Inizio a scrivere il mattino di una domenica fresca e serena. Una libecciata ha steso un tappeto di foglie secche intorno alla Chiesetta. Gli alberi si spogliano del loro vestito e l'azzurro del cielo illumina e riscalda il cuore. L'autunno è un meraviglioso sussulto di vita,
Lo spettacolo di un tramonto che riconcilia con l'attesa, il non ancora, il perdersi per sperare di potersi ritrovare, il gesto ampio e fiducioso della semina nel pianto che porta in se la traccia della gioia di un prossimo raccolto.
Sento crescere dentro di me la fiducia di portare una spinta per la vita e la tristezza delle foglie secche non riesce a soverchiare la ricerca umile e sempre fin troppo timida di gemme ancora nascoste - forse sarebbe meglio dire protette? - dalla ruvidezza un po' sclerotica del mio modo di essere. Anche rispetto a questo foglio avevo lasciato trasparire, nel primo numero di questo anno, un qualche ripensamento.
E mi sono chiesto se era meglio una onorevole resa rispetto al passare degli anni, alle energie decrescenti anche in termini economici.
Poi l'incontro con due "vecchi" (giovani da tanto tempo, direi) come Ivan e Arturo, ma anche una spinta interiore insopprimibile hanno portato alla decisione di guardare in faccia l'onda e tenere il timone della mia barchetta il più fermo possibile verso il mare aperto. Continueremo così a sentirci almeno due volte l'anno e forse qualcosa di più. Una buona spinta in questa direzione me la danno quei lettori che fanno sapere, nei modi più svariati, di essere contenti di ricevere questo foglio, lo sostengono con liberi contributi e invitano "la chiesetta del porto" a vivere ancora, cercando di navigare nelle acque affatto facili di questo nostro tempo.
La evidente stretta economica, le nuvole di una politica pasticciona e, soprattutto, di guerra che soffiano tesi da una America tutta presa dal ruolo di superpoliziotto del mondo non aiutano alla fiducia e spingono con forza inarrestabile verso una sempre maggiore passività e inerzia. Mi sembra che anche la Chiesa nelle sue correnti maggioritarie non si curi troppo di essere al servizio del lievito di libertà e autenticità della persona umana, ma preferisca "approfittare" della confusione delle coscienze per rilanciare la cultura delle opere, dell'attività finalizzata a impegnarsi "per" gli altri, piuttosto che "con" gli altri, rinunciando al mettersi in questione, ponendo I'accento sul possesso della fede e della verità piuttosto che sull'ascolto e il confronto. La crescita di importanza dell'Opus Dei è innegabile; sia ai livelli vaticani che delle diocesi. Il messaggio del nuovo santo che dell'Opus Dei è stato il fondatore, è intriso di virile determinazione per realizzare una storia conquistata ai valori della religione cristiana attraverso la costruzione di una rete di interessi di persone e di gruppi a prevalere sugli altri.
Continuare a lottare in campo aperto contro schieramenti così ampi e organizzati è possibile solo là dove esistono spazi già strutturati secondo criteri alternativi alle logiche della omologazione e dell'uniformità. Altrimenti, e questo è il caso di molti di noi, non resta che una via di resistenza basata su iniziative strettamente legate alla vita quotidiana, ai mille piccoli rivoli attraverso cui può scorrere nuova linfa per nuova vita. Ma davvero questa scelta considerata comunemente come residuale e di basso profilo, è soltanto l'osso che si può concedere al cane? Credo che una delle trappole più micidiali in cui veniamo catturati è l'idea di trovare soluzioni diametralmente opposte, ma della stessa caratura di quelle che combattiamo. Il nemico finisce per vincere anche là dove sembra soccombere se ci convince a operare sulle sue stesse lunghezze d'onda invertendo solo l'intenzione sorretta da buoni propositi. Occorre liberarsi da un supposto primato dell'etica, o meglio da un'etica fine a se stessa. Come se per sconfiggere il male fosse sufficiente stendere un velo di bene sulla stessa realtà; anche se questo è fatica tutt'altro che facile e molte volte è arduo tentativo di sforzi eroici da parte di anime capaci di sacrificare tutto per il bene di tutti. Il cammino di conversione per le persone come, per analogia, per le strutture passa attraverso una rinnovata semina e quindi l'esperienza di ciò che non è ancora, di ciò che deve attendere e prender forma a poco a poco nell'oscurità e nell'umido intreccio dell'indistinto, attraverso un comune e sempre nuovo ascolto e discernimento.
Vorrei avere il coraggio, da questo punto della vita, di lasciarmi andare dietro sussurri che appena percepisco nel rumore delle cose di tutti i giorni, ma che se accolti e custoditi possono diventare grida. Sento che ciò che mi frena è la paura del vuoto, la sensazione di potermi trovare immerso nella vita senza quei punti di appoggio e quei riferimenti di saggezza e concretezza che finora mi hanno accompagnato. Intuisco quanta fragilità mi appartiene e assai poca voglia di uscire allo scoperto anche solo nei confronti di me stesso. E mentre scrivo queste cose mi rendo conto che non sto parlando - che so io, - di uscire di casa e andare a vivere per la strada come un barbone o di andare in Iraq a condividere la paura di tanta gente comune o rispondere ad una delle tante sollecitazioni a terminare i giorni della mia vita in qualche angolo sperduto e dimenticato del pianeta. No, niente di tutto questo. La paura delle paure, stante la decisione personale di uscire dalla sostanziale apatia dei nostri giorni, è di rendermi conto che posso governare la mia vita, che ho ancora dei residui di libertà da spendere, che i giochi non sono tutti fatti, che non è così e basta. E quindi di constatare di persona che è l'ora di farla finita di nascondermi dietro la scusa dei tanti limiti e di affrontare sul serio a testa alta la vita nei suoi aspetti più semplici e "banali", nelle sue dimensioni quotidiane. Là dove il gesto eroico non consiste nel far fronte a chissà che cosa, ma ad essere capace di semplici gesti da signore, cioè da uomo libero, padrone delle proprie decisioni e scelte qui, oggi e subito.
Vorrei affrontare questa paura con maggiore determinazione di quanto l'abbia fatto in passato, vestendo un "abito" nuovo e cioè assumendo nuove abitudini di vita che meglio corrispondano alle esigenze di questo passaggio. Capisco di più, quando mi trovo a prendere in braccio bambini piccolissimi per il rito del battesimo, il simbolismo della veste bianca che viene consegnata. Un "abito" da conservare immacolato non perché la vita non possa macchiarlo, ma perché la vita di ciascuno di noi possa contare sempre su questa risorsa e potersi via via rivestire di nuovo di abiti immacolati su cui poter scrivere le tante pasque della vita umana, gli infiniti passaggi per crescere alla vera misura di uomini e donne.
