LOTTA COME AMORE: LcA giugno 2013

Riprendiamo il cammino

RIPRENDIAMO IL CAMMINO...
Il giornalino riprende le sue uscite! Per qualche tempo ho temuto di non farcela, ma adesso so che
entro il mese di giugno potrò effettuare la spedizione di questo primo numero del 2013. Ne seguirà
un secondo nell'autunno e altri nel tempo a venire.
Certo, la navigazione procede a vista perché, come dice un proverbio popolare, occorre dare all'età
quel che l'età richiede e quel che resta della chiesetta del porto può vantare solo la giovinezza dello
spirito e non più quella del tempo. Ma andiamo avanti, passo dopo passo, con serena fiducia.
L'indirizzario si è notevolmente alleggerito, sia per l'inevitabile usura dovuta al tempo che passa che
per la scelta di leggere il giornalino online sul sito www.lottacomeamore.it
In ogni caso, cari amici online, se qualcuno vi chiede se è possibile riceverlo anche in formato
cartaceo, la possibilità non solo esiste, ma - da parte mia - è sempre cosa gradita.
Ringrazio tutti coloro che si sono fatti vivi in diversi modi per confermare la volontà di continuare a
ricevere Lotta come Amore sia in formato cartaceo che come lettori online. Ho sentito affetto e viva
memoria di una storia, quella del periodico ma sopratutto quella delle persone che lo hanno
animato. In prima persona per don Sirio, sia da parte di chi lo ha conosciuto di persona che di chi lo
ha incontrato attraverso le memorie di amici e la lettura dei suoi scritti.
E se qualcuno dei vecchi lettori si sorprenderà di non ricevere più il giornalino e lo vedrà ancora in
circolazione, non si senta escluso, ma semplicemente ne richieda l'invio: nessuna volontà di tagli
indiscriminati, ma solo un'operazione di rivisitazione di un rapporto che potrebbe essersi consumato
nelle evoluzioni che la vita prospetta per tutti.
Avrei voluto preparare meglio questo numero, ragionandolo e producendolo attraverso un lavoro di
strutturazione di una tematica di fondo di questo nostro tempo per tanti versi così complesso. Ma il
fiume della vita non sai mai cosa riserva e se sembra procedere pigramente in lente curve e acque
quasi stagnanti, improvvisamente la corrente può prendere l'abbrivio e trasformarsi in rapide
vorticose che non ti permettono altro che cercare di respirare appena è possibile mettere la testa
fuori dall'acqua.
La mia vita, negli ultimi sette/otto mesi si è intrecciata, in modo particolare, fino ad esserne
totalmente assorbita con gli ultimi giorni di due persone diverse tra loro, ma ugualmente care a me e
non solo:
Mirella Mayer
Alla fine dell'estate dello scorso anno la salute di Mirella inizia a vacillare. Sono lontani ormai i
tempi della comunità di Bicchio che abbiamo condiviso quando eravamo giovani, insieme a Maria
Grazia, i due Beppi, Mario, intorno ai "vecchi" don Sirio e don Rolando. Ma dopo, anche se la
nostra frequentazione non è mai stata intensa, non ci siamo mai persi di vista e abbiamo vissuto
insieme i momento difficili degli ultimi giorni di don Sirio, il viaggio inutile di don Beppe verso
l'ospedale di Pisa, la morte di Sauro, suo marito... ma anche tanti momenti di festa e di semplice
incontro che hanno costellato comunque il fatto di vivere tanti anni a Viareggio.
A somiglianza di altre storie simili, la diagnosi del suo malessere si avvita nel giro di pochi giorni
fino ad inchiodarsi nell'impossibilità della scienza medica di intervenire se non per accompagnare
verso l'inevitabile.
Mi resterà nel cuore la messa che abbiamo celebrato la sera di Natale intorno al tavolo della cena,
nella quite e nell'intimità di un piccolo gruppo di persone con lei. Mi pare di aver capito, in
quell'occasione, quello che i libri di teologia non sono riusciti a comunicarmi con altrettanta
evidenza. Come Gesù, avendole provate tutte per far entrare nel cuore del popolo il suo annuncio,
non ha praticamente più parole da dire. E, in una situazione di estrema impotenza, raccoglie dalla
tavola quello che c'è sopra fino a identificarsi in quel pane e in quel vino che resta, mani tese
nell'ultima offerta di sé prima che la realtà si compia sullo sfondo dell'esodo biblico rinnovando la
Pasqua. E quella sera rinnovando la Nascita.
Venerdì, antevigila dell'Epifania, il suo funerale nella chiesa del Varignano, parrocchia in cui lei ha
servito per anni l'impegno della carità e della testimonianza cristiana. Una messa che si è prolungata
per tutto il pomeriggio fino a sera, una lunga veglia espressione di dolce dolore, di affetto, di
speranza.
Di lei ho letto questo scritto, uno dei pochi in tanti anni, pubblicato sul ciclostilato della comunità di
Bicchio, Popolo di Dio:
"Dov'è il Re dei Giudei?". Ci sono dei momenti nella nostra storia personale in cui la domanda dei
Magi diventa la nostra domanda, quasi un'implorazione che ci nasce dal cuore, un grido che esige
risposta.
Di Lui che ci ha fatto intraprendere un lungo viaggio, abbiamo perso ogni traccia, eppure in un
giorno non tanto lontano abbiamo visto la sua luce, la sua stella e dietro di essa ci siano
incamminati fiduciosi; avevamo un segno sicuro per riconoscere la sua casa, il luogo dove era
nato, lì dove si sarebbe fermata la luce avremmo trovato Lui, perchè Lui è l'origine, la fonte di ogni
luce.
E così dietro la luce siano arrivati alla città santa, ci siano fermati un attimo, come per riprendere
fiato, sicuri di essere ormai alla fine del viaggio, e lì nella città santa abbiano trovato uno
sfolgorare strano di lanterne che ci hanno confuso.
E città santa è tutto quello che gli uomini hanno costruito chiamandolo valore, una quantità di
piccole luci che possono confondere gli occhi, grandi sovrastrutture, indorature strane, che
nascondono la vera luce, grandi paraventi dietro i quali c'è solo un gran buio. Troppo spesso gli
uomini chiamano tutto questo: religione
Tutto quel luccichio (ne sono immagine le strade piene di addobbi per un Natale diventato Festa
dei consumi) tutto un insieme di cose ci ha frastornato e ci è sembrato giusto fermarci per cercare
fra tante luci anche la Luce che ci aveva fatto uscire dalla nostra casa, che ci aveva spinto a un
viaggio tanto lungo.
Dio non può essere lontano da questo sfavillar di lanterne, il Padrone del Creato non può non
essere fra lo splendore, le ricchezze, tutta la potenza e la grandezza della città santa, degli uomini.
Dove c'è un po' di luce ci deve essere Dio, ci siamo detti..
Ma la nostra ricerca baldanzosa, sicura, diventata quasi scontata, è rimasta infruttuosa, sterile.
E allora? Allora ecco che ci rivolgiamo a quelli che devono sapere, quelli che hanno in mano i
Libri che parlano di Lui, quelli che sono i custodi della Sua Parola, e poi anche agli altri, chiunque
altro abbia la pazienza di ascoltarci.
Dov'è il nato re dei Giudei? Diteci dov'è che possiamo adorarlo? Ma la risposta che ci viene dal
Vangelo è sconcertante.
Il re dei Giudei,il padrone della luce, il figlio di Dio non è nella città santa, non è tra la luce e i
bagliori, non è nelle strade illuminate, non è nelle chiese piene di splendore, non è nelle case ricche
ben sistemate.
Lui abita in una povera capanna, è lì dove c'è tanta fame, tanta da morirne, è dove si soffre per la
guerra o per le malattie.
Per trovarlo e adorarlo bisogna rinunciare alle lanterne, alle piccole luci sfavillanti, cercarlo nel
buio della povertà là dove solo può risplendere la Sua Luce, la Sua Stella.
E allora il cammino riprende, con un po' meno di entusiasmo forse, ma con maggior decisione, con
una volontà più ferma.
E' la strada che conduce a Betlemme quella che dobbiamo percorrere anche se oggi Betlemme ha
un altro nome, un nome che è quello di una qualunque periferia di grande città, quello di paesi
interi stretti sotto l'incubo della fame o semplicemente il nome di casa nostra, il nome dei nostri
vicini, il nome di una fabbrica o una miniera dove si lavora in condizioni disumane, o il none di un
carcere in cui ingiustamente sono detenuti uomini che hanno il solo torto di aver lottato e
continuare a lottare per la giustizia.
La risposta alla nostra domanda non può che arrivarci da questa strada perchè "tu Betlemme terra
di Giuda".
Solo lì può avvenire che si manifesti a noi ogni giorno il nato re dei Giudei.
Solo lì dopo esserci prostrati e averlo adorato, troveremo il coraggio di offrirgli i nostri poveri
doni, quell'oro, quell'incenso e quella mirra, tutte quelle cose che credevamo belle, finché eravamo
in viaggio e che ora di fronte alla semplicità e povertà di Lui, hanno valore solo in quanto dono
preparato con tanto amore.

