LOTTA COME AMORE: LcA maggio 2002

Sono 10 anni...

Questo numero di Lotta come Amore arriva a casa vostra a distanza di quasi un anno dal precedente. Non sempre però il silenzio è segno di vuoto e di assenza. Talvolta - come in questo caso - il ritardo a questo nostro appuntamento segnala un lento processo di assestamento in corso per quanto riguarda me e la vita qui, alla Chiesetta del Porto. Ne risente anche la comunicazione o per lo meno le sue modalità. Mi chiedo che cosa dire, cosa scrivere, cosa cercare di condividere per un confronto sempre aperto con chi si avventura nella lettura?
Sono dieci anni che Lotta come Amore esce con questa veste grafica che riprende, innovandola, "La Voce dei Poveri" degli anni '60. Volle essere allora un rialzare la testa dopo la morte di Sirio e l'inevitabile difficoltà a dare un senso alla nostra presenza, di Beppe e mia, alla Chiesetta, senza di lui.
Quattro anni fa, la morte di Beppe. Il giornalino ha riflesso sempre più il mio cercare di tirare avanti comunque, anche se a volte molto, molto stancamente. Come a reggere il colpo di un improvviso crollo di energie di fronte ad un peso soverchiante. Essere rimasto solo nella Chiesetta - sia pure nella condivisione della memoria e della ricerca con Maria Grazia -, l'ho vissuto all'inizio come una responsabilità intristita dal senso di colpa di essere "sopravvissuto" in tutta una mia "strutturale" inadeguatezza ad esprimermi in modo comprensibile in una dimensione tutta mia. Portato a parlare più con gli attrezzi e i materiali da lavoro che con le persone, "uomo di macchina" quasi sempre intento "a far andare avanti la barca" sbuffando e brontolando, defilato "sotto coperta".
Dalla mattina alla sera sono stato proiettato sul ponte, all'aria aperta, alla luce del sole, e ho avvertito come un dolore lancinante in quel rendermi conto di essere un piccolo punto in mezzo al mare, senza terre all'orizzonte.
Ho cercato, un poco per volta, di mettere insieme una piccola zattera con pezzi recuperati alle onde ed ora sono riuscito a cucire insieme qualcosa che somiglia ad una vela: sto aspettando una raffica gentile che me la gonfi senza rischiare di strapparla, per riprendere la navigazione della vita.
Sono stati due .eventi, sia pure di portata diversa che mi hanno aiutato a liberare voglia di vivere. Tutti e due legati alla memoria. Di Beppe il primo: una memoria di lui raccolta, sentita, semplice da parte della comunità parrocchiale della Darsena, la Chiesa dei Sette Santi Fondatori di cui Beppe è stato parroco per dieci anni, nel giorno anniversario della sua morte. Letture, canti e ricordi di gente di età diversa eh continua ad avere lui come riferimento di vita quotidiana, di gesti, di motivazioni, di ideali. Avevamo comunicato, lo scorso anno, la decisione di non organizzare più la fiaccolata cittadina per lasciare che il silenzio favorisse la nascita di semi della sua presenza viva, ma questo evento non lo ha interrotto. Anzi, ha come accompagnato con la dolcezza dell' amicizia il tentativo di guardare alla terra, alla nostra storia umana con un senso rinnovato di attesa e di speranza. Per cui è stato facile per me invitare a staccarci dalla memoria come "nostalgia" che cerca di rileggere le parole di Beppe e di riprodurre i segni che lo hanno identificato, per cercare di "ri-dire" noi le sue parole con il linguaggio della nostra vita.