Luigi
Il commento di fratel Arturo Paoli si riferisce alla lettera firmata da alcuni sacerdoti delle diocesi di Treviso e Venezia e riportata di seguito.
Cari amici italiani, sono in Italia da diversi mesi e come molti di voi sono in attesa di qualcosa che deve avvenire. Ho viaggiato assai per l'Italia in questo periodo, ma come mi pare avervi detto altre volte, mi muovo eppure sento una stabilità interiore che mi farebbe concludere con un ossimoro - parola in uso - "mi muovo eppure sto fermo". La mia stabilità si chiama attesa, quella del vecchio Simeone come ho scritto altrove. Vi dico subito che attendo questa società nuova che seguono i "no global". Questa formula racchiude gruppi e persone di diverse tendenze, ma quando penso al Vangelo trovo che Gesù segue un solo ideale che è quello del Regno di Dio e ne scopre le tracce nell'incontro con la Samaritana, con Zaccheo, con il centurione.
E ci avvisa che queste tracce si perdono quando è sepolto nella terra come un seme. Ho ripetuto altrove che la mia attesa è quella dell'esploratore, quella di spiare le tracce di un cammino che va verso un luogo sconosciuto, ma certamente esistente. Sa che è in quella direzione, ma non sa quando arriverò. E questo spiega perché mi sia parso importante il fatto di cui voglio parlarvi.
Un fatto che non ha avuto la risonanza che merita. Si tratta di un documento molto breve firmato da un gruppo di preti appartenenti alle diocesi di Treviso e di Venezia che denuncia la situazione politica italiana.
Perché questo documento pare a me come un segno importante del Regno di Dio? Prima di tutto perché è breve. In generale i documenti ecclesiastici disperdono nella loro prolissità prese di posizione chiare vicine al linguaggio di Gesù del sì o no. In secondo luogo perché il prete oggi è alla ricerca della sua identità. Se si hanno soldi si possono organizzare innumerevoli seminari di indirizzo dottrinale-cultuale che immettono nella Chiesa preti, teologi o liturgisti, ma il giovane sacerdote si deve accorgere presto che nello stato attuale il mondo non ha bisogno di loro. Definirei questo momento storico che vive la Chiesa con due definizioni di un pensatore del nostro tempo: "Il processo di progressiva centralizzazione non è come potremmo pensare il naturale progresso della storia, ma piuttosto il suo arresto, perché laddove le parti non si scambiano più nulla tra loro, ma tutte si scambiano con l'equivalente generale, la vita non è delle parti ma dell' egemonia riconosciuta di chi tutte le media" (si può applicare alla globalizzazione politica e al processo di evangelizzazione centralizzato). "Possiamo dire di essere al mondo perché siamo impegnati nel mondo. Il giorno in cui questo impegno cessa, in cui cessa la nostra presa sul mondo, il corpo non si riconosce più non si sente più vivo e perciò si congeda dalla terra" (1).
Nella molteplicità di turismi congressuali per definire l'identità del prete, eccovela davanti. Non occorre scritturare degli esperti dai diversi continenti, produrre documenti che definiscono l'identikit del prete, eccovela la sua identità. Quale la sua identità se non quella di essere la coscienza profetica (etica) del popolo? Questi preti veneti non hanno scritto un trattato di etica ma uscendo sulla porta del tempio hanno osservato il mondo in cui vivono i giovani che si rivolgono o si dovrebbero rivolgere a loro e hanno sentito che non possono continuare a definirsi pastori cioè guide senza avere un'etica, essendo la nostra solo una cosiddetta "ci sono principi di etica civili sui quali siamo chiamati a pronunciarci con un' attenzione non minore di quella riservata ai principi della cosiddetta etica cattolica" .
Il corpo è donato al mondo oppure resta in se stesso in preda alle sue pulsioni e allora ci si può aspettare qualunque reazione: "Gesù ha definito la nostra identità: Dio ha infatti tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito... perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3,16-17). "Non possiamo stare alla finestra" perché "se cessa la nostra presa sul mondo il corpo può congedarsi dalla terra". I segni dei tempi avvisano il prete che è l'ora di scegliere e si presenta loro questa unica alternativa. O segue il gusto popolare che lo spinge verso 'lo sciamanismo terminando nella palude di un neo-paganesimo avvilente e bottegaio.
O è la coscienza che può rimettere il popolo che perduta ogni fiducia negli uomini, si aggrappa ai santi, al miracolo o alle lotterie, dovunque possa trovare una minima sicurezza per il suo domani.
Cari amici italiani quello che succede sotto la coltre funeraria della globalizzazione mi induce a sperare che la storia umana riprenderà a muoversi, e con lei e dentro di lei, si muove la storia del Regno.
Non vi sembra che sia l'avvenimento questo più importante del nostro tempo?
Vi abbraccio con rinnovato amore
Fratello Arturo
(1) Galimberti, Il corpo, Feltrinelli
La legalità non abita più qui.
Alcune riflessioni in merito alla politica dell'attuale governo
"Il versante etico-sociale si propone come dimensione imprescindibile della testimonianza cristiana: si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell'incarnazione" (n. 51 di Novo millennio ineunte del 2001).
Incoraggiati da questo esplicito richiamo del papa e sollecitati da un tormentato clima sociale che attraversa il Paese, noi sottoscritti, sacerdoti appartenenti alle diocesi di Treviso e di Venezia, intendiamo esporre alcune riflessioni in merito alla politica dell' attuale governo.
Secondo noi è una politica che incide pesantemente su alcuni nodi essenziali della vita democratica e chiama in causa la Chiesa perché faccia sentire la sua voce nel difendere i valori dell' etica civile che riguardano tutti gli uomini, al di là delle appartenenze confessionali o politiche.
La rilettura attenta di un importante documento dei vescovi italiani del 1991 (Educare alla legalità), si rivela di sconcertante attualità in un momento in cui, nello scenario politico nazionale, stanno affiorando grosse contraddizioni che rischiano di minare la pace sociale.
