LOTTA COME AMORE: LcA maggio 2003

L'altro da evitare

E' appena iniziato aprile quando mi accingo a scrivere queste righe di presentazione del primo numero del 2003. Un po' tardi, per questo primo numero, se penso che mi leggerete - se tutto va bene - a maggio inoltrato. Qualcuno si chiederà se c'è ancora vita qui, alla Chiesetta del Porto. Scricchiolii, segnali di fatica se non proprio di smarrimento li avete potuti leggere nei numeri precedenti. Dubbi espressi senza troppi veli sulla possibilità di andare avanti con questa pubblicazione, dal momento che le energie sembrano essere arrivate al lumicino. Ma, nel frattempo, mescolati ai dubbi e alle incertezze, so di aver espresso anche timide speranze, accenni di fiducia, indicazioni di un cammino ancora tutto da scoprire. Per quanto riguarda Lotta come Amore, continuerà ad uscire e dal prossimo anno, se dio darà vita, conterrà un filo di ricerca meno episodico e improvvisato.
Il ritardo di questo primo numero è dovuto a vari fattori, oltre la mia proverbiale pigrizia e lentezza. Ma il fatto indicibilmente più importante e doloroso insieme, è stata la morte improvvisa di Sauro Mallegni. Da dieci anni Lotta come Amore prendeva forma nel suo laboratorio di serigrafia e i vari pezzi e pezzettini venivano da lui pazientemente "incollati" sul computer per trasmetterli poi direttamente alla tipografia. Ci incontravamo tre o quattro volte per riversare gli scritti nelle pagine, tentare un'ultima correzione, cercare di far quadrare il tutto, i titoli, i "blocchetti", le foto. Lavoro puntualmente intervallato da buoni caffè preparati all'impronta su un fornelletto elettrico e da continui accenni di discussione tra la mia intransigenza nel seguire la "gabbia" impostata da Elisabetta Tizzani e il suo occhio che gli suggeriva altre soluzioni. Accenni di discussione sempre "in punta di forchetta"; e finivamo presto per rifugiarci nei rispettivi ruoli, io del cliente che ha sempre ragione, lui dell'esecutore che si rassegna a tale regola. Concludevamo con alcune frasi rituali rimandando alla prossima, e sempre con reciproca soddisfazione. La malattia che ha pesato su tutta la sua vita aveva provocato situazioni difficili negli ultimi due anni e spesso l'uscita di Lotta come Amore teneva conto dei momenti di intervallo tra crisi di differente portata. Sembrava quindi difficile riprendere i fili di una impostazione sul computer che praticava e conosceva solo lui. Ma, se leggere queste righe, lo dovete anche alla figlia Stefania c ha preso in carico la serigrafia e un giorno ha "osato" con me accendere il computer e tentare di recuperare questa "memoria".
Ho raccolto, in questo numero, le tracce di letture corrispondenze, contributi ricevuti in questi ultimi sei mesi. La tragedia della guerra in Iraq, prima di tutto, mistificata, a cose fatte, da azione missionaria per la democrazia, dopo aver tentato in tutti i modi di giustificarla per impedire a Saddam Hussein di mettere in pericolo il mondo intero con le armi di distruzione di massa presunte in gran quantità dal CIA mentre gli ispettori ONU sembravano non volersene accorgere. Potete leggere nelle pagine centrali di questo numero un intervento, durante u delle tantissime fiaccolate per la pace svolta a Narni, pubblicato nel bollettino telematico "La non violenza in cammino", foglio di approfondimento del Centro di ricerca per la pace di Viterbo, diretto da Peppe Sini (e-mail nbawac@tin.it).
E, di seguito, la "Lettera all'umanità" scritta dall'insegnante Vincenzo Zamboni di Verona, lettera scritta alla fine dello scorso anno che termina con l'angosciante interrogativo: "se ci sarà una nuova guerra, quante generazioni ne porteranno le ferite?". Il fatto nuovo comunque, nel panorama mondiale, non è stata tanto la guerra (soluzione dei conflitti umani ancora definita "necessaria") quanto lo "strappo" degli USA nei confronti dell'ONU: da quest' anno è ancora più evidente che c'è un popolo solo che si fa interprete delle aspirazioni e dei valori dell'umanità; quello americano. I suoi governanti l'hanno portato ad essere dotato del 50% di tutto l'armamento esistente sul pianeta. Gli altri popoli si dividono il restante 50%. Come a dire che in una ipotetica guerra uno scontro bilanciato potrebbe essere Usa contro tutti. E per quanto l'antiamericanismo vero o presunto tale sia montante, occorre porsi anche la domanda sui perché l'America indossi volentieri l'uniforme di "poliziotto del mondo". Nonostante la presenza negli Usa di un movimento pacifista interno articolato e diffuso, capace di una elaborazione teorica affatto superficiale e di una severa autocritica del loro sistema di vita insieme ad una prassi di resistenza e interposizione di cui è esempio Rachel Corrie, la giovane uccisa spietatamente da una ruspa israeliana mentre cercava di opporsi come "scudo umano" per evitare la distruzione di case palestinesi di cui pubblichiamo stralci di corrispondenza.
E forse questa è la parabola più attuale; e cioè la storia indicativa di un atteggiamento profondo tra chi ha bisogno di "distruggere" per affermare se stesso nella "ricostruzione" e chi accetta il rischio di essere "distrutto" perché sia possibile il sogno di una "costruzione" dell'umanità a più mani.
Parabola che la Chiesa sembra incarnare mettendo ancora una volta in risalto la sua duplice e contrapposta natura. Di colei che è chiamata insieme "santa e peccatrice". Da una parte il forte richiamo del Papa contro la guerra, dall'altra nemmeno l'ombra di un ripensamento rispetto alla collusione con le armi nella struttura delle diocesi "militari" e dei suoi cappellani inquadrati nell' esercito con i gradi da tenente a generale. Da una parte il forte richiamo ai diritti umani, dall'altra i processi canonici che sembrano aumentare nei confronti di teologi con condanne "con suprema e inappellabile decisione senza alcuna facoltà di ricorso" cioè a dire, senza difesa né possibilità di appello. Come nei confronti di Franco Barbero, prete a Pinerolo, di cui pubblichiamo una lettera alla "Cara mia chiesa". Davvero "l'altro resta irrimediabilmente un altro da evitare, da scansare quando non addirittura da combattere", come scrive Umberto Galimberti in un intervento riportato in ultima pagina. Scritto che termina con un interrogativo "pesante": "E se l'età moderna, che ironicamente ha preso avvio proprio dalla scoperta dell' America, nel secolo in cui si celebrava l'umanesimo, fosse contrassegnata dal misconoscimento dell'uomo, dal suo mancato riconoscimento?" .
Alcuni scritti di questo numero di Lotta come Amore "rispondono" in un certo senso a questo interrogativo aprendo tre percorsi differenti, tre piccole-grandi schegge di luce.
La vita breve e sofferta di Roseta, una delle tante ragazze albanesi approdata sulle nostre spiagge, ci ricorda il silenzioso intreccio di storie tanto differenti in una ricerca, sempre parziale e spesso sbriciolata, di esprimere un percorso diverso attraverso la solidarietà umana. Lo ricordava Franco Brogi con uno scritto di un anno fa, subito dopo il funerale di Roseta, e che oggi pubblichiamo rinnovando insieme il dolore e la speranza.
Arturo Paoli ci introduce in un paese, la Bolivia, scosso oggi da sommovimenti affogati nel sangue nell'assoluto silenzio della stampa e delle tv. E introduce il bel libro fotografico di Laura Gori sulla popolazione Guaranj dispersa in piccolissime comunità, ai limiti della sopravvivenza. Con loro, presenti da anni e coinvolti nella scuola e nella salute, due amici francescani, Ivano e Tarcisio. Il ricavato del libro va interamente a sostenere la scuola infermieri di base guaranj. Chi desidera ricevere il libro può richiederlo a Lotta come Amore inviando (come crede e riesce) 15 euro (comprensivi di spese per la spedizione).
Infine, una preghiera per il tempo della vita in cui alzare il capo e guardare lontano diventa più difficile: la preghiera, venata di sottile ironia, di una monaca inglese del 1700 per avere un cuore giovane.
Vorrei far mia, soprattutto, la parte finale di questa preghiera: "Rendimi capace di scoprire il bene in luoghi inattesi e qualità in chi non te l'aspetti. E concedimi, Signore, la grazia di riconoscerlo apertamente" .
Lo vorrei a partire da questo inizio dell'ultima parte della mia vita. E non solo come aspirazione interiore, desiderio spirituale. Anche come pista concreta di ricerca. Sto cercando di preparami a questo "viaggio" , che mi pare richieda assai poco bagaglio e libertà di movimento, attraverso l'uscita da quelli che sono i miei impegni di lavoro sia pure a diverso titolo e diverso carattere: quello nella cooperativa sociale e quello di parroco. Vorrei ripartire da "me" e dalla "Chiesetta". A volte questa mia decisione mi appare in una luce "folle". Sono. due situazioni, quelle dei questi due miei "lavori", che mi richiedono energie, certo. Ma devo riconoscere che mi danno anche molto; molto di più di quanto io vi investa. Ci sto bene dentro. E quindi porto con me la perplessità che sia una sorta di pazzia lucida quella che mi spinge a lasciare queste due realtà composte da persone con le quali spesso ho relazioni tutt'altro che banali. Alla mia età bisogna cominciare a diffidare di sogni giovanili che possono essere dettati più da una inutile resistenza all'idea di invecchiare che da vera vitalità e desiderio di ricerca!
Ma, nonostante queste perplessità che non mi abbandonano, ho già compiuto i primi passi concreti e, se tutto va bene, l'anno prossimo sarà decisivo in questo senso. Ora vivo l'ansia del passaggio, del "non più" e insieme del "non ancora". Mi pare di non avere più un'identità, dopo anni spesi in una attenta opera di distinzione e puntualizzazione per evitare, almeno a certi livelli, la confusione tra il ruolo sociale di parroco e quello di lavoratore. Mi sembra di muovermi ormai trasversalmente, senza curarmi troppo dei panni di cui la gente mi veste e cercando, nello stesso tempo, di indossare un abito meno onnicomprensivo di un grande mantello simbolico di cui mi sono sempre un po' lasciato volentieri rivestire; un abito di forma non solo più attillata e snella, ma anche più alla mia misura.
Sono convinto, comunque, che questa mia ricerca non sia essenzialmente una giustificazione per il pensionamento o per quello che una volta si definiva come "rientrare nel privato". Mi pare che oggi la dimensione personale possa costituire una vera risorsa per cercare di aprire strade nuove per una dimensione asfittica e spesso rantolante della dimensione sociale e pubblica. Non il rientro nel privato, ma il metter al centro le differenze, a partire da quelle personali, perché oggi non accada, come scrive ancora Umberto Galimberti, quello che è avvenuto all'epoca della scoperta-conquista dell' America, quando "nessuno di fronte all'uomo, riconobbe l'uomo".

