LOTTA COME AMORE: LcA Dicembre 2016

Il mio incontro con il carcere

Voglio continuare a raccontare di me. Non perché credo di poter significare qualcosa di più di una semplice storia personale come ce ne sono tante, ma in quanto - in questi ultimi anni - la vita mi ha portato in acque dense e profonde che portano con sé i riflessi dell'eterna avventura umana. Così è stato per quanto riguarda l'avventura del mio essere prete che ho raccolto nel giornalino precedente. Così è stato l'incontro con il carcere.
La parrocchia e il carcere mi sono precipitati addosso per la morte, precoce e veloce, di don Giuseppe Giordano (Beppone, perché gli amici più vicini hanno conosciuto un altro don Beppe, questo abitante per anni alla Chiesetta e conosciuto anche come Beppino), vicino di casa a Lucca, sulla stessa scia dei preti operai, amico ritrovato da quando - ormai quasi 20 anni fa, con la morte questa davvero precoce e veloce per infarto devastante, di don Beppe-Beppino - sono rimasto l'unico abitante della Chiesetta del Porto.
Don Beppe-Beppone, era stato nominato (parlo di 8 anni fa) cappellano della Casa Circondariale di Lucca, alla morte del precedente cappellano don Renzo Tambellini, prete dall'animo umano che unì, negli ultimi anni di vita, la cura dei carcerati alla accoglienza dei giovani al Villaggio del Fanciullo della stessa città.
Il vescovo, nel presentarlo alla Direzione, al personale e ai detenuti, se n'era uscito con queste parole: "Don Beppe è nato in manicomio (suo padre, psichiatra, era stato medico e direttore del manicomio di Maggiano, quello del più famoso medico e scrittore Mario Tobino) e ora morirà in carcere...". La battuta - ancorché discutibile - fu profetica.
Fin da subito Beppone mi offrì di condividere il lavoro in S. Giorgio (così è popolarmente chiamato il carcere a Lucca, dall'omonima via). Ci vedevamo spesso a quel tempo e, immancabilmente eravamo presenti agli incontri dei preti della diocesi e ad altri appuntamenti suggeriti dall'amicizia e dai contatti con il gruppo dei preti operai in Italia. Il vescovo - quello delle battute - ne aveva coniata una anche per noi: "Attenti a quei due!".
Quando, per la prima volta, arrivai con Beppone di fronte alla porta del carcere, mi riaffiorarono memorie che erano rimaste sepolte sotto anni di vita. A 50 metri dal carcere, è vero che c'era (c'è ancora ma sotto diversa denominazione e gestione) il Bar La Patria, acquistato dal padre di don Rolando (compagno di don Sirio a Bicchio) con i soldi sudati in anni di duro lavoro in Argentina, ma fu proprio il varcare la soglia del carcere a farmi ricordare che - in qualche modo - potevo dire anch'io che in carcere c'ero nato!
Oddio, proprio nato no; ma, qund'ero ragazzo mio padre, che alla morte fu insignito di medaglia al merito della redenzione sociale, - per marcare la differenza con le mie sorelle più piccole - mi portava con se quando faceva cose con gli amici che mi potevano dare buoni insegnamenti. Così una sera al mese mi ritrovavo intorno a un tavolone a dare una mano a mettere dentro grandi sacchetti di carta maglie di lana, calzerotti, un pacchetto di sigarette, sapone, e cose simili per i carcerati in S. Giorgio. Avevo imparato da subito - nelle prime avventure da bambino sulle Mura che circondano Lucca - dov'era il carcere e il muro che si alzava di qualche metro sulla parte interna delle Mura con le feritoie e la guardia armata che faceva la ronda. Sbirciavo, insieme ai compagni, oltre il muro, le finestre rovesciate a bocca di lupo e i panni stesi fuori che segnavano una presenza umana altrimenti invisibile.
Qualche anno ancora e poi sarei entrato lì dentro, in occasione della pasqua in carcere.
Era il 1961 e, da poco, avevo manifestato ai miei la decisione di interrompere gli studi universitari ed entrare in seminario. Mio padre mi inserì nell'elenco dei volontari per assistere alla messa del precetto pasquale. Ricordo solo parte della cappella, come una fotografia. Le facce assiepate dei detenuti, se ben ricordo, ancora con la tradizionale divisa. E, ben individuabile per la caratteristica fisionomia, il famoso trombettista americano Chet Baker, arrestato mesi prima per uso di droga. Chet rimase in carcere poco più di un anno e le cronache nazionali si occuparono del suo caso anche se allora il vento della contestazione che cominciava a soffiare forte prevalse nelle descrizioni della vita notturna della Versilia e della Bussola, il locale più famoso in cui Chet si esibiva nei suoi concerti in Italia. Per anni è rimasta a Lucca la traccia di quel trombettista carcerato, cultore di un jazz raffinato e melanconico che aveva avuto il permesso di esercitarsi per due volte il giorno in cella con la tromba. E dei gruppetti di giovani, sempre più numerosi, che si davano appuntamento sulle Mura, proprio lì davanti al carcere e ascoltavano in silenzio le note che si liberavano oltre le sbarre.
Un tempo in cui ancora nel carcere di Lucca fervevano lavori di ogni tipo, dal restauro dei mobili alla conciatura delle pelli e alla sartoria. Un mondo in movimento che, nell'antico stabile delle monache di una famiglia domenicana, comunicava con il vecchio quartiere lucchese di Pelleria, con le strette strade animate da botteghe artigiane, dal fabbro al falegname, al rilegatore di libri e al restauratore di antiche stampe.
Quando con Beppone entrai - quasi 50 anni dopo - di nuovo in S. Giorgio, quel mondo non esisteva più. Cancellato da normative - giustissime per altro - di sicurezza degli ambienti di lavoro e da regolamenti che non facevano distinzione né degli scopi sociali, né del volume di lavoro di laboratori nati per dare dignità e normalità a un tempo altrimenti perduto.
Luigi