Ci sono scelte governative che rendono sempre più anomala la situazione italiana, anche agli occhi dell 'Europa: una giustizia a base di leggi fatte su misura del potente di turno; un'informazione televisiva di massa, sempre più omologata e in mano ad un'unica persona, che rischia di mettere in pericolo la libertà di pensiero; una scuola e una sanità pubblica in ottica aziendale e privatistica che creano discriminazioni tra gli utenti; una politica per l'immigrazione che schiera la marina di guerra contro barche fatiscenti cariche di persone straniere ridotte allo stremo; una politica del lavoro che parla di libertà di licenziamento a piacere; la liberalizzazione incontrollata del commercio internazionale delle armi; la criminalizzazione di legittime forme democratiche di dissenso politico; l'ingiuriosa accusa al sindacato di contiguità con il terrorismo, ecc. E una situazione che sta avvelenando il clima sociale e politico. Rispetto a tale situazione, ci sembra che il mondo cattolico italiano, pur con lodevoli eccezioni, nel complesso appaia latitante ed estraneo: dai pastori ai cristiani, dalla stampa cattolica alle associazioni ecclesiali, dalla pastorale parrocchiale all'azione dei movimenti religiosi, ecc. Alcuni giornali si interrogano sul perché di questa sostanziale estraneità dei cattolici nei confronti del vasto movimento di opinione pubblica che va crescendo nel Paese in difesa di alcuni valori civili e di leggi che siano veramente uguali per tutti.
Noi sacerdoti avvertiamo che nelle nostre comunità sempre più stanno prendendo forma due atteggiamenti collettivi tra loro contrapposti. In una parte della popolazione si assiste ad un modo di vivere improntato all'arroganza del profitto selvaggio, ad un crescente impoverimento del concetto di "bene comune" e ad un assopimento di valori etici che, fino ad un decennio fa, mobilitavano la coscienza civile.
Nello stesso tempo, proprio per le forti contraddizioni derivanti dal pesante clima culturale e politico imperante, stanno diffusamente affiorando disagi che portano a molteplici forme di protesta e d'indignazione. Come pastori fortemente interpellati da questi "segni dei tempi", abbiamo il dovere di educare i cristiani all'ascolto e al discernimento degli eventi, in forza proprio dei richiami magisteri ali citati.
Come cittadini, siamo convinti di non dover stare alla finestra e guardare la realtà sociale da persone assenti e disinteressate.
Ci sono principi di etica civile sui quali siamo chiamati a pronunciarci con un' attenzione non minore di quella riservata ai principi della cosiddetta etica cattolica.
"Da ciò si vede come - il messaggio cristiano, - lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con obbligo ancora più stringente." (Concilio Vaticano II, GS 34).
Sottoscriviamo questa nostra lettera in data 29 aprile 2002, festa liturgica di santa Caterina da Siena, proclamata Patrona d'Italia nel 1939 e Dottore della Chiesa nel 1970.
È una santa che, nel lontano e turbolento XIV secolo, seppe coniugare una profonda spiritualità personale ad un instancabile impegno ecclesiale e civile, a servizio della Chiesa e della società del suo tempo.
Don Olivo Bolzon (Castelfranco Veneto), don Fervido Cauzzo (Peseggia di Scorzé), don Sandro Dussin (Fanzolo di Vedelago), don Silvio Favrin (Castelfranco Veneto), don Gianni Fazzini (Mestre), don Lidio Foffano (Mestre), don Giuseppe Furlan (Castelfranco Veneto), don Giuseppe Geremia (Salgareda), don Elio Girotto (San Liberale di Marcon), don Gianni Manziega (Mestre), don Luigi Meggiato (Mestre), don Claudio Miglioranza (Castelfranco Veneto), don Umberto Miglioranza (Castelfranco Veneto), don Giorgio Morlin (Mogliano Veneto), don Lorenzo Piran (Cavasagra di Vedelago), don Giorgio Riccoboni (Treviso), don Giorgio Scatto (Marango di Caorle), don Enrico Tarta (Cavallino Ve), don Luigi Trevisol (Mestre), don Mario Vanin (Treviso), don Antonio Viale (Vascondi Carbonera), don Piergiorgio Volpato (Casier).
Treviso-Venezia, 29 aprile 2002
Sono convinto che senza l'esperienza dello spazio liminale (quello spazio che indica la "soglia" di ingresso in una dimensione di vita altra, dove avvengono tutte le trasformazioni), non c'è autentica prospettiva della vita. E senza autentica prospettiva, non c'è né gratitudine né fiducia duratura.
E' precisamente questa profonda gratitudine e fiducia innata che vedo mancare per lo più nella gente oggi. Anche nella gente di chiesa.
Una sorta di "liminalità condivisa" è necessaria per creare che egli chiama communitas, e che io vorrei chiamare chiesa. Communitas in senso spirituale non scaturisce da celebrazioni prodotte o da eventi. Abbiamo avuto senz' altro qualche esperienza esaltante di gruppo in cui ci sembrava di essere una cosa sola anche con persone sconosciute fino ad allora. Ma poi questa sensazione viva impallidisce nel ricordo i giorni seguenti perché dipende da stimoli artificiali provocati dal cibo, bevande, musica, spazio ed energia condivisi. E' una esperienza comunque realmente bella e probabilmente necessaria nella vita, ma non ci trasforma. Essa ci sostiene appena, e sfortunatamente spesso rappresenta un diversivo rispetto ad un compito più profondo. Vera communitas viene dall'aver camminato insieme attraverso la liminalità - e, uscendo dall'altra parte - essere differenti per sempre. L'immersione nel fonte battesimale doveva ritualizzare proprio questa esperienza. Ma qualcosa è accaduto lungo la strada. Il battesimo è divenuto una simpatica benedizione dei bambini.
Perché non abbiamo molta communitas all'uscita dal fonte battesimale? Forse perché non c'è un fonte in grado di sacralizzare le nostre esperienze di immersione, e non ce ne sono stati per secoli. Perché avviene di sperimentare insieme liminalità e communitas assai più in gruppi come gli Alcoolisti Anonimi, in posti come Ground Zero, in gente come i sopravvissuti al tumore, di quanto lo facciamo nella esperienza liturgica e pastorale della maggior parte delle chiese? Con qualche evidente eccezione, naturalmente, mi viene da dire che non costituiamo una alternativa genuina all'incoscienza della massa. Nell'insieme, tendiamo ad essere materialisti, guerrafondai, individualisti, amanti del potere, del prestigio e del possesso come tutti gli altri. Preghiamo insieme la domenica, ma la maggior parte di noi ha criteri morali diversi attraverso i quali definirsi. E questi non sono necessariamente gli stessi criteri di Gesù. Per esempio Gesù non ha mai menzionato questioni come l'aborto, il controllo delle nascite o l'omosessualità, ma egli ha ricordato spesso la semplicità di vita, l'inversione dello status sociale e l'amicizia della tavola accogliente.