Luigi

Cuore giovane

Signore, tu sai meglio di me che sto invecchiando
e che tra non molto sarò vecchia del tutto.
Guardami dalla fatale abitudine di credere
ch'io debba dire il mio parere su tutti gli argomenti, in qualsiasi circostanza.
Liberami dalla voglia di dare una sistemazione alle cose di tutti.
Fammi riflessiva, ma non musona,
pronta ad aiutare, senza impormi.
Sembra un vero peccato non usare la mia vasta saggezza,
ma tu sai, Signore, che alla fin fine qualche amico voglio pure conservarmelo.
Tieni libera la mia mente dal disperdersi in infiniti particolari;
fammi arrivare subito al concreto.
Chiudi le mie labbra sui miei guai e pene:
stanno aumentando e la voglia di parlarne
diventa prepotente con il passare degli anni.
Non oso chiederti grazia così grande
come quella di non godere del racconto dei guai altrui,
ma aiutami a sopportare gli sforzi con pazienza.
E non oso chiederti di accrescermi la memoria,
ma ti chiedo maggiore umiltà e minore sicurezza
quando la mia memoria sembra urtarsi con le memorie altrui.
Insegnami la sacrosanta lezione che qualche volta posso sbagliarmi anch'io.
Conservami ragionevolmente dolce:
non voglio essere una santa (è così difficile vivere insieme con alcune di loro!).
Però una persona vecchia e amara costituisce il coronamento dell'opera del diavolo.
Rendimi capace di scoprire il bene in luoghi inattesi e qualità in chi non te l'aspetti.
E concedimi, Signore, la grazia di riconoscerlo apertamente.
Amen.
(Preghiera di una monaca inglese del 1700)


