Cari amici lettori, Lotta come Amore arriverà nelle vostre case - prevedibilmente... - giusto sul finire dell'anno. E' già accaduto in passato, più di una volta. Sembra che ci sia ancora tempo a settembre: eh, ancora tutto ottobre! Poi, all'improvviso, è già novembre e mi rendo conto che il termine di fine anno, considerati i tempi di stampa e preparazione della spedizione, è ormai terribilmente vicino...: allora cerco di correre ai ripari, in qualche modo, in qualsiasi modo..., puff puff!
Questa volta, però, a far girare e rigirare la penna in mano mentre il foglio rimane inesorabilmente bianco, non è stata la pigrizia (di cui sono comunque ben foderato!), ma una vera e propria patologia da "posposizione", Cioè a dire un consapevole e costruito modo di cercare di rimandare il più possibile questo appuntamento. Bah, - direte voi - ce ne può importare di meno dei tuoi tormentoni interiori, noti, del resto, per essere assai poco digeribili. Ma vorrei cercare di comunicare almeno qualcosa del percorso di questi mesi così tanto tanto faticosi per me eppure così immersi nel "nulla" come mai prima d'ora mi era accaduto.
Quelli tra voi che sono riusciti a seguire il contorto filo dei miei pensieri negli ultimi numeri del giornalino, hanno percepito un movimento teso a "cambiare vita". In effetti, ci sono stati dei segnali in superficie. Dallo scorso mese di gennaio non sono più parroco dei Sette Santi, la piccola parrocchia del porto. Ed ormai è "ufficiale" che alla fine dell'anno chiuderò il rapporto di lavoro con la cooperativa, anche se manterrò - per pochi mesi - un esile incarico lavorativo prima del pensionamento nel prossimo luglio. Sono quindi agli sgoccioli del mio "fare" ! Sto quasi per non fare più nulla... se non le funzioni indispensabili per sopravvivere... eppure: quanta fatica!
Soprattutto nei miei confronti. Nel convincermi attraverso continue "rassicurazioni" a lasciarmi andare, a non opporre resistenza, a non far rientrare dalla finestra ciò che riuscivo a far uscire dalla porta. E' proprio vero che cambiare il mondo può avvenire a patto che si cominci da noi stessi, dalla piccola grande zolla della nostra esistenza. E anche un piccolo infinitesimale "spostamento" del proprio io permette di vedere il mondo da un diverso punto di vista in una relazione tutta da scoprire.
Sono a questo punto. E avverto tutta la fragilità della condizione di chi deve di nuovo cercare di succhiare il latte della conoscenza dal seno della terra e ricevere l'annuncio dai cieli che si affacciano su questa vita.
Per mia buona sorte c'è la Chiesetta, piccola zattera ancorata in questo stupendo angolo del porto di Viareggio. Luogo abitato da Sirio, vissuti con Beppe, ancora sognato insieme a Maria Grazia. Di un sogno che non cessa di stupire pur nella nostra differente rispettiva condizione di vita.
E' dalla Chiesetta che voglio "ripartire", assumendo questo "luogo" in tutta la sua interezza di simbolo e di storia vissuta. Di ricerca continua. Sono più di trent' anni che vivo qui, eppure solo ora mi confronto con questo spazio decidendo di abitarlo. Strani giochi di prospettiva per cui si possono passare anni e anni in un luogo, in un ruolo, in un lavoro, il tutto segnato da una precarietà indiscutibile come in una eterna anticamera, "in attesa di..." quello che faremo "da grandi". Ho deciso di "fermarmi", di essere quello che sono: perché solo se fermo posso veramente partire, solo se sono posso divenire.
E mi viene da sorridere di me e del paradosso che incarno se, solo ora che invecchio, accetto di avere bisogno di essere amato e protetto come un bambino. Fino ad avere, del bambino, la stessa ingenua fiducia che porta ad allargare le braccia a tutto ciò che viene incontro.
Quando ho lasciato l'incarico di parroco, a chi mi chiedeva come potermi incontrare di nuovo, rispondevo che avrei acceso una piccola luce alla finestrina che dà sulla facciata, come segnale di presenza in casa e disponibilità all'incontro. Ho preparato una lucernetta e accenderla - anche se non nessuno la nota - mi fa palpitare il cuore perché è come se non mi nascondessi più e rivelassi la mia presenza rinunciando ad ogni ragionevole prudenza: ecco ci sono, sono qui, sono io. Niente, eppure sono io. La Chiesetta non è più la mia tana, dove rifugi armi a leccare le ferite, a cercare una tregua, una distanza dall'usura del lavoro, della relazione, della vita stessa. E' tornata ad essere il luogo di un incontro possibile. Anche se nessuno ne varcasse la soglia. Proprio in questi giorni, salendo sul tetto per pulirlo dai "pinugliori" (aghi di pino) Eduardo si è accorto che il campaniletto "a vela" della Chiesetta è troncato a metà per l'arrugginirsi dei mozzi della campana che hanno schiantato il cemento tra i mattoni "a facciavista". E mi ha convinto a intervenire prima di trovarmelo in casa dopo aver sfondato il tetto. Così, anche la campana potrà ritornare a suonare; non certo per vespri e novene. Chissà...?
Avverto con forza che la realtà attuale richiede di ritrovare, ri-suscitare il vangelo, riportarlo all'origine. Non ai suoi inizi! Perché la diversità di situazione mostra che una tale ricostituzione delle condizioni iniziali non può che essere fittizia... A situazione inedita risposta inedita.
Il ritorno all'origine... non è quindi affatto un ritorno. E' la scoperta, è l'invenzione oggi (con tutti i rischi dell'invenzione) di ciò che è apparso con il Cristo e non può risorgere se non mediante le sue relazioni costitutive, nella situazione attuale.
Dunque: sgombrare il terreno; sgombrarlo dalle problematiche in cui troppo spesso si rinchiudono i cristiani e che sono relative a una situazione morta. Sgombrare e ripulire da tutte quelle preoccupazioni, abitudini, conflitti che impediscono di raggiungere il luogo critico, che è il luogo della nascita.
...Da un lato, accettazione, riconoscimento, adesione.
...Ma al tempo stesso critica, e critica senza riserve, da ogni lato.
...E', questo, un aspetto decisivo, io credo: il cristianesimo del futuro non ha più paura della critica: in esso la forza della fede fa tutt'uno con una ricerca incondizionata della verità. Mai più dei "ma" restrittivi, frasi come "fino a questo punto sì, ma non oltre"! E se questa ricerca porti con sé gli interrogativi più severi - quelli che il credente in affanno chiama dubbi - non si ha più paura di affrontarli. La fede può pensare." (M. Bellet, La quarta ipotesi, ed. Servitium pp. 29-3( Paura? lo ora ho paura; eppure non riesco a distogliere la mente da questo percorso o meglio da questo "movimento" che ci suggerisce Annick de Souzenelle nel libro-intervista di Jean Mouttapa dal titolo "Nel cuore del corpo la parola" ed. Servitium:
"La nostra grande difficoltà consiste nella paura che abbiamo di questa distruzione interiore, che sentiamo bene che sarà il preliminare necessario ogni vera costruzione. Ecco perché molte person giungono alle spiagge della fede solo quando avvenimenti terribili - morte, incidenti, malattia, separazione - vengono a distruggere il castello di carta della loro vita sociale e affettiva. Per quelli, la verità del loro essere profondo appare improvvisamente - e spesso brutalmente - come evidente ed essi se ne accorgono, come Giobbe, che non c'è niente da dire su Dio, ma soltanto essere 1"'Io sono" al quale già partecipavano senza saperlo.
Ma perché attendere che delle lacerazioni venute dall'esterno ci insegnino un giorno chi siamo? Perché attendere grandi sciagure per imparare a lasciare colui o colei che non siamo, colui o colei che sembriamo essere?
La Bibbia, come la vita, ci insegna la necessità interiore di quel verbo che ritorna così spesso nelle scritture: "lasciare". Tutto comincia là e noi dobbiamo fare silenzio per ascoltare, all'interno di noi, nel cuore della nostra carne, nell'intimo del nostro essere, la parola che sentì Abramo:
"Lascia la tua terra... e va' verso di te" (pag.274).