don Beppe Giordano
Venerdì 4 gennaio di quest'anno, il funerale di Mirella. La mattina dopo ho accompagnato don
Beppe all'Ospedale di Campo di Marte per una visita dall'ortopedico, visto l'acuirsi dei suoi dolori e
il progressivo impedimento a camminare e a muovere la mano destra. Aveva con sé anche una borsa
per un eventuale ricovero. Secca la sentenza del medico: "non è un problema ortopedico". L'amico
dottore aveva già allertato un neurologo. Nuova visita a seguire. Sembrano problemi circolatori. Sei
ore al pronto soccorso, TAC e osservazione, poi verso le sette di sera il ricovero non più in
neurologia, ma in medicina settore oncologico. Beppe è stremato. Ma, al mattino dopo iniziano due
percorsi: uno medico e gli esami si susseguono agli esami. L'altro fatto da gente vicina e lontana
che viene a fargli visita. E lui, sia pure con crescente fatica, che risponde a tutti, anche al cellulare.
Si fa strada la sentenza e la scienza riconosce la sua impotenza. Trasferimento all'Hospice San
Cataldo, Beppe sa cosa l'aspetta eppure si preoccupa più degli altri che di se stesso.
Progressivamente perde contatto con il mondo che lo circonda e noi tutti da lui...
Un amico suggerisce il modo di portarlo in chiesa, invece che all'obitorio. Lo accogliamo a San
Pietro a Vico, vestito di una bianca tuta da lavoro, come lui stesso ha voluto. Inizia un nuovo
pellegrinaggio di gente a rendergli l'ultimo saluto: il rivolo di persone si coagula, sabato 23 febbraio
sera, per una "veglia" che non sceglie la strada della preghiera strutturata, ma si nutre della
commozione, del dolore per la perdita di un amico, di ricordi che si fanno via via più vividi e
leggeri come se davvero lui fosse presente con i suoi giochetti da nonno saggio e bonario e le
battute che gli uscivano spontanee e frizzanti.
Il giorno dopo, alle 15, il funerale. La chiesa parrocchiale è stipata di gente che deborda anche fuori,
sul piazzale; ma è la "sua" chiesa, lo è da quasi 30 anni, dove altrimenti? La liturgia, presieduta
dall'Arcivescovo, concede solo alcuni brevi spazi finali alle parole del Direttore della Casa
Circondariale di Lucca, al coordinatore dei Preti Operai, alla Comunità parrocchiale, alla famiglia.
Ma la Comunità parrocchiale rilancia un nuovo appuntamento per mercoledì 20 marzo dalle 20.30
in poi, ancora sull'onda dei ricordi, dell'emozione, del dolore e della speranza.
Non si fermerà qui, però, il percorso di memoria viva e di incontro rinnovato con don Beppe. La sua
vita attraversa una storia che non è solo la sua e della gente che l'ha conosciuto. Beppe tocca i temi
principali della storia italiana e non solo, degli ultimi 50 anni: il vento conciliare per la Chiesa e il
'68 per la vita sociale e politica del nostro Paese, le lotte operaie degli anni '70, la strutturazione
dello stato sociale negli anni '80 e, in una dimensione planetaria, lo scontro al limite della follia
atomica USA-URSS, la globalizzazione degli anni '90 e, contestualmente il trionfo del consumismo
e dell'individualismo, fino ai problemi tipici dei giorni nostri che lo hanno visto sempre coinvolto
con passione.
Ripercorre la sua storia personale ci porterà quindi a riprendere in mano la nostra storia e ad
intrecciare di nuovo con lui un dialogo e un confronto, non più solo sull'onda dei ricordi, ma delle
domande più vive della storia di oggi.