Dopo poco più di un mese la Chiesetta del Porto ha allargato le braccia per accogliere il "ritorno a casa" di don Sirio. Potete seguire anche voi questo avvenimento attraverso la "cronaca" di Maria Grazia nelle pagine centrali. Un avvenimento non programmato fino alla fine della scorsa estate. Quando apparve la necessità di porre mano al problema concreto della collocazione dei suoi resti provocato dallo "sbancamento" della parte del cimitero di Capezzano Pianore (suo paese natale) dove Sirio è stato sepolto. Inizialmente avvertii in me una resistenza all'idea di averlo qui, quasi un richiamo troppo forte alla memoria del passato per poter mantenere la fiducia di una storia ancora aperta. Poi, mano a mano che l'idea prendeva forma ho sentito la cosa sempre meno pesante e sempre più una spinta ad andare avanti con coraggio. Ora, la presenza di Sirio nelle sue ceneri, è per me una cosa buona: mi sento molto meno solo e vengo incoraggiato ad esprimermi per ciò che sono.
Il resto del giornalino è assemblato più per intuizione che attraverso una elaborazione consapevole. C'è, subito a seguire, la posta di fratel Arturo. Una lettera dell'ottobre scorso, ma, al di là del riferimento temporale alla tragedia dell'aeroporto di Linate, credo sia leggibile come appena uscita dalla penna e dal cuore di un uomo che non smette di sorprendere già oltre i novanta anni.
Ho quindi inserito il testo di un intervento che ho letto al termine di una fiaccolata contro il terrorismo a seguito dell 'uccisione di Marco Biagi. Mi era stato chiesto di intervenire a nome del cosiddetto Terzo Settore della società (volontariato, associazionismo, cooperative sociali...). Nell'occasione, per la cronaca eravamo all'aperto quasi sul mare, mi sono ostinato a leggere il testo alla luce di un lampione in una serata di vento freddo e ho "mandato via" i due terzi degli intervenuti scoraggiati e confusi...
Ho ritrovato però alcuni temi, da me solo sfiorati quasi per caso, nell'intervento di Cofferati alla manifestazione a Firenze in occasione dello sciopero generale del 16 aprile scorso e soprattutto in uno scambio epistolare tra don Luigi Ciotti e lo stesso Cofferati, pubblicato st n° 2/2002 di Micromega (La primavera dei movimenti). Dopo "Il ritorno a casa di don Sirio" nelle pagine centrali (le foto pubblicate riferiscono a questo evento e segnano il percorso dal Comune alla Chiesetta), una lettera aperta a Bush scritta da un ex-sergente dei marines che gli chiede di non attaccare l'Afghanistan. Sappiamo tutti come è andata. Mi pare però utile riascoltare le voci di una resistenza che cerca di riportare i temi della pace e della guerra ad una dimensione politica riguardante gli obiettivi che si cerca di perseguire e che nella loro rispondenza ad una giustizia per tutti o meno contengono già la guerra come strumento necessario alla difesa di interessi particolari. Non la malvagità degli uni (innegabile) provocò la guerra, ma la volontà degli altri di mantenere privilegi e mettere le mani su tutte le risorse invece di condividerle con la comunità mondiale. Infine, la ballata per i bambini del mondo scritta da Gianni Tognoni raccoglie il grido di dolore e insieme di speranza per "i cuccioli della nostra specie".
Un mondo violentato, saccheggiato, offeso intorno a cui si gioca una battaglia decisiva perché l'orizzonte della storia umana possa ravvivarsi di luce, di fiducia, di vita.