In questo numero...
L'intera seconda parte di questo numero del giornalino l'ho dedicata ad un contributo di don Paolo Farinella, sacerdote e biblista genovese che riprende "l'indignato e sentito appello" che don Dino D'Aloia, sacerdote di Foggia, rivolgeva ai cappellani militari dell' esercito italiano: "strappatevi le stellette o fate carta straccia del Vangelo" (Adista, n° 61/04). Come premette Adista nel n° 66/04, il testo che qui riproduciamo in versione integrale, "torna in maniera circostanziata e alquanto documentata sulla questione già sollevata da D'Aloia, relativa all'inconciliabilità fra messaggio evangelico e vita militare. Inconciliabilità tanto più evidente nel caso di una guerra ingiusta e costruita sulle menzogne come quella che gli Usa e i loro alleati stanno portando avanti in Iraq ormai da un anno e mezzo. A chi, come il frate francescano Mariano Asunis, operativo in Iraq al seguito delle truppe italiane là dislocate, parla dei diciannove ragazzi della Brigata Sassari morti a Nassirya come di eroi morti per difendere la patria, don Paolo risponde facendo valere, contro ogni delirio militarista, la logica del buon senso e lo spirito del Vangelo: "questi poveri soldati di venturetta, se cristiani, avevano un solo dovere: disobbedire e dichiararsi obiettori di coscienza".
Torna attuale così uno dei "cavalli di battaglia" di don Beppe Socci, compagno di tanti anni qui alla Chiesetta. E, nella memoria di lui, non ho potuto esimermi dal riprendere lo stesso appello-denuncia: "strappatevi le stellette!", espresso in numerose lettere aperte e gridato nelle rappresentazioni scritte da don Sirio per una nuova coscienza popolare. Che si tratti ancora di uno snodo centrale della testimonianza evangelica in questo nostro tempo lo dimostra don Paolo.
A seguire questo mio scrivere, troverete un articolo di fratel Arturo, ancora una volta tratto dal numero di luglio di Oreundici. Nel parlare con Arturo abbiamo convenuto di procedere in questo modo perché non sia gravato di un ulteriore impegno, sia pure assai limitato, quando la sua giornata è ancora incredibilmente carica nonostante i novanta e passa anni d'età.
Quindi una testimonianza e una breve scheda della vita e dell' opera di frei Giorgio Callegari, domenicano nato a Venezia e morto recentemente in Brasile, sua terra d'adozione. Imprigionato e torturato al tempo della dittatura, insieme ai suoi confratelli impegnati in una lotta di tutta una vita con il popolo brasiliano, come riconosce anche il presidente del Brasile Lula, amico di frei Giorgio sin dagli anni di lotta contro la dittatura militare, in un messaggio inviato alla manifestazione "Omaggio a frei Giorgio" tenutasi a San Paolo il 13 febbraio 2004: "Poche persone meritano omaggi come il caro Giorgio Callegari. Era cittadino del mondo, sognatore di utopie e seminatore di speranze... ". Traggo questi scritti dal numero speciale della rivista "Revés do Avesso" ("Il rovescio del rovescio") promossa da frei Giorgio e pubblicato in edizione italiana per iniziativa della Associazione "Amici della Colonia Venezia di Peruibe". L'ho ricevuta dai Gabrieli incontrati in quella dolce, umida, serena giornata percorsa da fremiti di pianto e di vita che è stato il funerale di Francesco Tizzani, a Milano, partecipato da tanti amici e dai tanti giovanissimi nipoti:
"Arrampicano il padre, volgono indietro il capo incuriositi dalla cerimonia, fanno dei segni all'aria con le dita. Uno si sposta, gli altri si allineano lo seguono fuori dalla chiesa, in uno stormo muovono come passeri in cortile. Una madre li va a recuperare; vengono ridistribuiti in mezzo ai genitori. Poi di nuovo se ne vanno, frullano allegri e chiacchierini.
Mi piace immaginare che Francesco si libri spensierato, faccia gruppo assieme a loro, come si vede in certi affreschi angeli e nuvole... la loro leggerezza che ci tiene sollevati.
Forse no, ma forse sì.
Rassegnato ritorno alla scrivania."
Alberto
Chiude questo numero un "inno" alla vita di Padre Giovanni Vannucci. Son vent'anni dalla sua morte ma le sue parole sono fresche di speranza e di vita come se fossero nate oggi.
E' finito il lungo tempo del lutto. La zolla di terra della mia vita è brulla e ancora stretta dal gelo, ma il cuore intuisce che il vento è cambiato e soffia leggero, ancora incerto, dal sud, dai piedi, dall'opposto del fare che è il lasciarsi fare, da tutto ciò che non è importante ma suscita meraviglia e sorpresa.
Anche Lotta come Amore cambierà dal prossimo numero la sua veste e non solo.
Grazie alle amiche, agli amici che hanno sostenuto fin qui con amore questa povera ma inesauribile ricerca di sincerità.
Luigi
Il tema di Trevi mi appare come uno dei tanti tasselli che improvvisamente si stacca da un mosaico e cade ai piedi di colui che contempla l'opera d'arte e si ferma a guardarlo un momento sorpreso. Penso al famoso verso che si stacca da un poema che Ungaretti porta in sé: M'illumino d'immenso. La semplicità non è dell'uomo che emerge da un cammino di circa due milioni di anni, quando appare su quell'insieme di elementi il pensiero ordinatore che cerca l'unità nel molteplice. Nel centro di Lucca, la mia città, una lunga via vicino allo sbocco si ferma per formare un'ansa che accoglie una chiesetta dalla bella facciata romanica in bianco e nero, deponendola su una piazzola. Di fronte sta la casa di Gentucca, la giovane che tanto piacque a Dante Alighieri da fargli piacere la città condannata per i politici disonesti. Quasi sempre chiusa, vi ero entrato da adolescente e mi ero perso a guardare gli stucchi, gli angeli di gesso che svolazzando reggevano corone dorate, sante e santi che forse si annoiavano in quella piccola Versailles. La chiesa restò chiusa per anni, si diceva che sarebbe diventata il tempio dei martiri fascisti. Finalmente fu riaperta e ricordo come una delle emozioni artistiche della mia vita: mi fermai all'entrata pensando di non essere lì. Tutti gli stucchi erano spariti, il chiassoso interno non esisteva più e mi trovavo davanti tre navate silenziose nella' loro autentica bellezza. Ci ripenso oggi nel tentativo di spogliare le parole per dirvi che semplicemente vivere è come vedere per un istante questa realtà invisibile, spogliata di tutti i pensieri, i sentimenti, i bisogni e i desideri, che sono i movimenti della vita e il nascondimento della vita. E' come risalire alla sorgente navigando su un lunghissimo fiume e trovare un umile getto cristallino che perennemente canta la gioia di gettarsi in un percorso che attraverserà città e boschi.
Vi saranno tratti fra pietre che lo lacereranno disperdendolo in varie direzioni separandosi per unirsi finalmente ed entrare nella pace infinita del mare.