La posta di fratel Arturo

Queste foto di Laura Gori hanno svegliato in me molti ricordi e hanno messo in crisi un atteggiamento di rifiuto che ho portato dietro tutta la vita. Non ho mai posseduto una macchina fotografica né ho mai pensato a costruire un album di foto. Peccato! Mi sono detto, guardando questi volti boliviani!
Ho avuto la possibilità di soggiornare per tempi più o meno lunghi in tutti i paesi dell'America latina, dal Messico alla Patagonia, a Puerto Mont nel sud del Cile. Non so se mi sarà concesso un ultimo spazio di vita, per sfogliare pazientemente un album rivedendo volti e luoghi , lasciando cadere qualche lacrima senile sul passato. Francamente non lo desidero. Sto leggendo un bel libro che cita un testo francese dal titolo L'avvenire della vita, scritto una ventina d'anni fa da Jacques Attali, un sociologo che afferma: "dal punto di vista della società è certamente preferibile che la macchina umana si fermi brutalmente piuttosto che lentamente si deteriori". Sottoscrivo cancellando questo "brutalmente" perché prevedo che il passaggio non sia mai brutale se guidato dalla speranza dell'incontro.
Ma, tornando alle foto, devo riconoscere il loro potere evocativo. La Bolivia è uno dei paesi che è restato molto vivo nella mia memoria. Rivedo quella mattina invernale, seduto su uno di quei camion traballanti, avvolto in un poncho, attraversando lentamente per una lunghissima strada non asfaltata, una superficie bianca, che mi dava l'impressione di essere perduto in un deserto, senza punto di arrivo. Mi trovavo in un gruppo di famiglie indie con molti bambini, e pareva che il paesaggio stesso, con quella bianca uniformità, imponesse silenzio ai viaggiatori. Quei volti impassibili mi hanno sempre raccontato col loro silenzio la lunga storia di oppressione, di povertà, la rottura davvero brutale della loro storia, avvenuta con l'apparizione delle caravelle spagnole che aprirono il cammino ad altri marinai che venivano dall'Europa in cerca di oro. Ricordo l'accorrere degli animali dell'altopiano, i lamas, le vigogne, tutti i donatori della lana per tessere i ponchos. Parevano convocati dal rumore del nostro camion che avanzava lentamente rompendo il silenzio con il chiasso che fanno i motori scassati che, per compassione dei poveri, continuano a prestare servizio. Questi animali, incuriositi dalla novità che rompeva il bianco silenzio dell' altipiano, arrivavano correndo al margine della strada e ci guardavano, silenziosi come i miei compagni di viaggio. Ricordo i lamas andini che alzavano la testa interrogando: chi siete? cosa volete da noi?
Mi facevano sentire un intruso in questo altopiano in cui riuscivo a respirare con fatica, masticando le amarissime foglie di coca che un indios compagno di viaggio mi forniva, tirandole da un sacchetto attaccato al suo ventre. Mi chiedo se hanno offerto il modello ai turisti per nascondervi i dollari.
Ho ripensato ad Ayaviri sul lago Titicaca, dove arrivai dopo l'affascinante visita al Cusco, il cuore della storia e della cultura india. Il centro del mondo è qui, vi dicono gli indigeni del luogo. Ricordo quella sera in cui, annunziando la Parola, mi accasciai improvvisamente creando scompiglio.
Si accorsero subito che non ero morto - era l'effetto dell' altitudine - e mi curarono insegnandomi a masticare foglie di coca. Quando scenderà in pianura - mi avvisò un medico belga - lasci la coca, per non diventare un tossico dipendente. Non sarebbe stata una bella conclusione, ma l'esperienza mi servì per capire come nessuno è tanto lontano da quelli che spesso condanniamo come viziosi. Come dimenticare la lenta navigazione su quel lago mediterraneo fra il Perù e la Bolivia? Il lago avrebbe tanta storia da raccontarci, quella che è restata muta finché non apparvero grandi scrittori della nostra epoca come Manuel Scorza, Rulfo e tanti altri che portarono alla luce un'America latina sconosciuta. Ma voi siete peruviani o boliviani? - chiedo ai pescatori con cui mi trovo a passare la notte. Mi guardano fra loro sorpresi da una domanda cui non hanno pensato. Mi sono sentito vergognosamente europeo. E' il loro habitat, è proprio necessario tracciare una frontiera?
Scrivendo queste righe per presentare la pubblicazione di una amica a me molto cara, ho riflettuto sul senso delle immagini. E certo che conservano impressioni provate di fronte a paesaggi e negli incontri con persone diverse dalle abituali, e dicono molto sulla persona che le ha fissate sulla pellicola. Perché ha scelto quel volto rugoso? Perché ha ritratto quei piedi scalzi che raccontano la fatica di cercare una terra che sta sempre oltre, che ti permette solo una sosta e ti spinge a seguire il viaggio e forse troverai quella che ti è stata promessa.
Le foto di Salgado raccontano l'America latina come ce l'ha raccontata Garcia Marquez. Forse la generazione attuale è capace di comprendere l'immagine più dello scritto.
Io appartengo alla generazione concettuali sta dello scritto. Eppure sarei capace di passare una giornata intera contemplando la deposizione dalla croce del Pontorno, nella chiesa fiorentina al di là d'Arno, vicina al Ponte Vecchio.
Forse le foto contengono un gemito che voglio sfuggire, quello dei distacchi che Carlo de Foucauld chiamava l'eloiguement, l'allontanarsi, definendolo come "ma grande, ma vraie douleur". Anch'io potrei definire queste separazioni come il vero dolore. E allora preferisco non fissarle in immagini ma portarle con me, in una dinamica di vita in cui Messico, Argentina, Bolivia, Cile e... l'America latina, diventano quel mondo che l'amorosa Provvidenza ha aperto ai miei passi come lo spazio dove gridare il Vangelo con la vita, secondo la descrizione di fratello Carlo.
Ti auguro, cara Laura, che le tue foto raccontino agli italiani la storia di un continente, quella storia che è speranza nella vitalità di quei bambini il cui slancio è stato fissato dall'obiettivo della tua macchina. È appello e invito alla solidarietà nei volti marcati da una vecchiaia precoce e ingiusta. Credo che in questo momento storico, il miglior contributo che possiamo offrire al nostro occidente avviato al suo tramonto è un'offerta di solidarietà. O ci salveremo insieme o insieme periremo.
Sono sicuro che il tuo viaggio non è stato di turista, e allora le foto saranno un invito alla solidarietà. E con te voglio sperare che questo ideale guidi specialmente i giovani che oggi varcano facilmente gli oceani, alla ricerca di spazi di più ampio respiro. Via dall'occidente, ha scritto Alberto Azor Rosa, ma col cuore aperto ad accogliere il veramente nuovo.