A rischio di passare per una persona ingiusta e anche di farmi più di un nemico, affermo che molto nella chiesa di cui ho esperienza dopo 58 anni di vita e 31 anni di sacerdozio è assai più "liminoide", diciamo così, che liminale. L'esperienza "liminoide" è costituita dal pensiero del gruppo, dalla rassicurazione di massa e dall'appartenenza al posto di ogni autentica e significativa trasformazione. Funziona molto bene. Crea una falsa trascendenza proprio nella dose adatta a vaccinare la gente contro l'Autentico Incontro. Porta via il senso della solitudine e dell' ansia e per la maggior parte della gente questo sembra essere "Dio". E certo Dio è così umile e abituato nell'usare ogni esperienza come traccia verso l'Unione Amata.
Come tengo a dire, queste cose non sono cattive. Sono solo pericolose e altamente capaci di produrre delusione. Nel mondo dello Spirito, i peccati realmente tali sono molto insidiosi. Il satana usa vestire abiti che non creano attenzione e se usa abiti vistosi lo fa per impressionarci. Vorrei chiarire la distinzione tra "liminale" e "liminoide": "liminoide" è il cattolico cui si inumidiscono gli occhi mentre il coro canta "O Notte Santa" alla Messa di mezzanotte. "Liminale" è la partoriente in sala parto all'ospedale che finalmente comprende nella sua carne il significato dello stesso canto natalizio per la prima volta. "Liminoide" è il cameratismo allo stadio e ai concerti rock che rimuove qualche filo di temporanea alienazione. "Liminale" è la sorprendente verità che ho sperimentato nella prigione della contea qui a Albuquerque, quando i messicani dall'aspetto così macho si inginocchiano dopo aver fatto la Comunione. Gli stessi uomini che non abbasserebbero mai gli occhi di fronte a nessun altro. In ogni caso, il "liminoide" è pseudoreligione, che è dovunque. Il secondo è chiesa che è anch'essa dovunque, ma non ne porta il segno in fronte.
Io non credo che Gesù sia venuto per creare una tribù religiosa. Credo che Gesù sia un messaggio universale di impotenza e di vero potere insieme, di cui hanno bisogno tutte le religioni e tutti i popoli. Non credo che Gesù sia venuto perché noi preti potessimo vestirei in modo da distinguerci dagli altri e Roma ne fosse contenta; credo che Gesù sia venuto perché la gente possa vestirsi per mescolarsi insieme e fosse possibile una communitas universale. Non credo che Gesù sia venuto perché la génte potesse essere pia e farlo notare agli altri, ma perché tutti gli esseri umani potessero aver fiducia nella povertà e nella vulnerabilità che egli mantenne fino all'ultimo. Come altrimenti potrebbe avvenire la comunione? Quando mai hanno unito qualcosa l'immediata sicurezza di sé, le risposte prefabbricate e la verità dogmatica presentata dogmaticamente? Queste cose lasciano la realtà come l 'hanno trovata. Questa non è l'evangelizzazione come l'hanno praticata Gesù e S. Paolo. Essi si fecero "tutto a tutti" .
Anche se nono sono stato in grado di verificarlo, due diversi studioso della Scrittura mi hanno detto che a Gesù sono state fatte, direttamente o indirettamente, 183 domande riportate nei quattro evangeli. Sapete a quante ha risposto? Solo a 3! L'idea di chiesa di Gesù infatti non è quella di dare delle risposte alla gente, ma di guidarla attraverso uno spazio liminale e oscuro dove desiderare e invocare Dio, la sapienza, le loro anime. Questa è ed è sempre stata l'unica risposta. Lo dice chiaramente nel vangelo di Luca (11; 11- 13). Gesù dice che la risposta a tutte le nostre preghiere è sempre la stessa: lo Spirito Santo. Prega per un pezzo di pane, un pesce, un uovo, prega per quel che vuoi. Dio può darti queste cose, ma ciò che Dio promette è che tu riceverai sempre lo Spirito Santo. E' la risposta di Dio ad ogni preghiera, ad ogni questione...
Ogni tanto la chiesa si presenta come spazio liminale, e spesso ci prepara a ciò. Ho visto la chiesa come spazio liminale negli incontri di preghiera carismatica negli anni '70 quando erano assolutamente centrati in Dio e in quel senso pericolosi. Ho visto la chiesa come spazio liminale quando attualmente l'Eucarestia crea comunità e riconciliazioni tra gli Ispanici e i Nativi americani nella Cattedrale di S. Fé. Ho visto la chiesa come spazio liminale quando la tavola di amicizia di Gesù è messa in pratica durante l'Eucaristia cattolica e la gente da lungo tempo alienata è spinta alle lacrime e riportata sulla retta via. Così molto della vita e del servizio alla vera trascendenza si sperimenta in questi luoghi fino al punto che sembrano far parte di una religione differente dall'usuale e tradizionale cattolicesimo romano.
Non so perché nella maggior parte delle parrocchie cattoliche ci si contenti di una assoluta passività. Siamo davvero contenti di essere trattati come bambini servizievoli che non chiedono nulla e danno poco in cambio? E' brutto che noi preti ci contentiamo di questa sovrabbondante passività, ma talvolta penso che siamo noi a coltivarla.
Ci mantiene nel ruolo di controllo, senza che ci vengano poste domande difficili, e ci diminuisce il carico di lavoro. Una comunità dalla fede partecipativa vuol dire un sacco di lavoro in più, e di incontri e di gente. Chiesa come spazio liminale richiederebbe una predicazione solidamente radicata nella Scrittura, Eucaristie contemplative, un organico di direttori spirituali maschili e femminili e di ministri. Invece, stiamo riproponendo il ruolo e la centralità del prete come mai prima.
Allora, che possiamo fare? Dobbiamo cercare di rimanere noi stessi in cammino. Dobbiamo credere che questo tempo oscuro, questo tempo tragico, è anche straordinariamente luminoso. Questo è lo spazio liminale di cui stiamo parlando.
Non abbiamo bisogno di crearlo artificiosamente. La quaresima è dappertutto oggi. Noi vi siamo dentro, come Giona, scappando da Ninive, presi contro la nostra volontà nel ventre di una balena e fatti uscire da amici.