Se osiamo convocare amici e sconosciuti a un convegno che è all'insegna del "semplicemente vivere", dobbiamo avere in mente che possiamo indicare qualche esperienza nuova oltre le varie ginnastiche fisiche e psichiche che aiutano a fare sopportabile la vita piuttosto che puntare sul cambio di qualità. Aprendo il vangelo vi troviamo al centro la parola vita. Gesù dichiara che la sua ragione di essere al mondo, è quella di dargli la vita, che il mondo viva, io sono la vita. L'aggettivo soprannaturale non è ebraico, non è nel vocabolario di Gesù. E' accettabile l'aggettivo spirituale a condizione che lo spirito non sia pensato separato dalla carne, ma unito, magari con periodi di litigio come in una coppia che nei periodi turbolenti pensa separarsi, in altri più calmi ma sterili, al principio dell'invecchiamentc decide rassegnarsi e, nel migliore dei casi, i due elementi si fondono e vivono un tempo di vera gioiosa comunione. Gesù nel proporre la vita ricorre alla legge biblica: ama il prossimo tuo come te stesso, poi in altra parte pare contraddirsi chi ama la propria anima (vita) deve perderla. Egli dichiara di aver tanto amato i suoi e la sua stessa vita da darla totalmente senza resistenze come agnello portato al mattatoio. Dunque come la mettiamo? Cominciamo con l'affermare che Dio vuole che lo stare al mondo sia fonte di gioia il mondo è stato fatto perché ci stiamo bene dentro. Nei due milioni di anni in cui l'uomo è qui, cerca di migliorare le condizioni del suo habitat impegnandosi per maggiori comodità di vita. Se la religione ha negato talvolta questa intenzione che dirige l'amore umano limitandosi consolare il povero Giobbe tormentato da torture intollerabili, e talvolta creandone di più gravi, la colpa non ricade su Dio e meno su Gesù, ma fondamentalmente su progetti umani creati per giustificare i nostri egoismi e i nostri bisogni di piaceri immediati e in questa post-modernità la persona appare costretta da tali forze esteriori, eh non ha la libertà di pensare che forse esiste un altro metodo di stare al mondo. E la religione invece di essere fedele al progetto: dove è Cristo c'è la libertà, non sapendo dare un contenuto real a questa libertà dono di Cristo agli uomini, vi colloca dentro leggi e moralismi, facendo insopportabili i pesi che già gravano sulla infelice umanità. Gesù è finito sulla croce non perché il Padre lo abbia condannato a prendere il posto meritato da noi peccatori; ma ha vissuto come l'uomo per gli altri e ha collocato nel mondo tali dinamiche di amore cui ciascuno di noi può attingere per evitare le sofferenze inutili e star bene al mondo, contribuendo alla felicità degli altri che vivono insieme con lui questo spazio di tempo.
Mi pongo spesso due domande che vorrei girare agli amici che interverranno a Trevi e a quelli che si interesseranno ai risultati del convegno: E' possibile star bene al mondo evitando di essere altruisti e rifiutando di sacrificarsi per gli altri?
E' possibile star bene al mondo senza liberarci del giogo religioso? Prendo il giogo religioso come il più grave perché il cristianesimo è un progetto di liberazione deformato. Quando Gesù invita a prendere il suo giogo evidentemente polemizza col giogo religioso dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei. Quanti progetti di liberazione sono diventati tirannie nella storia e si sono estinti dopo aver versato sangue umano a sufficienza.
Il progetto cristiano è affidato allo Spirito che lo rinnova continuamente, e la persona religiosa che segue lo Spirito arriva a vedere chiaramente che, se le prescrizioni religiose, le varie teologie, i sacramenti, non ci aprono le vie che direttamente conducono all'incontro con Cristo liberatore dell'uomo totale, sono pesi insopportabili nella direzione della morte. Non oserei sostenere queste affermazioni fondandole sulle mie esperienze, ma le ritroviamo nella dottrina di Paolo: Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito, costoro sono figli di Dio, e voi non avete ricevuto uno spirito di schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo "Abbà, Padre!" (Rom. 8, 14-15). Nella lettera ai Galati pieni di paura per l'audace predicazione di Paolo, il predicatore usa parole molto forti affermando l'universalità della salvezza, non privilegio di un popolo: Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: "Maledetto chi pende dal legno", perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede (Gal. 3, 13-14). Dobbiamo sperare che la chiesa cattolica cambi metodo. Finora con molta diligenza ha creato scuole di catechismo con i suoi gradi e le sue promozioni. Non ha fatto altrettanto per formare dei centri di iniziazione per portare i fedeli sul cammino che va dalla condizione di schiavi della legge all'amicizia liberatrice del Cristo. Oggi sono gli intellettuali che si dicono fuori della chiesa, come Alberto Asor Rosa e altri, che in questa situazione di schiavitù generale chiedono alla chiesa di schiodare il Cristo dalla croce per restituirlo all'umanità. Certo non è facile incontrare la vita spogliata dalle pesantissime vesti di cui poco a poco è stata ricoperta, ma oggi l'impegno di noi credenti è quello di unirei alla richiesta stizzosa e qualche volta mordace di quei pensatori che stanno in attesa e rivolsero già alla chiesa presieduta da Paolo VI la domanda: Che cosa puoi dare oggi al mondo?
Il "semplicemente vivere" include l'atteggiamento di fronte al dolore: non cercarlo, non procurarlo, accoglierlo coraggiosamente e silenziosamente.
A questo proposito scrive Lévinas: Sofferenza in me, così radicalmente mia che essa non potrebbe divenire soggetto di qualche predicazione... è come sofferenza in me e non come sofferenza in generale, ma è la sofferenza benvenuta, testimoniata nella tradizione spirituale dell'umanità, può significare un'idea vera: la sofferenza espiatrice del giusto che soffre per gli altri. Penso alla tradizione ebraica che mi è familiare, al "io sono malato d'amore" del Cantico dei Cantici, alla sofferenza di cui parlano alcuni testi talmudici, sofferenza per l'amore degli altri a cui si lega il tema dell'espiazione. Bisogna vivere e trasmettere l'annuncio cristiano nella sua semplicità originale, questo annuncio è sostanzialmente la salvezza del mondo. Vedere tutto il dolore umano, la violenza scatenata oggi più forte che ieri, come un'attesa di salvezza che apparentemente cancella quello che la chiesa annuncia al mondo, che Cristo lo ha salvato. Credo che oggi dovremmo dire piuttosto che il Cristo sta liberando e salvando il mondo con noi e per mezzo di noi e non senza di noi. Questo annuncio darebbe un senso nuovo e vero al nostro vivere. La sofferenza è un'energia irreversibile e la vediamo spesso sprecata sia da chi la rifiuta, sia da chi la accoglie con stoicismo narcisista.
La proposta cristiana è di accoglierla coraggiosamente perché, ispirati dalla fede, sappiamo che entra come energia di salvezza per l'umanità.
Fratel Arturo
Giorgio Callegari, nato a Venezia nel 1936, arrivò a San Paolo in Brasile nel 1965 e da allora si adoperò sempre per promuovere tutti i diritti di tutti
Ho conosciuto Giorgio nel decennio degli anni 60, quando, con gli studenti della PUC - Pontificia Università Cattolica - di San Paolo, stavamo provando "Morte e Vida Severina" di Joào CabraI de Meio Neto, mandato in scena l'11settembre del 1965 e che, nel 1966, conquistò il Gran Premio nel Festival Mondiale del Teatro Universitario, realizzato a Nancy in Francia; occasione in cui venne proiettata nello scenario internazionale la cultura brasiliana attraverso la denuncia della fame e della povertà, ben rappresentata dagli studenti.
Durante il 1965, prima del debutto di "Morte e Vida Severina" furono fatte diverse prove, nell' auditorio del Convento dei Domenicani, nel quartiere di Perdizes, mentre aspettavamo il termine della costruzione dell' auditorio Tibirica che, dopo il successo del gruppo teatrale, prese il nome di Teatro degli Universitari della Cattolica - TUCA.
Giorgio Callegari, nato a Venezia nel 1936, arrivò a San Paolo nel 1965 e fino ad allora aveva partecipato attivamente alla vita sociale e politica del nostro tempo...
Giorgio, diacono domenicano, è stato critico di cinema e giornalista prima di arrivare in Brasile. Assistendo ad una prova del gruppo teatrale, rimase affascinato dal testo di Joào CabraI, dalla musica di Chico Buarque e dal montaggio del nostro spettacolo con Roberto Freire, Silnei Siquera e José Armando Ferrara.
"Morte e Vida Severina fu considerato dal Centro Nazionale di Ricerca Scientifica francese uno degli spettacoli più importanti del secolo. Quindi Giorgio non si era sbagliato quando aveva assistito a quasi tutte le nostre prove e spettacoli.
Nel 1967 e 1968 al culmine del movimento studentesco, anche i religiosi parteciparono a tutte le manifestazioni degli studenti.
Il nostro spettacolo "O&A", senza testo, fatto solo di immagini e suoni, rappresentava molto bene il periodo che stavamo affrontando nel nostro paese, in cui veniva rafforzandosi la dittatura militare...
