esausto e mangiato dal male. Nel mio balbettio, davanti alla piccola folla riunita per
ricordare Giuliana, dicevo del "tirare alla fune" tra le nostre rispettive differenze e concludevo che
quasi sempre era lei a vincere.
Anche ora ciò che le invidio di tutto cuore è la convinzione di ogni sua cellula che "nulla va
perduto della nostra vita, nessun frammento di amore e di bellezza, nessun sacrificio nascosto,
nessuna lacrima e nessuna amicizia".
Lotta come Amore,
dicembre 2007
Nel corso della mia vita lavorativa ho avuto modo di rinnovare questa esperienza di collaborazione
stretta con donne facendo tesoro delle differenze di genere e portandomi dietro amicizie semplici,
nella fiducia a tutto tondo; da "vecchi" camerati abituati alla convivenza e insieme al rispetto più
assoluto delle rispettive vite private. La cooperativa che ho raccolto dalla esistenza sulla carta
contribuendo a farla crescere fino ad una realtà complessa e articolata, è stata sostenuta e alimentata
insieme a me da due donne che, dopo di me, si sono fatte carico, in tempi e modi diversi, della
responsabilità della conduzione. Talvolta, parlando con loro tra le pieghe del lavoro delle relazioni
affatto facili in un contenitore di lavori diversi, come il nostro, con decine e decine di persone
impegnate, mi veniva da rilevare come noi tre non fossimo stati intraversati nel nostro lavoro più di
tanto da innamoramenti e storie sentimentali. Nonostante l'affetto ben radicato al di là degli scontri
e delle tensioni provocate dalle rispettive personalità, scelte di vita, responsabilità.
Mi è sempre rimasta in mente quello che mi confidò tanti anni prima una carissima amica
infermiera che nei turni di notte si fermava a parlare con i degenti che non riuscivano a dormire. In
uno di questi colloqui sottovoce, un uomo ormai vecchio le raccontò del suo lavoro di ballerino e di
aver ballato una vita con sua moglie. "Tante volte, la sera, andavamo a letto stanchi della giornata.
E non facevamo all'amore non perché c'era qualcosa di storto tra noi, o troppo stanchi. Eravamo
giovani e innamoratissimi. Ma nel ballare, accompagnati dal ritmo, ci eravamo così tanto uniti nel
movimento armonico della danza, da sentirci un unico corpo e da non provare più il bisogno di altra
unione...".
Ora, non è che il nostro lavoro, nelle sue diverse sfaccettature, avesse una tale carica emotiva e
fusionale, si intende! Rimane però vero che se si lavora ad un progetto comune, concreto e ideale
nello stesso tempo, questo non lascia molto spazio a quei ripiegamenti sul "personale" che spesso
costituiscono la fatica di tirare avanti anche delle coppie più collaudate. Quando dal corpo si
pretende un supplemento che manca allo spirito, o si arriva a pensarlo come un complemento
inevitabile. Lo dico, non dall'alto di una saggezza astratta, ma dalla mia navigazione di vita che ha
conosciuto e continua a conoscere faticose derive pur di mantenere la rotta e un arrendersi a stare "a
ridosso" quando la tempesta supera le forze per poter rimanere orgogliosamente "in mare aperto". Il
"progetto", qualsiasi progetto, ha bisogno di essere ravvivato da verifiche e spirito di
comunicazione in una relazione tra persone di differente genere, piuttosto che affidato alle carte e
alle regole organizzative con un inevitabile cedimento alla razionalità "maschile". Ed è ugualmente
importante la tenuta del ruolo lavorativo cercando il più possibile di non alterarlo con
sovrapposizioni dettate dal desiderio, sia pure legittimo, di rappresentare altro per le colleghe e i
colleghi di lavoro.
Luigi

Un parroco che fa da babbo e da mamma?