A scuola di pazienza

La prima cosa che dovetti imparare fu la pazienza. Una pazienza a tutto tondo perché ogni movimento era preceduto da attese di durata variabile difficilmente prevedibile. E tante porte per me rimasero chiuse per alcuni mesi. Anzi, all'inizio e per settimane, solo due porte si aprirono: il portone di ingresso che mi metteva di fronte al piantone che presidiava all'area "esterna". E la porta del "magazzino", sempre in area esterna. Uno stanzone neppure troppo grande in cui venivano ammucchiate cose eterogenee, da divise degli agenti avanzate a per lo più ormai inutili grossi registri di una documentazione obsoleta, agli indumenti per i detenuti che venivano confezionati in sacchetti con spillato il contenuto che doveva corrispondere e mai eccedere il contenuto della "domandina" scritta che regolava ogni atto, ogni richiesta, ogni cosa che mettesse in relazione il detenuto con l'organizzazione penitenziaria e che veniva documentata per iscritto su moduli che si ammonticchiavano via via e costituivano la traccia di una vita che si perdeva in scatoloni a loro volta ammassati in "soffitte", vere e proprie catacombe destinate a macerarne i resti. Ancora oggi Tilde, con l'aiuto di volontarie della Caritas, dietro l'impulso di Beppone, continua a preparare sacchetti per uomini di cui si conosce il nome, ma si ignora il volto, l'aspetto fisico, e di cui si sanno solo le misure approssimative dei pantaloni, del collo della camicia, delle scarpe... E venne anche per me la prima volta in cui fui ammesso nella parte "interna" di S. Giorgio. Il cellulare spento e consegnato, il coltellino che abitualmente porto in tasca con non più di 4 dita di lama messo accanto, la carta di identità aperta, mentre l'agente addetto scriveva in un grande registro i miei dati personali, l'ora e il motivo del mio ingresso. Poi una porta aperta con la grossa chiave e subito dopo il cancello che si apriva una volta che la porta si chiudeva alle spalle...
Ciò che mi colpì fin dall'inizio non fu tanto la varia umanità che vi incontrai, dai detenuti dei tre bracci agli agenti, al personale sanitario e amministrativo (organico di lavoratori sempre a corto di risorse tra cui, come in ogni altro posto di lavoro, si potevano incontrare gente che aveva sbagliato mestiere, onesti lavoratori per riscuotere uno stipendio, ma anche persone dalla carattura professionale e umana di fronte a cui veniva da togliersi il cappello...) che lavora in uffici ricavati in locali costruiti per tutt'altro e raggiungibili tramite un dedalo di scale di pochi gradini che rendono il tracciato incomprensibile e misterioso nello stesso tempo come le quinte di un teatro che si aprono all'improvviso svelando la presenza di personaggi diversi accumunati da enormi registri.
Ciò che mi colpì fu la desolazione di ambienti TRISTI. Muri scrostati, pareti da cui cola un umidore che impasta i diversi strati di tinteggiatura aggiunti nel tempo... Pulito in terra, perché lo scopino è uno dei pochi lavori interni riconosciuti e retribuiti.... ma anche dove una parete viene rinfrescata, rimane fredda e anonima. E tanto silenzio... rotto talvolta da qualche richiamo a voce alta, da un lato all'altro del grande chiostro. Forse per questo la protesta degli oggetti metallici battuti ritmicamente sulle sbarre ha un impatto così violento.
L.

Don Beppe Giordano: un nuovo metodo di ascolto

dei detenuti e degli operatori

Nei pochi anni di Beppone cappellano accaddero cose diverse che restituirono un po' di vita alla quotidianeità del carcere. Un clima generale con spinte e controspinte che scuotevano la struttura carceraria, tra inchieste, richieste, scandali, denunce, riempiendo le celle oltre ogni limite di sopportabilità fino anche a richiamare l'attenzione della Corte Europea che più volte ha condannato la paralisi italiana di una giustizia cui si richiede sempre più l'impossibile: farsi carico degli effetti della sempre più crescente disuguaglianza tra i cittadini per garantire una parvenza di uguaglianza di fronte alla legge. L'ingresso di figure nuove nell'organigramma del S. Giorgio per pensionamento e trasferimento, che resero possibile un freno alla tendenza di anni prima per cui per ogni iniziativa specifica di "trattamento" verso una vita recuperata, ci si arrendeva subito di fronte alle difficoltà burocratiche ed economiche e la parola d'ordine mai pronunciata, ma di fatto dominante era - ironia della sorte! - "chiudere".
Un'aria nuova nel vecchio carcere di S. Giorgio quella che vi portò Beppone, con una presenza assidua che andava ben oltre le 18 ore settimanali come da cartellino da "timbrare". Dopo qualche attimo di riflessione aveva deciso di entrare nell'organico in qualità di cappellano. Prendeva per quel orario poco più di 400 euro, perché il cappellano di un carcere non è come quelli dell'esercito e delle forze dell'ordine. Non assume gradi e stellette. Solo l'onere di una presenza costante. A disposizione. E Beppone era ben presente nel carcere; per tutti.
Il direttore si espresse più volte, nei suoi confronti, in termini caldi e riconoscenti:
"Ha lasciato un nuovo metodo di ascolto e di approccio nei confronti sia dei detenuti che degli operatori. Io personalmente lo rammento come fosse ancora vivo e mi rammarico di non averlo mai abbracciato" a parlare è Francesco Ruello direttore del carcere di San Giorgio: nelle sue parole il ricordo di Don Giuseppe Giordano parroco di San Pietro a Vico dal 1984, per quattro anni cappellano del carcere, morto il 21 febbraio 2013.
Avrebbe compiuto 71 anni il prossimo 24 marzo, don Beppe, parroco per vocazione, da sempre vicino agli 'ultimi della vita' per indole personale, e domani verrà ricordato alla casa di accoglienza San Francesco recentemente insediata in via del Ponte proprio a San Pietro a Vico.
L'appuntamento è per le 18: nell'occasione sarà dedicata a Don Beppe la sala degli incontri con l'apposizione di una targa. Una scelta non a caso, visto che il parroco non mancava mai di sottolineare l'importanza del fattore 'umano' nella vita di un detenuto, lui, che cedeva gran parte del proprio 'stipendio' ai reclusi soli e senza famiglia 'per evitare che si prostituiscano per del sapone, dentifricio, o un pacchetto di sigarette: è una questione di dignità dell'essere umano" diceva.
E il mondo del carcere lo conosceva bene Don Beppe: "Sono figlio del primario del manicomio e so cosa vuol dire il mondo ristretto dei 'richiusi'. Tutti i mondi chiusi, per ragioni psichiatriche o giudiziarie, hanno le loro caratteristiche e bisogna imparare a tenerle sempre presenti" ci aveva raccontato in un'intervista rilasciata dopo mille reticenze. Una chiacchierata nella penombra di una stanza 'piena di cose', durante la quale aveva sottolineato l'importanza del lavoro per un detenuto, la necessità di scandire il tempo, di occupare le mani. Poi la solitudine in celle sovraffollate e l'assurdo business delle nuove costruzioni paventate mille volte a Lucca ma mai veramente volute: "Un carcere nuovo è una bella cosa soprattutto per chi lo fa e per chi lo commissiona" aveva detto.