Ci sono nuovi percorsi per tutti, diversi cammini, clandestinità, repressione, ma ci ritroveremo con Giorgio all'interno del DOPS, il carcere dove quasi tutti i religiosi del convento dei Domenicani erano detenuti e venivano torturati. Nonostante questo, tentavamo attraverso le celebrazioni e nei rari incontri con i familiari di rendere noti fuori dal carcere i massacri perpetrati là dentro. Dopo un po' di tempo, fummo tutti trasferiti nel carcere Tiradentes e fu là che Giorgio iniziò lo sciopero della fame, che fu poi condiviso e praticato per solidarietà da tutti (ala femminile e maschile) al grido unanime: "Tutto l'appoggio a Callegari! Tutto l'appoggio a Callegari"...
Siamo rimasti senza ricevere nessuna visita per lungo tempo, isolati. Giogo fu di nuovo torturato e poi trasferito all'Ospedale Militare, ma il nostro obiettivo immediato, la denuncia, fu raggiunto...
Qualche tempo dopo, abbiamo assistito commossi, assieme a molti degli ex prigionieri politici, all'ordinazione di frei Giorgio Callegari, OP, cerimonia celebrata in una semplice chiesa parrocchiale della periferia di San Paolo. Un quartiere operaio, della zona sud della città, dove Giorgio iniziò, con l'appoggio dei parrocchiani e di molti suoi amici, varie attività: l'alfabetizzazione degli adulti, corsi di tagli e cucito, la coltivazione di orti collettivi per integrare l'alimentazione, ed un supporto scolastico per i bambini.
Giorgio fu ordinato da dom Paulo Evaristo Arns, nostro grande difensore dei diritti umani, al quale molti di noi debbono la vita...
Io penso che Giorgio fece suo, come pochi, il pensiero del missionario frei Bartolomeu de las Casas che ha scoperto l'America non nella maniera degli avidi conquistatori, ma l'America bella e nuova, che risplende nei volti degli indigeni, riconosciuti nella loro dignità e nella pienezza dei loro diritti.
La teologia di Las Casas, che ha individuato nella grazia e nella libertà una predisposizione universale e che ha cercato di unire "el hecho y el derecho" (il fatto e il diritto) adoperandosi per assicurare e promuovere tutti i diritti per tutti prendendo come base la natura umana e la dignità della persona, ha influenzato molto la personalità dell' amico Giorgio che a questo pensiero unì quello di José Martì nella ricerca della "Nossa America": egualitaria, giusta, solidale, libera e liberatrice.
Ed anche come frei Josaphat, teologo domenicano, che diresse il giornale "Brasil Urgente" durante gli anni 60 e che diceva: "lottare opponendosi ai colonialismi: politici, economici e culturali di ieri e di oggi". Giorgio unì a tutto questo la sua sensibilità nel capire l'altro, capendo se stesso; partendo dalla sua esperienza nell' Azione Cattolica, introdusse questa rilettura teologica di Las Casas, che assieme al suo vissuto quotidiano fece partecipe di questo la "Nossa America" nei suoi momenti più significativi...
In Perù, nella città di Arequipa, creò un Centro di Documentazione e Informazione che preparava notizie da trasmettere da Radio Santa Rosa, dei padri domenicani peruviani, così come aveva fatto anni prima in Brasile con la creazione del Centro Pastoral Vergueiro.
In Nicaragua, lavorò intensamente con Tomas Borge e Ernesto Cardenal, integrando la Missione Nicaraguese e percorrendo vari paesi europei allo scopo di divulgare la Rivoluzione Sandinista e raccogliere fondi per la ricostruzione del paese.
Nel suo cammino, acquisì la grinta del Che e partecipò a tutti gli incontri di solidarietà con Cuba. Visse intensamente tutti i momenti; era una persona inquieta, sempre in cerca di informazioni nuove. Si stava preparando a celebrare il 1 maggio 2003 a Cuba, quando il suo male cominciò a manifestarsi.
Il 5 maggio fu ricoverato all'ospedale e fu operato il 13 maggio. Morì la mattina del 26 dicembre: non poteva che essere così per chi, come lui, visse tanto intensamente il cristianesimo. Era un irriverente e un grande predicatore.
Durante tutta la sua infermità ci ha fatto conoscere una quantità di amici, italiani e brasiliani che oggi fanno parte di questa confraternita che è opera sua: il CEPE. Amico, fratello, compagno di tutte le ore: nelle messe, nei battesimi, nei matrimoni, nelle feste...
Nei riti dell'addio, com'era il suo desiderio fu cantato da tutti il canto di Violeta Parra "Gracias a la Vida"; ed il nostro inno, quello del prigioniero politico. "Nossa jangada vai sair pro mar... vou trabalhar, meu bem querer" (la nostra zattera sta per prendere il largo... vado a lavorare, mio amato bene).
Elza Ferriera Lobo
educatrice e giornalista
Il CEPE
(Centro Ecumenico de Publicaçoes e Estudos "Frei Tito de Alencar Lima").
Cos' è ce lo dice lo stesso frei Giorgio in una intervista a "Revés do Avesso" ("H rovescio del rovescio"):
Dom Mauro Morelli, vescovo ausiliario della regione di Santo Amaro, nell' arcidiocesi di San Paolo, mi affidò l'amministrazione della parrocchia di Cidade Ademar, dove con altri fratelli e sorelle ho dato vita al CEPE.
Il CEPE è nato come centro di educazione catechistica popolare. Poi abbiamo visto che era necessario preparare leader di comunità e nacque una scuola di formazione che raccoglieva materiale didattico, e finì per creare la necessità di divulgazione del nostro lavoro e dette come risultato la rivista "Revés do Avesso". Quando nacque era un semplice bollettino che nel 1992 divenne periodico con l0 numeri l'anno. La tiratura è di 2500 copie ed è distribuita esclusivamente per abbonamento. I suoi lettori sono leader di comunità, professori di primo e secondo grado, organizzazioni non governative, e sono sparsi per tutto il Paese. Ma la principale attività, alla quale dedico la maggior parte del mio tempo, è il lavoro in favore dei bambini bisognosi in San Paolo e particolarmente in Peruibe, sul litorale di Santos. In San Paolo abbiamo costituito una rete di "Centri della Gioventù" in favelas che nessun borghese conosce ma che non possono essere ignorate dalla società civile.
A Peruibe, poi, abbiamo trasformato un luogo che era un acquitrino in un centro di accoglienza che assiste più di 200 bambini ogni giorno.
Il CEPE gestisce anche una scuola agroecologica che aiuta le Comunità Quilimbos della Valle del Ribeira. Chi sa ciò che fu questa regione durante la dittatura e lo sforzo che non fu fatto per capirla e svilupparla, può apprezzare ciò che significa il nostro lavoro...
Per informazioni Associazione onlus Amici della Colonia Venezia di Peruibe
Santa Croce 1430 - 30125 Venezia (www.amicicoloniavenezia.org)
Don Dino D'Aloia sacerdote di Foggia scrive ai cappellani militari:
"Strappatevi le stellette o fate carta straccia del vangelo".
Adista pubblica la lettera (0.61/04) e, subito dopo, questo contributo in merito di don Paolo Farinella
Nel ringraziare don Dino per le forti parole che dice, comunicando un profondo afflato civile ed evangelico, vorrei proseguire la sua riflessione, prendendo lo spunto da una intervista scioccante di Maurizio Pagliasotti al cappellano militare della Brigata Sassari, fra' Mariano Asunis, operativo a Nassiriya e pubblicata sulla rivista "Missioni Consolata" (n. 3/2004), dal titolo "Comandi, don Mariano!". L'intervista è collocata all'interno di uno splendido articolo (pp. 59-65) di Renato Sacco sui cappellani militari sul fronte della guerra in Iraq, dal titolo significativo "Quelle pesantissime stellette".
A rigore di verità, il p.Mariano Asunis ha inviato una lettera di contestazione alla rivista che la pubblica nel n. 6/2004, p. 6, con una precisazione del direttore. In questa precisazione, il cappellano fa alcune puntualizzazioni (ho detto... non ho detto), ma non nega la sostanza dell'intervista, anzi, in un certo senso, l'aggrava quando si riferisce ai "concetti esasperati di pacifismo". Conosco Maurizio Pagliasotti e conosco il personale della rivista "Missioni Consolata": della loro onestà e professionalità mi fido senza tentennamenti. Non conosco il frate cappellano p. Mariano Asunis, per cui ho cercato conferme in un' altra intervista non contestata del 7 gennaio 2004 al settimanale "Toscana Oggi" dove esprime gli stessi pensieri e le stesse valutazioni, dimostrando così la propria recidività di cappellano militare.