Tempo, tempo, crediamolo, e ancora tempo: stiamo per esserne cotti. Il rituale di iniziazione, secondo Robert Moore ci tiene nella pentola dello stufato, che è il calderone della trasformazione. Gli anziani devono tenere alta la temperatura mentre "sorvegliano i confini" così che il popolo non prenda paura e cammini. Pochi tra noi sono preparati a far questo. Ma questo ministero mantiene la gente nel vero spazio liminale di una chiesa trasformante dove, nel tempo che Dio sceglie, saremo sputati come Giona sulla spiaggia giusta.
Per ora non dobbiamo neppure sapere "cosa" o "dove" è la spiaggia giusta. Tutti sappiamo che non possiamo fuggire da Ninive.
Richard Rohr
Il nostro mondo si trova in un momento molto vulnerabile. La violenza indiscriminata, il commercio immorale delle armi, atti di terrorismo inimmaginabili nei tempi passati, e una ideologia estesa di guerra come mezzo per risolvere i conflitti: tutto questo sembra poter rovinare il fragile tappeto della nostra comunità globale. Un'ombra di unilateralismo va arrestando i piccoli passi, eppure significativi, verso la pace per mezzo del dialogo internazionale e le negoziazioni multilaterali. I progressi fatti negli anni recenti verso la riduzione della minaccia di una guerra nucleare sembrano disintegrarsi. Alcuni addirittura parlano di portare questo gioco di guerra verso lo spazio. Ogni giorno sentiamo di nuove frontiere di guerra e violenza e ci stiamo abituando alla frase "guerra contro il terrorismo".
Deve esserci un altro cammino.
Dall'11 settembre del 2001, molti di noi che viviamo negli Stati Uniti d'America si svegliano in mezzo alla notte con incubi pieni di abbondante fumo, edifici incendiati e grida di bambini innocenti. Dividiamo questi incubi con le famiglie senza tetto dell'Afghanistan, i bambini malati e affamati dell'Iraq, i mutilati del Ruanda, Burundi e Cambogia, i contadini di una Colombia ferita dalla guerra, gli scolari dell'Irlanda del Nord, i passeggeri degli autobus in Israele e i rifugiati nei campi di Palestina. E la lista continua. La guerra distrugge il cuore umano e desacralizza la terra sacra che è la nostra casa comune.
Deve esserci un altro cammino.
La situazione peggiora ogni giorno di più perché viviamo in questo mondo bombardato da parole di violenza. La guerra delle parole distrugge tanto quanto le bombe che cadono dal cielo. Ogni governo, ogni esercito, ogni organizzazione terrorista, ogni religione, si autoproclama padrona della verità. Alla radio, televisione, internet e nei periodici, si usano parole camuffate che servono solo per aumentare l'arroganza e "l'odio dissimulato".
Ci stiamo distruggendo gli uni gli altri per mezzo delle parole.
Deve esserci un altro cammino.
Tutte le tradizioni spirituali del mondo rispettano il cammino della nonviolenza e della pace, e i loro insegnamenti mostrano con costanza che il vero cammino è il cammino dell' amore.
Nelle scritture indù compare un verso che dice: "Ogni essere è una dimora di Dio degno di rispetto e di riverenza".
La tradizione giudeocristiana afferma una verità simile nella sua credenza che l'essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio.
Budda ha detto: "Conquistino la rabbia per mezzo dell' amore. Conquistino il male per mezzo del bene. L'odio mai termina per mezzo dell'odio in questo mondo, solo per l'amore. Questa è la legge fondamentale".
Deve esserci un altro cammino.
Nel sacro Corano leggiamo quanto segue: "Colui che rifiuta il male e opera in Dio, ha preso nelle sue mani, con una presa fedele, qualcosa che mai si rompe".
Gesù, un giudeo palestinese di Nazareth, disse nel suo Sermone della Montagna: "Amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano" .
Molti dei grandi maestri spirituali e profeti hanno insegnato che la guerra e la violenza non sono l'unico cammino per la soluzione dei conflitti tra gli esseri umani.
C'è un altro cammino: il cammino del rispetto mutuo, l'amore, il perdono, e la compassione. Sono il cammino verso la pace giusta e duratura.
Sì, c'è un altro cammino.
Noi che parteciperemo a un digiuno per la pace e la nonviolenza siamo cristiani cattolici e membri dell'Ordine dei Predicatori, o Domenicani. Per noi la preghiera e il digiuno sono tradizioni antiche alla ricerca di una chiarezza spirituale. Gesù Cristo ci insegnò che la preghiera e il digiuno ci portano nel cammino della nonviolenza e della pace. Il l0 settembre del 2002 intraprenderemo un digiuno, solamente di acqua, come una maniera di riconoscere la nostra propria necessità di conversione personale e comunitaria. Lo facciamo con la speranza che altre persone, tanto nel nostro paese come nel mondo intero, ci accompagnino anche per dire con il loro silenzio e la loro preghiera: Deve esserci un altro cammino.
Non pretendiamo avere le risposte per i conflitti politici e i problemi del mondo. Applaudiamo a tutti coloro che stanno lavorando rettamente e onestamente alla ricerca di soluzioni pacifiche.
La nostra azione in questo momento è sperare in Dio, tornare al profondo del nostro cuore, la nostra Zona Zero, dove tutti gli esseri abitano nel Dio che è Amore. Speriamo nel silenzio e nella preghiera contemplativa come gesto sanante e riconciliatore per il nostro mondo e in memoria di coloro che sono morti in questo ultimo anno come vittime del terrore e della guerra. Crediamo nel potere trasformante della nonviolenza, la preghiera e il digiuno. Scegliamo di vuotarci delle nostre inclinazioni violente, e sentire il dolore della fame come atto di solidarietà verso i milioni di essere umani nel nostro mondo che vivono la violenza della fame ogni giorno della loro vita. La guerra mai rimedierà la fame e la sofferenza del mondo.
La pace è l'unico cammino. Crediamo nel Dio della Pace. Crediamo anche che deve esserci un altro cammino, e che Dio ci insegnerà questo cammino se abbiamo la disponibilità spirituale e la purezza del cuore per ascoltare.
Il Dott. Martin Luther King disse: "La non violenza è un' arma potente e giusta che taglia senza ferire e nobilita colui che la porta. E' una spada che sana". Il nostro mondo necessita disperatamente di essere sanato, secondo le parole del Mahatma Gandhi,
"La non violenza è la forza più grande a disposizione dell'umanità. E' più potente di qualunque potente arma di distruzione".
Invitiamo i leader politici e religiosi a mettere da un lato una volta e per sempre le parole e le armi di guerra e intraprendere un cammino di non violenza che ci porti alla pace duratura.