(Brunella Menchini in Lo Schermo 23 marzo 2014).

Ed ecco il testo integrale dell'intervista sopra citata:

Il carcere di Lucca torna alla ribalta della cronaca a scadenze regolari per incidenti più o meno gravi: per qualche giorno si rincorrono gli appelli contro il sovraffollamento, annunci semiseri di costruzioni imminenti di nuovi istituti, visite dei politici. Poi più niente. Giuseppe Giordano, da tre anni cappellano del carcere, ci accompagna in un viaggio immaginario attraverso le celle con esempi singoli e storie di detenuti mostrandoci la reclusione attraverso gli occhi di chi la subisce. Un ragionare umano, mai retorico e di non semplice divulgazione perché non fa leva sull'istinto che impone di rispondere a chi delinque con la stessa moneta. Uno sguardo attento e pratico dentro una realtà che tanto spesso, nel parlare comune, assolve la funzione dell'angolo del tappeto sotto cui nascondere la spazzatura.
Qual è il primo problema del carcere di Lucca?
"I problemi grossi sono due, lo spazio ed il lavoro".
Partiamo dallo spazio
"Il carcere di San Giorgio è sovraffollato. Ospita circa il doppio delle persone che potrebbe contenere. E non crediamo ai bei discorsi che si sentono che la popolazione carceraria è composta in massima parte da extracomunitari, gli italiani non sono in numero minore. Un quarto circa dei detenuti, poi, sono in attesa di giudizio.
E' noto che l'edificio era in origine un antico convento di suore dominicane. E' una struttura che risale al '600. La parte vecchia del convento è migliore perché ha celle piccole ma grandi corridoi, mentre la parte ricavata dagli altri edifici, la così detta terza sezione è in condizioni pessime.
Le sezioni sono tre: in prima e in seconda sezione, essendo un carcere a custodia attenuata, c'è la possibilità di chiudere i corridoi e lasciare aperte le celle, questo è un bene perché esiste un minimo di socializzazione, cosa che non sarebbe possibile in un istituto di nuova costruzione".
Quindi non c'è bisogno di un nuovo carcere a Lucca?
"Un carcere nuovo è una bella cosa soprattutto per chi lo fa e per chi lo commissiona, per tutto il giro di soldi che c'è dietro. Sicuramente non per i detenuti.
I nuovi carceri vengono costruiti con criteri che non sono più legati al territorio quindi ospitano detenuti di qualsiasi genere. La struttura è modulo, con diversi bracci, ogni braccio una sezione: sezione massima sicurezza, sezione pedofili, sezione con tipologie particolarissime di reato. Tanti carceri in uno, ognuno con le proprie caratteristiche.
Le stessa guardie che vanno da uno all'atro settore, non hanno mai un target di contatto con le persone e quindi incupiscono e induriscono con tutti.
Tutti i bracci, poi, convergono in una piazzola dove c'è una guardia in un gabbiotto di vetro anti proiettile che monitorizza corridoi e celle con le videocamere. C'è un enorme perdita di rapporti umani. Una totale disumanizzazione.
E' una cosa abbastanza triste: con meno spesa si potrebbero migliorare le strutture vecchie senza perderne i pregi.
Non dimentichiamoci poi che la casa circondariale di San Giorgio era nata per le esigenze del territorio, destinata, quindi, ad ospitare gli autori di reati così detti minori. Questo non sarebbe valido per un nuovo carcere, che verrebbe ad accogliere malviventi di ogni genere, con tutto quello che ne consegue. Non so quanto questa cosa possa piacere ai lucchesi".
Il secondo problema, dicevamo, è il lavoro
"Si, manca il lavoro. Il carcere ha due direttive, una è la sorveglianza e l'altra è il trattamento e dovrebbero camminare insieme almeno finchè parliamo della detenzione non come vendetta ma come un tentativo di riabilitazione. Ma come si fa a riabilitare se non si fa lavorare?
Il carcere, come ogni altro edificio, è caduto sotto l'egida di gente che è venuta a fare i controlli ed ha esercitato, secondo la legge, il proprio potere. E' stata chiusa la parte femminile, per le finestre non a norma (parte tutt'ora completamente vuota perché non hanno mai avuto i soldi per restaurarla), poi è toccato ai vari laboratori.
Una volta c'era la falegnameria, l'officina, tante cose. Poi li' mancava l'altezza, la' mancava l'areazione e sono stati tutti chiusi dalle Asl o dall'ispettorato del lavoro".
Com'è la giornata media di un detenuto?
"Il tempo è scandito dai pasti: intorno alle 8 passa la colazione, alle 9 c'è l'ora d'aria su due turni, fino alle 11. Alle 11 c'è la conta e si chiudono le sezioni. Le celle rimangono poi aperte per il mangiare fino alle 3. Poi dalle 3 alle 5 le due turnazioni d'aria e infine, la cena. Il momento di lavoro si collocherebbe nel pomeriggio. Ci sono tante possibilità anche lavori minimi: una volta impagliavano le sedie. Adesso non c'è un'attività".
Droga?
"C'è il Sert interno. Tutte le mattina si vedono filate di gente che aspetta il metadone. Perché essere tossico è una fortuna. Se uno è tossico al 'trattamento' ha più possibilità. Per questo si dichiarano tutti tossici e mirano ad avere un programma Sert. Ad esempio se sei condannato ma tossicodipendente, puoi stare a casa. Se ce l'hai una casa, ovviamente".
E qui entriamo nel terreno brullo di chi è solo o di chi è abbandonato dalla famiglia:
"Chi non ha nessuno è solo. Prendiamo il problema dei piccoli bisogni personali. In carcere, oltre alla spesa, non entra niente da fuori. Sapone, dentifricio, sigarette: senza soldi non si comprano. Quelli che non hanno nessuno, come fanno? Ne fanno a meno. Questa è gente che non ha un euro in tasca: molti non hanno la possibilità di comprarsi un pacchetto di caffè. E' una questione di dignità dell'essere umano. Non è una cosa di poco conto".
Poi ci sono i clandestini
"Già i clandestini. Grazie alla legge che aveva dichiarato la clandestinità un reato il carcere si era riempito. Mettevano fuori qualcuno, si scommetteva: quanto? Entro 20 giorni torna. E tornava. Un anno e due mesi di pena. E come ne usciva? Come era entrato. Bello preciso. Questa gente avrebbe bisogno di una mediazione culturale c'è un servizio fatto da volontari ma è sempre un po' zoppicante. In alcuni casi sono veramente necessari perché ci si trova con dei conflitti anche con la famiglia esterna che non è facile gestire: non si può parlare solo con il detenuto, bisogna cercare anche il rapporto con chi è fuori".
Carcere e violenza: un binomio inscindibile?
"Il mondo del carcere è un mondo violento, c'è poco da fare. Ma contrariamente a quello che siamo portati a pensare tra le guardie ed i detenuti non c'è un rapporto violento: certo ci sono momenti in cui bisogna intervenire ma non è la regola.
Due anni fa ci fu una protesta grossa, una lotta fra marocchini e albanesi: la sera battevano sulle sbarre ma ultimamente la situazione è tranquilla. Ogni tanto c'è qualche matto che sbotta ma niente di che.
Dobbiamo tener presente che molti di loro vengono da posti dove prevalere con la forza è l'unico valore. Ci sono culture, come quella latino americana dove la violenza è affermazione, l'uomo vale perché 'mena'. Di fronte a queste cose il lavoro culturale si fa con grandissima difficoltà. In carcere, poi, c'è anche tanta gente con problemi psichici che non ha patologie tali da poterla mettere in ospedali psichiatrici giudiziari: persone border line, con stati depressivi, altri con eccitazione costante. Personalità schizoidi o paranoiche".
Qual è la funzione del cappellano del carcere?
"La funzione del cappellano è piuttosto strana perché non appartiene a nessun ramo ne' del trattamento ne' della sorveglianza. In fondo dovrei occuparmi dei cattolici e ci sono dei carceri dove il cappellano è costretto a questo. Io per fortuna posso parlare con tutti e cerco di tenere con tutti un rapporto".
"Io sono stato fortunato - conclude don Beppe - perché sono figlio del primario del manicomio e so cosa vuol dire il mondo ristretto dei 'richiusi'. Tutti i mondi chiusi, per ragioni psichiatriche o giudiziarie, hanno le loro caratteristiche e bisogna imparare a tenerle sempre presenti".
(Brunella Menchini in Lo Schermo 15 marzo 2012)