Nel leggere le sue parole, dure e nette senza sentimenti di misericordia, ma con giudizi senza appello, non si può non rimanere sgomenti Bisogna rispondere, con garbo, ma con fermezza, anche per non confondersi con una mentalità che potrebbe apparire lineare e condivisa, se nessuno la contesta. Ho atteso sei mesi per una qualsiasi reazione del mondo cattolico, ho letto anche la rivista dell'Ordinariato militare ("Il Cursore") in Italia alla ricerca di una smentita ufficiale dello stesso Ordinario o una presa di distanza di qualche collega cappellano militare... ho atteso invano, per cui voglio rispondere. Non rappresento alcuno, solo me stesso e la mia coscienza. Non ho nulla da spartire con le idee e i pensieri del cappellano militare capo della Brigata Sassari e dei cappellani militari in generale, compre il loro vescovo, Angelo Bagnasco della diocesi di Genova, che amano girovagare con stelle e stellette militari, anche quando celebrano l'Eucaristia.
L'articolo "Comandi, don Mariano!" riporta sentimenti intrisi di vetero patriottismo di maniera, espressi da un prete, che è frate, che è francescano e cappellano militare. Una carriera folgorante! Dal saio di San Francesco alla tuta mimetica! Dal dialogo fraterno con "frate lupo" all benedizione delle armi contro il "nemico" (sic!): "Noi siamo qui - afferma il militare frate - per difendere la pace e non per offendere... ; la pace va difesa anche con le armi in pugno come stanno facendo questi soldati; ci sono stati dei morti che hanno versato il sangue per la patria... noi italiani non siamo una forza di occupazione... noi siamo operatori di pace... ho un senso di nausea quando vedo certe manifestazioni [in favore della pace, ndr.]... ecco, quello [Gino Strada, ndr.] non lo posso proprio sopportare, da lui non prenderei nemmeno una medicina... voleva tenere in piedi Saddam che era un killer, un dittatore spietato e quindi ne era complice!". La logica del militare cappellano, si sa, non fa una grinza!
"Difendere la pace con le armi in pugno" è affermazione blasfema in bocca a un religioso, anche perché è l'eco del pensiero che Berlusconi formalizzò per l'Italia al seguito della Bush's Theory, sintetizzata nell'assunto che la democrazia si può e si deve esportare anche con le armi (cfr. intervista a Frank Bruni sul New York Times del 3 dicembre 2003, ripresa anche i15 dicembre). E' il fondamento ideologico della guerra preventiva o di aggressione.
Di fronte allo sgomento suscitato dalle parole del cappellano militare, mentre ero ancora intontito nella logica e nell'anima, ho fatto una breve ricerca su Internet per trovare qualcosa che smentisse la mia angoscia e mi riportasse al centro della ragione e al cuore della fede: anche nei fautori della guerra di supremazia non ho trovato parole così dure e così qualunquiste come quelle del religioso. Suppongo che i cappellani militari a forza di vivere tra militari e alloro modo e nel loro contesto, arrivino ad assumere la "mens" e la "ratio" fino a smarrire il senso del discernimento spirituale per appiattirsi sul pensiero del capo del governo che li paga. Il militare cappellano usa un vocabolario guerriero ed esprime un atteggiamento fondamentalista che non è inferiore a quello dei fanatici islamici che egli definisce suoi "nemici". Come un attore si immedesima nella parte fino ad identificarsi con il ruolo che recita: "Noi - dichiara a "Toscana Oggi" - dobbiamo portare a termine il mandato ricevuto. Certamente con un po' più di paura [siamo dopo l'uccisione dei diciannove carabinieri italiani] ma anche con più attenzione. Siamo sicuri che il Signore ci assisterà anche se non può paralizzare la mano del nemico: c'è il libero arbitrio... il cappellano è visto come loro [cioè come i soldati, ndr]... ".
Parole come "mandato ricevuto" e "nemico" sono colpi di kalashnikof sulla bocca di un prete in missione di pace. San Francesco corse dal Saladino in piena guerra crociata passando tra gli eserciti avversari disarmato e a mani nude: lo stupore suscitato fu così grande che il Saladino concesse a lui la custodia dei luoghi santi, mentre i crociati che avrebbero dovuto difenderli furono sconfitti.
Da chi riceve il "mandato" il cappellano militare? Non dal vangelo di Gv. 13,34-35:
"Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri". Non dal vangelo di ML 5,43-46: "Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?" (cfr. Lc. 6,27.35). Si potrebbe continuare a citare vangeli all'infinito, ma si fa prima a regalarne una copia a tutti i cappellani militari che ne fossero sprovvisti.
Sarebbe interessante conoscere il pensiero dei militari cappellani sulla dichiarazione del portavoce del papa, Joaquin Navarro Valls, riportata da tutta la stampa internazionale il giorno 19.03.03: "Chi decide che sono esauriti tutti i mezzi pacifici che il Diritto Internazionale mette a disposizione si assume una grave responsabilità di fronte a Dio, alla sua coscienza e alla storia". Il giornale "La Stampa" dello stesso giorno commenta: "E' la risposta della Santa Sede, che fino all'ultimo ha chiesto che si desse fondo ai mezzi pacifici per risolvere la crisi irachena, all'ultimatum della Casa Bianca". Lo stesso giornale riporta la dichiarazione del direttore della Radio Vaticana, padre Pasquale Borgomeo, che si fa interprete del "pressing" senza precedenti cui è stata sottoposta la diplomazia vaticana per avallare la guerra di Bush, Blair e Berlusconi: "E' sotto gli occhi di tutti quanto sia lontana l'Onu da un avallo dell'intervento militare in Iraq. Ma sembra degno di seria considerazione anche il fenomeno di una schiacciante maggioranza di cittadini contrari alla guerra proprio nei Paesi i cui governi si apprestano a condurla o ad appoggiarla". Evitino perciò di attribuirsi [i capi di governo che hanno deciso la guerra] una missione salvifica e non pretendano di agire in nostro nome. E soprattutto non nel Santo Nome di Dio".
Padre Borgomeo, che non parla mai a titolo personale, esprime concetti diametralmente opposti a quelli dei cappellani militari. Il papa aveva usato le stesse parole in molteplici occasioni, pubbliche e private, arrivando a definire "bestemmie" le ragioni addotte per giustificare la guerra come scontro apocalittico tra bene e male (cfr. Enzo Bianchi, "Guerra e pace: non nel nome di Dio", in "La Stampa" del 28 marzo 2003). E' lecito domandare, in questa circostanza, da che parte stanno i cappellani militari? Dalla parte del papa o dalla parte di Bush e Berlusconi, di cui sembrano gli esegeti ufficiali? Le parole e il modo convinto espressi nell' intervista, pongono il problema più ampio della presenza di ministri religiosi in mezzo ai militari e del loro modo di starci.
Tutto il personale religioso che svolge un servizio nelle strutture militari entra a fare parte dell'organico delle forze armate e in quanto militare ognuno presta giuramento di fedeltà allo Stato, di cui è funzionario. Solo in quanto funzionari sono anche ministri religiosi: ricevono, infatti, uno stipendio "manu militari" come dipendenti del Ministero della Difesa.
Dal vescovo all'ultimo cappellano, ciascuno secondo il proprio ruolo, tutti sono insigniti di gradi militari, le cui insegne e mostrine possono indossare sugli abiti ecclesiastici (talare e clergyman): uomini della Parola e del Sacramento che si autoreferenziano come personale militare, rendendo impuri i simboli stessi del sacrificio sacerdotale, perché le stellette sono il segno di appartenenza ad un mondo, ad una logica e ad una "struttura di peccato" che si nutre e si alimenta di violenza, di sangue e di micidiali armi pensate apposta per uccidere, un mondo satanico per cui Gesù non ha pregato (Gv.17 ,9).
