Nel cambio di stagione rispuntano, dal fondo dell'armadio in camera, vecchi maglioni che incontro
sempre volentieri quando l'umidità dell'acqua che circonda la Chiesetta penetra le sottili mura di
mattoni poggiate in terra. Alcuni si mantengono meglio, altri rivelano nell'allentarsi della trama,
l'usura del tempo che passa. Difficilmente mi rassegno ad abbandonarli e continuo ad avvolgermici,
magari solo in casa, riscaldato dai ricordi che ancora emanano.
E i ricordi sprigionano i sogni.
Non sono pessimista di fronte alla crisi che ci sta attanagliando. Tocco con mano la sofferenza,
certo. Motivata da fattori che non sono solo economici. Si respira un senso di solitudine, di
disfacimento, che rende irrespirabile l'aria tutto intorno. E la testa ciondola e duole come a seguito
di una solenne ubriacatura. Ma è il segno dell'esaurirsi di una pagina di storia ormai spremuta come
il classico limone.
Occorrono energie nuove, che abbiano solo l'obiettivo di rompere la crosta della storia che ci ha
portato fin qui. Come il seme che nel farsi germoglio proietta tutta la sua vitalità verso l'alto e
muove le montagne.
Verranno; volti nuovi forse appena nati. Bambini che aprono gli occhi in un mondo di adulti già
stanchi, con le gambe appesantite e barcollanti per aver mangiato anche l'uovo in culo alla gallina
pur di dare continuità al sogno dell'eterno progresso, del mondo che diventa migliore perché dilata
l'orizzonte del benessere e del consumo.
E sarà come la fiumana che travolge gli argini, verso nuove modellazioni dei territori dell'umana
convivenza, tutti da conquistare.
La storia conoscerà, ancora una volta, la sfida di sempre del sangue versato per amore o per tentare
di cancellare l'amore.
Luigi
Che mondo troveranno i nostri figli?
La domanda sorge spesso sulle labbra di persone di una certa età nei momenti in cui si toccano con
mano le crisi, le storture, il chiudersi di orizzonti di speranza nel lavoro, nella caduta verticale di
ogni senso di sicurezza e di garanzia dei più deboli.
Ma i giovani si aspettano davvero che siamo noi - le generazioni uscite dal boom dell'Italia post
bellica a risolvere i loro problemi?
Vorrei che queste due testimonianze scritte una nei giorni della tremenda rinnovata alluvione a
Genova della fine di questa estate, l'altra in occasione della grande manifestazione indetta dalla
CGIL a Roma il 25 ottobre di fronte alla crescente spinta alla "rottamazione" delle regole del gioco
della convivenza sociale ci permettessero anche di ascoltare come vedono le stesse cose questi
nostri figli.
Sono parole di gente giovane e, in particolare la prima, sono osservazioni che riguardano dei
giovanissimi.
Non chiamatemi Angelo del fango
Nelle ultime 48 ore sono stata una delle migliaia di volontari che da sabato mattina spalano fango e
macerie per le strade di Genova.
Sono una di loro ma, per favore, non chiamatemi Angelo del fango.
Più che Angeli, infatti, i volontari sembrano una colonna compatta di formiche che lavora a pieno
ritmo.
Hanno un'età media bassissima: ad una prima occhiata, sembrano esserci cinque ragazzini per
ognuno di noi adulti.
Si muovono a piccoli gruppi, spesso tra compagni di scuola, e molti hanno le magliette degli scout,
della parrocchia, dell'arci, della polisportiva di calcio.
Quegli stessi ragazzini che la scuola considera contenitori da riempire, e governa con voti e note sul
diario, si muovono da soli per le strade di Genova, senza mamma e senza papà, tra macerie da
spostare, catini da riempire di fango, materiale da salvare.
Si accreditano in Municipio, consolano gli adulti che hanno perso tutto e si, si fanno un selfie tra le
rovine, perché vogliono far sapere che ci sono anche loro.
E fanno bene: in una società che non li considera, nella città più vecchia d'Italia, tutti quei selfie
testimoniano la loro voglia di esserci,di agire, di sostenersi l'un l'altro.
Dimostrano, infangati e sorridenti, il loro altruismo, la loro generosità, la loro capacità di azione.
Si chiamano Elisa, Giulia, Lorenzo e Mohammed e lavorano o vanno a scuola in uno dei molti
quartieri che questa tremenda alluvione ha distrutto.
Hanno aiutato prima i vicini e poi, con le stesse energie che questa città senza spazi li obbliga a
reprimere, sono scesi verso la zona di Brignole per aiutare tutti, indistintamente.
Si affacciano ai negozi, ai garage, alle cantine: "Siamo in cinque, abbiamo guanti e scope ma
neanche una pala. Possiamo fare qualcosa?".
Erano già migliaia a metà mattina del sabato, ed erano ancora altrettanti mentre - io che non ho più
vent'anni, nè men che meno quindici - mi trascinavo, domenica pomeriggio, sporca e infangata,
verso casa.
Hanno lavorato con secchielli e palette, scope e pentole portate da casa, perchè tra le prime grandi
assenze istituzionali, spiccano gli strumenti di lavoro.
A Genova non serve l'esercito - dicono tutti - servono mezzi.
Non chiamateli Angeli del fango, perché questi ragazzi sono arrabbiati.
Sorridono a tutti, e ridono schizzandosi d'acqua, ma - tra quelli che non studiano - uno su due è
disoccupato.
E praticamente tutti i lavoratori hanno un contratto precario, o lavorano in nero.