...dalle stalle alle stelle!

Quando, lunedì 7 gennaio 2013 (certe date mi sono rimaste come "incollate" addosso...) arrivai da Viareggio a S. Giorgio, entrai in carcere da solo senza sapere ancora che non sarei mai più entrato dietro Beppone che avevo lasciato in ospedale a Lucca. Iniziò per me una lunga corsa che ancora mi spinge avanti in maniera compulsiva e di cui non sono ancora riuscito a cogliere il motivo, anche se l'andamento è assai meno frenetico e, poco per volta, sono riuscito ad accettare a tratti di camminare in compagnia. Ma allora ricordo solo la corsa, l'affanno, la solitudine... Non so ancora come e cosa mi fece sopravvivere. Del carcere avevo le coordinate di Beppone, ma il mio tempo disponibile era tanto di meno. Non avevo cartellini da timbrare, ma - come cappellano volontario - tante cose da fare. All'inizio il direttore sperava che il vescovo mandasse un prete a disposizione del carcere come Beppe. Poi si dovette accontentare di me e delle tre mattine che potevo mettere a disposizione. Cercavo di reggere la mattina del lunedì (la mattina della "messa domenicale") la spinta dei detenuti che con mille scuse passavano dalla chiesa per avere qualcosa. Volevo continuare a mantenere una sottilissima linea di demarcazione tra un atto gratuito per tutti, un incontro da cui non passava una sigaretta e neppure un francobollo. Mi pareva importante che in un luogo dove tutto si poteva scambiare ci fosse qualcosa di infinitamente piccolo cui affidare la parola "gratis". Le altre due mattine cercavo di rendere possibili la maggior parte di colloqui possibile. Anche se questo mi caricava di cose da fare una volta fuori dal carcere (avvocati, familiari, pratiche, cose da procurare all'interno di ciò che poteva essere permesso dal vaglio del comando...).
Ci sono state mattine in cui nel breve tratto a piedi dal park gratuito al cimitero di Lucca al carcere dentro le mura (che tragitto gioioso...), avrei voluto gettare la spugna. Non so come ho retto. Finché un giorno una felice, inaspettata sorpresa!
Mi telefona un giovane prete, parroco vicino Lucca, che mi dice di aver avuto da un comune amico la dritta di sentirmi, avendo lui desiderio di aggiungere alla dimensione della parrocchia anche un servizio in altra realtà del mondo laico. Ho accolto - e ancora non ci credo! - la sua sincera e immediata disponibilità. Abbiamo iniziato le pratiche per il permesso di entrare in carcere come volontario, atteso un paio di mesi e, infine, ha iniziato ad accompagnarmi "dentro", assistendo ai miei colloqui come avevo fatto io con Beppone. Quindi è arrivato il momento in cui lui si è seduto alla guida e io ho fatto il "navigatore".
E ora è lui, Simone, ormai da tre anni cappellano del carcere di Lucca. Fa metà tempo e cioé 9 ore di servizio alla settimana (ora è permesso), ma è presente e ben inserito in una realtà che si è ancora più aperta al territorio.