Fratello Arturo


Cara mia chiesa

Cara mia chiesa, voglio dirti che ti amo tanto. Benedico ogni giorno Dio di avermi chiamato alla fede e spesso anche di avermi collocato in questa chiesa. In te ho conosciuto tantissime donne e molti uomini pieni di fede. Da loro ho ricevuto un sacco di bene e forti testimonianze.
In questa chiesa ho ricevuto il dono meraviglioso del ministero che, dopo ben 37 anni, mi appassiona come il primo giorno. In te ho incontrato le Scritture e me ne sono innamorato... senza, in verità, che la cosa ti facesse tanto piacere. Anzi... Ma, come ogni amore sano e adulto, la relazione con te è sempre stata un amore difficile, profondo e sincero, ma contrastato. So che questa esperienza è comune a milioni di donne e di uomini. Ora voglio parlarti a cuore aperto.
Ho l'impressione - anzi, molto di più, la constatazione - che col passare dei secoli tu ti sei progettata e strutturata come la torre di Babele: "Faremo una torre alta fino al cielo... Così diventeremo famosi e non saremo dispersi nel mondo" (Genesi 11).
Hai imboccato, cara mia chiesa, una direzione pericolosa in cui prevale l'interesse a rendere la torre sempre più alta, a tenerla insieme solida e compatta, a sorvegliare tutto e tutti dall'alto, a cingerla di mura, a chiudere le finestre e sbarrare le porte. Ma a guardarla troppo dall'alto, la realtà appare diversa. Non arrivano più alla sommità le voci calde e commosse delle donne e degli uomini, non si sentono più il rumore dei loro passi, il chiasso delle strade, le canzoni d'amore, le grida di dolore e i palpiti dei cuori. Di lassù si perde il più e il meglio della vita. Là ci si occupa della stabilità della torre, di illuminarla, di rafforzare e ringiovanire le sue pareti, di renderla sempre più grande, alta, visibile, stupefacente.
Si pretende di fame il trono di Dio, l'arca della salvezza, il luogo della verità, la casa di Dio sulla terra.
Mia cara Chiesa, il mito di Babele finisce bene: Dio prima sorride di questa torre e dei suoi costruttori illusi e vanesii, poi scende e riapre i cancelli... verso la mappa delle nazioni, le terre dei popoli e così si interrompe la costruzione della torre...
Vedo per te questo sogno di Dio: non una torre che si innalza, ma uomini e donne sparsi nel mondo a parlare e testimoniare il Suo amore.
L'isolamento più pericoloso è quello che noi cristiani possiamo costruirci da soli quando, malati di narcisismo, vogliamo ad ogni costo difendere il nostro vecchio palazzo, il nostro vetusto castello e non sappiamo vedere il "paesaggio più spazioso" che Dio ha costruito e sta costruendo per le Sue creature. Quando si ha una cura ossessiva del palazzo le persone reali passano in second'ordine... fino a scomparire. Resta solo il palazzo e chi gli gira attorno riverente ed ossequioso.
Per questo motivo io temo che anche questo Giubileo del 2000 ti esponga alla tentazione di ubriacarti di te. Le tue gerarchie sono prese dall'enfasi, sono sbronze di gloria, fanno sfoggio di potenza e ricevono l'omaggio e i finanziamenti dei grandi di questo mondo. Mia cara chiesa, quanto saresti più bella, più viva se, anziché piangere per ogni pezzo della torre che si rompe e difendere con i denti ogni mattone, tu sapessi vedere il Dio della vita che apre spazi più ampi e demolisce le torri in cui ci imprigioniamo per orientarci verso case più umane ed abitabili. Accogli il plurale voluto da Dio, l'arcobaleno delle lingue, delle pelli, delle razze, delle religioni, delle teologie.
Lasciati smantellare la torre, lasciati aprire gli occhi come fu per Agar.
Mia cara chiesa ricordi Abramo?
Vattene, emigra, esci dal "paese" conosciuto delle tua cultura, dalla "patria" delle tue sicurezze e delle tue potenti alleanze, dalla "casa" e dal castello delle tue tradizioni che rischiano di annullare e soffocare la Parola di Dio. E non fare come il faraone che si buttò nell'inseguimento per acciuffare quelli che cercavano le sponde della libertà. Ormai non ti chiediamo più il permesso di partire quando intravediamo nuovi cammini al di là dei recinti ecclesiastici.
Vattene, staccati dall'illusione di essere il centro del mondo; staccati dall'illusione che i tuoi dogmi siano la fotografia della verità, . dalla presunzione di possedere sempre l'ultima parola su ogni questione. Abbiamo imparato a distinguere accuratamente tra le parole umane che passano e la Parola di Dio che resta.
Vattene dalle menzogne che continui a raccontare secondo le quali Gesù avrebbe vietato il ministero alle donne; prendi congedo dall'altra solenne menzogna per cui ministero e celibato sarebbero inseparabilmente congiunti dalla volontà di Gesù; vattene dalle tue leggi disumane presentate come la volontà di Dio.
Vattene dall'idolatria del diritto canonico, delle leggi che tu hai codificato nei secoli; vattene dall'accerchiamento e dal cattivo uso delle tue tradizioni, luoghi di esperienze storicamente situate e non mummie da trasportare intangibili da un millennio all'altro.
Vattene dalla moda delle confessioni spettacolari di alcuni tuoi peccati del passato, vattene da questi pentimenti che non inducono a conversione e lasciano il fondato sospetto che si tratti di comportamenti diplomatici e di operazioni di facciata. Vattene dall'ossessione sessuale, dalle tue sessuofobie... per cui continui a temere il piacere, ad aver paura delle donne, a guardare con diffidenza e a offendere con i linguaggi pelosi della comprensione omosessuali, lesbiche, separati/e, divorziati/e e conviventi anziché benedire Dio che dona all'umanità mille forme d'amore e può far rifiorire questo amore là dove esso si era spento.
Vattene dalle miriadi di ambigue apparizioni mariane, dalle preziose teche della sindone e dal sangue di san Gennaro, dai mille luoghi in cui si alimentano superstizione e spirito idolatrico.
Vattene da una struttura di potere come il papato, per riscoprire un ministero che sia davvero servizio; vattene dal balbettio dei potenti in cui fai sempre la prima donna; vattene dalla prigionia dei tuoi comportamenti imperiali e abbraccia il sogno di Dio.
Vattene dall'occupazione di tutti i video del mondo; vattene dalla retorica pauperistica che ti dispensa dal diventare chiesa povera; vattene dalla mania di sentenziare e impara ad ascoltare.
Mia cara chiesa, vattene da questo giubileo di troppe vane parole. Hai organizzato, soprattutto con il finanziamento dei potenti, tanti pellegrinaggi, ma tu non sei più la chiesa pellegrina verso il regno perché sei troppo appesantita dai concordati, dal mercato del tempio, dalle tue sicurezze. Il tuo tesoro terreno ti ha rapito il cuore e ha bloccato molti tuoi passi.
Mia cara chiesa, prendi la strada di Abramo e Dio camminerà davanti a te, sarà il tuo compagno di viaggio.
Io non ho nulla da insegnarti, ma ho soltanto voluto dirti quale eco trovano nel mio cuore le parole bibliche rivolte ad Abramo, per la mia e la tua conversione. Penso, oggi più che mai, che il dialogo e la preghiera siano le grandi strade per la mia conversione.
Mia cara chiesa, che cosa posso sperare per te? Che cosa posso augurarti di più fecondo e salutare del "dono dello smarrimento"? Quello sarà il giorno in cui, libera dai lacci del potere e dai tarli della presunzione, ti butterai tra le braccia di Dio, unica salvezza.

Franco Barbero
da "Il dono dello smarrimento" - Franco Barbero su Viottoli 2000 pagg. 105 - 109



Fuori la guerra dalla storia

Ci sta a cuore l'umanità
Siamo qui, ognuna e ognuno con i nostri volti, con le nostre storie personali e collettive.
Siamo qui, per dire ancora una volta che la vita umana ha un valore, ognuna e ognuno di noi una particola, una scintilla di umanità, e tutta intera l'umanità in ognuno e ognuna di noi.
Siamo qui, per dire ancora una volta che ci sta a cuore l'umanità, e ci sta a cuore ogni singola vita umana. E chi uccide un essere umano colpisce l'umanità intera, chi uccide chiunque altro uccide anche una parte di se stesso. E' per te che suona la campana. Siamo qui, con i nostri volti, con i nostri corpi, con i nostri cuori, con il nostro respiro e il nostro affanno, perché ci sentiamo umanità, perché siamo umanità. E vogliamo che l'umanità viva.