Chi tra loro ancora studia , tornerà martedì in scuole fatiscenti, sovrappopolate, dove nessuno li
tratterà da "grandi": grandi come invece stanno dimostrando di essere, in queste ore.
Le sovrastrutture generazionali di questo paese, e le sue scelte economiche, li contengono e li
costringono in uno spazio troppo ridotto: quello dell'assenza di futuro e di speranza.
La loro presenza nelle strade è un vero fiume in piena che bisogna saper ascoltare.
Ieri ho visto una ragazza portare un pesantissimo bidone di detriti ad un anziano operaio
dell'azienda dei rifiuti.
Dopo averlo consegnato, è tornata dalle amiche dicendo: "Mi ha detto: Grazie, come faremmo
senza di voi..!".
E mentre lo raccontava, le brillavano gli occhi.
Nella gioia di questa volontaria, credo si racchiuda l'urlo di questa generazione: "Lasciateci lo
spazio di crescere e di esprimerci - sembrano dire da dietro i visi infangati - scoprirete che siamo bravissimi. E che non potete fare a meno di noi.
Vanessa Niri
"Perché siamo scesi in piazza il 25 ottobre"
Sono un figlio della negli ultimi 10 anni, determinando la cancellazione di diritti e la negazione di
opportunità per la mia generazione. Sono un figlio dello smantellamento della scuola e
dell'università pubblica per tutte e tutti. Sono un figlio della conseguente 'precarizzazione' del
lavoro. Sono un figlio del presente unico, dell'immediato, del subito. Sono un figlio di un periodo
troppo lungo in cui i deboli sono tornati debolissimi, gli ultimi esclusi, i poveri, poverissimi. Sono
un figlio di un paese in cui gli analfabeti sanno usare Facebook ma non hanno strumenti per
interpretare la realtà. Sono un figlio della fine dello Stato Sociale.
La cosa che più fa male è che non sono un caso, ma sono la regola. Una delle minuscole tessere
frammentate che compongono il mosaico di una generazione costretta alla solitudine, alle passioni
tristi e alla disillusione, che ha smarrito il senso della parola futuro. Siamo in tantissimi a non
poterci permettere di pagare migliaia di euro di tasse universitarie ogni anno, né tanto meno altre
centinaia in libri di testo, vocabolari e materiale scolastico. A causa del numero chiuso universitario
non ci possiamo nemmeno permettere di sognare da grandi di diventare medici, architetti o
veterinari. Quando usciamo dalle nostre scuole e dalle nostre università sempre più spesso non ci
possiamo permettere nemmeno di andare al cinema o visitare una mostra. Durante i nostri mesi
estivi siamo costretti a lavorare in nero o a chiamata, e non ci possiamo permettere di viaggiare, di
spezzare le nostre catene, liberare la nostra curiosità e la nostra voglia di scoprire il mondo, di
riabbracciare i nostri coetanei conosciuti durante i mesi passati in Erasmus.
Il 25 ottobre siamo scesi in piazza perché non ci possiamo permettere una riforma del mercato del
lavoro controllata dagli ordini professionali, senza welfare e politiche per l'occupazione. Non ci
possiamo permettere un'istruzione priva di edifici all'avanguardia, laboratori innovativi e insegnanti
appassionati e preparati perché non può esistere nessuna 'Buona Scuola senza Buon Lavoro'. Siamo
andati in Piazza San Giovanni perché non ci possiamo permettere un'Italia piena di professori, ma
senza maestri. Non ci possiamo permettere nemmeno un paese senza adulti che sappiano prendersi
le responsabilità nei nostri confronti delle scelte che ci riguardano.
Alberto Irone
Portavoce nazionale Rete degli studenti medi
Un grande incontro mondiale dei movimenti popolari si è svolto dal 27 al 29 ottobre 2014 in
Vaticano, organizzato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, dalla Pontificia
Accademia delle Scienze Sociali e da esponenti di vari movimenti, con l'appoggio esplicito del
papa.
Hanno partecipato all'incontro circa cento delegati di organizzazioni popolari di ogni parte del
mondo (in rappresentanza dei contadini senza terra, degli indigeni, dei precari, dei lavoratori del
settore informale e dell'economia popolare, dei migranti, di quanti vivono nelle periferie urbane e in
insediamenti di fortuna, come pure di quanti lottano al loro fianco) e di numerosi vescovi dei diversi
continenti e della Curia Romana (tra le presenze italiane, alcune delle quali piuttosto sorprendenti,
Banca Etica, Associazione Trentini nel Mondo, il Comitato Amig@s Mst-Italia, Genuino
Clandestino, la fabbrica recuperata Rimaflow e addirittura il Centro Sociale Leoncavallo).
E' stata, insomma, una sorta di Assemblea dei movimenti popolari, come quelle tenutesi durante i
Forum Sociali Mondiali, ma nell'inconsueta e sorprendente cornice vaticana, allo scopo di
individuare le cause strutturali dell'esclusione e i modi per combatterle, tracciando nuovi cammini
di inclusione sociale. E con un obiettivo preciso: quello della creazione di una sorta di
coordinamento delle organizzazioni popolari, con il sostegno e la collaborazione della Chiesa.
Ed è un auspicio comune a tutti quello a cui vuole rispondere questo incontro dei movimenti
popolari: che a nessuno manchi la terra, un lavoro e un tetto sulla propria testa, "tre diritti sacri, tre
diritti elementari che tuttavia, sempre di più, vengono sottratti a una parte maggioritaria dei nostri
popoli", calpestati da "un mostro idolatrato come un dio, il dio Denaro, a cui tutto viene sacrificato,
compresa la natura e compresa la dignità degli esseri umani.