Nella stessa intervista a "Toscana Oggi", in un afflato emotivo di esuberanza viscerale, il cappellano-capo, p. Mariano, afferma di "vestire come loro" cioè di essere un militare e lo dice espressamente: "sono un militare" (sic!). Quando ero giovane, per un prete era disdicevole frequentare cinema, teatro e sedi sindacali, oggi si può essere preti-militari senza nemmeno arrossire! Forse è tollerabile che un prete possa assolvere il suo ministero anche tra i soldati, vestendo la stola del perdono e della misericordia, ma gloriarsi di vestire la divisa militare rasenta l'ignominia e il capovolgimento di ogni etict E' una contraddizione palese nonostante la funzione dei cappellani militari sia regolata da leggi civili ed ecclesiastiche speciali, come stabilisce il can. 568 del Cjc ("Legibus speciali bus") ! Il can. 289 Jl del Cjc obbliga il clero a non prestare servizio militare perché "non si addice allo stato clericale" e invita non solo i chierici, ma anche i "candidati agli Ordini sacri" a non prestare il servizio militare volontario. In altre parole, il Codice proibisce d indossare la divisa militare che è simbolo di un certo stil di vita o di un modello che lo stesso Diritto positivo della Chiesa definisce non consono/non si addice ("minus congruat"). Don Lorenzo Milani, accusato di apologia di reato per aver difeso l'obiezione di coscienza contro un gruppo di cappellani militari che l'avevano definita "viltà estranea al sentimento cristiano dell' amore", nella sua autodifesa in tribunale, così commentava il disposto del Codice: "La Chiesa considera dunque a dir poco indecorosa per un sacerdote l'atti vità militare presa nel suo complesso. Con le sue ombre e le sue luci. Quella che lo Stato onora con medaglie e monumenti" (cfr, "Lettera ai giudici" del 18 ottobre 1965).
Il cappellano intervistato se ne rende conto e, infatti, dichiara: "Preferisco non parlarne del grado militare. Ce l'ho perché sono militare. Ma io non ragiono col grado. Nella mimetica ho una Croce: quello è il mio grado. Quando un contingente parte ci deve essere l'alta professionalità dei militari, ma non si può trascurare un particolare essenziale per la riuscita della missione stessa, soprattutto quando si è lontani dalle famiglie: non si può tralasciare l'aspetto della fede in Dio".
L'alta professionalità militare non è forse la professionalità alta di uccidere? A che cosa servono le sempre più sofisticate armi di cui sono equipaggiati? La fede in Dio non esige che i militari cristiani facciano in blocco obiezione di coscienza, in nome del comandamento dell'amore che ogni battezzato deve testimoniare ovunque si trovi, anche e specialmente di fronte a coloro che il mondo militare e il cappellano definiscono "nemici"?
Il cappellano porta il segno della Croce sulla "mimetica" e immagino che spesso benedica a colpi di Crocifisso i suoi soldati che vanno in missione di alta professionalità contro gli iracheni, anche se sono bande di sbandati e terroristi, pronti ad ogni evenienza anche ad ammazzare. Si suppone che anche "i nemici" che si trovano dall'altra parte facciano lo stesso: gente che non vuole stranieri e intrusi nel proprio Paese con i loro segni e i loro simboli religiosi, con i loro preti che benedicono, aizzano fraudolentemente al sacrificio stesso della vita, senza rispetto di Dio e della vita umana. Tutti invocano Dio per rimanere sani e salvi, per cui se deve morire qualcuno, è giusto che il Signore faccia morire quelli dell' altra parte. Rapimenti, uccisioni degradanti (perché esposti sull'agorà mediatica) non sono forse il frutto cattivo di una guerra che si è sviluppata come un albero malvagio ramificato ovunque? I profeti dell' esportazione della democrazia a qualunque costo e della lotta al terrorismo in una sola direzione e con la doppia morale, non solo hanno sbagliato valutazione perché fondata sulla menzogna consapevole, ma hanno anche imboccato una via senza ritorno, se non al prezzo di un inutile mattatoio di sangue innocente, complici i cappellani militari che quel sangue vedono scorrere in silenzio, continuando a benedire uomini, armi, e infine la stessa guerra. Il vangelo però non demorde:
"Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produce frutti buoni" (Mt. 7,15-18).
I frutti della guerra sono davanti agli occhi di tutti: "i perfidi operano con perfidia. Terrore, fossa e laccio ti sovrastano, o abitante della terra. Chi fugge al grido di terrore cadrà nella fossa, chi risale dalla fossa sarà preso nel laccio" (ls. 24,16-18; cfr. Ger. 20,4). Sarei curioso di conoscere le preghiere dei cappellani militari, quando benedicono la professionalità alta dei soldati che vanno in battaglia. Povero Dio! Chi deve ascoltare? Chi è andato in una terra straniera a imporre la democrazia anche con le armi in pugno o chi a quell'imposizione si oppone con ogni mezzo, anche ignobile, vigliacco e immorale? Con ogni probabilità, Dio in queste cose proprio non sta e ha abbandonato l'umanità nell'inferno della pazzia dei suoi governanti, secondo il proverbio latino: "Coloro che vuole perdere, Dio li fa impazzire". L'umanità intera è nelle mani di governanti pazzi perché solo i pazzi come Bush, Blair e Berlusconi potevano pensare che la guerra potesse essere una soluzione.
Al manicomio bisogna aggiungere Kwasniewski presidente polacco che, per una manciata di dollari americani, lui postcomunista antiamericano, ha gettato il suo Paese nella fornace della guerra.
Siamo anche nelle mani dei cappellani militari che dovrebbero essere il segno di contraddizione vivente, stimolando la coscienza critica dei soldati e invece diventano essi stessi militari schierati nella parte occupante, con l'impossibilità di pregare il Padre "nostro" perché da quel "nostro" escludono tutti gli altri che non sono italiani, polacchi, americani o inglesi.
Dopo Abu Ghraib e Guantanamo, è lecito dubitare: i cappellani militari americani non potevano non sapere di quanto stesse succedendo nella prigione delle torture simbolo dell'abiezione prima con Saddam Hussein e poi con gli esportatori di democrazia.
Se sapevano sono complici, se non sapevano sono superflui e quindi inutili perché vuol dire che il "sistema" li usa come coreografia. Fino ad oggi non ho letto ancora una presa di posizione dei cappellani militari contro la tortura.
Il 14 luglio 2004 nei cantieri di Riva Trigoso, provincia di La Spezia, il cardinale Tarcisio Bertone, alla presenza delle massime autorità civili e militari, benediceva (?) la nuova portaerei Cavour, pensata e costruita per distruggere abitazioni civili, uomini, donne e bambini senza discriminazione. Molte furono le voci di protesta che si levarono dentro e fuori la Chiesa. Questa nave, vera macchina di guerra e di morte, è stata definita un gioiello e un orgoglio della marina italiana (lunghezza m. 242, larghezza m. 39, velocità 28 nodi, autonomia di 7.000 miglia [può raggiungere senza scalo il Golfo Persico con il 50% del combustibile imbarcato], pieno carico di 27.100 tn [può caricare 8 aerei Av-8B Harrier e caccia Joint flighter o 12 elicotteri più 100 veicoli leggeri e 24 carri armati Ariete da 60 tn ciascuno] ed ha un equipaggio di 1.210 persone. Questo gioiello costruito per la guerra ha un costo di 900 milioni di euro [esclusi i sistemi missilistici ed elettronici con i quali supera forse i 1.500 milioni di euro] e può operare in ambiente contaminato da agenti nucleari, batteriologici o chimici. Entro il 2008 verranno costruite dieci fregate (al costo di 350 milioni l'una per un totale di 3.500 milioni di euro).
Con queste cifre da capogiro, buttate letteralmente in mare, si potevano o non si potevano eliminare le cause strutturali del terrorismo, promovendo progetti di sviluppo, cultura, musei, scuole, università, ospedali, lavoro e sconfiggendo la miseria che è l'anima della disperazione che porta al terrorismo? Che ne pensano i cappellani militari?
La tradizione della Chiesa dei primi secoli proibiva ai cristiani alcune professioni e non dava il battesimo se non dopo il loro abbandono in quanto giudicate non coerenti con la nuova vita; esse, infatti, potevano indurre gli altri, specialmente i semplici e i pagani, in confusioni pericolose.