Luigi

In questo numero

In questi ultimi mesi, la mia vita quotidiana ha avuto una sterzata molto decisa. La breve durissima
malattia di don Beppe Giordano e la morte, mi hanno consegnato dall'inizio dell'anno a un ritmo
sostenuto di spostamenti tra la chiesetta, la parrocchia di S. Pietro a Vico vicino Lucca e il carcere
di Lucca. Spostamenti brevi in assoluto, ma compiuti a rotazione nell'arco della settimana mi
lasciano scampoli di tempo spesso ingoiati dalla necessità fisica di un po' di riposo in quanto le mie
"batterie" si scaricano assai più velocemente di una volta.
Nessuno mi ha chiesto di occuparmi né della parrocchia, né del carcere. Ma l'amicizia con don
Beppe Giordano (la possibile confusione per i lettori tra don Beppe Socci della Chiesetta del Porto,
con cui ho vissuto fino alla sua morte nel 1998, e don Beppe Giordano di cui sto parlando ora, non
so come risolverla...) che risale ai tempi lontani del seminario, ma che sì è rinsaldata dopo che sono
rimasto solo alla Chiesetta per la morte di don Beppe Socci, mi aveva portato a sostenerlo nella sua
attività da lui portata avanti a gran cuore, senza lesinare sforzi di nessun genere. Quindi, ero assai
conosciuto nella parrocchia di S. Pietro a Vico e abituato (io e la comunità parrocchiale) a sostituirlo
e a celebrare con lui alcune delle feste più significative. Ugualmente nel carcere di S. Giorgio a
Lucca di cui era cappellano: ero ormai introdotto con relativo permesso di ingresso e lo assistevo da
tempo nei colloqui e nell'aiuto ai detenuti.
Così ora sono anche "nei piedi" di don Beppe Giordano.
Avendovi dato conto delle mie vicende ultime, capite perché questo numero l'abbia messo insieme
con quello che è stato detto di lui al funerale di don Beppe Giordano. Con alcune riflessioni mie sul
carcere e sulla esperienza di comunità parrocchiale.
Un altro filo di riflessioni mi viene dal periodo duro e difficile di crisi del coseddetto "stato sociale"
vissuto con particolare angoscia legata alle vicende della cooperativa sociale in cui ho lavorato per
15 anni prima di andare in pensione, i lavoratori e lavoratrici, ma soprattutto le persone che
usufruiscono dei servizi ancora in essere e le loro famiglie. Essendo ancora molto legato a questa
realtà, ho partecipato attivamente ai "presidi", alle manifestazioni, ai dibattiti che ci hanno portato
in piazza, per le strade, nei luoghi più diversi in difesa di servizi essenziali, di posti di lavoro, di
progetti concreti tesi almeno al mantenimento delle autonomie residue. In questo contesto è
maturata l'idea di intitolare una residenza per disabili, realizzata a Viareggio tra il 1994 e il 1999 a
don Beppe (Socci). Gesto dovuto, visto che già la residenza veniva chiamata popolarmente "la casa
dei ragazzi di don Beppe". Ma per me che ho promosso l'idea, voleva dire rifarsi a una storia, quella
che lo ha visto come uno dei protagonisti, di una città dove la solidarietà non era istituzionalizzata,
ma il senso di iniziative generose che nascevano e si collegavano tra loro cucendo insieme
sperimentazione sul campo, riflessione e ricerca di fondi. Promuovendo una cultura che oggi
sembra perduta a prima vista, ma che è possibile far rivivere e rinforzare là dove essa è rimasta
viva. Ritrovando le parole per dirla.

Sono felice!

"Voglio essere seppellito con una tuta da lavoro (bianca o marrone, fate voi): perché è nella storia
dei preti operai che io mi riconosco".
Dinanzi alla sua bara era esposta quest'ultima sua parola. La storia dei preti operai nella sua radice
ultima è storia di Evangelo. È una parabola vivente sbocciata in Europa, durante la guerra in
Francia, dagli anni '50 e nel post-concilio in Italia e in altri paesi del continente. Per molti preti la
scelta ha significato un'esegesi del Vaticano II, una via per seguire l'itinerario di Gesù come appare
nei Vangeli. Parabole viventi che incarnavano un canovaccio comune, ma interpretato da ciascuno
nelle condizioni concrete e nel territorio dove si è trovato a vivere. Ascoltiamo la parabola di Beppe.
Prete da quattro anni e operaio in fabbrica da uno, scriveva nel 1971 su «La voce dei poveri»:
«Lavoro in un'officina meccanica; tra il ronzio delle saldatrici, il lamento del seghetto, l'urlo della
troncatrice e tutti gli altri rumori delle macchine che lavorano il ferro, dove passo buona parte della
mia giornata [..]. Il mio essere prete è conosciuto da tutti e non mi ha mai fatto ostacolo». Ed ecco
il punto luminoso: «debbo dire che non ho ancora incontrato nessuno che mi abbia rifiutato come
persona, che mi abbia chiuso la porta... Questa penso che sia autentica grazia di Dio e autentica
disponibilità di fondo degli uomini e che è proprio compito mio di prete di raccogliere tutto ciò e di
viverlo a fondo e farlo venire a confronto, per realizzare quel dialogo che manca, perché tutto e tutti
possano ritrovarsi in un luogo che Dio ha scelto e voluto perché in esso tutto si ritrovi nell'unità
dell'amore: e quel luogo sono io.. e lo sono nell'officina, all'altare, nel dolore e nella gioia, nella
solitudine e nella comunità».
Attorno al 2000 per alcuni anni siamo venuti a Viareggio per gli incontri nazionali dei preti operai.
Era Beppe che preparava il cenone finale, aperto anche agli amici viareggini. Dalla bontà delle cose
imbandite traspariva tutta la cura, e quindi il cuore, che metteva in questa condivisione.
Due anni fa, al nostro convegno, ci ha raccontato la sua vita nel carcere di Lucca. «Io ho rapporti
con tutti. Con un certo orgoglio dico che l'anno scorso ho avuto su domanda dei detenuti 2374
colloqui. Vengono tutti [..] Non è facile; soprattutto metterle in relazione con il dato religioso che
stimo essere mio compito. C'è un.. 55% di detenuti di fede islamica.. Sono contenti, in generale,
e ritornano al colloquio ringraziando».
Con don Gianni ho incontrato Beppe malato all'Hospice. Ci aspettava. Sorrideva con occhi
splendidi. Mi ha strizzato l'occhio, a indicare un'intesa profonda. «Sono felice», ci ha detto. E lo
era davvero. Gli occhi risplendevano e sono rimasti ridenti per tutto il tempo. Poi ha manifestato la
sua volontà di indossare la tuta da lavoro. In me e Gianni vedeva che erano con lui i preti operai, la
lunga storia vissuta insieme. Non dimenticherò mai quel sorriso e quegli occhi e il suo «sono
felice»: sigillo di una vita.