Luigi

L'incontro con volti "altri" segnati dalla nostra

stessa "superbia di sè"

L'esperienza quotidiana del carcere mette in contatto con un'umanità molto più vicina alla nostra di quanto si possa pensare. Nascere in una famiglia piuttosto che in un'altra (cose che non scegliamo), in un ambiente culturale rispetto ad un altro, in un paese povero, ti mettono già in una posizione precisa alla "partenza" della vita.
Tu ricevi un'educazione in cui certi comportamenti (reati) sono normali stili di vita, e a volte non hai nemmeno scelta e ci dovrai mettere un bel po', ammesso tu ci riesca, a vedere la vita in un'altra prospettiva, assumendo nuovi valori e rifiutando i dis-valori..
In questo percorso, apparentemente in modo paradossale, a volte si inserisce il carcere.
Per una persona che corre come un treno su determinati binari, senza essere mai sceso e credendo che quella sia l'unica linea di viaggio che esista, a volte il carcere diventa una fortuna; un incidente di percorso, che ha fermato il treno e ti ha costretto a scendere, una possibilità.
Tutti sappiamo, almeno dal dibattito civile, che il carcere così come è concepito come realtà detentiva e poco rieducativa è, non solo incostituzionale, ma superato.
Non svolge cioè quel ruolo di riabilitazione umana, come si fa negli ospedali per chi esce da un grave incidente e deve di nuovo, ad esempio, imparare a camminare. Ri-abilitazione, cioè recuperare o addirittura scoprire per la prima volta, di avere delle "abilità" umane, relazionali, sociali, rispetto alle abilità furtive.. o di altro genere apprese fino a qual momento.
La mia esperienza in carcere, avuta in "dote" come cappellano dai miei predecessori, don Beppe Giordano e don Luigi Sonnenfeld, e li ringrazio per questo.. mi dice che la sfida è cercare di accompagnare le persone che finiscono in carcere, in un possibile cammino di riabilitazione umana e spirituale.
Certamente è necessaria la collaborazione e la volontà degli interessati, ma per fortuna in questi quattro anni, ho incontrato individui che, quantomeno, si sono concessi la possibilità di pensare e sognare una vita diversa.
Persone che in carcere hanno iniziato a scrivere, altre a leggere imparando a nutrire l'anima, altre a pregare con semplicità cercando al forza per ripensare le proprie scelte. Certo, molti altri vivono il carcere per quello che è, un parcheggio in attesa di tornare a fare la vita di sempre, per poi magari tornare di nuovo dentro.
Ricordo che la prima cosa che mi colpì del carcere fu, non il rumore delle chiavi o le sbarre, ma il cortile del passeggio, quello che si vede spesso anche nei film, che mi diede la sensazione della libertà persa, questo camminare reclusi.
Dove per tutti noi fare una passeggiata è libertà e a volte "evasione" dagli impegni quotidiani, li è misurazione a lenti passi del limite imposto, ogni giorno.
Inoltre c'è la realtà interculturale e religiosa, per via della presenza di molti detenuti extracomunitari, molti dei quali di religione musulmana. A questi ultimi non è facile proporre un percorso riabilitativo, perché tendono a isolarsi e a stare tra loro e chi di essi si stacca dal branco non è ben visto dagli altri.
Ma a volte ci sono piccoli segnali incoraggianti, ad esempio dopo gli attentati a Parigi dello scorso anno, un giovane detenuto musulmano venne con coraggio alla messa per chiedere scusa di quanto era accaduto e ci fu un dialogo bello con gli altri detenuti presenti all'eucarestia.
Una cosa importante sono le attività di volontariato, attraverso le quali si cerca di favorire la scoperta di sé, la riflessione sull'origine dei propri comportamenti, il confronto con la Parola di Dio capace di illuminare l'esistenza.
A proposito, l'apostolo Matteo oggi rientrerebbe in una categoria criminosa, in quanto appartenente al gruppo dei pubblicani (spesso corrotti riscossori delle tasse per conto dei Romani, considerati dal resto del popolo ladri) eppure Gesù lo ha chiamato fra i dodici (anche Zaccheo era un pubblicano, addirittura il capo):
Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». (Matteo 9,9-13)

Mangiare con pubblicani e peccatori.. forse è possibile anche per noi, solo se riconosciamo il crimine che è in ciascuno di noi, che è il peccato che abita il cuore dell'uomo: la superbia.
Abbiate pazienza, desidero condividere con voi su questo, una parte di un interessante articolo di Massimo Recalcati:

"Al posto del culto di Dio avviene il culto del proprio Io assimilato alla potenza di Dio. Non è forse questo il peccato principe del nostro tempo? Egocrazia, Iocrazia afferma Lacan. L'ordine della creazione viene capovolto: l'uomo compete con Dio - come figura radicale dell'alterità - negando il suo debito simbolico. Farsi un nome da sé senza passare dall'Altro è la cifra più delirante del nostro tempo. Il culto superbo di se stessi implica, infatti, il disprezzo cinico per l'altro. La vita umana smarrisce ogni senso di solidarietà per dedicarsi a senso unico al potenziamento di se stessa. Per questa ragione Lacan ha associato al culto narcisistico per se stessi la tentazione suicidaria e la pulsione aggressiva come due facce di una sola medaglia. Il superbo può essere facilmente preda dell'ira perché il suo bisogno di attaccare l'Altro coincide con il suo rifiuto di ogni esperienza del limite. Il superbo come l' iracondo si considera sempre dalla parte del giusto. La sua esaltazione di se stesso mostra una totale assenza di autocritica che può sfociare facilmente nella paranoia e nella megalomania. Il superbo è esente da critica perché è sempre innocente e ingiustamente perseguitato, allontanato, emarginato, escluso. La colpa è sempre degli altri che non riconoscono mai appieno il suo valore assoluto. Non è un caso che la clinica psicoanalitica abbia individuato - in linea qui con la grande saggezza buddista - nell'eccessivo attaccamento al proprio Io il denominatore comune delle malattie mentali. Ma, al tempo stesso, la vita del superbo è una vita triste perché egli si trova nell'impossibilità di entrare in relazione con un Altro che disprezza supremamente. Il suo destino non può che essere quello del più acuto isolamento".

Ecco, il lavoro in carcere è l'incontro con volti altri, segnati come noi da questa superbia.
Penso che Lotta con Amore, in questo caso, si possa declinare come guarire insieme, camminando insieme, per uscire dal cortile del nostro Io, imparando quella solidarietà che è possibilità di liberazione della nostra umanità.
In carcere, come fuori, penso che il lavoro sia lo stesso.

Allora entrare in contatto col carcere, per la società civile, è il riconoscimento che non basta il "sacrificio" (la pena), ma la misericordia (percorsi rieducativi) "Misericordia io voglio e non sacrificio", la strada per la scoperta di una vita gioiosa, capace di trovare nuove strade, scelte altre..
Nella possibilità di un vero possibile riscatto.
Aiutando al contempo le persone che hanno commesso reati a rendersi conto del male che hanno inflitto agli altri, pensare quindi strade per una "giustizia riparativa": per quanto possibile "riparare" il male compiuto.
Come Zaccheo, il pubblicano, che decise di riparare restituendo a chi aveva rubato anche più del dovuto, facendo frutti degni di conversione:
<Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand'ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch'egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».>
(Lc. 19,5-10).


don Simone Giuli

La mia uscita dal carcere

Una volta che Simone ebbe l'incarico dal vescovo e fu accettato dal direttore, si concluse il mio "servizio" nel carcere di Lucca.
Conclusi con un progetto, un mio progetto, l'unico che sia riuscito a presentare nei mesi precedenti e che riuscii a portare a termine. Proposi a una decina di detenuti di lavorare in gruppo sulla nascita/uscita dal carcere. Per dare concretezza a questo itinerario, posi come scopo del lavoro l'incontro con un gruppo di disabili, cioè dar loro un motivo per uscire dal Centro in cui passavano le giornate ("loro", nel loro corpo e nella loro mente, sono in un "carcere" dal quale non possono uscire mai). Inoltre poiché facevano bei lavori di cucito proposi ai detenuti che parteciparono di scrivere su stoffe una parola che esprimesse il loro pensiero sempre incentrato sul tema nascere/uscire. Alla fine sarebbero stati i disabili a cucire i diversi pezzi di stoffa insieme ai loro che rispondevano così alle "provocazioni" che giungevano dal carcere. Venne fuori un arazzo di notevoli dimensioni e davvero un bel colpo d'occhio. Lo portarono i disabili venuti dalla Versilia in pulmino a Lucca. E fu presentato a due voci, dagli autori e dai disabili intervenuti, di fronte a un gruppo di detenuti. Furono fatte osservazioni e commenti caldi e spontanei. Ad un certo punto il gruppetto di detenuti che faceva musica si è messo a suonare un ballabile e sembrò che tutti, ospiti e detenuti, operatori non aspettassero altro. Nel teatrino del carcere si ballò a lungo e fin dall'inizio ci si rese conto che tra noi mancavano le guardie. Gli agenti ci avevano lasciati incredibilmente soli... Anche per loro nascere/uscire descriveva la possibile libertà nella vita carceraria. Con Simone comunque, come ultimo atto insieme, partecipammo nell'ottobre del 2013 al Convegno nazionale dei Cappellani delle carceri a Roma. Erano anni che mancava questo incontro, occasione di approfondimento e di scambio tra esperienze e modalità diverse di rispondere alle sollecitazioni della detenzione e delle problematiche conseguenti. Furono fondamentali in quel Convegno le testimonianze dirette dei familiari protagonisti di percorsi di quella che viene definita "giustizia riparativa". Una giustizia che non termina con la condanna definitiva del colpevole, "giustizia è fatta" secondo il rituale del tribunale. Ma comincia proprio là dove si definiscono secondo la legge i ruoli rispettivamente della vittima e del colpevole. E della ricerca di una, sia pur parziale, riparazione da parte del colpevole nei confronti della vittima, attraverso un cambiamento di vita che evidenzia il pentimento che si esprime in atti concreti di segno opposto rispetto a quanto agito nella azione delittuosa. L'ultimo giorno del Convegno si aprì la possibilità di un incontro particolare del gruppo dei cappellani con Papa Francesco. Rimanemmo mezz'ora con lui che volle scambiare poche affabili parole con ciascuno di noi. Nell'indirizzo di saluto il nostro coordinatore espresse il desiderio che il papa sostenesse pubblicamente il percorso di "giustizia riparativa" come segno di misericordia e di perdono tale da mettere in questione la pratica carceraria come risposta al desiderio di vendetta che azioni odiose provocano nell'animo umano. Nella breve risposta Francesco - realisticamente è bene dirlo - descrisse questo nostro desiderio come utopico e davvero da sogno. Vidi la stanchezza di un uomo provato anche dall'età, e avrei voluto amichevolmente prenderlo sottobraccio e ricordandogli i suoi interventi a favore dell'accoglienza e delle misure umane nei confronti dei migranti, avrei voluto dirgli: "Francesco, non ti sembra che - giocando con le parole - cencio dica male di straccio?".
Queste due esperienze mi hanno accompagnato nei mesi seguenti e hanno costituito per me fonte di riflessione e di confronto con l'idea stessa di carcere e carcerazione. Con questo non voglio dire che tutto ciò che viene fatto da uomini e donne che cercano attraverso di umanizzare le strutture carcerarie, non serva a niente. Tutt'altro. La realtà del carcere è attraversata da tanti che ci lavorano e portano la loro umanità nell'azione professionale e quelli che offrono la loro disponibilità e il loro tempo perché il carcere non sia solo detenzione e privazione della libertà, ma anche, nella misura possibile, occasione di incontro, di riflessione e di cambiamento nell'atteggiamento di fronte alla società, agli altri, a se stessi per persone che hanno compiuto azioni dis-umane.
Ma occorre chiedersi se "non ci appare stupefacente che in tanti secoli l'umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita a immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?" (G. Zagrebelsky).
Luigi