A prendere la parola sono stati i rappresentanti del popolo degli esclusi, a cominciare dalla cilena
Luz Francisca Rodriguez, di Via Campesina Internazionale, la quale ha espresso nel suo intervento
tutto l'orgoglio dell'identità contadina, ma anche denunciando:
- l'avanzata senza freni del capitale sulle campagne;
- l'accaparramento della terra, dell'acqua, delle risorse naturali, sempre più concentrate nelle mani
di poche transnazionali, le stesse, ha affermato, che "prima ci fanno ammalare e poi ci vendono i farmaci con cui curarci";
- la mancanza di adeguate politiche agrarie da parte dei governi, i quali, al contrario, costruiscono
ponti d'oro alle grandi imprese;
- il disprezzo nei confronti delle conoscenze e delle culture contadine, delle millenarie prassi di cura
e di scambio delle sementi;
- il ruolo di una scienza al servizio del capitale, disposta persino a mettere a repentaglio la vita,
attraverso per esempio l'imposizione delle colture transgeniche.
"Ci troviamo di fronte - ha affermato - a un processo di massiccia distruzione della vita, a una
strategia diretta non più ad alimentare l'umanità, ma ad aumentare i profitti. Ma noi continuiamo a
resistere, a difendere la nostra funzione sociale, che è quella di alimentare i nostri popoli; a
custodire il sogno di continuare ad essere contadini e contadine al servizio del buen vivir".
Del resto, come ha sottolineato, il contadino indiano Kommara Thimmarayagowda Gangadhar della
Krrs (Karnataka State Farmers Union), l'Agricoltura non è solo un'attività economica, ma una
cultura del mondo, non offre solo la sicurezza del lavoro, ma preserva la salute umana, e protegge la
natura per l'umanità presente e per quella futura. "La mia responsabilità come cittadino globale - ha
concluso - è custodire la terra per le generazioni future".
E a prendersi cura dell'ambiente sono anche i raccoglitori e riciclatori dei rifiuti ("quanti
sopravvivono con i rifiuti dell'umanità, come ha evidenziato mons. Luis Infanti, vescovo di Haysén,
nella Patagonia cilena), sulla cui lotta per l'inclusione sociale si è soffermato Sergio Sanchez, della
Federazione argentina dei cartoneros e dei riciclatori: una lotta comune ai venditori ambulanti, ai
lavoratori delle fabbriche recuperate e in fondo a tutta la classe lavoratrice e a tutta l'umanità,
perché "tutti - ha detto - chiediamo le stesse cose: terra, casa, lavoro".
In questo quadro non sono mancate sollecitazioni alla Chiesa, quella Chiesa che, come ha affermato
il mozambicano Agostinho Bento dell'Unione nazionale dei contadini del Mozambico, ha taciuto
sui programmi della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, e che non si è opposta
come avrebbe dovuto allo sfruttamento da parte delle multinazionali. Quella Chiesa che egli ha
invitato ad agire concretamente a favore del popolo spogliato delle sue risorse.
E non ha risparmiato critiche all'istituzione ecclesiastica neanche Jockin Arputham, leader di Slum
Dwellers International, il quale vive in uno slum di Mumbai, lottando contro gli sgomberi delle
comunità: "La Chiesa parlava di giustizia sociale, ma quando sono arrivati gli sgomberi, in India
come in Kenya e in Cambogia, non ha fatto nulla, per non 'mischiarsi con la politica'", ha
denunciato Arputham, ringraziando tuttavia il papa per aver invitato in Vaticano, finalmente, i
rappresentanti, e soprattutto le rappresentanti, delle persone che lottano e che spesso pagano questa
lotta con la vita. Una lotta che può essere a volte anche semplicemente per ottenere dei bagni, di
fronte al dramma che può rappresentare il fatto di avere una toilette per 800 persone in una
baraccopoli di 500mila abitanti. "Il mondo non cambia - ha concluso - se i poveri non si
organizzano unendo le loro forze e dicendo basta con le elemosine. Come ci hanno insegnato gli
antenati, se si lotta si otterrà latte e miele, se non si lotta non si conquisterà un bel niente".
Non si può tuttavia parlare di Terra, di Pane e di Casa, senza affrontare il nodo dell'emergenza
ambientale e climatica, "un problema che - come ha sottolineato l'esperto di cambiamenti climatici
Veerabhadran Ramanathan- si trasformerà ben presto in un disastro". Se in appena 30-40 anni
abbiamo cambiato il clima più che negli ultimi 2 milioni di anni, non è tuttavia troppo tardi, si è
detto convinto Ramanathan, per risolvere il problema: occorre però operare profondi cambiamenti
nel nostro atteggiamento nei confronti della natura e nei confronti gli uni degli altri, in una
mobilitazione che non può fare a meno dell'aiuto dei leader religiosi. E' un problema, peraltro, che
chiama fortemente in causa la giustizia, dal momento che, ha evidenziato, i tre miliardi di poveri
che contribuiscono alle emissioni di gas ad effetto serra per meno del 5% sono anche quelli che
pagheranno maggiormente le conseguenze del riscaldamento globale. E a indicare i veri colpevoli ci
ha pensato Silvia Ribeiro dell'Etc Group ,ricordando come l'1% più ricco dell'umanità controlli
quasi il 50% della ricchezza globale e come al 70% della popolazione mondiale resti meno del 3%
delle ricchezze. Ma è la stessa classifica dei Paesi responsabili del più alto livello di emissioni
alteranti il clima a chiarire la situazione: se per quantità di emissioni la Cina, con il 23%, batte gli
Stati Uniti, responsabili del 15,5%, a livello pro-capite gli Usa non hanno concorrenti (17 tonnellate
contro le 5,4 della Cina).