Luigi

La posta di fratel Arturo

Questo mese di ottobre è per me ricco di incontri e carico di emozioni, fra cui quelle causate dal disastro aereo dell' 8 ottobre all'aeroporto di Linate. In quel giorno ero a Milano e ho partecipato allo stupore e al dolore della città. Ottobre non è un mese . speciale perché devo dire che la mia partecipazione alla vita non ha dei momenti di arresto e sono cosciente alla mia età di godere questo dono di cui devo essere grato all'Amico. Devo confessare che qualche volta mi lamento del troppo. Mi consolo ricordandomi che una mia vecchia amica spagnola di Avila si lamentava col suo Amico di trattarla con dei metodi un po' pesanti. Racconta Teresa che un giorno attraversando un fiume stava per essere trascinata dalla corrente, e arrivando penosamente alla riva, ebbe la visione dell' Amico che l'attendeva sorridente e lo rimproverò di starsene così tranquillo, mentre lei si dibatteva sentendosi vicina a perdersi: "Teresa, così tratto i miei amici". "Per questo ne hai così pochi" fu la risposta di lei. Siamo in un tempo in cui a nessuno è consentito restare tranquillo, preoccupato di sé. Raramente mi siedo davanti a un televisore, ma in casa di parenti o di amici è difficile non dare qualche occhiata, e mi fa male constatare che si passa dalle scene di guerra, di folle che fuggono dalle loro case e dalle loro città, a quei giochi che giudico stupidi e immorali per le somme che sono in palio, o ad immagini di simile banalità. Mi pare che dietro ci sia il proposito di non rattristare, cercando di convincere che le guerre dell' occidente in altre parti del mondo non ci riguardino. Le scene tristi ci devono aiutare a godere il privilegio di essere estranei a quel mondo.
La paura di soffrire è la causa più diretta della depressione, male endemico nel nostro mondo. Per non cadere in depressione basta non fuggire dal conoscere e dal guardare, ma bisognerebbe che non si sovrapponessero immagini che sembrano suggerire che quello che hai visto prima non è vero poiché tu vivi altre esperienze. Accettando la sofferenza degli altri, e lasciandoci interpellare, scopriamo il vero senso della vita, conoscenza necessaria per evitare di essere persone inutili o peggio dannose agli altri. E solo così potremo assumere un genere di vita più scomodo, più difficile, ma non cadremo nel baratro della depressione. Questo volevo dirvi per aiutarci a vivere in tempo di guerra. Che la guerra non sia in casa è un particolare di luogo trascurabile. Se qualche parente di sangue si trova in un paese sotto le bombe, la lontananza non vi libera dall'apprensione e dall'angoscia, ma piuttosto le rende più dolorose. Non è vero che non possiamo farci nulla, è già molto se arriviamo a scoprire che la nostra vita egoista, unita ad altri innumerevoli egoismi, contribuisce direttamente a suscitare e alimentare conflitti.
Quest'ultima frase che può apparire audace, irreale mi offre l'occasione per una riflessione sul momento drammatico che stiamo vivendo. Fermiamoci a riflettere sullo squarcio di storia dell'occidente vicino a noi. Prendiamo il cortissimo spazio di mezzo secolo, dal '50 all'oggi. Ci siamo appena rimessi in piedi, ancora storditi dall'avvenimento della guerra. Ci voltiamo indietro a "come è possibile che siamo stati così selvaggi, così disumani da causare milioni di morti ad Auschwitz?". Quelli che guidavano la storia erano dei giganteschi "io", i dittatori Hitler, Stalin e altri modelli un po' meno disumani come Mussolini e Franco. I progetti politici erano proiezioni dell'io narcisista. Lo Stato, il Partito: l'uno che deve sopprimere l'altro.
Il mondo sarà fascista o fascistizzato proclamava Mussolini. Fascista, o per le buone o per le cattive. Il mondo sarà comunista, dichiaravano gli altri.
Le guerre avvengono perché ci sono gli altri che arrivano a un certo limite di sopportazione ed escono fuori del limite di sopportazione. Off-limits come dicono gli americani.
Gli americani hanno atteso il loro turno ed eliminato l'Io russo, sono entrati in scena con l'Io-globalizzazione. Questo lo non è un io ideologico, né un io militare, ma tecnico-monetario: produrre oggetti per moltiplicare ricchezza e concentrarla in poche mani. Riassumendo, la nostra storia è dominata dai tre giganteschi Io: L'Io-razza-e-stato che deve vincere e dominare tutti i non-io, l'Io-partito ideologico, l'Io-mercato. Come conseguenza i tre Io sono armati fino ai denti perché sanno che escludendo, dominando e opprimendo altri provocheranno un conflitto prima o poi. E questo è avvenuto-avviene-avverrà con una precisione aritmetica.