Contro la guerra, dalla parte delle vittime
Siamo qui per dire che la guerra è sempre omicidio di massa, è sempre uccisione di donne e di uomini.
Noi diciamo no alla guerra. Siamo qui per dire no al terrorismo, e alla guerra che è il terrorismo più grande. Siamo qui per dire no alle dittature, e alla guerra che è la dittatura più grande. Siamo qui per dire no alle uccisioni, e alla guerra che è cumulo di uccisioni.
Siamo qui per dire che la guerra è nemica dell'umanità e noi siamo umanità.
Siamo qui per dire che la guerra nell'epoca delle armi di sterminio di massa mette in pericolo la sopravvivenza dell' intera umanità, può distruggere l'umanità intera, e noi siamo umanità, noi non vogliamo essere distrutti, noi vogliamo che l'umanità viva, e nessun essere umano sia ucciso.
Siamo qui per dire che la guerra deve essere bandita dalla storia affinché possa esservi ancora una storia umana, affinché possa proseguire la vita degli uomini e delle donne. Siamo qui perché occorre scegliere tra la guerra e l'umanità, tra la catastrofe e l'umanità, tra il nulla e l'umanità; e noi siamo umanità, e solo la pace può salvare l'umanità dall'annientamento.
Siamo qui nel nome e nel ricordo delle vittime di Auschwitz e di Hiroshima, per dire mai più guerre, mai più persecuzioni.
Siamo qui nel nome e nel ricordo dei caduti di tutte le guerre, per dire mai più guerre, mai più persecuzioni. Siamo qui per dire che vogliamo che siano riconosciuti tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani; e di tutti i diritti il diritto fondamentale senza del quale nessun altro diritto si da è il diritto a vivere, a non essere uccisi.

Noi abbiamo ancora un sogno
Come Martin Luther King noi abbiamo ancora un sogno.
Il sogno che un giorno le figlie ed i figli dell'umanità possano vivere in pace e in armonia. Ed è oggi che occorre agire perché questo sogno, di pace e di liberazione, diventi realtà.
Il sogno che un giorno le spade saranno trasformate in aratri. Ed è oggi che occorre agire perché questo sogno, di disarmo e di solidarietà, diventi realtà.
Il sogno di Giacomo Leopardi, che l'intera umanità si unisca contro il male e la morte. Ed è oggi che occorre agire perché questo sogno, il sogno della dignità di tutti e di ognuno e della sorellanza e fratellanza umana, diventi realtà.

Sognatori pratici: fermare la guerra, costruire la pace
Perché noi siamo dei sognatori di un tipo speciale. Siamo sognatori pratici, non ci basta essere sognatori, vogliamo essere anche costruttori di sogni.
Siamo sognatori pratici, i nostri sogni vogliamo realizzarli.
Siamo sognatori pratici, che sognano con l'anima e col corpo, con i piedi e con le mani, che alla sequela di una visione di pace e di giustizia si mettono in cammino; che alla sua edificazione mettono mano, scegliendo la convivenza anziché l'uccidere, la dignità anziché l'umiliazione, la solidarietà anziché l'oppressione, la pace anziché la guerra. Noi sappiamo che la pace non verrà da sola, ma sarà il frutto dell' agire giusto, sarà l'opera della volontà buona di donne e di uomini. O non sarà.
Noi sappiamo che la pace non pioverà dal cielo, ma dovrà essere edificata dalla terra, con lo sforzo tenace e faticoso, ed insieme tenero e benigno, con lo sforzo sempre più cosciente e limpido delle donne e degli uomini di volontà buona. O non sarà. Noi sappiamo che ad ogni uccisione dobbiamo opporci, qui e adesso, con le nostre mani e con i nostri cuori. Noi sappiamo di dover fermare la guerra, qui e adesso, con i nostri cuori e con le nostre mani. Per dire questo oggi siamo qui.

Le leggi e le opere
Opporsi alla guerra è necessario, è necessario fermare la guerra.
Lo chiede e lo comanda l'articolo Il della Costituzione della Repubblica Italiana che ripudia la guerra: noi siamo qui fedeli a quella speranza e a quell' impegno scritto col sangue dei martiri della Resistenza. Noi siamo qui fedeli alla legge fondamentale del nostro paese, garanzia di libertà, presidio di democrazia. Noi siamo il popolo italiano, noi siamo l'Italia.
Lo chiede e lo comanda la Carta delle Nazioni Unite che fin dal suo preambolo chiama i popoli del mondo ad unirsi per impedire il flagello della guerra: noi siamo fedeli a quell'impegno e a quella speranza scritta col sangue dei martiri di tutte le lotte di liberazione, di tutte le Resistenze all 'inumano. Noi siamo qui fedeli alla legge dei popoli delle Nazioni Unite.
Noi siamo persone e popolo, popoli del mondo.
Lo chiede e lo comanda la legge scritta in tutte le grandi tradizioni religiose e filosofiche, la legge incisa nel vivo delle coscienze, la legge che dice "Tu non uccidere": noi siamo qui fedeli a quella voce, a quella pietra, a quella rosa che e' la civiltà umana in tutte le sue tradizioni grandi, ad unire la nostra voce a quella voce: "Tu non uccidere". Noi siamo le figlie ed i figli dell'intera umanità passata. Ci sta a cuore l'umanità passata.
Lo chiede e lo comanda l'appello a impedire la distruzione del mondo da parte delle armi che oggi possono annichilire l'intera civiltà umana e ridurre il pianeta a deserta rovina: noi siamo qui perché quell'appello abbiamo udito. Abbiamo a cuore la vita e la felicità dei figli nostri e delle nostre figlie. Ci sta a cuore l'internazionale futura umanità.
Lo chiede e lo comanda l'invocazione che il volto muto e straziato delle vittime degli orrori del secolo nostro ci rivolge, e ci chiama alla responsabilità: noi siamo qui all'ascolto di quel grido, noi siamo qui perché ci sentiamo responsabili, noi siamo qui perché una è la carne dell'umanità. Noi siamo qui perché siamo parte dell'umanità vivente, dell'umanità intera.
E vogliamo che l'umanità viva: in tutti ed in ciascuno.

Le opere e le leggi
Opporsi alla guerra è dunque necessario, è dunque necessario fermare la guerra. Ma è anche possibile?
Noi diciamo di sì.
Con l'azione diretta nonviolenta per bloccare materialmente, concretamente, effettualmente, la macchina bellica stragista. Nel nostro stesso paese mettendo in condizione di non nuocere gli apparati e gli strumenti della guerra.
Con la denuncia penale dei poteri golpisti, terroristi e stragisti che la guerra hanno promosso e favoreggiato, che la guerra stanno eseguendo ed appoggiando. Occorre che essi siano arrestati, processati e puniti per crimini di guerra e crimini contro l'umanità, e per quanto concerne le pubbliche autorità italiane che alla guerra hanno dato e stanno dando effettuale sostegno anche per il reato di colpo di stato, di tradimento della Costituzione e attentato alla Costituzione cui pure avevano giurato fedeltà.
Con lo sciopero generale ad oltranza fino alla caduta del governo golpista e fuorilegge che sostiene la guerra terrorista e stragista, ed alla sua sostituzione con un governo che rispetti la legalità, la Costituzione, il diritto internazionale, la dignità e il diritto a vivere del popolo italiano e dell''umanità intera, un governo che obbedisca e adempia al dovere ad esso imposto dalla Costituzione di opporsi alla guerra.
Con scelte personali di giustizia e di condivisione, nella nostra stessa vita quotidiana, nei nostri consumi, nelle nostre relazioni, nel nostro sentire ed agire quotidiano. E' con le nostre mani, con i nostri gesti, che noi diciamo la parola pace.
Con il disarmo, coll'opposizione a tutti gli strumenti e gli apparati di morte.
E con la scelta della nonviolenza, che è l'unica risorsa che può fermare la guerra, che può salvare l'umanità.