Per non parlare delle responsabilità storiche, che vedono gli Stati Uniti dominare la classifica degli
inquinatori a tal punto che le loro emissioni, da sole, superano quelle dei cinque Paesi che seguono
(Unione Europea, Cina, Russia, Giappone e Canada). E colpevole è anche il sistema agroindustriale,
responsabile dal 44 al 57% delle emissioni di gas ad effetto serra, a cui è chiamata sempre più ad
opporsi quell'agricoltura contadina a cui già spetta il merito di alimentare il 70% della popolazione
mondiale.
"Gli esperti chiamano Antropocene l'attuale fase planetaria, per sottolineare l'impatto dell'umanità
sulla vita della Terra. Non sono d'accordo: quella attuale - ha concluso Silvia Ribeiro - è l'era della
plutocrazia, quella in cui 85 miliardari, da soli, consumano risorse quanto la metà della popolazione
mondiale".
Claudia Fanti - Adista
Nel mese di ottobre ho avuto la bella sorpresa di incontrare, alla Chiesetta, Beppe Pratesi e Lucia.
Una coppia (lo dico per quelli che non li conoscono) unita da tanti anni di vita insieme in una
famiglia aperta non solo ai figli spuntati qua e là lungo la strada e non solo dalla pancia di Lucia.
Una vita povera sempre strappata al lavoro, ma con la porta sempre aperta in particolar modo alle
situazioni meno accolte altrove. Una condizione di vita portata avanti con coraggio e la
determinazione del contadino che non si rassegna mai alla terra incolta.
So che, praticamente da sempre, si sono coinvolti in percorsi del disagio psichico, nella loro casa
come nei gruppi di sostegno locali (abitano da anni nel Mugello). Non mi ha meravigliato quindi
che, dopo uno scambio fraterno sull'attuale reciproco percorso di vita, Beppe mi abbia parlato della
problematica inerente un gruppo di persone (una trentina circa, se ben ricordo) facenti parte della
"comunità" del Forteto (Mugello/Firenze). Si tratta di persone approdate in questa comunità dalla
forma giuridica di cooperativa che dagli anni 70 in particolare ebbe una crescita notevole di
partecipanti ed una attenzione delle istituzioni e delle agenzie del sociale che ne fece un modello
visitato e invidiato.
Ora, a seguito di pesanti inchieste e condanne in giudicato, la "comunità" continua ad esistere
coagulando una serie di persone che altrimenti non sanno proprio dove andare e la cui
sopravvivenza è strettamente legata alla cooperativa che li ha fatti lavorare duramente in una forma
(giustificata inizialmente forse dalla loro condizione di persone "non autosufficienti") giuridicoeconomica
che è difficile ora da sciogliere. Inoltre si tratta di persone in cui è carente l'iniziativa e la
relazione con persone esterne di fiducia e competenti.
Beppe mi ha mandato l'articolo di cui vi propongo la premessa, scritto da due psicoanalisti su una
rivista specializzata, come l'unico che, a sua conoscenza, rompe il velo di silenzio su tutta la
vicenda. Gli autori promettono di farne un libro e speriamo che la sua presentazione riesca ad aprire
una finestra su questo mondo che vive come un fantasma nelle pieghe di una problematica umana
che non interessa a nessuno, non risolta dalle condanne in sede giudiziaria. Un piccolo mondo di
"fantasmi" senza volto e senza diritti.
Il giornalino "Lotta come Amore" è una voce piccola piccola, ma non rinuncia a gridare per chi non
ha voce.
Le comunità ideologiche. Alcune note psicopatologiche e psicoanalitiche di Paolo Curci e C. Secchi
Riassunto: a partire dalle vicende della comunità fiorentina di "Il Forteto" si propongono alcune
ipotesi di lettura circa le potenziali derive a cui può andare incontro un tipo di comunità in senso
lato terapeutica (in quanto formalmente impegna con soggetti portatori di bisogni psico-sociali),
qualora venga ad assumere un andamento autoreferenziale e totalizzante. Oltre a essere preso in
esame il processo interiorizzazione del regime totalizzante nella mente degli adepti, ne sono
illustrate possibili conseguenze specificamente psichiatriche. Uno dei fondamenti concettuali di
queste riflessioni è costituito dall'idea dominante sia nel versante delle psicopatologie sia in una
peculiare accezione psicoanalitica suggerita da Britton e Steiner (1994).