Abolire il carcere. Una ragionevole proposta

per la sicurezza dei cittadini

La citazione di Gustavo Zagrebelsky è stata ricavata dall'ultima di copertina di un libro a più mani (Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderoni, Federico Resta) con la postfazione del suddetto studioso. Ed è a questo libro e al suo contenuto militante che voglio dedicare l'ultima parte del giornalino.
Nella seconda di copertina è descritto il motivo che ha portato a questa pubblicazione a più mani e il cui titolo ho ripreso poco sopra, edito nell'aprile 2015 da Chiarelettere editore srl, via Guerrazzi, 9 - Milano:
< (riferendosi al titolo) Non è una provocazione. Nel 1978 il parlamento italiano votò la legge per l'abolizione dei manicomi dopo anni di denunce della loro disumanità. Ora dobbiamo abolire le carceri, che, come dimostra questo libro, servono solo a riprodurre crimini e criminali e tradiscono i principi fondamentali della nostra Costituzione.
Tutti i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l'area del carcere (solo il 24% dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l'82%). Nel nostro paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere è per tutti, in teoria. Ma non serve a nessuno, in pratica. I numeri parlano chiaro: la percentuale di recidiva è altissima.
E dunque? La verità è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha idea di che cosa sia una prigione. Per questo la invoca, ma per gli altri.
La detenzione in strutture in genere fatiscenti e sovraffollate deve essere quindi abolita e sostituita da misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi (solo una piccola quota dei detenuti) quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disatteso.
Il libro indica Dieci proposte, già oggi attuabili, per provare a diventare un paese civile e lasciarci alle spalle decenni di illegalità, violenze e morti.>

Le inutili galere e le possibili alternative

"Un comune cittadino, con un percorso di vita ordinato, una persona cioè che mai ha travalicato il limite della legalità, quale trattamento dovrebbe pretendere per chi, a differenza sua, ha commesso reati? Proviamo a partire da quelli che potrebbero essere le emozioni e i sentimenti più immediati provati da questo ipotetico cittadino nei confronti del suo <opposto sociale>.
La tentazione forcaiola, manettara, quella del 'chiudiamolo dentro e buttiamo la chiave' è comprensibilmente umana. In altri contesti e in altre epoche, infatti, compito dei
governi e della politica sarebbe quello di promuovere l'educazione della parte giustizialista che è in ognuno di noi, informarla, placarla, contenerla e renderla marginale. Negli ultimi anni, invece, assistiamo al comportamento contrario: il cittadino <incluso> viene fatto sentire via via più insicuro, assediato, in pericolo, e nonostante questa insicurezza non sia reale (a partire dagli anni Novanta la criminalità ha fatto registrare una netta e continua diminuzione sia dei reati contro il patrimonio sia degli omicidi - cfr. Rapporto Bes 2013, capitolo 7 "Sicurezza" http://www.istat.it/files/2013/03/7_Sicurezza.pdf), nei discorsi pubblici si utilizzano aspri toni vendicativi e molte competizioni elettorali si giocano e vengono vinte su promesse quali tolleranza zero, condanne esemplari, certezza della pena.
Ma cosa c'è di sbagliato in questa spirale crescente di domanda e offerta carceraria?
La risposta è davvero semplice: il carcere non funziona". (o. cit. pag. 52 e s.)
Non vi sono molti dati da consultare, anzi. Ma lavorando su alcuni numeri si hanno indicazioni univoche. Tra coloro che vengono scarcerati in fine pena, scopriamo che, in una indagine parziale svolta nel 1998, quasi sette condannati su dieci commettono nuovi reati. Mentre, tra coloro che sono sottoposti a misure alternative al carcere la recidività scende a due su dieci. Qualcosa vorrà pure dire per dare ragione di una differenza così elevata!
Durante le lunghe ore di carcerazione in cella, l'argomento più gettonato è la descrizione delle proprie "gesta" alla ricerca dei punti deboli, dei difetti da cercare di eliminare in successivi tentativi da realizzare una volta "fuori". Ricordo un giovane detenuto dell'Est europeo che mi diceva candidamente che nella sua famiglia solo il padre lavorava, mentre fratelli, cugini e parenti erano tutti ladri di professione e che una volta uscito avrebbe ripreso a rubare forse in un altro paese dove - per sentito dire - le leggi non erano così dure come da noi (sic!).
Inoltre, nello specifico delle Case Circondariali come quella di Lucca, convivono insieme detenuti in attesa di giudizio e detenuti giudicati. Questo mette insieme due tipologie di detenzione che hanno reazioni diverse nei confronti del loro comune stato di vita. I detenuti in attesa di giudizio, infatti, sono sotto l'influenza degli avvocati e dei familiari che, di solito, cercano nei colloqui di alleggerire la posizione del recluso dandogli motivi di speranza sia per affetto che per motivi professionali. E ciò impedisce o almeno rallenta la presa di coscienza personale delle proprie responsabilità. Poiché spesso la detenzione prima del giudizio si prolunga per mesi, il detenuto difficilmente si mette in questione. Se c'è qualche possibilità che la reclusione induca un ripensamento è una volta che il detenuto può cominciare a contare i giorni che lo separano dalla liberazione. Ma anche qui, la lentezza dell'apparato nel determinare i cumuli di pena per altri reati o accessori allo stesso reato per cui si è condannati, non facilitano questo percorso in cui "si rientra in se stessi".
Un'altra ricerca che conferma la "inutilità" del carcere è quella di Giovanni Torrente della università di Torino per conto della associazione A Buon Diritto. (o. cit. pag. 56):
Lo studio ha mosso le sue ipotesi iniziali partendo dall'idea che il 'panico' percepito dopo l'approvazione dell'indulto (legge 31 luglio 2006) non fosse in realtà supportato da dati oggettivi. Per andare alla ricerca di evidenze scientifiche, quindi. Torrente ha condotto un monitoraggio in varie fasi per contare quanti dei beneficiari dell'indulto avessero fatto ritorno in carcere. Le rilevazioni sono state fatte a 6, 17, 26, 35, 38 e 60 mesi e i risultati dicono che dopo cinque anni dall'entrata in vigore del provvedimento di clemenza è tornato in carcere il 33,92% dei beneficiari; la recidiva, quindi, è stata poco più della metà di quella registrata dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria in riferimento a chi sconta interamente la pena in carcere (vedi indagine del 1998 appena sopra), l'incremento mensile dei recidivi diminuisce con il passare del tempo, confermando che i mesi immediatamente successivi alla scarcerazione sono quelli in cui il rischio di delinquere nuovamente è più alto; gli italiani sono più recidivi degli stranieri (38,11% contro 25,36%); chi ha beneficiato dell'indulto in misura alternativa ha un tasso di recidiva molto inferiore rispetto a chi era detenuto in carcere (21,97% contro 31,15%).