Roberto Fiorini, prete operaio

Vita in carcere: il lavoro che non c'è

Il lavoro in carcere dovrebbe essere innanzi tutto un percorso di recupero delle persone. La pena
inflitta, in generale, dovrebbe tendere a questo fine.
Il carcere di Lucca è il più antico di Italia. Era, come molti altri in origine, un antico convento.
Tradizionalmente in questo carcere i detenuti impagliavano sedie, rilegavano libri, facevano lavori
di falegnameria, sartoria, ecc. Tutto questo è completamente finito. Perché? Semplicemente perché
non ci sono i locali e gli impianti a norma, e quindi non si può più fare niente. Addirittura la sezione
femminile, che è una sezione bellissima a fronte di quelle maschili tuttora aperte, è chiusa perché le
finestre danno sul corridoio e non direttamente nelle celle. Così le donne di Lucca che scontano
pene definitive sono a Massa o a Pisa.
Ci sono leggi garantiste che vengono applicate praticamente alla lettera e finiscono per impedire la
applicazioni di leggi davvero importanti come quelle che riguardano il recupero morale delle
persone.
Quindi ora il lavoro all'interno del carcere di Lucca non c'è. O meglio, è ridotto alle poche
possibilità che la stessa vita carceraria offre. C'è quindi lo "scopino" che fa le pulizie degli ambienti
"a comune", lo "spesino" che raccoglie gli ordini dei detenuti allo spaccio interno, lo "scrivano"...
pochi lavori che vengono proposti in turnazione ai tanti che sovraffollano il carcere.
Il sovraffollamento non è fuorilegge (!). Il regolamento carcerario dice che ogni detenuto dovrebbe
avere 7 mq a disposizione, mentre attualmente un detenuto a Lucca ha tanto spazio quanto l'interno
di una cabina telefonica.
I detenuti possono uscire dal carcere per lavorare fuori con il cosiddetto articolo 21, ma l'iter
burocratico è veramente complesso e in assenza di un lavoro di sensibilizzazione sul territorio le
possibilità di lavoro offerte sono minime. Anche le disposizioni sulle misure alternative cozzano
contro la realtà di tanti detenuti che non hanno un domicilio. E quindi se, come ora, nel Paese
diminuiscono le possibilità di lavoro e di alloggio per tutti, quanto più la crisi si abbatte su coloro
che sono svantaggiati e verso cui c'è diffidenza e pregiudizio.
Recentemente ho reso disponibili dei beni donati alla Parrocchia di cui sono incaricato, una grande
casa e un ampio terreno, per trasferirvi un'opera diocesana, la Casa S. Francesco, che viene sfrattata
dai locali in cui è nata. Così possono trovare alloggio, e quindi detenzione domiciliare, 18 persone e
si apre la strada ad una cooperativa agricola per il lavoro dei campi dati in comodato gratuito.
Si tratta comunque di una possibilità offerta a pochi. Il carcere di Lucca è stimato dal
Provveditorato della Toscana di una capienza variabile tra 90 e 110 detenuti, estensibile in
emergenza a 135. Attualmente ce ne sono costantemente più di 190 con punte di 215.
Questo il problema del lavoro in carcere e del "dopo" carcere.
Ci sono poi i problemi della vita in carcere in generale. Personalmente all'inizio volevo rimanere
cappellano volontario. Poi ho riflettuto sul fatto che solo chi appartiene alla struttura penitenziaria
può essere libero e visitare ogni ambiente carcerario, anche il più chiuso, e ho deciso di essere
cappellano a tutti gli effetti. Quindi posso avere contatto con tutti i detenuti, anche con quelli in
punizione o in isolamento. Rimane il fatto che comunque, in quanto cappellano del carcere, sono lì
per assicurare il diritto del culto per i cattolici. Cosa che ha dell'assurdo e chiama in causa la
persona con la propria coscienza e il senso della libertà.
Io ho rapporti con tutti. Con un certo orgoglio dico che l'anno scorso ho avuto su domanda dei
detenuti 2374 colloqui. Vengono tutti. L'ascolto permette di lavorare prima di tutto sulla presa di
coscienza della loro condizione, della loro storia (che hai fatto?) per poter prendere una strada
diversa (anche la vita carceraria ti spinge a prendere coscienza di quello che hai fatto, ma per
insegnarti a non farti prendere sul fatto un'altra volta....). Prendere in mano le proprie relazioni e
rileggere le "strutture interne" degli affetti, delle speranze che ognuno ha. Non è facile; soprattutto
metterle in relazione con il dato religioso che stimo essere mio compito. C'è un 50%, ma forse
meglio un 55% di detenuti di fede islamica. A loro mi rivolgo e cerco di fare questo lavoro parlando
del Corano, che conosco e mi sono sforzato di conoscere sempre meglio, cercando una lettura non
fondamentalista ma aperta ai valori e alle proposte. Sono contenti, in generale, e ritornano al
colloquio ringraziando. Mi possono anche prendere in giro, ma altri segnali mi inducono a non