No alla guerra, giù le armi
Nel nome e nel ricordo di Oscar Romero, di cui domani ricorre l'anniversario dell'uccisione, noi diciamo "no alla guerra, giù le armi". Nel nome e nel ricordo di Rachel Corrie, la giovinetta americana non violenta assassinata pochi giorni or sono, noi diciamo "no alla guerra, giù le armi".
Nel nome e nel ricordo di Rosa Luxemburg, che "poiché ai poveri diceva la verità / i ricchi l 'hanno mandata nell' aldilà", noi diciamo "no alla guerra, giù le armi".
Nel nome e nel ricordo di Etty Hillesum, che anche nel lager volle essere "cuore pensante" per l'umanità intera, noi diciamo "no alla guerra, giù le armi".
Nel nome e nel ricordo di Marianella Garcia, l'Antigone salvadoregna sorella di tutte le vittime soccorritrice di tutti gli oppressi assassinata vent'anni fa, noi diciamo "ne alla guerra, giù le armi".
Nel nome e nel ricordo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, testimoni dell'orrore della guerra e dei profitti sanguinolenti di essa, noi diciamo "no alla guerra, giù le armi".
E nel ricordo di tutti gli uccisi, il cui numero è infinito e il cui stesso nome è stato cancellato dalla furia degli assassini, ma la cui voce è ancora viva e impetuosa se solo noi in silenzio ci disponessimo all'ascolto del palpito del nostro stesso cuore, noi diciamo "no alla guerra, giù le armi".

Qui
Siamo qui, ognuna e ognuno con i nostri volti, con le nostre storie, per dire ancora una volta che la vita umana ha un valore, per dire ancora una volta: fermiamo la guerra, cessino le uccisioni, fuori la guerra dalla storia. Vogliamo vivere.
Siamo esseri umani.


Lettera all'umanità

Albert Einstein ebbe a dire, una volta, che l'ingresso dell'umanità nell'era nucleare faceva diventare definitivamente urgente l'affrontare un problema già allora drammatico, ovvero l'eliminazione delle guerre tra gli uomini come mezzo di risoluzione delle loro controversie. Purtroppo sappiamo che ciò non è avvenuto. Purtroppo, gli scienziati sinceri sanno anche che la condizione della guerra moderna è assai più grave di quella del passato, a causa dell' aumentata distruttività delle armi impiegate. E' sufficiente, poi, osservare i dati, per rendersi conto che, a partire dalla prima guerra mondiale, la percentuale di vittime civili si è sempre accresciuta.
Già don Lorenzo Milani osservava che si andava verso un tipo di guerre combattute sostanzialmente contro la popolazione, mentre i militari sono, in confronto, i meno colpiti.
Osservando quanto è accaduto in Cecenia, in Yugoslavia, in Afghanistan, dobbiamo ammettere sconsolati che aveva ragione.
Bin Laden fa crollare, a sorpresa, due grattacieli popolati da persone che lavorano, mentre Blair e Bush sostengono da dieci anni un embargo sull'Irak che fa mancare medicinali agli ospedali e provoca la morte di migliaia di esseri perfettamente curabili; intanto Putin mantiene in Cecenia carri armati che cannoneggiano le abitazioni.
Questa è l'amara verità, e non c'è bisogno, purtroppo, di addentrarsi nella conoscenza della fisica nucleare per capire quanto orrende siano tali situazioni.
Purtroppo la politica segue ancora oggi i principi ispiratori che già furono di Machiavelli, secondo cui "il fine giustifica i mezzi". Ciò, all'occorrenza, si traduce nel fatto che il fine di prevalere sull' avversario giustifica la strage come mezzo. Non vedo quale altro termine si possa usare se non questo: "strage". Guardiamo i fatti. La caccia a Bin Laden si è svolta bombardando i villaggi afgani. La caccia ai sequestratori di Mosca si è conclusa con l'uccisione anche di cento sequestrati. Non ci siamo forse abituando a tutto? Se nostro figlio fosse nelle mani di un sequestratore, accetteremmo come soluzione l'idea di lanciare una bomba che uccida entrambi, il colpevole e l'innocente? Eppure, a questo ormai siamo. Tuttavia ci sono stati altri uomini che hanno insegnato a ragionare e vivere in tutt'altro modo. Si può citare l'esempio di Gandhi, che insisteva nel ricordare: "Il mezzo sta al fine come il seme sta all'albero: dal seme di mango otterrete il mango, non mai il banano, e così è per le nostre azioni" .
Già, così è per le nostre azioni. Dalle azioni violente non potremo che ricavare risultati violenti, dalle azioni nonviolente otterremo nonviolenza e pace. Ho cercato, a scuola, di spiegare il concetto in questo modo, agli studenti.
Io ho il compito di insegnarvi la fisica, ho detto. Per farvela imparare, potrei immaginare molti svariati metodi. Potrei immaginare un metodo violento: mi procuro un manganello, e chi non ha studiato viene picchiato.
Il fine di farvi studiare lo otterrei, perché, mossi dalla paura, studiereste per evitare le botte. Ma otterrei anche, quasi certamente, che molti di voi svilupperebbero odio nei miei confronti, e desiderio di farmela pagare.
La violenza del manganello non sarebbe priva di conseguenze analogamente violente.
E' molto meglio il mezzo non violento del voto sul registro.
Così è nella nostra vita. Azioni violente generano altre azioni violente, mentre azioni di pace generano altre azioni di pace:
AV __ AV __ AV __ AY...
AP __ AP __ AP __ AP ...
seguendo il principio che ogni causa genera conseguenze dello stesso tipo della causa.
La scintilla genera il fuoco ("parva favilla gran fiamma seconda" , diceva Dante), ma per spegnere il fuoco dobbiamo usare l'acqua, non altro fuoco.
Alcuni sostengono, non a torto, che dobbiamo poterei difendere da un eventuale aggressore.
Questo è vero, ma ciò, forse, giustifica tutto? Possiamo dire che ci si sta difendendo da un aggressore quando si bombardano le case di un villaggio? Facciamo attenzione e pensiamoci bene, perché questi sono esattamente gli stessi mezzi di Bin Laden: egli ha bombardato le case del villaggio di New York, mentre i suoi avversari hanno bombardato tante case di altri villaggi.
Non è forse la stessa cosa? Queste azioni ci qualificano come esseri civili o barbari?
Che colpa avevano i civili delle Towers?
E che colpe avevano gli abitanti delle case di Kabul, di Bassora, di Mazar El Sharif e tutti gli altri? Fermare Saddam Hussein o Bin Laden giustifica qualunque azione?
Da capo, pensiamoci bene, perché secondo Bin Laden, fermare Bush giustifica qualunque azione o quasi. Sicché rischiamo di scoprire che, alla fine, tutti stanno ragionando nello stesso modo, dicendo, cioè, di accettare la violenza a fin di bene, e generando, nella realtà, non il bene, ma solo altra violenza.
Le guerre, tutte le guerre, sono sempre nate così: entrambi gli avversari ritengono di avere ragione, ed entrambi si sentono autorizzati a qualunque violenza come mezzo per prevalere. Le guerre finiscono solo quando si ha il coraggio di spezzare questa catena apparentemente logica, ma, nella realtà, illogica. Altrimenti finiscono solo con l'esaurimento completo delle forze, come fu il caso della Germania nel '45. Dopo 60 milioni di morti.
Non varrebbe la pena di cercare di spezzare il meccanismo della violenza prima?
Se ci sarà una nuova guerra, quante generazioni ne porteranno le ferite?