La Tradizione apostolica, scritto patristico intorno al 215, attribuito al prete romano Ippolito, al n.16 riporta un lungo elenco di mestieri inadatti alla condizione di cristiani, come militari e macellai (per la consuetudine con il sangue), attori (per l'utilizzo di maschere mitologiche e quindi di idoli) e commercianti (la gente comune pensava che fossero ladri per natura).
Queste proibizioni salvaguardavano la vera immagine del Crocifisso che è la coerenza della pace nella verità dei credenti, come insegna un anonimo scritto del I-II sec. D.C.: "i cristiani... abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono distaccati come stranieri... Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi ...Così eccelso è il posto loro assegnato da Dio, e non è lecito disertarlo!" [Lettera a Diogneto, 5,5.10; 6,10]. Equipaggiato di tuta mimetica, il cappellano militare come può con la sua vita superare le leggi e stare nel posto eccelso che Dio gli ha assegnato per dare testimonianza del suo essere straniero in questa terra e per dire anche in terra di Iraq che siamo tutti cittadini del cielo?
Può mai essere compatibile il Crocifisso con luoghi e contesti che sono palestre di formazione alla violenza scientifica, alla crudeltà e all'uso delle armi per uccidere? E' quantomeno contraddittorio vedere il Crocifisso che impose a Pietro di riporre la spada nel fodero per non difendersi ( la violenza (ML 25,52), ricevere il saluto militare o gli "onori" (!?) militari da soldati che impugnano armi sofisticate, pensate esclusivamente per uccidere? Durante l'ultima guerra mondiale, da una parte c'erano l'Italia e la Germania e dall'altra l'Inghilterra, gli Stati Uniti e la resistenza della Francia e dell'Italia. Ogni esercito aveva i suoi cappellani militari, gli uni contro gli altri armati. Se era lo stesso Dio per tutti, un po' cattolico e un po' più tanto protestante, è lecito domandarsi da che parte stesse Dio. Stava con i cattolici italiani e protestanti tedeschi contro i protestanti e qualche cattolico inglese, americano e resistente? Come gestiva il traffico delle bombe? Secondo il peso specifico della preghiera dell'uno o dell'altro?
La Madonna per quali figli tifava: per i fascisti o per i resistenti? Per i cattolici o i protestanti?
Se consideriamo i 50 milioni di morti, Dio non è stato da nessuna parte perché in quell'inferno di esclusiva fattura umana, non ci fu posto per lui, nonostante i cappellani militari.
Se invece consideriamo l'esito finale, dobbiamo convenire che è stato contro l'Italia cattolica e fascista e la Germania nazista e il Giappone buddista, ma a favore di due nazioni a maggioranza protestanti, America e Inghilterra, e con i cattolici, comunisti e socialisti che militarono nelle file della Resistenza. Anche Dio è traditore della "patria nostra"? I cappellani militari italiani che militavano da patrioti nell'esercito fascista esercitavano il loro ministero anche quando davano la comunione ai militari che obbedivano alle leggi razziali e ai rastrellamenti della popolazione civile? In tutte le chiese si pregava lo stesso Dio per i propri soldati cristiani contro i soldati cristiani in campo avverso: Dio chi doveva ascoltare ed esaudire, visto che non poteva accontentarli tutti? Ho visto documentari d'epoca con preti e frati, orgogliosi di mostrare le stellette sulla tunica e sul saio e alcuni addirittura che sventolavano la bandiera fascista come fosse uno stendardo professionale, senza un minimo rigurgito di sdegno verso un regime ignobile, per giunta ateo e anticlericale.
La patria era rappresentata dai gagliardetti blasfemi del fascismo o dalla minoranza che resisteva sulle montagne? Chi ha servito "Dio, Patria e Famiglia": i cappellani militari fascisti o i preti che nascondevano gli ebrei a costo della loro vita? Qualche cappellano può rispondere?
I cappellani militari nella guerra di Etiopia benedicevano i soldati italiani che bruciavano i villaggi o usavano il gas contro la popolazione inerme: la storiografia oggi lo ha dimostrato, documenti alla mano (telegramma n. 12409 del 27-10-1935 di Mussolini a Graziani: "autorizzo impiego gas"; telegramma n. 29-3-1936 di Mussolini a Badoglio: "rinnovo autorizzazione impiego gas qualunque specie e su qualunque scala": cfr. don Lorenzo Milani, "L'obbedienza non è più una virtù"). Dov'erano i cappellani e che cosa facevano in questi frangenti? Pregavano che il fuoco non bruciasse del tutto i poveri etiopi visto che erano già "neri" per loro conto?
O che il gas non li asfissiasse troppo? O benedicevano anche le armi all'uranio, usato in Bosnia, lasciando segni indelebili di morte nella missione di pace sulla pelle degli stessi poveri militari che sono morti dopo il loro rientro a casa?
Un prete che parla di "nemici" o di "mandato ricevuto" da un governo pagano che oggi c'è e domani anche (visto l'andazzo di "questa" sinistra evirata), un prete a stipendio militare come funzionario di governo, ha sempre torto, anche quando può avere ragione. Egli non ha titolo per essere un educatore di giovani, militari compresi, perché egli è, per sua scelta, corruttore di coscienze che educa all'inimicizia e forse anche all'odio, giustificando con la sua stessa presenza in tuta mimetica che il bene e il male sono la stessa cosa.
Solo un caso può giustificare la presenza di un cappellano non-militare: quando si assume l'impegno di educare i soldati cristiani a disertare in massa da ogni esercito, da ogni arma, da ogni governo che calpesta la propria Costituzione, specialmente quando questa usa parole da leggersi come una profezia perenne: "l'Italia ripudia la guerra". Un cappellano si giustifica se aiuta i soldati a redigere il libello del ripudio per consegnarlo al governo e alla coscienza del proprio popolo.
L'art. 11 della Costituzione italiana, infatti, impone: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".
Il cappellano militare, preoccupato di benedire armi, forse non trova il tempo di leggere e meditare queste ispirate parole della suprema Carta che fanno l'onore e la civiltà del nostro Paese.
La Carta parla al presente indicativo (ripudia): indica, cioè un atteggiamento interiore permanente, sempre in atto, senza distinzione di passato, presente e futuro. L'atto di ripudio è un solenne giuramento che coinvolge tutte le generazioni, indirizzandole verso l'orizzonte esclusivo della pacificazione e della pace. L'art. 11 parla di ripudio "all'offesa degli altri popoli" contro ogni aggressione o guerra preventiva), di "limitazioni di sovranità" (= cioè la propria) e di "organizzazioni internazionali", nel caso specifico l'Onu, che, invece, è stato esautorato e umiliato in nome della Bush's Theory e cioè del diritto di sparare il primo colpo contro ogni diritto, nazionale e internazionale.
Il cappellano militare, qualsiasi cappellano militare, è lontano dalla lettera e dallo spirito di queste nobili e ispirate parole, mentre si adegua alla strumentalizzazione di quel Cesare a cui dovrebbe restituire il suo soldo per tornare a vivere come "immagine e somiglianza" suprema di quel Dio che non ha confini, né patrie, né civiltà (cfr. Mt 22, 21; Lc 20,25).
La dichiarazione solenne e austera dell' art. 11 della Carta fa giustizia da sola di tutta la retorica bugiarda e stucchevole sui disgraziati eroi di Nassiriya, utilizzati per una immensa mistificazione mediatica, complici i cappellani militari, per strumentalizzare l'emotività della gente comune asserragliandola attorno ad un governo in grave difficoltà di credibilità, specialmente per il fallimento del semestre europeo di presidenza italiana, che si è dimostrata incapace, vuota e sempre più succube dell' America fino al punto di giustificare la guerra russa contro la Cecenia e incassando la smentita immediata di tutti i capi di governo d'Europa. Tv e giornali di regime per giorni e giorni hanno sviolinato agli eroi di Nassiriya, morti per la patria. Eroi di che? Eroi perché? Eroi di quale patria? Sono stati, forse, costretti a partire? C'è anche chi dice che pur di "andare in guerra", alcuni soldati hanno pagato tangenti del valore di una mensilità (da 3000 a 6000 euro). Chi muore nella sporca guerra d'Iraq non muore per la patria, ma unicamente per se stesso e per gli interessi delle multinazionali del petrolio e per gli speculatori della ricostruzione. Questi poveri soldati di venturetta, se cristiani, avevano un solo dovere: disobbedire e dichiararsi obiettori di coscienza, come prescrive il Catechismo della Chiesa cattolica al n. 2242 (cfr. anche n. 2256): "Il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell' ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del vangelo. Il rifiuto d'obbedienza alle autorità civili, quando le loro richieste contrastano con quelle della retta coscienza, trova la sua giustificazione nella distinzione tra il servizio di Dio e il servizio della comunità politica. "Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Mt 22,21). "Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (At 5,29).