Premessa: Le pagine che qui presentiamo sono parte di un più ampio lavoro, di prossima pubblicazione in
forma di libro, nel quale saranno coinvolti, oltre allo psicoanalista ed allo psichiatra, anche uno storico ed un
giurista, dedicato alla questione della comunità a vocazione soteriologica: la "comunità che salva", la comunità
come unico viatico, mezzo e condizione di salvezza, e che assume, pertanto, la fisionomia della comunità chiusa
al mondo esterno. Una comunità, dunque, tutta concentrata sul consolidamento delle dinamiche interne di
riconoscimento e conferma dell'unità e della coesione tra i membri, tutta volta alla messa in opera di meccanismi
destinati a consentire la rifusione (se non l'integrale risoluzione) dell'identità dei suoi membri nell'identità
collettiva del gruppo che tale comunità costituisce. L'occasione di tale scritto è stato rincontro - sia nella forma di
un contatto diretto con alcuni dei protagonisti, sia in quella dello spoglio di parte della letteratura ormai
abbondante accumulatasi nel corso del tempo - con le vicende della comunità detta II Forteto. Si tratta di
una comunità, costituitasi nel Mugello a partire dalla metà degli anni 70 e formata da giovani
cattolici in rotta con le rispettive famiglie d'origine, vagamente ispirati da taluni motivi desunti
dall'esperienza di Barbiana e dal cattolicesimo detto del dissenso tipico di quegli anni, variamente
suggestionati dai temi della contestazione culturale e delle lotte politiche dell'epoca, nonché spinti da un diffuso e indefinito disagio sperimentato tanto a livello individuale quanto all'interno della
rete di relazioni amicali originarie. Il gruppo primitivo, composto da una trentina di aderenti, si
raccoglie intorno ad un personaggio, più anziano di tutti gli altri, designato con l'epiteto de "il
Profeta", autorità in ultima istanza e capo carismatico della comunità. La comunità si struttura
secondo una rigorosa divisione in base al genere, con la conseguente abolizione di qualunque
legame coniugale o erotico stabile, e la valorizzazione esclusiva delle relazioni omoerotiche,
nonché, secondo una altrettanto rigorosa divisione dei compiti e del lavoro, a cui tutti i membri sono
tenuti. Lo statuto societario della comunità sarà infatti quello di cooperativa agricola, inizialmente
autosuffìciente, il cui fatturato cresce in rapida progressione, al punto da diventare una realtà
produttiva significativa nella regione, così come si incrementerà il numero degli aderenti alla
comunità. Ben presto inizia tuttavia, per il fondatore ed il suo principale collaboratore, tutta una
serie di vicissitudini giudiziarie incentrate sull'accusa di abusi sessuali, violenze e corruzione di
minore, che si concluderanno con una prima condanna nel 1985. Dalla fine degli anni 70 era infatti
iniziata, da parte del tribunale dei minori e di varie altre istituzioni socio-assistenziali della regione,
la pratica dell'affido al Forteto di minori in difficoltà, sovente con pesanti storie di abusi e
maltrattamenti alle spalle, conferendo in tal modo alla comunità anche lo statuto di struttura
terapeutico-educativa. A partire di qui inizia anche una cospicua attività di promozione (e
autopromozione) culturale della comunità, che diventa per molte forze politiche, locali e nazionali,
un interlocutore ed un riferimento significativo nell'ambito delle pratiche assistenziali e rieducative:
addirittura un vero e proprio modello di autogestione produttiva efficiente e di "comunione dei
beni" che attira intellettuali, studiosi, politici. Nel dicembre 2011 il fondatore viene però
nuovamente arrestato con l'accusa di violenze e abusi sessuali ai danni di ospiti minori della
comunità. Contemporaneamente nasce un comitato di "Vittime del Forteto", mentre la regione
Toscana istituisce una commissione d'inchiesta ed infine, nel 2013, iniziano le udienze del processo nei confronti del "Profeta" e di un'altra ventina di membri del Forteto con l'accusa di violenze su
minori e maltrattamenti. Al di là delle responsabilità e del rilievo penale delle accuse, e
indipendentemente dagli eventuali profili psicopatologici dei protagonisti della vicenda, il cui
approfondimento è tuttora in corso, quel che ci ha particolarmente colpito ed interessato è il
problema della struttura comunitaria, delle sue modalità di funzionamento (con, al centro, la pratica
detta dei chiarimenti, un regime di discorso assimilabile ad una "confessione pubblica") e del suo
universo di "valori" (morali e simbolici) che presentano più di una analogia e di una somiglianza
con tutti quei fenomeni comunitari i cui membri sono sottoposti ad un regime di controllo,
manipolazione ed assimilazione alla regula fidei del gruppo di appartenenza, che ci pare meriti di
essere indagato, o almeno interrogato.
Vorremmo allora provare ad avanzare qualche ipotesi interpretativa circa le potenziali derive e
deviazioni a cui certe comunità a volte vanno incontro, suscitando presso l'osservatore esterno
incredulità, stupore e sconcerto di fronte a eventi che sembrano aspramente confliggere con le
usuali categorie etiche, o addirittura con il buon senso correntemente inteso.
Al punto da imporre l'allarmante interrogativo: "Ma come è potuto succedere?".
Baden Powell parla di Dio in particolare nella 22a chiacchierata al fuoco di bivacco di <Scoutismo
per ragazzi>, il manuale fondamentale del metodo educativo da lui fondato all'inizio del secolo
scorso:
"Nessun uomo può essere veramente buono, se non crede in Dio e non obbedisce alle sue leggi.
Per questo tutti gli scouts devono avere una religione.
La religione sembra una cosa semplicissima: - Primo: amare e servire Dio. Secondo: amare e
servire il prossimo."
E conclude il primo paragrafo con queste parole che sintetizzano la finalità del suo metodo
educativo: "e ricordate che essere buoni è qualche cosa, ma che fare il bene è molto di più".
La 22a chiacchierata è intitolata "Come migliorarsi" ed è punteggiata da paragrafi che vanno dalla
religione all'economia, al "come si fa a riuscire", alla memoria, alla "fortuna" (virgolettato nel
testo).