Vincenzo Zamboni
via Fama 2/B 37121 Verona
21/12/02


Cara Roseta

Cara Roseta, ieri ti abbiamo accompagnata alla tua ultima dimora. E mentre ripercorrevo la strada verso casa, ho pensato come ci aveva suggerito don Luigi, a quale storia si era conclusa. Anzi, per usare le sue parole, quale "seme" eravamo andati a seppellire ai piedi degli ulivi di Caprona. Un seme nato sotto gli ulivi dell'Albania e sepolto sotto gli ulivi della Toscana. Già, l'ulivo è il simbolo della pace e tu l'hai cercata la pace nella tua breve vita: una vita dura e travagliata, come quella di tante ragazze albanesi.
Ricordo quando ti ho conosciuta sette anni fa. Don Beppe disse che eri arrivata nella casa di accoglienza come un uccellino impaurito: non parlavi e non si sapeva nulla di te, se non che ti facevi chiamare Roseta. Come per altre storie simili alla tua, era un nome inventato per costringerti a restare in quella sfera dell'anonimato dove si consuma la moderna schiavitù. Com'eri giunta fino a noi? Il tuo racconto, quando potesti parlare, era assai confuso, ma diceva chiaramente la povertà, la crudeltà, il tradimento. Il tuo nome vero lo abbiamo appreso più tardi, quando le ricerche hanno appurato che tuo padre era morto e la mamma si era allontanata dal luogo dove abitavate, senza lasciare traccia. Notizie che hanno aggiunto altra sofferenza ad una vita già provata e da reinventare in un paese che non era il tuo.
E così hai iniziato un percorso che io ho seguito da lontano, con qualche incontro in occasione di una festa, di un compleanno, di un invito a visitare Firenze. La tua storia si è dipanata tra Viareggio, Como, poi nuovamente Viareggio ed infine Uliveto Terme dove alla tua identità di Roseta Ismete Dajlani si è aggiunto il nome di Maria, in occasione del tuo battesimo, quando già il male ti stava assediando.
Se la morte non chiude la storia, come si legge in Lotta come Amore, quale consegna lasci a noi che abbiamo cercato di condividere, chi poco e chi tanto, la tua esistenza? In chiesa, accanto agli oggetti a te più familiari, c'era la fotografia di don Beppe. Uno dei ricordi più vivi che ho di te è quel tuo lavorare a impagliare le sedie nella bottega di Beppe e mi piace pensare che ora siete di nuovo insieme. Ma quel lavorare semplice, operoso, in quella stanzetta in Darsena mi richiama sempre, e maggiormente ora che non ci sei più, a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia perché la vita vale più del vestito e tutto il resto ci sarà comunque dato.
Il tuo bilancio appare largamente deficitario dal punto di vista umano, ma noi non conosciamo il bilancio vero, quello che Dio tiene per tutti noi. La tua breve vita è stata importante per chi ti ha conosciuto: lo testimoniava la presenza di tanta gente per l'ultimo saluto.
Addio Roseta, ci ritroveremo, spero, in un mondo dove non esistano più vittime e carnefici. Nel frattempo prega per noi perché usiamo bene il tempo che ci resta da vivere.
Con affetto.

Franco Brogi
Via Kiev 28
50126 Firenze

Rachel, una vita per la pace

Rachel Corrie, 23 anni, statunitense aderente all'ISM (International Solidarity Movement) è stata uccisa da un bulldozer israeliano mentre faceva resistenza alla distruzione di una casa a Rafah in Palestina.
Rachel era una studentessa dell'università di Olympia (Washington) e faceva parte del movimento per la giustizia e per la pace.
Con la sua associazione pacifista aveva organizzato iniziative in occasione dell'anniversario dell' Il settembre per ricordare sia le vittime delle stragi, sia quelle della guerra in Afghanistan.
Quest'anno Rachel aveva deciso di passare all'azione andando in Israele dove si era unita ai gruppi filo palestinesi dell' ISM.
Con questa associazione partecipava ad azioni per bloccare le ruspe israeliane che cercavano di abbattere le case dei kamikaze e dei loro parenti nei territori palestinesi.
Agli amici, in diverse email aveva scritto: "Abbattono le case anche se si trova la gente dentro; non hanno rispetto di niente e di nessuno" .
Il 15 marzo in un'azione a Rafah, nella striscia di Gaza, Rachel era con i suoi amici per cercare di opporsi alle demolizioni. "Era seduta sulla traiettoria del bulldozer, il conducente l'ha vista, ha proseguito e le è passato sopra". Ha dichiarato Joseph Smith, militante pacifista americano.
"La ruspa le ha rovesciato sopra la terra e poi si è messa a schiacciarla", ha aggiunto Nicholas Dure, un altro suo compagno.
I compagni hanno cercato in tutti i modi prima di fermare la ruspa e poi di prestarle i soccorsi, ma non c'è stato niente da fare. Rachel, a soli 23 anni, ha perso la vita mentre difendeva, con il proprio corpo e con le proprie idee, il diritto dei cittadini palestinesi ad avere una abitazione e una terra.
Le autorità israeliane hanno dato diverse versioni dell'accaduto tutte smentite dalle documentazioni fotografiche e dai testimoni. La giovane è stata uccisa a sangue freddo, in modo barbaro, mentre si interponeva in modo pacifico.
Rachel e i suoi compagni hanno denunciato che ogni giorno decine e decine di case vengono distrutte nella striscia di Gaza, che un bombardamento ha danneggiato i pozzi d'acqua dolce nel campo profughi di Rafah e che gli stessi non potevano essere riparati dagli operai palestinesi senza esporsi al fuoco israeliano.
Molte sono state le iniziative ad Olympia e negli Stati Uniti per ricordarla. Riportiamo qui alcuni stralci di due suoi messaggi di posta elettronica.