Che la cultura nord-americana sia una cultura narcisista lo afferma quell'americano buon intenditore di psicologia che è Thomas Moore. Gli americani si considerano i benefattori dell'umanità essendo quelli che conoscono meglio degli altri le riserve della terra per sfruttarle a loro interesse, sotto qualunque bandiera si trovino. Un simbolo dell' America è quello che avviene in questi giorni: vi spezziamo le ossa ma poi vi mandiamo le stampelle per reggervi in piedi. Se siamo convinti che tutti i guai che ha combinato l'occidente sono causati da un io narcisista, possiamo pensare che le generazioni che succederanno alla presente potranno raggiungere una pace stabile se non elimineranno questo io? Il cristianesimo ha alle sue origini un modello antinarcisista che ha definito se stesso come alterità.
"Nessun amore maggiore che dare la vita per gli amici". Ma il Nazareno entrando nell'occidente è stato fissato, direi congelato, nell'immagine dell'arrivo. Anche Gesù ha fatto la fine delle altre forze vitali che dovrebbero fare della nostra storia una storia viva e di verità e non di apparenza.
La religione ci consegna questa vita altruista, fremente di alterità come esprimono le parole: "desidero di essere battezzato in un battesimo di sangue e sono impaziente che avvenga" nel simbolo statico, innocuo di una Eucarestia che va bene per tutti i gusti, provocando fremiti di amore che visto da vicino spesso appare di puro stampo narcisista.
Il narcisismo spirituale, mistico è disperatamente senza rimedio. Non vi pare che dovremmo passare da una cultura egocentrica, narcisista che proietta sullo schermo universale quei giganteschi io divoratori ad una cultura altruista, in cui entra in scena l'altro? Ma l'altro non si sostituirebbe all'io ripetendo il gioco funesto? La domanda non è fuori tema, perché molte volte il povero, l'escluso, raggiungendo lo status dell'oppressore diventa peggiore di chi stava sopra di lui. Il messicano Benito Juarez indio di nascita, è noto per avere emanato delle leggi contrarie alla liberazione dei suoi fratelli di sangue, e non è un caso isolato. M io penso che se tutti quelli che entrano nella categoria degli intellettuali - definendo intellettuali quelli nati per pensare, come altri sono nati per lavorare (Bauman) - cominciassero a definire la persona come alterità, e ognuna responsabile dell'altro asimmetrico, che ha bisogno del mio intervento, si supererebbe la legge sostitutiva per cui chi sta sotto vuole occupare il posto di chi sta sopra come per una rivincita. Se il modello ideale non fosse più l'uomo lupo dell'uomo, cioè competitivo e non uguale, ma l'uomo altruista responsabile dell'altro, si potrebbe sperare seriamente in un mondo di pace. Alcuni intellettuali ci autorizzano a sognare questo sogno. Gli intellettuali che hanno delle responsabilità pastorali di guida della gioventù dovrebbero fissare come primo obiettivo da raggiungere la creazione di modelli di alterità e farsi loro stessi modelli di alterità. Gli intellettuali laici e religiosi dovrebbero rinunziare al narcisismo intellettuale come forma di dominazione sugli altri e guidare la loro attività all'ideale di cambiare la società. Da una società violenta, competitiva come è la nostra, a una società pacifica. Gli avvenimenti ci aiuteranno perché assisteremo (io come anziano devo dire assisterete, e lo dico con gioia) alla fine del progetto globalizzazione. E' inevitabile perché - afferma Moore - per la globalizzazione, fenomeno narcisista, non ci sono cure, è un male terminale che finisce come Narciso che muore affogato per acchiappare la sua immagine che crede un altro io. La fine sarà tragica come è facile prevedere, ma sarà inevitabile. Qualcuno riuscirà a mollare il proprio io egoista, altri saranno trascinati a mollarlo dagli eventi, altri ancora periranno sotto le macerie. E' facile e quasi spontaneo che la frana delle torri, simbolo dell'io occidentale che ha raggiunto l' onnipotenza tecnica, induca pensare all'altra torre biblica che voleva portare l'uomo al livello di Dio. In un mondo dissacralizzato le torri di Manhattan difficilmente appariranno come simbolo: è un atto terroristico e chiuso, è ingenuo attribuirgli altro senso. Ma alcuni di noi restano fermi nel cogliere il senso simbolico del crollo. Tutti avvertono che non è un fatto facilmente prevedibile. Appare più un evento da fantascienza che un avvenimento storico. Gli americani hanno chiamato il 12 settembre day after, alludendo all'apocalisse prevista prossimamente.