credere sia così. Con altri, rumeni ortodossi per esempio, non c'è nessun problema a partecipare un
discorso di vita che trova i suoi punti di forza nel credo religioso. Così con i protestanti.
Ritorno sul discorso del lavoro perché quando dei detenuti ottengono il permesso e trovano da
lavorare fuori, sono diversi. Tra l'altro tutto il lavoro in carcere e fuori deve essere secondo i termini
delle leggi, assicurato e garantito nei diritti sindacali. I detenuti al lavoro per esempio riscuotono
anche la cassa integrazione. La retribuzione è comunque inferiore di un terzo rispetto a quella
praticata in generale. Il fatto di poter avere anche quel briciolino di soldi che poche ore di lavoro
permettono una vita diversa ai detenuti che ne godono la possibilità.
A chi entra in carcere, infatti, l'amministrazione penitenziaria da un materasso e un guanciale di
schiuma di lattice, due lenzuoli, una federa, una coperta, un certo numero di piatti e posate in
plastica, carta igienica e una saponetta. Se uno ha da lavarsi gli abiti (non c'è servizio di lavanderia),
se non glielo fanno da casa, bisogna si compri il sapone. Se uno vuol prendere un caffè, fumare una
sigaretta, se lo deve comprare. La lotta più grossa che si deve fare all'interno di un carcere è il
controllo dei prezzi della spesa, e io di tanto in tanto mi rivolgo al Direttore e agli incaricati perché
non ci deve essere approfitto in quel campo lì. Dall'esterno non può entrare dentro nulla che non sia
strettamente controllato e ammesso da un rigido regolamento. Il problema più grosso è la droga: ho
visto delle cose impensabili, le batterie delle radioline riempite di droga, bambine con la pallina di
hashish attaccata alla passatina sui capelli in modo che il padre con una carezza se la porta via...
Tutto questo porta ad una situazione di restrizione per cui chi non ha soldi non fa niente. La
prostituzione nasce di lì. Per avere qualcosa prima fai le pulizie, poi lavi i pantaloni, poi fai qualche
servizietto e finisci per prostituirti a chi ti fa fumare, ti fa il caffè, ecc.
I detenuti non tengono soldi, c'è un conto corrente interno gestito dal personale amministrativo e chi
ha soldi sul conto può fare la spesa. Io, per evitare il fatto umiliante di venire a chiedere soldi al
cappellano, due volte al mese metto 10 euro sul conto di chi ha meno di 3 euro. L'anno scorso ho
speso 20300 euro e rotti per questo. Naturalmente ho bussato alla Caritas, all'8 per 1000, alle
parrocchie... ho messo le mani ovunque potevo tirar fuori soldi, perché io ritengo che sia un dovere
di giustizia. Non è tanto, ma 20 euro al mese a chi non ha nulla, consente quel briciolino di dignità
che ti impedisce di essere totalmente dipendente dagli altri e quindi schiavizzabile da altri.
Sono due anni e mezzo che vivo questa situazione e mi sono reso conto di queste povertà così
esasperate dall'essere dentro una struttura che toglie la libertà.
C'è il problema dei suicidi, anche delle guardie si sono suicidate. Una situazione disumana.
Quello che conta è un minimo di rapporto umano. A Livorno, faccio un esempio, c'è un nuovo
carcere, Le Sughere, e i detenuti che hanno conosciuto la vita del vecchio fatiscente carcere lo
rimpiangono. Nel nuovo carcere sono cresciuti tutti i disagi. I nuovi carceri son fatti con dei moduli
in cemento armato che convergono al centro, tutti dotati di cancelli elettrici con comando a distanza,
telecamere da tutte le parti, una guardiola difesa da vetri infrangibili che impedisce anche il solo
contatto con le guardie. Tra le guardie ci sono persone brave, meno brave, poco brave. Pessime non
ne ho trovate, poco brave sì. Ma anche il conflitto verbale è una forma di rapporto. Quando io devo
parlare con un altoparlante, l'ambiente è sovraffollato e invivibile comunque per la ristrettezza degli
spazi, si rimpiange il vecchio carcere dove almeno un contatto umano con le guardie era inevitabile.
In un mondo di tale povertà, l'unica maniera di essere "ascoltati" è il suicidio o l'autolesionismo.
Non è raro trovare detenuti che spezzano una lametta di rasoio e si incidono la pelle tagliuzzandola
a volte con grave rischio per la vita o per lesioni permanenti.
Solitudini che gridano, tentativi un po' furbeschi di passare qualche giorno in infermeria, tentativi di
suicidio per richiamare l'attenzione finiti tragicamente magari perché chi doveva guardare non ha
guardato... Storie che si ascoltano dai detenuti stessi che ne sono protagonisti.
Ci vorrebbe un lavoro molto più attento... io faccio quello che posso. Per il "trattamento" ci sono 3
educatori, ma di fronte a oltre 200 persone, cosa possono rappresentare?