"Io non so se molti dei bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei carri armati alle pareti e senza le torri di un esercito di occupazione che li sorveglia costantemente da un orizzonte vicino.
Io penso che anche il più piccolo di questi bambini capisce che la vita non è così ovunque. Un bambino di otto anni è stato ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima del mio arrivo e molti bambini mi sussurrano il suo nome, Alì - oppure mi indicano i suoi poster sui muri.
Ci sono qui più bambini di otto anni consapevoli della struttura del potere globale, di quanto lo fossi io qualche anno fa - almeno riguardo a Israele.
Nonostante ciò penso che nessuna lettura, nessuna conferenza, nessun documentario né semplici parole mi avrebbero potuto preparare alla realtà della situazione qui. Non si può immaginare se non si vede, ed anche allora sei ben consapevole che la tua esperienza non è tutta la realtà.
Cosa dire della difficoltà che l'esercito israeliano dovrebbe affrontare se sparasse ad un cittadino statunitense disarmato? del fatto che io ho il denaro per comprare l'acqua mentre l'esercito distrugge i pozzi? e del fatto che io ovviamente ho la possibilità di andarmene via da qui?
Nessuno della mia famiglia è stato mai colpito, guidando la sua macchina, dal lancio di un razzo da una torre alla fine della strada principale della mia città.
Io ho una casa. Io posso andare a vedere l'oceano.
É piuttosto difficile per me essere trattenuta in prigione per mesi o anni senza processo (questo perché sono una cittadina americana bianca, contrariamente a molti altri).
Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato pesantemente armato ad aspettare a metà strada tra Mud Bay ed il centro di Olimpia ad un posto di blocco, un soldato con il potere di decidere se posso andare per la mia strada e se posso tornare a casa quando ho finito.
Al momento l'esercito israeliano sta costruendo un muro alto quattordici metri tra Rafah in Palestina e il confine, tracciando una terra di nessuno tra le case lungo il confine. Seicento case sono state completamente abbattute dai bulldozers, secondo la Commissione Popolare dei Rifugiati di Rafah. Il numero di abitazioni parzialmente abbattuto è maggiore.
Oggi ho camminato in cima alla montagna di macerie dove una volta sorgevano le case; soldati egiziani mi chiamavano dall'altra parte del confine:
"Vai! Vai!" perché stava arrivando un carro armato. Seguiva un agitarsi di mani e "Come ti chiami?".
C'è qualcosa che disturba in questa amichevole curiosità.
Mi ricordava quanto siamo tutti ragazzini curiosi di altri ragazzi: ragazzi egiziani che strillano ad una donna strana che passeggia sul sentiero dei carri armati; ragazzi palestinesi che vengono presi di mira dai carri quando si affacciano dal muro per guardare quello che succede; ragazzi stranieri (noi internazionalisti) in piedi davanti ai carri armati con striscioni; anonimi ragazzi israeliani in divisa che occasionalmente urlano e salutano - molti forzati ad essere lì, molti semplicemente aggressivi, che sparano nelle case dei palestinesi non appena ce ne andiamo.
Si sente costantemente il rumore dei carri armati e dei bulldozer che passano, eppure tutte queste persone riescono a mantenere un sincero buon umore, sia tra loro che nei rapporti con me.
Quando sono in compagnia di amici palestinesi mi sento un po' meno orripilata di quando cerco di impersonare il ruolo di osservatrice sui diritti umani o di raccoglitrice di testimonianze, o di quando partecipo ad azioni di resistenza diretta.
Danno un ottimo esempio del modo giusto di vivere in mezzo a tutto questo nel lungo periodo.
So che la situazione in realtà li colpisce - e potrebbe alla fine schiacciarli - in un'infinità di modi, e tuttavia mi lascia stupefatta la forza che dimostrano riuscendo a difendere in così grande misura la loro umanità -le risate, la generosità, il tempo per la famiglia - contro l'incredibile orrore che irrompe nelle loro vite e contro la presenza costante della morte.
Dopo stamattina mi sono sentita molto meglio.
In passato ho scritto tanto sulla delusione di scoprire, in qualche misura direttamente, di quanta malignità siamo ancora capaci.
Ma è giusto aggiungere, almeno di sfuggita, che sto anche scoprendo una forza straordinaria e una straordinaria capacità elementare dell'essere umano di mantenersi umano anche nelle circostanze più terribili - anche di questo non avevo mai fatto esperienza in modo così forte.
Credo che la parola giusta sia dignità.
Come vorrei che tu potessi incontrare questa gente...

Rachel Corrie

L'uomo e l'altro

Rispondendo a Massimo Ferrario di Milano in "Donna" del 15 febbraio 2003, Umberto Galimberti scrive:
Nel 1992, quinto centenario della scoperta dell'America e anno della (prima) guerra contro l'Iraq, padre Ernesto Balducci scriveva ne La Terra del tramonto (ed. Cultura della Pace) che:
"Nel suo giornale di bordo, in data 16 dicembre 1492, Cristoforo Colombo riporta quanto ha scritto in una lettera ai reali di Spagna: "Con questi pochi uomini che mi accompagnano posso correre tutte queste isole, senza temere che mi venga fatto alcun oltraggio e ho già constatato che tre soli dei miei marinai scesi a terra hanno fugato coi loro solo aspetto una moltitudine di gente. Non posseggono armi, non hanno spirito guerriero, vanno ignudi e indifesi e sono tanto vili che in mille non saprebbero attendere tre dei miei uomini".
L'immagine dell'ammiraglio e dei suoi tre uomini che, approdati ad Haiti il 6 dicembre 1492, al solo apparire mettono in fuga quella moltitudine di "ignudi e indifesi" (erano più di 7 milioni all'arrivo di Colombo, saranno appena 15.600 solo 16 anni dopo!) mi è tornata davanti nell'osservare, sul video e sulla stampa le immagini delle moltitudini di soldati iracheni in fuga disordinata sotto il fuoco dei bombardieri del generale Schwarzkopf.
"Molti soldati iracheni si spaventarono e questo mi divertiva", ha dichiarato Joe Quenn, premiato con una stella di bronzo per aver buttato giù un muro di sabbia e sepolto così un buon numero di soldati dentro la trincea.
Le statistiche dicono che, contro un morto della coalizione occidentale, ce ne sono stati più di mille nell'esercito avversario.
La strage dei mar delle Antille e quella lungo il Tigre e l'Eufrate (la culla della civiltà!) delimitano ai miei occhi cronologicamente e geograficamente l'intera parabola della modernità" . Non mi soffermerei su queste considerazioni se il presente non ce le riproponesse con tanta drammaticità oggi, dove l'altro resta irrimediabilmente un altro da evitare, da scansare quando non addirittura da combattere.
All'epoca di Colombo, a rendere fallimentare il suo incontro con gli indigeni, oltre al condizionamento etnocentrico, per cui l'europeo quando pensa all'uomo pensa solo all'uomo occidentale, oltre alla teologia della dominazione, mascherata dalle false spoglie della teologia della redenzione, c'era anche la qualità culturale degli indigeni che, per effetto del loro immaginario religioso, scambiarono i conquistatori. con gli dèi tornati dopo un lungo esilio. L'una e l'altra cosa fecero sì che l'europeo davanti all'indiano vide uno schiavo, e l'indiano davanti all'europeo vide un dio.
Nessuno di fronte all'uomo, riconobbe l'uomo.
Eppure Colombo salpò dall'Europa quando in Europa si celebrava da un secolo l'umanesimo. Chissà che cosa davvero si pensava allora quando si diceva "uomo", se poi di fronte all'uomo appena diverso dall'uomo occidentale è stato subito carneficina e schiavitù.
E se l'età moderna, che ironicamente ha preso avvio proprio dalla scoperta dell' America, nel secolo in cui si celebrava l'umanesimo, fosse contrassegnata dal misconoscimento dell'uomo, dal suo mancato riconoscimento?".

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