Oggi il tema "religione" appare collocato in un contesto culturale che pone più di una difficoltà e
parecchi interrogativi sulla validità e praticabilità delle indicazione di B.P. (sigla nota nell'ambiente
scout per Baden Powell).
Eppure anche B.P. Si è confrontato con situazioni che hanno più di qualche somiglianza con quelle
con cui si misurano i capi scout di oggi: "Sulla base di un'esperienza personale discretamente
ampia, avendo avuto migliaia di giovani per le mani - scrive in un paragrafo intitolato
"Allargamento dell'orizzonte morale: l'educazione religiosa" - mi sono convinto che oggi le azioni
di un grandissimo numero dei nostri giovani non sono guidate che in minima parte da convinzioni
religiose. In gran parte ciò può attribuirsi al fatto che nella formazione religiosa del ragazzo ci si è
preoccupati di istruirlo anziché di educarlo (il grassetto è mio)("Il Libro dei Capi" a pag. 67 delle
edizioni Fiordaliso").
E, appena sopra, esprime la convinzione che "La religione si può solo cogliere d'intuito, non
insegnare. Non è un abito esteriore da indossare per la domenica. E' una vera e propria parte del
carattere del ragazzo, uno sviluppo della sua anima, e non un rivestimento esterno che può
staccarsi. E' una questione di personalità, di convinzioni interiori, non di istruzione" ("Il Libro dei
Capi" pag. 67).
Credo che già a questo punto ci sarebbe abbondanza di materiale di confronto e discussione positiva
con i ministri di culto, le comunità religiose, le famiglie delle ragazze e dei ragazzi che fanno parte
dei gruppi scout. Purtroppo mi risulta che molto spesso ci si consuma in uno sterile braccio di ferro
tra responsabili delle comunità religiose e capi scout incentrato sul primato assoluto del culto e la
subordinazione assoluta dello spirito (cosa che mi risulta "offendere" le convinzioni di B.P. ma che
anche, se mi è consentito, di Gesù e degli altri fondatori delle principali religioni).
Non possiamo per altro passar sopra il fatto che, nella popolazione italiana, una percentuale
prossima al 20% viene calcolata di coloro che non hanno nessun riferimento religioso e non si
pongono minimamente il problema. Non si definiscono neppure atei: semplicemente la tematica
religiosa non li sfiora né pro né contro. Il riferimento a Dio, comunque inteso, non appartiene loro.
E questo anche tra i capi.
Sperimentando questa difficoltà in tanti gruppi scout che conosco, vorrei spendere due parole su
una mia personale interpretazione del senso di Dio in B.P.
Intendiamoci, niente che abbia a che fare con uno studio accurato e rigoroso dei testi e dei contesti
di B.P. Si tratta di intuizioni che hanno l'unica pretesa di metter legna sul fuoco della ricerca e del
confronto, pronto ad accogliere ogni critica e lettura diversa dalla mia.
Parto dal presupposto che B.P. Sia stato un uomo personalmente "curioso". E con questo aggettivo
intendo descrivere chi non si contenta di generiche spiegazioni e di conoscenze scontate, ma ama verificare e approfondire con la propria testa e il proprio intuito. Le esperienze che sono alla base
del metodo scout prendono piede da un lasciarsi coinvolgere con spirito di avventura e di
osservazione in esperienze di vita "altre" rispetto alla routine dei suoi commilitoni. E lo fa non con
l'animo del collezionista di storie anche speciali, ma con un coinvolgimento personale che lo porta
lontano dagli interessi specifici del proprio ruolo. Entra, cioè, in rotta di collisione con un principio
che è asse portante del metodo da lui stesso elaborato: "sono gli altri, è tutto ciò che è altro da me,
che mi fa essere quello che sono". Lo spirito di avventura alla base dello scoutismo mi porta alla
scoperta di me stesso.
La vita di branco aiuta a superare l'egocentrismo infantile, l'esperienza della pattuglia affina il
confronto e restituisce alla differenza tra uguali il suo valore di energia positiva e propositiva, la
presenza di un capo adulto permette che la porta della responsabilità e della partecipazione attiva al
mondo reale non sbatta in faccia allo sprovveduto, ma sia soglia accogliente e invitante a prender
posto nella società. Tutto un percorso attraverso un gioco di specchi, non illusorie superfici che
riflettono se stessi, ma compagni di strada che in un rapporto leale e fraterno ti danno modo di
capire e accogliere il dono che sei.
Nel percorrere e scoprire i territori della vita, alzando il capo con sempre maggiore convinzione
verso orizzonti nuovi e più lontani, si arriva là dove, come in una sottilissima linea, "la terra e il
cielo" si incontrano, là dove risuonano i perché del nascere e del morire, della vastità dell'universo,
dell'unicità dell'essere e insieme del sogno di potere essere una cosa sola in tutti. Là dove non
comanda più la distinzione "o" "o" dell'esperienza strettamente umana, ma si respira un'aria "altra"
dove piuttosto ci prende per mano una qual sorta di comunione e si fanno timidi passi verso un
mondo guidato dall' "e" "e".
Quell'orizzonte, "altro-da-noi", è Dio. E, come dice B.P., nessuno ce lo può insegnare, ma è solo
possibile intuirlo, come solo coloro che sono soliti essere già in piedi prima dell'alba, dal primo
colorarsi del cielo possono dire che giorno verrà.