Beppe Giordano, Pretioperai 2011

Nel paesaggio manca una montagna

C'è uno strano silenzio nel carcere da qualche giorno, ormai tutti lo hanno saputo, don Beppe non
c'è più, la nostra «roccia» non ce l'ha fatta. Nessuno parla, nessuno vuole spartire il proprio dolore
con gli altri. Gli occhi sono bassi, la voce di più.
Don Peppe, come lo chiamavo io alla siciliana, con la «P», non era solo il cappellano del carcere,
era il compagno di tutti, il collega di ogni operatore, il fratello di ogni detenuto, anche se valdese,
musulmano, testimone di geova o di ogni altra confessione. Quando lo incontravi, per un attimo (..
ma solo per un attimo) restavi interdetto e timoroso, per l'imponenza fisica, per il vocione, bastava
poco però per far aprire il suo sorriso, che illuminava il volto dietro la barba, ed eri già conquistato,
la sua cultura profonda e l'ironia facevano il resto. Peppe è riuscito a instaurare con tutti un rapporto
unico, diverso ed esclusivo, riuscendo a far sentire ogni interlocutore speciale. La capacità di
ascolto, l'immensa umanità, l'incondizionato donarsi al prossimo lo rendevano sinceramente
partecipe delle ansie e delle aspettative di tutti. Era chiaro, diretto, leale così che ognuno dialogasse
con lui fosse altrettanto chiaro, onesto, leale. Se ci penso, mi ha sempre fatto l'impressione di una
grande montagna, la più alta che domina un panorama: sai che è lì, il punto di riferimento, quando
la vedi devi alzare lo sguardo, non può mentire, non puoi barare. Nella nostra amicizia, mi ha
sempre affascinato la sua complessa semplicità. Parlavi con lui come davanti ad un caffè e ti
accorgevi alla fine di aver discusso di filosofia, storia delle religioni, tradizioni popolari, sociologia
e ti alzavi più leggero, e contento, di prima. Aveva il dono celeste di essere se stesso e di mostrare
agli altri come essere veri, anche di fronte a verità scomode e nascoste, da affrontare, sempre. So
che inizieremo a parlarne, più in là, che riusciremo a piangere, INSIEME, come ci ha insegnato, ora
no, è ancora presto, ora l'assenza è troppa, nel paesaggio manca una montagna.

Dott. Francesco Ruello, direttore Carcere di Lucca

SI RIPARTE DAL TOPOLINO...
Da oltre un mese, sono io che entro in carcere due volte per settimana per colloqui con i detenuti e
la celebrazione di una messa. Avevo già un permesso come volontario e accompagnavo Beppe
alcune volte, soprattutto per aiutarlo nel portare "dentro" e distribuire pacchi di vestiario. Ero quindi
già conosciuto dalla direzione, dal personale, da molti detenuti.
Ma ora è tutta un'altra cosa...
Parlando del carcere uso dire che - a somiglianza di ogni cosiddetta "istituzione totale" come ad
esempio le case di riposo - può essere paragonato ad un meccanismo di un orologio, ad un motore
di automobile, ecc. Cioé ad una struttura complessa che deve trovare un sostanziale equilibrio e
scorrevolezza tra tutte le sue parti. Al meglio delle effettive possibilità. E' inutile fare "guerre"
contro quegli "ingranaggi" che non vanno o vanno proprio male. E ce ne sono... Ma è utile cercare
di ricavare il meglio possibile da ogni componente della struttura. Quindi, nonostante tutto il
negativo che si incontra dietro il cancello che ti viene chiuso alle spalle, credo occorra, come in
altre situazioni, una positività di fondo che metta in luce i lati "buoni" delle persone e delle
situazioni, anche quando ci vuole tutta la buona volontà per trovarne.
La speranza non può essere messa "in gabbia"!

La parrocchia è una famiglia

Beppe, uomo, prete, parroco, era tante cose: il suo sorriso, le sue braccia aperte, la sua casa
sempre aperta, la sua fede, la sua credibilità, la capacità di ascoltare e capire tutti, senza giudicare
ma - come diceva lui - se "giudizio" è "incontro", allora Beppe giudicava perché andava incontro
alle persone.
In tutti questi anni Beppe ci ha spiegato e dimostrato, come non contino i ruoli ma le persone; che
la parrocchia è come una famiglia in cui tutti si prendono cura di tutto in base alle proprie
capacità e, se anche uno non ce la fa, sostiene gli altri con una preghiera, un "grazie", un sorriso,
una pacca sulla spalla. Ci ha trasmesso la sua visione precisa e credibile del Vangelo, una visione
"alta", colta, ma allo stesso tempo concreta e quotidiana. Pienamente
umana. Anche la sua idea di catechesi era molto alta, quasi "rarefatta". Ogni esperienza poteva e
doveva essere catechesi e mai avrebbe accettato nozioni o schemi rigidi nel cammino di
accompagnamento dei bambini come nella catechesi dei giovani o degli adulti. Il tutto senza sconti
o banalizzazioni del messaggio evangelico e degli insegnamenti della Chiesa.
Guidati da questa visione, gli animatori pastorali e i catechisti hanno potuto essere liberi e creativi
e Beppe ha accolto tutto ciò che ci siamo inventati nel tempo: i campeggi con gli adolescenti, le
piccole grandi celebrazioni per aprire e chiudere il catechismo dei piccoli, i segni e le "pensate"
per sottolineare qualcosa nella liturgia domenicale.
Ma Beppe ci ha insegnato anche a stare insieme per fare festa e il piacere e il senso di stare intorno
ad una tavola apparecchiata. Guai a saltare la festa di Carnevale in parrocchia, a non fare la cena
porta-e-condividi per la festa patronale di SS. Pietro e Paolo.

Dall'intervento della Comunità parrocchiale di S. Pietro a Vico al funerale di don Beppe Giordano