Inoltre, come gruppo promotore del digiuno per la pace e la non violenza a partire dallo settembre nella città di New York, invitiamo anche altri ad accompagnarci.
Invitiamo le persone di qualunque tradizione e fede, o di nessuna tradizione e fede, individui e comunità, famiglie, chiese, tribù, sinagoghe, moschee, ashrams, e templi perché ci accompagnino in questo digiuno per la pace e la nonviolenza.
Insieme cerchiamo un altro cammino.
Li invitiamo ad essere solidali con questa proposta nella maniera che sia loro possibile:
- Digiunare, pregare per un giorno per settimana nella propria casa, luogo di lavoro o comunità religiosa;
- Organizzare una veglia di preghiera per la Pace;
- Accompagnarci nel digiuno per la pace e la non violenza per alcuni giorni in New York durante il mese di settembre;
- Organizzare incontri di preghiera e meditazione interreligiosa;
- Diffondere questa lettera inviandola ad amici così come a leader religiosi e politici;
- Promuovere la riconciliazione e la non violenza nella propria vita quotidiana.
Li invitiamo anche a unirsi ai partecipanti al digiuno nell' orazione ecumenica ogni giorno alle 7.00 del mattino, a mezzogiorno, e alle 6.00 della sera, e questo sia nel luogo del digiuno o dove si trovino. Per favore animino altri ad unirsi anche a questo progetto. Possono comunicare con noi per maggiori informazioni.
Gli indirizzi email si trovano a fondo pagina.
Li invitiamo ad accompagnarci attraverso la pagina web www. dominicanfastforpeace.org per dividere gli atti solidali con il digiuno per la pace e la non violenza. Li ringraziamo della partecipazione a questo pellegrinaggio spirituale per la pace . Non possiamo abbandonare la speranza di un mondo più giusto e pacifico solo perché alcuni hanno optato per il cammino della violenza e della guerra. Con le parole del monaco buddista vietnamita, Thich Naht Hanh, "Per prevenire la prossima guerra dobbiamo praticare la pace oggi." Iniziamo, pertanto, oggi .
Comitato Organizzatore: - info@dominicanfastforpeace.org
- Jane Abell OP (jabell@domhou.org)
- Jim Barnett OP (jbarnett@dominicans.org)
- Brian Pierce OP (bjpierce60@hotmail.com)
ELIMINARE LA CAUSA PER METTERE FINE ALL'EFFETTO
Appello di Mons .Sabbah per la fine dell' occupazione israeliana
La via della pace in Palestina è una sola: quella che passa attraverso la fine dell'occupazione israeliana nei territori e la creazione di uno Stato palestinese, e che disinnescherebbe così la spirale di violenza perpetuata dal meccanismo di azione-reazione. Questo il punto di vista - e l'appello - del patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah, espresso in una riflessione che è stata diffusa ai media di tutto il mondo, proprio mentre l'Unione Europea ha raggiunto l'accordo su Betlemme e la basilica della Natività. Dopo 38 giorni di assedio, infatti, i Paesi della Ue hanno deciso (il 9 maggio) che i tredici palestinesi accusati da Israele di terrorismo saranno esiliati in Spagna, Italia, Austria, Grecia e Lussemburgo.
Di seguito riportiamo, in una nostra traduzione dal francese, il resto della dichiarazione di Sabbah.
1. Noi crediamo in Dio onnipotente e misericordioso, che può tare ciò che gli uomini non riescono ancora a fare. La pace autentica e un dono che lui solo può accordare. Ecco perché invitiamo tutti i credenti a perseverare nella preghiera e a restare saldi nella loro fede e nella speranza di vedere giorni migliori in questa terra benedetta da Dio e santa per le tre religioni che vi coesistono, ebraismo, cristianesimo e islam.
Piangiamo tutte le vittime, palestinesi e israeliane e condividiamo profondamente il dolore dei loro genitori, parenti e amici.
Ogni essere umano ci è caro, e difendiamo la vita, la dignità e la sicurezza di ogni persona, palestinese o israeliana. Crediamo che solo le vie della pace possono condurre alla pace.
2. Lo Stato di Israele esiste e ha il diritto di esistere e di vivere nella sicurezza.
Lo Stato palestinese non esiste ancora. Ha il diritto di esistere e di vivere nella sicurezza.
3. Lo Stato d'Israele occupa territori che appartengono ad altri. I palestinesi sono sotto occupazione militare israeliana, con tutto ciò che questo comporta a livello di privazioni o di limitazioni della libertà e di umiliazioni.
I palestinesi hanno il diritto di veder finire l'occupazione militare israeliana dei loro territori, imposta nel 1967, e di crearvi un loro Stato indipendente. Fintanto che l'occupazione dura. Hanno il diritto e il dovere di reclamare la loro terra e la loro libertà e di portare avanti la resistenza per arrivare a questo scopo.
Di nuovo, crediamo che, in questa resistenza, solo le vie della pace possono condurre alla pace.
La radice del conflitto
4. Il conflitto tra i palestinesi e gli israeliani non è fondamentalmente una questione di terrorismo palestinese che minaccia la sicurezza o l'esistenza dello Stato di Israele. Alla base si trova l'occupazione militare israeliana che provoca la resistenza palestinese, e questa, a sua volta, è percepita come una minaccia per la sicurezza di Israele. Continuare a parlare di terrorismo palestinese senza vedere il diritto dei palestinesi alla libertà e alla fine dell'occupazione equivale a condannarsi a non vedere la realtà, a restare quindi impotenti nel trovare una soluzione.
5. Ecco perché bisogna prima di tutto eliminare la causa per mettere fine all'effetto. vale a dire per mettere fine alla violenza globale. Ci sarà un bel lottare contro le manifestazioni esteriori della violenza con condanne, rappresaglie, o con una guerra dichiarata: fin tanto che durerà la causa, si produrrà l'effetto. Fintanto che durerà l'occupazione. il ciclo di violenza continuerà. Da entrambe le parti, innocenti e combattenti continueranno ad essere uccisi.
Mettere fine all'occupazione
6. Essendo l'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi la causa di ogni violenza, finita l'occupazione cesserà la violenza. Se davvero Israele ha la volontà sincera di mettere fine a ogni violenza, il mezzo da utilizzare non sono la guerra o le rappresaglie, ma una azione rapida per mettere fine all'occupazione.
Ecco perché Israele, l'Autorità palestinese e la comunità internazionale devono riprendere il più presto possibile a questo scopo dei colloqui, nuovi e sinceri.