Da quattro anni abbondanti, a più di 75 anni d'età, sto assolvendo al ruolo di parroco di San Pietro a
Vico. Mi separano fisicamente almeno 70 km (tra andata e ritorno) dalla Chiesetta del Porto. La
distanza (che percorro usualmente due volte per settimana) è del tutto nella norma per pendolari del
lavoro e dello studio, ma ancora eccezionale per chi, come me, ricopre un incarico che quasi sempre
lo colloca accanto al campanile di pertinenza. Lo rilevo ogni volta che persone estranee alla vita
parrocchiale si rivolgono a me nella qualità di parroco componendo il numero del fisso della
parrocchia e - nonostante l'annuncio del trasferimento di chiamata - mi fanno richieste che
prevedono io sia solo temporaneamente fuori casa per tornarvi se non a pranzo, almeno a cena.
Quando li rimando alla mia presenza per le due messe domenicali o do loro indicazioni di altre
persone cui rivolgersi, sento un po' di sconcerto nel silenzio che lì per lì segue prima che io
provveda a rassicurare l'interlocutore di turno che non sto frapponendo ostacoli ma solo cercando di
aiutarlo a venire a capo del suo problema. Evidentemente resiste nell'immaginario collettivo la
figura del parroco quale responsabile, direttore e custode unico di tutto ciò che esiste e si può fare in
parrocchia, nonostante la situazione attuale del clero, con problemi di carenza d'organico e
complessivo invecchiamento, stia erodendo questa immagine che la tradizione ci consegna. Del
resto non mi ha mai convinto tutta quell'insistenza dei buoni predicatori di esercizi spirituali in
seminario tendente a valorizzare in noi aspiranti preti un futuro ruolo in parrocchia che si
esprimesse nel fare "da babbo e da mamma" ai propri parrocchiani. Quel modo un po' pretesco di
esprimersi parlando "della mia parrocchia" con un tono che va oltre un ovvio senso di appartenenza.
Non essendo nel mio curriculum e neppure nelle possibilità concrete dell'attuale incarico di parroco
"a distanza" (come dico a volte giocando con le parole...) il fare "da babbo e da mamma", rimane
per me il ruolo di "babbo", se non altro per la responsabilità di "legale rappresentante" che non
consente condivisioni di potere, anche solo per il "potere di firma". A far da "mamma" le donne
che, da volontarie, collaborano nella catechesi, la liturgia, la cura degli arredi e degli ambienti, il
rapporto con i malati cronici ecc. Ci sono anche uomini, ma, in genere son le donne a prendersi cura
delle attività di relazione e di conservazione.
Lo schema che ne deriva è quella di un "babbo" e di più "mamme" e quello che ne viene è una non
consapevole tendenza ad un atteggiamento per cui i parrocchiani finiscono per essere un po' come
dei "figlioli" curati e allevati ma senza mai entrare nella prospettiva di diventare "adulti" e
partecipare a pieno titolo alla vita della comunità, corresponsabili nelle decisioni e non solo
collaboratori o semplicemente fruitori di servizi.
E' possibile, e se possibile in che direzione, andare oltre questa divisione dei ruoli in una comunità
cristiana?
La direzione è quella di riprendere con forza la centralità della comunità in quanto tale ed i
"carismi" a servizio del tutto. Per quanto riguarda il ruolo del prete potrebbe essere sufficiente
guardare meglio nella definizione del sacerdozio presbiterale quale sacerdozio ministeriale e cioè di
servizio. Servizio al sacerdozio del popolo di Dio, direi. E riprendere l'etimologia della parola
presbitero che si avvicina al significato di anziano. L'anzianità non è solo determinata dall'età. Anzi,
a volte la si rileva in gente anagraficamente giovane (al contrario di vecchi che corrono il rischio di
"rimbambire" con il passare del tempo). Ora, tra le caratteristiche dell'anziano per definizione c'è la
diminuita spinta alla competizione, al bisogno istintivo di toccare con mano i limiti delle proprie
possibilità misurandole con quelle degli altri. Si fa meno pressante il bisogno di sentire in qualche
modo il riscontro della propria presenza e del ruolo nella vita sociale attraverso la partecipazione
attiva alle discussioni, alle strategie che vengono messe in atto nella elaborazione collettiva del
pensiero che guida l'attività del gruppo di appartenenza. L'anziano (ripeto, per definizione e non
anagraficamente inteso) ha quella giusta distanza che lo rende partecipe della vita comune e insieme
che lo mette in grado di ascoltare anche le voci più deboli; e di rilanciarle, in modo che non restino
soffocate dalle voci più forti e "importanti". Il sacerdote al servizio del sacerdozio di tutti dovrebbe
essere l'opposto dell'uomo che ha sempre diritto all'ultima parola. Semmai l'uomo che abitando la
povertà e la solitudine si fa ascolto dello Spirito che anima la comunità con criteri sempre
sorprendenti e non inquadrabili dalla sapienza umana. Lo Spirito che ci "parla" attraverso ogni voce
umana a partire da quelle più inattese per la fragilità e lo sbriciolamento della loro testimonianza.
Ciò permetterebbe la fioritura di carismi quali quelli tratteggiati da san Paolo, al maschile come al
femminile, nell'integrazione di relazioni interpersonali dettate dalla fiducia e dalla ricerca di
cammini di autentica crescita umana.
Andare verso un rovesciamento della piramide ecclesiastica che vede il clero al vertice, nei ruoli di
potere decisionali, vuol dire quindi riaprire il Vangelo e leggere quelle parole che sono state
sorvolate perché le parole da sottolineare sembravano altre.
Come ha detto don Marcello Brunini nell'omelia della notte di Pasqua,
la comunità del Risorto è la
Chiesa delle donne. Sono loro ad ascoltare l'annuncio della resurrezione di Gesù. Sono loro che lo
incontrano. Sono sempre loro che ricevono l'incarico di annunciare ai discepoli la vittoria del
Maestro sulla morte, contro la mentalità dell'epoca che non dava valore alla testimonianza della
donna. E' una missione e una testimonianza fondamentale.
Luigi

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