CON UN NONNO CHE VIENE DA FUORI
Erano già alcuni anni che non vivevo la domenica con una comunità parrocchiale di riferimento. Le
ultime occasioni qui a Viareggio, come "accompagnamento" dopo l'uscita traumatica di parroci e
quindi in percorsi prevalentemente incentrati sull'ascolto di situazioni di "sofferenza" collettiva e
personale e percorsi di elaborazioni del "lutto" e del senso di abbandono.
Qui a S. Pietro a Vico, nella periferia di Lucca, zona abitata da circa 4000 persone, la mia
partecipazione alle liturgie di Natale e Pasqua (quando Beppe era impegnato in carcere) era una
costante da quattro anni, oltre alla mia presenza in alcuni momenti della vita parrocchiale legati alle
feste, ai campeggi.
Durante la breve atroce malattia di Beppe sono stato uno dei punti di riferimento e ho fatto la mia
parte come prete. E ho dato in seguito la mia disponibilità ad occuparmi della parrocchia in un
tempo di passaggio. La crisi del numero di sacerdoti si fa più acuta che altrove nella diocesi di
Lucca per un invecchiamento del clero che si impenna avendo la maggioranza di noi superato i 70
anni d'età. Così, vado avanti "navigando a vista" ma con il proposito di sostenere la comunità a
mantenere e a crescere la partecipazione attiva senza dipendere dalla presenza fisica di un prete.
Don Beppe, come si legge nell'intervento della comunità, aveva già fatto molto in questa direzione.
Si tratta solo di proseguire e di fare in modo che ciascuno possa apprezzare sempre meglio le
caratteristiche degli altri, specie quando c'è differenza senza percepirla immediatamente come
ostacolo ad un comune lavoro.
Un prete che esercita il sacerdozio ministeriale, cioé il sacerdozio di servizio al sacerdozio del
popolo di Dio, comune a tutti i battezzati... tanto per dirla in modo "tecnico"... aiutato in questo dal
fatto di essere anch'io uno che viene alla chiesa come tutti... anche se da un luogo più lontano dei
confini parrocchiali!

Casa don Beppe Socci

Martedì 14 maggio, con semplice cerimonia, è stata scoperta la targa che intitola a don Beppe Socci
la Residenza Protetta di via Comparini a Viareggio, finora conosciuta come "Arcacasa". Sono
contento che, su mia proposta, questa intitolazione abbia avuto un consenso immediato e
ampiamente condiviso sia da parte dell'associazione ARCA: Una Casa per l'Handicap, proprietaria
della struttura che da parte della cooperativa CREA che la gestisce da sempre.
Don Beppe, nella memoria dei viareggini, è strettamente legato ai portatori di handicap, in una
accezione allargata a tutti coloro che nella vita sociale sembrano destinati a rimanere indietro,
separati dagli altri da condizioni di vita che ne fanno dei "diversi".
"Indifferenti mai", un suo motto fatto proprio da CREA, nasce in lui dal sentirsi intimamente
immerso nella condizione umana che lo scuote fin nel profondo di sé: "Rimango sempre
intimamente sconvolto quando sul mio cammino quotidiano incontro qualcuno che nella sua
persona porta i segni di un abbandono, di una solitudine, di un'angoscia, di un vuoto che è
impossibile colmare" (don Beppe in Lotta come Amore, "La condizione umana", 1995).
La Residenza Protetta di via Comparini vide la luce grazie ad uno sforzo corale di tutti i settori della
società viareggina e don Beppe fu il testimonial e uno dei principali sostenitori del progetto. Essa
fu inaugurata nel dicembre del 1999, due anni dopo la sua morte improvvisa per infarto nel gennaio
del 1998.
Fin da allora la Residenza fu accostata alla figura di don Beppe e per la gente di Viareggio e non
solo, la Residenza è abitata "dai ragazzi di Beppe".
Perché allora questa intitolazione che può apparire scontata e tardiva?
Non solo per sancire un dato di fatto.
La realtà attuale, segnata da una crisi che si prolunga e non accenna ad allentare la presa sopratutto
sullo stato sociale e quindi sulla solidarietà collettiva, minaccia di travolgere le realtà, come questa
nostra Residenza, accusate di essere troppo costose e portatrici di distorsioni sugli stessi ospiti
rispetto a forme di affido o di sostegno alle singole famiglie.
Il riferimento a don Beppe acquista qui, a mio parere, tutta la sua bruciante attualità. La storia di
questo uomo mite, dalle energie mai esauste e dalla ostinata ricerca di un coinvolgimento concreto e
fattivo con gli ultimi, suggerisce una linea di pensiero e di azione che non si limiti all'ottica del
servizio. Negli anni in cui si caricò direttamente della responsabilità di quattro fratellini che non
potevano essere accuditi dai genitori, Beppe non ebbe timore di "sporcarsi le mani" con l'oscuro
lavoro di casalingo, ma seppe fare della sua casa (abitò sempre in affitto, cambiando più volte
appartamento) un crocevia di persone che dalla sua amicizia presero coraggio e idee per allargare la
pratica dell'affido familiare e della adozione in Versilia.
Ancora una volta nella storia dei bisogni e delle relazioni umane speriamo in un felice connubio tra
servizi sociali e cultura diffusa che sappia trovare, nonostante la crisi che ci attanaglia, risposte
possibili e sostenibili. Connubio che trovi nella "Casa don Beppe Socci" un punto di incontro, di
confronto e di ricerca verso forme di convivenza in cui ogni "differenza" non sia vista solo come peso e prezzo da pagare, ma come spinta verso forme più autentiche di integrazione umana.
Luigi Sonnenfeld