Il papa è stato chiaro: la guerra contro l'Iraq è immorale perché fuori da ogni diritto internazionale e illecita perché la guerra preventiva è una guerra d'attacco, non di difesa, ed è una bestemmia dichiararla in nome di Dio (come invece fa Bush). Di fronte a questa guerra, un cristiano soldato poteva solo obiettare e non poteva, senza colpa, dichiararsi volontario.
Sono andati volontari per guadagnare di più e forse anche per dare sfogo all'istinto belluino di "menare le mani". Nell'uno e nell' altro caso, in ogni caso, la loro morte è stata inutile e sproporzionata.
Nessuno di quelli che si sono schierati a favore della guerra vi hanno inviato figli o nipoti, al contrario hanno mandato poveracci alle prese con stipendi di fame o disoccupazione, carne da macello da buttare sul tavolo delle trattative. Da un pur di vista morale, qual è la differenza con i capi di Hamas o dei Martiri di Alaqsa palestinesi che mandano giovani squilibrati a fare i kamikaze facendosi saltare insieme ad altri innocenti nel campo "nemico"? I signori della guerra sono un virus che appesta l'umanità intera e strugge vedere come uomini di Chiesa, che per vocazione dovrebbero essere sentinelle vigilanti, non se ne rendano conto, ma ne diventino strumenti docili e ingranaggi di supporto. Il 12 novembre 2003, ai funerali di stato per i diciannove carabinieri morti a Nassiriya, è il Cardinale vicario di Roma, Camillo Ruini, che, parlando come un colonnello in battaglia, si fa voce di una Chiesa prona davanti alle scelte di governo senza rendersi conto (o proprio per questo?) che il suo grido ardimentoso era una smentita ufficiale delle posizioni del papa: "Non fuggiremo davanti ai terroristi assassini, anzi li fronteggeremo con tutto il coraggio, l'energia e la determinazione di cui siamo capaci". Il governo in difficoltà, perché il 79% del Paese è contro la guerra, finalmente prende respiro, si rafforza e ringrazia a buon rendere. La Chiesa italiana è diventata la crocerossina del governo guerrafondaio. Con la benedizione militari del cappellano capo che chiama questi sventurati addirittura "martiri", svilendo così il significato non solo semantico, ma anche morale di una parola come "martirio". Non sono eroi né tantomeno martiri coloro che mettono a repentaglio la propria vita non per degli ideali spirituali come la giustizia e la libertà o per la difesa del proprio popolo di fronte ad una aggressione esterna (Costituzione, art. Il; cfr. Catechismo n. 2240), ma per interesse o per spirito militare e per avventura, come dimostrano le scene "giocose" delle torture inflitte ai musulmani da soldati battezzati e cresimati, in nome della superiore civiltà occidentale. Morire per il proprio popolo è un grande onore, come testimonia il poeta latino Orazio "Dulce et decorum pro patria mori" (Carm. 3,2,13), ma morire per Berlusconi che approda in Iraq ad operazione compiuta per farsi bello con l'americano Bush... , signori cappellani militari, avete smarrito la via della decenza!
Oggi, a livello ufficiale (Parlamenti di Londra e Washington, sedute del 5.2.04) è provato che le armi di distruzione di massa, motivo dichiarato dell'intervento, non sono state trovate e i responsabili di questa immensa mistificazione cercano di spostare il tiro dicendo "che avrebbero potuto esserci", arrivando persino a colpire le intenzioni.
Tutte le ragioni di un intervento sono crollate e ora si cercano le scuse per giustificare una guerra, preparata almeno da due anni prima e imposta per gli interessi esclusivi della supremazia americana: avere una centrale in MO, sfruttare gli immensi giacimenti petroliferi, ridisegnare le zone d'influenza secondo gli interessi americani e israeliani. Per questo sono morti quegli sventurati soldati, per questo e non per nobili ideali.
Non scomoderò oltre il vangelo, che mi sembra troppo arduo per un militare cappellano che condanna senza appello come "complice di Saddam Hussein" chi si era dichiarato contrario alla guerra non solo in Iraq, ma anche in Afghanistan e in ogni parte del mondo.
Secondo questa logica, è complice anche il papa che all'Angelus del 16.3.03 ha dichiarato: "Di fronte alle tremende conseguenze che un' operazione militare internazionale avrebbe per le popolazioni dell'Iraq, per l'equilibrio dell'intera regione del Medio Oriente, nonché per gli ulteriori estremismi che ne potrebbero derivare, dico a tutti: c'è ancora tempo per negoziare, c'è ancora tempo per la pace. Non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare".
Dov'erano i militari cappellani, quando il papa parlava con queste parole preoccupate del futuro e della recrudescenza del terrorismo che l'intervento armato avrebbe e ha causato? Sì, c'erano anche loro il 25.3.03 in San Pietro, quando davanti ad un gruppo di cappellani militari, ricevuti in udienza, non solo Giovanni Paolo II ribadisce la sua contrarietà alla guerra, ma cita espressamente l'art. 11 della nostra Carta costituzionale e si schiera dalla parte dei pacifisti e di Gino Strada, gli stessi che provocano nausea al militare cappellano capo: "Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che la guerra come strumento di risoluzione delle contese tra gli Stati è stata ripudiata, prima ancora che dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla coscienza di gran parte dell'umanità, fatta salva la liceità della difesa contro un aggressore", come dimostra, appunto, "il vasto movimento contemporaneo a favore della pace".
A me pare che i cappellani militari, in quanto cristiani e preti, sono fuori di questa Chiesa che oggi si riconosce totalmente e senza ambiguità nelle parole del vecchio papa, a meno che non sia il papa a porsi fuori dell' opportunità politica di non contraddire l'America di Bush e l'Italietta di Berlusconi. Ne valeva la pena? Credo di no, perché, a dispetto di ogni guerra, nulla può giustificare la perdita della credibilità evangelica e la coscienza della pace che domina il cuore e l'anima dei credenti come anche la ragione dei non credenti, uniti gli uni e gli altri in un'unica certezza e indomita volontà: No War! Nonostante i militari cappellani di ogni tempo, di ogni grado e in ogni esercito!
Don Paolo Farinella
Guardiamo la vita con lo stupore di essere vivi, in un universo fervente di vita.
I sogni di oggi sono il futuro che muove il presente, la vita che si esprime in non immaginate forme.
Dalle mani del Padre la vita fiorisce Inesauribile e illimitata.
Nel cuore della pietra Dio sogna il suo sogno, e di vita la pietra si riveste.
Nel profondo della terra Dio sogna il suo sogno, e di verde e di frutti si riveste la terra.
Nel cuore degli esseri Dio sogna il suo sogno, e di amore e di tenerezza s'adorna il creato.
A novità crescente, tu, o senza limiti, esorti il cuore, l'inviti a venire nella tua dimora, tu che dimora non hai.
Sempre oltre, sempre oltre è la tua tenda, il tuo infinito cammino sia il nostro, o Signore.
Padre Giovanni M. Vannucci
Padre Giovanni Vannucci (26/12/1913 - 17/06/1984) frate Servo di Maria critico e originale, ricercatore delle parole perdute, percorse la via mistica, che abbraccia e coordina in sinfonica armonia tutte le verità disseminate nelle molte religioni - rispettando comunque in ogni tradizione la sua originalità - per giungere a cogliere, lui "pellegrino dell' Assoluto" nell'Eremo delle Stinche (Firenze), l'unica rivelazione universale, principio e fine di ogni religione. (Monte Senario, Quaderni di spiritualità, n. 23 - Maggio-Agosto 2004).
Luigi Sonnenfeld
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