Mettere fine alla violenza
7. Sì insiste spesso sulla necessità di fare dichiarazioni di condanna della violenza. Condannare la violenza è necessario. Ma eliminarne la causa, cioè l'occupazione, è più efficace. Analogamente dire che la violenza da parte palestinese è di tipo terroristico, e quella di parte israeliana un diritto alla legittima difesa, rende inutile qualsiasi dichiarazione e rende impossibile la cessazione della violenza. Ecco perché, più che delle condanne, ciò di cui abbiamo bisogno è un' azione che metta fine a ogni forma di violenza mettendo fine alla sua causa primaria, l'occupazione.
Pace, riconoscimento reciproco e sicurezza
8. Che cosa vogliono i palestinesi? Vogliono la loro libertà, la loro terra e il loro Stato indipendente. Che cosa vogliono gli israeliani? Vogliono la loro sicurezza, all'interno di frontiere sicure, al riparo da ogni attacco e da ogni minaccia. Ora, le due esigenze sono interdipendenti: l'indipendenza palestinese, dopo la fine dell' occupazione , porterà con sé la cessazione di ogni violenza e di conseguenza la sicurezza per Israele.
Ma, invece di mettere fine all'occupazione, il governo israeliano la mantiene e utilizza i mezzi - le rappresaglie e ultimamente la guerra dichiarata - che portano proprio all'opposto della sicurezza, in particolare ad un aumento delle reazioni e della violenza da parte palestinese, e quindi ad una maggiore insicurezza per gli israeliani. In effetti, le oppressioni e le umiliazioni imposte al popolo palestinese non possono che produrre reazioni di violenza da parte palestinese che minacciano la sicurezza del popolo israeliane e riempiono il suo animo di paura e rancore
9. Se il governo israeliano cerca veramente te la sicurezza, la repressione violenta che ha attuato finora non è la strada giusta. Di fatto, la sua violenza ha fatto nascerenuove forme di violenza da parte palestinese. E anche la sicurezza del suo popolo è sempre meno garantita. Dovrebbe dunque prendere l'altra strada, la sola che possa generate la sicurezza dichiarate di voler mettere fine all'occupazione il più rapidamente possibile e cominciare tempestivamente colloqui seri e rapidi a questo scopo.
Domande
10. Perché gli israeliani non, si decidono a compiere questo passo verso la pace? In effetti, fare la pace dipende soprattutto da loro. Essi solo possono mettere fine all'occupazione, e aprire anche la strada alla pace. Perché gli israeliani rifiutano, fino ad ora, di restituire ai palestinesi i territori occupati nel 1967 ,che sono solo 5.000 kmq., vale a dire il 22% di tutta la Palestina storica, della quale Israele copre il 78% dal 1948?
a. Israele coltiva ancora il sogno di appropriarsi di tutti i territori palestinesi, ma senza i palestinesi? Dopo quasi 100 anni di conflitto, è tempo di riconoscere che questo sogno è impossibile. Oggi ci sono tre milioni di palestinesi nei territori occupati. Bisogna che Israele accetti di trattare con questa realtà palestinese viva e non pensi più a eliminarla o a darle un sistema qualsiasi di occupazione occulta o di apartheid.
b. Israele non ha fiducia nei palestinesi, non crede che i palestinesi, in uno Stato indipendente possano diventare dei vicini pacifici? Questo sospetto non è fondato.
Le manifestazioni dell' ostilità palestinese nel tempo attuale non sono dovute ad una ostlità innata contro il popolo israeliano, ma sono l'espressione della resistenza del popolo palestinese a ciò che esso considera come un tentativo di sottrazione e di espulsione dalla sua terra. Una volta eliminata questa minaccia, l'ostilità cesserà.
Guardando al futuro
11. Se Israele non vuole credere alla possibilità della fine dell' ostilità nell' animo degli israeliani e dei palestinesi, la regione è condannata ad una guerra e ad una violenza permanenti. Sarebbe il blocco totale per la regione e per la sopravvivenza di Israele nella regione. L'unica via di uscita dal blocco consiste nel credere alla pace e nel costruire la pace con mezzi pacifici e non con misure di violenza.
12. Israele vivrà sempre circondato da Paesi arabi, ivi compresa la Palestina. Fino ad oggi, Israele non è riuscito ad allacciate relazioni normali con essi. In effetti, la politica seguita da Israele e dalla comunità internazionale, con il pretesto di proteggere il nuovo Stato d'Israele mantenendo l'ingiustizia commessa contro i palestinesi, ha suscitato e conservato atteggiamenti ostili in tutti i Paesi arabi. Se si vuole proteggere qualcuno non lo si circonda di nemici, ma di amici.
Bisogna dunque cambiare politica, al fine di trasformare i Paesi vicini in Paesi amici. Questa trasformazione non è impossibile. Basta rendere giustizia ai palestinesi, mettere fine all'occupazione e creare lo Stato palestinese.
I palestinesi, una volta soddisfatti, liberi e indipendenti nel loro Stato, diverranno amici di Israele. Una volta divenuti amici i palestinesi, saranno amici anche gli altri Paesi arabi. Solo così Israele, circondato da vicini amici, vivrà nella sicurezza voluta.
La proposta dell' Arabia Saudita di concludere una pace generale con Israele, adottata dal summit arabo di Beirut nel marzo 2002, è un .segno ed un invito per Israele: i Paesi arabi sono pronti a fare la pace con . Israele, Stato e popolo.
13. Le Nazioni Unite hanno già preso tutte le decisioni richieste per risolvere il problema. Ma la comunità internazionale manca di coraggio per adottare le misure necessarie e rendere operative le proprie decisioni, come ha fatto in altre situazioni. Di nuiovo, per garantire la pace nella regione, bisogna cambiare politica: occorre costruire l'amicizia tra i popoli sulle fondamenta della giustizia e del pari rispetto per tutti i popoli.
Gerusalemme, 8 maggio 2002
Michel Sabbah
Patriarca latino di Gerusalemme
Da Adista n. 40 del 20 maggio 2002
"Ciò che voglio sottoporre alla vostra attenzione è il modo con cui la cosiddetta informazione e comunicazione di massa rende sempre più difficile quella attività che S. Ignazio avrebbe chiamato elezione, libera scelta, decisione. La tesi che voglio esporre è la seguente: quanto più il mio pensare, il mio sapere è il risultato di quello che oggi si chiama comunicazione, meno mi posso decidere e compiere le scelte della mia vita tramite il mio sapere, il mio senso comune, la mia propria esperienza, quello che la cerchia di amici mi fa sentire come il bene. In altre parole, vorrei fare pensare sul pericolo implicito nell'intensità della comunicazione per il sapere sovrano e autonomo, che fonda la libertà che alla quale tanto teniamo sia nella tradizione classica occidentale che in quella cristiana e sulla quale si è formata la nostra cultura" .