Luigi
Continuiamo a pubblicare una parte degli interventi in occasione dell'incontro di ferragosto a Casale
Monferrato nella memoria viva di don Gino Piccio recentemente detenuto. Don Gino, negli anni, ha
fatto dell'incontro di ferragosto alla sua cascina un incontro vivo e partecipato di tante persone con
notevole presenza di giovani. Tre giorni sempre intensi di scambio di storie di vita, problematiche
dell'attualità, approfondimenti teologici e spirituali. Tre giorni in cui fiorivano amicizie che hanno
intrecciato reti di impegno e di coinvolgimento personale nelle lotte per una umanità più solidale.
Spirito e Verità, il motto che don Gino ci ha lasciato perché sia traccia di un cammino che continua
con lui.
Siamo ricercatori di Verità e lo siamo nello Spirito di Cristo
Fin da piccoli quando qualcuno ci dice una bugia viviamo una sorta di scoramento di delusione
profonda. E di menzogna in menzogna anche noi entriamo nel mondo delle bugie, prima per
difenderci, poi per migliorarci infine per nasconderci.
La verità per noi è una necessità assoluta di cui non possiamo fare a meno. L'amante chiede
all'amata più volte mi ami tu davvero? Vuole esserne certo fino allo sfinimento e qualunque gesto
contraddica questa verità indimostrabile, mina nel profondo il rapporto e lo rende fragile e insicuro.
Quando Cristo annuncia la discesa dello Spirito Santo dice che i discepoli non sono ancora pronti a
ascoltare tutte le cose che avrebbe ancora da dire. (Gv.13,12) Ma subito aggiunge "quando però
verrà lo Spirito egli vi guiderà alla verità tutta intera" (Gv.3,13a).
Questo ci dice alcune cosa: prima di tutto che una verità esiste ("lo sono la via la verità e la vita"
Gv.14,6). Notizia importante e di attualità. Il relativismo in cui siamo inseriti ci sta convincendo che
una verità non esiste che ne esistono molteplici e che nessuno ce l'ha in tasca e che quindi alla fine
una vera verità non esiste (per il principio di non contraddizione).
L'uomo che si è allontanato da Dio non lo vede più, e quindi si convince di due cose che la Verità non esiste e che quindi lui può essere la verità per se stesso. In questa esaltazione del narcisismo a
cui stiamo assistendo, c'è tutto questo. Più l'uomo di allontana da Dio, dalla verità più si convince
che in realtà Dio è lui (prima di tutto per se stesso - il narcisismo e poi degli altri - la violenza ) non
a casa siamo in un mondo arrogante e aggressivo, non a caso è scomparso il senso del peccato per
far posto al senso della vergogna (finché non mi beccano... sono pulito, la vergogna ci fa fuggire
allo sguardo di Dio come i nostri progenitori, il peccato ci porta a lui per chiederne il perdono).
La grande colpa di questo secolo è proprio il tentativo di uccidere il concetto di verità
relativizzandolo. Per questo si stanno diffondendo i fondamentalismi sempre più violenti, sono una
sorta di narcisismo di massa: lo, Noi, siamo la verità e tutti si devono adeguare. Essere adoratori in
Spirito e Verità è altra cosa: Innanzitutto è dire che esiste sia l'uno che l'altra.
Poi il passo successivo è riconoscere che non sono io e non ne sono neanche portatore da me stesso.
Infine questa umiltà mi mette nelle condizioni migliori per poter compiere il vero passaggio
diventare un "ricercatore della verità" ancora di più: un "esploratore".
L'atteggiamento della ricerca implica umiltà, fede, costanza, sacrificio, collaborazione, rispetto.
Tutte qualità che si stanno perdendo in virtù della sconsiderata auto affermazione di sé narcisistica.
Il ricercatore gode delle scoperte e fa attenzione alle più piccole tracce (1 Re 19,11-13 "ci fu il
mormorio di un vento leggero"]; non si scoraggia quando la fatica del ricercare sembra smarrire la
strada e quando capisce di essere sulla strada sbagliata la cambia tornando sui suoi passi. Può fare
questo non solo perché è una persona coraggiosa ma perché non mistifica i risultati della propria
ricerca.
Ma per entrare in questa ascesi è necessario mettersi dietro a Gesù e essere perennemente suoi
discepoli. (Le 9,23-24) la via è tracciata lo Spirito ci guiderà ma è necessario questo passo: smettere
di riconoscere solo se stessi (questo significa rinnegare) salire sulla croce (per stare nell'ignoto
sospesi tra la terra e il cielo) e seguire Gesù (discepoli mai maestri).
In questo percorso da ricercatori della Verità nello Spirito saremo disposti a uccidere (sacrificare)
quell'io che vuole tutto e subito e che ci impedisce di diventare delle persone realizzate, di crescere
andando oltre i nostri limiti e non per i nostri meriti. Di fare comunione coi fratelli che come noi
ricercano la felicità e la gioia della Verità. Di annunciare la conversione a tutte le genti che cercano
"come pecore senza pastore" una verità dove non c'è, e che non essendone saziati continuano a
ricercarla cambiando continuamente l'oggetto della loro ricerca in una volontà bulimica di saziare
una fame incolmabile. Non li convertiremo dall'alto di una cattedra di chi ha già trovato le risposte,
ma sulla stessa strada compagni di viaggio in una ricerca che ci accomuna tutti e ci rende fratelli,
condividendo indizi, tracce, gioie e sconfitte in un cammino però orientato dall'unica verità che ci è stata consegnata Gesù Cristo Figlio di Dio, Via, Verità e Vita.
don Franco da Novara
Spirito e verità
In primo luogo possiamo intendere per traslazione da verità a vera, il segno di unione fedele, a fede
e poi a fedeltà al Dio proclamato da Gesù, entro il recinto della testimonianza apostolica, liberata
dalle incrostazioni e inautenticità umane impostesi nella storia.