Handicap e parola

Negli anni in cui ho lavorato con portatori di handicap, c'è stato in me - e non solo - un lento
passaggio compiuto nell'esperienza quotidiana, da un atteggiamento di "sostituzione" delle
incapacità altrui con le mie capacità, a un atteggiamento di "ascolto" e di confronto delle rispettive
capacità e incapacità.
Non credo davvero che il gesto generoso che porta a sostituirsi a chi è reputato incapace, sia
approccio inevitabile. Chiedere se la persona apparentemente in difficoltà ha bisogno di aiuto, fa
parte di una educazione fondata su una cultura del rispetto e del diritto. Ma è sempre meglio - a mio
parere - lasciarsi trasportare dall'impeto del cuore piuttosto che rifugiarsi dietro una patina di
indifferenza e non fare neppure un passo verso chi ci è prossimo.
Quel che ho imparato in tanti anni è che nelle relazioni "dispari" si sbaglia ad ogni piè sospinto. E
non si finisce mai di imparare...
Si parte di solito dalla scontata ovvietà della normalità.
Un marciapiede lungo... due anni!
"Camminate sul marciapiede!". Puntuale l'avvertimento di uno di noi operatori, accompagnando un
gruppetto di disabili che percorre il breve tratto tra la sede del centro diurno e la mensa di un
cantiere navale, aperta - dopo il pasto delle maestranze - alle ditte in appalto, agli studenti e
professori del vicino istituto nautico e a qualche povero cristo come noi, fino all'esaurimento posti.
L'entrata della mensa è infatti appena dopo una curva della strada su cui sfrecciano veloci motorini
e auto rasando lo stretto marciapiedi. Questo avveniva alla fine degli anni '80, ma ci vollero un paio
d'anni di quel tragitto a dare coraggio a uno dei disabili a uscir fuori con questa domanda: "Oh, ma
che cos'è il marciapiede?".
Il mio "io".
Ricordo quando ero giovane, da queste parti, non si usava la parola "handicappato/a" ma "infelice".
E questa parola condannava le persone non "normali" ad una esistenza imprigionata in un giudizio
negativo da cui solo la morte poteva liberare. Non ho mai conosciuto persone più attaccate alla vita
delle persone "infelici"! Le potevamo rendere infelici noi chiudendole in casa, negando loro le cose
più elementari, riducendole ad animali... O, quando ci sentivamo buoni, sostituendoci a loro,
decidendo per loro il bello, il buono, il brutto o il cattivo...
Ricordo quando cercammo di "entrare" nel loro mondo, o meglio nel mondo di ciascuno di loro,
rispettando le loro naturali differenze. Mi emoziona ancora ritornare ai loro primi autoritratti, a
quegli incerti ovali che identificavano un volto appena appena accennato... E i primi timidi tentativi
di identificazione delle diverse parti del corpo e del corpo tutto insieme. Proseguendo poi a piccoli
passi verso accenni di odorato, gusto, sensazioni tattili... E l'ambizione di sperimentare "linguaggi"
in cui potessero esprimere e raccontare accenni di consapevolezza di sé.

L.

Di un sacco di cose... del parlare e del teatro

Quanto abbiamo imparato lavorando insieme? Quante parole ci siamo scambiati, quanti pensieri. Ed
i sogni, quante volte ce li siamo raccontati. C'è un camper nel luogo dei sogni che ci aspetta da
diversi anni e con cui partiremo in viaggio. Dovremmo andare in Sicilia, nella terra d'origine di
Monia e di Tonino. Poi andremo al Louvre, perchè Tonino è innamorato della Gioconda. Che cosa
è Federica, questa cosa che sentiamo quando parliamo fitte fitte di quello che vediamo scorrere
fuori dal finestro del pulmino, e tutte queste canzoni che sappiamo cantare, ma perché le stiamo
cantando? Ti faccio questa domanda e c'è Monia insieme a noi. Tu dici che è bello, la Monia dice
che è la felicita'. Io anche dico che questo stare a parlare fitte fitte e ridere e cantare, mentre
andiamo a fare un sacco di cose nella vita e nel mondo , anche per me è la felicità. E che forse è una
felicità proprio molto grande questo nostro imparare insieme, questo nostro lavorare insieme,
questo nostro sognare insieme. Fra queste nostre cose nella vita e nel mondo, un giorno abbiamo
iniziato a giocare al teatro. Abbiamo seminato un pensiero, un sogno, un'idea e questo è cresciuto.
Questa pianta l'abbiamo accompagnata nei teatri ed è stata presentata come nostro segno. Parla di
noi questo "Segni". Il martedi' è il giorno del laboratorio di teatro. Il tempo delle prove che a volte
diventa poco poco a causa degli imprevisti e degli impegni di tutti. Eppure i palchi delle nostre
rappresentazioni si susseguono. L'emozione dell'inizio quando il sipario è chiuso, la platea piena
e noi attori (dietro il sipario) in silenzio a respirare insieme e a lanciarci i baci da quinta a quinta .
Com'era piccolo lo spazio scenico nel teatro dei Rassicurati a Montecarlo ad ottobre 2012. Pioveva
terribilmente e gia' scendere per le stradine bagnate del paese ed accedere all'entrata del teatro
sembrava un'impresa. Ero cosi' preoccupata per tutti noi. Poco tempo per digerire tante indicazioni,
per prendere le nuove misure. Oggi so che non avro' piu' paura prima dell'inizio. Perche' Angelo,
Monia, Laura, Roberta,Giovanna, Federica, Angelo,Alessandro e l'altro Alessandro , Domenico
hanno coltivato il mio coraggio nutrendolo del loro. Ci vuole coraggio e consapevolezza per stare
su un palco. Mettersi in gioco ogni volta e avere fiducia in quelli che sono a raccontare insieme a
te. Completa fiducia. Solo cosi' le storie diventano esperienza e vita per chi le rappresenta e per chi
ne è spettatore. Il coraggio della fiducia nelle competenze di ognuno, il credere nelle nostre
possibilita, il tentativo di dare corpo al nostro crescere insieme . Questo nostro segno, questo nostro
quotidiano lavorare, cantare, sognare, creare, giocare al teatro lo chiamerai stare nella vita con
coraggio. Definirei questo segno come qualcosa di prezioso. In quanto prezioso necessita di cura e
di attenzione, necessita di impegno. Non è sbocciato da solo. Lo abbiamo accompagnato alla nascita
e adesso lo accudiamo perché cresca sano e forte.

Serena Del Cima
coordinatrice centro diurno disabili Stiava


Oppressione/sottomissione... naturale?

"In conclusione. Ho tratto due insegnamenti dalla mia esperienza.
La prima, la più amara e la più impreveduta, è che l'oppressione,
a partire da un certo grado di intensità, non genera una tendenza
alla rivolta, bensì una tendenza quasi irresistibile alla più assoluta
sottomissione. L'ho constatato su me stessa [..].
Il secondo insegnamento è questo: che l'umanità si divide in due
categorie: le persone che contano qualcosa e le persone che non
contano nulla. Quando si appartiene alla seconda categoria si arriva
a trovare naturale di non contare nulla - il che non significa che non
si soffra [..].
Per gli sventurati, l'inferiorità sociale è tanto e infinitamente più
pesante a portare in quanto ovunque essa viene presentata come
qualcosa di assolutamente naturale".

Simone Weil, La condizione operaia, Milano 1980, 149. 137
citato in "Parola e lavoro", Roberto Fiorini, Pretioperai n° 99-100
Febbraio 2013 pag. 1


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