Così ha iniziato la sua conversazione Ivan Illich aprendo la sessione 2002-2003 della Scuola della Pace della Provincia di Lucca. Il titolo era: "La decisione personale in un mondo dominato dalla comunicazione" .
E' stato un intervento di una grande intensità, ricco di spunti appena accennati come piccole finestre aperte che davano ampiezza di respiro al tema, l'ampiezza di una comunicazione di vita. Tutt'altro che facile da seguire, eppure, mentre Ivan parlava, cresceva l'emozione di essere come portati per mano a riprendere contatto con la dimensione personale come fonte di energia, espressione di dignità, libero dominio. Avrei voluto sbobinare l'intervento e riportarlo qui, ma mi sono reso conto che non sarei mai riuscito a rendere la forza e la vivacità dell'espressione, il tono, l'incisività sonora delle pause, la personalità capace di "celare" agli ascoltatori il cancro che gli deforma la metà del volto e lo debilita.
Voglio solo riportare quella parte del suo intervento che si sofferma su un documento ("avevo una copia; era sul mio scrittoio, poi qualcuno me l 'ha chiesta e non me lo ha più riportata") di Filippo II° imperatore conservato negli archivi di stato in Spagna.
"Vi voglio parlare di una piccola nota di un codice della metà del '500 che avevo sul mio scrittoio.
Filippo Il° , il successore di Carlo di Spagna, si alzava a mezzanotte, andava per un'ora in cappella e poi per due, tre ore allo scrittoio e prendeva le decisioni su quello che i suoi governatori gli mandavano da tutte le parti del mondo. Il fascicolo che mi interessava conteneva queste richieste dal Perù. Sapete che il cavallo e la vacca e i bovini in genere sono d'importazione nel nuovo mondo come pomodori e le patate lo sono per noi da là. La questione era questa: dato che venivano dalla Spagna degli emigranti e veniva loro dato un appezzamento di terra e si discuteva sui pezzi di terra perché fossero giusti, questi poi chiedevano di poter avere degli asini o dei muli. La questione era se il governatore doveva dare loro quattro asini o limitarsi a dargliene due. Questione del Perù che doveva essere risolta dalla Spagna... e ai margini del foglio scrive Filippo II°: "due, bastano". Senza dare altre spiegazioni: "due, bastano"! Interessante. Vi presento questo come una parabola della sovranità significata da una scelta: "due, bastano".
Non trovo altra cosa che proporre ai lettori di fare come Ivan quando preparava l'omelia. Non è vangelo, d'accordo, ma perché non provare a leggere e rileggere questa parabola finché non ci venga da ridere? Può darsi che entriamo in contatto con un livello più profondo di noi stessi e il riso liberi un sussulto di sovranità nel nostro mondo personale forse fin troppo sopraffatto dalla constatazione di dover decidere senza mai realmente poter scegliere: "dos, bastan".
Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i" ,
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza,
per inseguire un sogno, chi non si permette
almeno una volta nella vita
di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore
chi non viaggia, chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna
o della pioggia incessante.
Lentamente muore
chi abbandona un progetto
prima di iniziarlo,
chi non fa domande
sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono
qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.
Soltanto l'ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.
Pablo Neruda
Diciamo chiare tre cose:
La prima: occorre intensificare la mobilitazione dal basso contro la guerra.
Nonostante le illusioni, essa si avvicina; lo sciagurato voto del Congresso americano conta molto di più del parere del Consiglio di sicurezza di un Onu che l'amministrazione Usa ha deciso di mettere in mora. Noi che siamo in Italia dobbiamo togliere al governo Bush e al suo sodale governo Blair un alleato importante su cui contano molto: l'avallo e la partecipazione italiana. Per questo occorre impegnarsi di più e meglio. Non bastano le petizioni on line e neppure gli "stracci di pace" che pure sono cose buone e giuste. Occorre fare di più e dell'altro.
La seconda: per opporci efficacemente alla guerra dobbiamo essere comprensibili e credibili. Per essere comprensibili dobbiamo farla finita con atteggiamenti urtanti, con la colpevolizzazione degli interlocutori, con la tracotanza di chi presume di saperne di più e di poter semplificare cose che sono invece terribilmente complesse. Occorre studiare, occorre prendete sul serio i ragionamenti altrui, occorre saper comunicare in modo rispettoso e costruttivo. Capitini insisteva anche, e giustamente, persino sul vestirsi con decoro e sull'igiene personale. Aveva ragione. E quindi dobbiamo saper rinunciare alle nostre bandierine ed idiosincrasie, dobbiamo muovere dal punto di vista di esseri umani tra esseri umani, e non presentarci come spocchiosi agit-prop. Per essere credibili dobbiamo piantarla di contar panzane, di citare dati non verificati (quasi tutti quelli che escono sulla stampa), di fare di tutt'erbe un fascio. Dobbiamo studiare, studiare e studiare. E dobbiamo dialogare, dialogare e dialogare ancora. E dobbiamo esercitarci anche alla comunicazione: non basta sapere le cose, occorre anche saperle dire. Non basta essere convinti di aver ragione, occorre quella ragione saperla esprimere, argomentare, sottoporla al vaglio della critica, senza furbizie, senza disonestà (un utile repertorio di ciò che non si deve fare è in Schopenhauer, L'arte di ottenere ragione). Ma il nocciolo della questione e' il seguente: che per essere comprensibili e credibili dobbiamo essere onesti, veritieri, coerenti. Questo significa che per opporci efficacemente alla guerra bisogna essere costruttori di pace; che l'opposizione alla guerra non può essere strumentale, ma deve tradursi nella scelta della nonviolenza. E qui torniamo al punto decisivo: la scelta della nonviolenza, senza della quale l'opposizione alla guerra è destinata al fallimento, alla disfatta.
La terza e ultima cosa; prendiamoci sul serio. Dobbiamo essere consapevoli che possiamo farcela a mettere in difficoltà l'adesione italiana alla guerra, e cosi possiamo fortemente indebolire il blocco bellicista. Possiamo farcela, dobbiamo volercela fare. Questa possibilità, questa volontà, questo dovere, hanno un nome nonviolenza.
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455