I luoghi della fede sono stati ambienti poveri, comuni all'esperienza feriale: abbandonata la
parrocchia di S. Stefano, ha celebrato prima in una rimessa, poi nella cascina di Ottiglio, in un box o
all'aperto, sempre con scarni arredi essenziali per l'accoglienza della comunità che con lui si
ritrovava per le celebrazioni.
I tempi della festa non hanno mai assunto le caratteristiche di "evento", sobri nel loro sviluppo,
attenti a raccogliere il messaggio che nella sosta festiva veniva proposto alla riflessione comune per
una concreta realizzazione del progetto di Dio nel nostro tempo.
Don Gino non è mai stato l'uomo della mediazione, non si è mai proposto come "separato" dalla
comunità. Basta pensare alle omelie condivise, ma soprattutto al suo modo di introdurre le
celebrazioni eucaristiche: una preghiera sul mondo per cogliere una umanità che si presenta unita al
cospetto di Dio per confessare il Suo amore per l'uomo, di cui don Gino si fa voce e interprete.
Quante domande e quante sollecitazioni abbiamo ascoltato nell'introduzione alla Santa Messa!
La comunità di persone che a vario titolo, in tempi diversi, ha condiviso tratti di vita con don Gino, ha trovato in lui accoglienza, sempre un sorriso, capacità di ascolto, mai un giudizio, semmai una
riflessione, una provocazione, un invito alla coerenza umana ed evangelica, un incoraggiamento a
ritrovare fiducia e speranza, un invito a non aver paura. Nessun legalismo o rigidità, ma una grande
misericordia: quella misericordia che oggi riconosciamo nelle parole di papa Francesco, noi le
abbiamo sperimentate da sempre in don Gino.
Questa comunità ha vissuto anche dolori e tragedie e Gino ha accompagnato tutti, senza enfasi o
stucchevoli frasi di circostanza o rinvio a facili rifugi consolatori. Come Gesù ha pianto Lazzaro
morto, così don Gino ha condiviso dolori e con dignità ha aiutato a riprendere il cammino della vita
anche sotto il peso della sofferenza che è compagna di vita.
Per fedeltà al Dio di Gesù ha sempre lottato perché quella Chiesa, nata dal suo sacrificio sulla
croce, restasse fedele al messaggio primitivo, trasmesso dagli apostoli, di apertura sul mondo e non
si costituisse come un recinto con caratteristiche identitarie di separazione e inclusione regolate da
leggi e osservanze. Per questo don Gino è stato un uomo sulla frontiera non un uomo di frontiera.
L'uomo di frontiera, il frontaliero, rischia di non avere identità, di portare dentro di sé sincretismi
che derivano da diverse contaminazioni culturali e di costume, mentre l'uomo che sta sulla
frontiera, al contrario, appartiene completamente alla sua comunità, ma ha lo sguardo rivolto
all'oltre, ascolta,si interroga, condivide e tende ad ampliare i confini dell'appartenenza, senza
perdere identità, è inclusivo.
Che don Gino fosse profondamente inserito nella Chiesa è testimoniato dal suo interesse per i
confratelli, dal desiderio di un vescovo pastore, umanamente solidale con il suo clero, dalla
proposta di una vita comunitaria che lo aveva spinto a percorrere più volte tutta la diocesi per
donare e ricevere condivisione, nello spirito di povertà, secondo le esigenze evangeliche, in risposta
alle istanze che giungevano dal mondo. Istanze che ha ascoltato come quando si è fatto prete
operaio, quando per anni, con alcuni suoi "ragazzi" ha soccorso le popolazioni terremotate
dell'Irpinia, o quando ha organizzato incontri nelle piazze di città e paesi per sensibilizzare la gente
su temi importanti, quali la pace, lo spirito di povertà, l'attenzione agli ultimi, sempre richiamandosi
alla coerenza con l'essenzialità cristiana.
Stanco del suo girovagare, don Gino aveva poi trovato nella cascina G un luogo laico, fuori dai
circuiti della sacralità, un luogo ove testimoniare appartenenza e povertà evangelica.
Questo è lo spirito e verità che ha testimoniato don Gino a ciascuno di noi, alle nostre famiglie , a
più generazioni e ciascuno di noi può trovare in tutto ciò alimento e forza per disegnare il proprio
percorso per adorare Dio.
Giovanni Margarino
L'ultimo audio-messaggio dell'iraniana giustiziata per impiccagione per aver ucciso l'uomo che
voleva stuprarla è una toccante lettera alla madre piena d'amore per lei. La ragazza ricorda gli
ultimi orribili 7 anni in carcere e chiede che «cuore, occhi, reni e quant'altro possa servire venga
dato in dono». E nessuna tomba su cui piangere.
«Mia dolce madre, cara Sholeh, l'unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra.
Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto
che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque
altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha
bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo
di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una
tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto
per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via».
Un solo ultimo desiderio prima di morire: donate i miei organi. Non le hanno concesso nemmeno
quello. Il suo corpo esanime è stato seppellito domenica 28 ottobre nella sezione 98 del cimitero di
Behesht-e Zahra, vicino alla città santa di Qom.
Reyhaneh Jabbari
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455