...

Nonostante la sua intollerabilità, il carcere è ancora oggi l'istituzione principale del sistema penale, non solo in Italia. Ma non in tutti gli ordinamenti la reclusione ha l'indiscussa centralità che ha da noi. Si pensi, ad esempio, che se in Italia l'82,6% dei condannati sconta la pena in carcere, in Francia e Gran Bretagna la percentuale scende al 24% e che uno degli indici di recidiva più basso d'Europa (30-40% nei primi tre anni) è ottenuto in Svezia, soprattutto attraverso il lavoro all'esterno e con pene non carcerarie. In Gran Bretagna e in alcuni Stati americani le attività rieducative sono state recentemente valorizzate attraverso i social impact bond, ovvero progetti d'investimento sociolavorativo dei detenuti, con una remunerazione del capitale di rischio proporzionale al perseguimento del fine del reinserimento sociale (ne è derivata una riduzione del rischio di recidiva del 7,5%).
Insomma, negli altri ordinamenti vi è un ampio ricorso alle pene non detentive, dimostratesi molto più utili nella prevenzione della recidiva e nel reinserimento sociale. In questo senso si muove anche l'Unione europea, che sin dalla decisione quadro 2008/947/Gai ha sollecitato un'ampia applicazione delle misure alternative alla detenzione e dei vari istituti volti a consentire il differimento dell'esecuzione della pena, al fine di verificare le possibilità di reinserimento sociale dei condannati. Le misure non carcerarie sono valorizzate anche dal Consiglio d'Europa, che sin dalla Raccomandazione 16/1992 ha auspicato l'ampliamento del novero delle misure alternative negli Stati membri, tra le quali anche le community sanctions, che <mantengono il reo nella società con l'imposizione di alcuni obblighi e condizioni> secondo un indirizzo po ripreso, con riferimento alla liberazione condizionale e all'affidamento in prova, dalla Raccomandazione 22/2003.
Una più ampia applicazione delle misure non carcerarie, dal contenuto prescrittivo, interdittivo e risarcitorio (e la loro introduzione, se ancora non previste dalla legislazione di riferimento, come nel caso delle pene principali diverse da detenzione e multa), potrebbe dunque servire, almeno in una prima fase, per ridurre l'incidenza della reclusione. Successivamente, queste diverse sanzioni dovrebbero sostituire del tutto il carcere, consentendone l'abolizione e rafforzando il contenuto rieducativo della pena. Sin dalla sentenza 313/1990, infatti, la Consulta ha chiarito come le istanze di risocializzazione non siano limitate alla sola fase esecutiva della pena detentiva ma debbano, invece, ispirare anche la scelta della sanzione, potendo attingere a un ventaglio di misure, privilegiando quelle da scontare in liberta. (o.cit. pag. 73 e s.)

Il primo ma indispensabile passo da fare è dunque verso la riduzione del diritto penale. Un diritto penale minimo nella sua sfera di intervento, nella sua effettiva attivazione, nelle sue previsioni punitive. Questo primo passo è essenziale per ridare credibilità al sistema penale nel suo insieme e quindi, consentire l'abolizione dell'istituto che più di ogni altro lo delegittima, ovvero il carcere, per come è e per come non può non essere.
Pertanto, secondo questo programma minimo di avvicinamento all'abolizione del carcere, le pene non detentive dovrebbero rappresentare la soluzione da preferire in linea generale, riservando il carcere ai soli reati non punibili altrimenti, commessi da soggetti la cui pericolosità sociale ne giustifichi una detenzione temporanea. Anche se riservata a questi limitati casi, la pena detentiva dovrebbe comunque essere profondamente riformata nei contenuti e nelle modalità di esecuzione. Altrettanto (e anzi, ancora di più) residuale dovrebbe essere effettivamente la custodia cautelare in carcere. (o.cit. pag. 86 e s.)

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