Con questi pensieri sono arrivato a Trento per intervenire in un congresso cui avevano apposto un titolo che mi parve subito significativo: "Le parole ritrovate", dove? Fra le macerie delle due torri. E quali sarebbero queste parole? Mi giunse subito la risposta: "Caino che hai fatto di tuo fratello?" La risposta ontologica -dice Lévinas cioè quella dell'io che si sente unico, completo in se stesso, separato dagli altri è "che c'entro io con mio fratello?". Lévinas trova che è una risposta logica, non ci potevamo attendere altro dalla antropologia occidentale.
Su un'altra base antropologica dell'essere come alterità ci si può attendere un risveglio della coscienza responsabile. E dobbiamo credere e sperare che questo cambio avvenga. In questa speranza che deve essere accolta nella nostra fede e alimentata, vissuta e invocata dal Signore della vita, vi saluto.

fratel Arturo

Parole insieme ai fatti

Prendo la parola, questa sera, come voce di quel variegato mondo dell'associazionismo, del volontariato, delle cooperative sociali che costituisce, anche nella nostra città, un tessuto di ideali, valori, tradizioni collegate ad una risposta fattiva e generosa ai bisogni che emergono nella comunità locale e non solo.
E' l'opera quotidiana di queste realtà per alimentare, custodire, migliorare la vita che si oppone da sempre al terrorismo. E questa sera anche noi diciamo il nostro "NO" forte e chiaro. Consapevoli che il "No al terrorismo" significa dire "SI'" alla democrazia, alla fiducia che le differenze, i differenti punti di vista, le differenti motivazioni non sono un ostacolo, un impaccio da eliminare per far correre meglio le cose, ma un'energia! Non ci si può dichiarare sinceramente per la democrazia se non si è compiuta prima questa scelta: le differenze, tra di noi umani, sono una ricchezza, sono il salecome abbiamo sentito dire con parola autorevole - senza il quale diventa sciapìto e tristemente omogeneizzato il nostro vivere.
Il mio intervento a nome della società civile, che segue quello istituzionale del Sindaco e quello di forze sociali storicamente organizzate quali quelle sindacali confederali, completa l'arco della società democratica italiana. Occorre - perché non passi il terrorismo - che anche la forte presenza associativa nel paese con tutto lo spessore di una lotta quotidiana contro la marginalità e l'esclusione, si unisca alla coralità dell'appello di questa sera: "No al terrorismo, sì alla democrazia, ai diritti".
Ma con quale ruolo?
Non ho timore di dire che il ruolo principale di questo terzo settore della società è quello politico. Una politica differente da quella istituzionale, una politica che nasce e cresce affrontando problemi, facendo cose. Nella socializzazione immediata di quei nodi del vivere comune che interventi successivi dell'organizzazione istituzionale sono poi chiamati a sciogliere secondo scelte compiute nell'ambito delle regole democratiche. Nel dibattito critico continuo, perché facendo cose, affrontando concretamente problemi non si può evitare di porre in continua discussione il senso delle scelte fatte, il significato del vivere collettivo, la prevalenza di alcuni interessi a discapito di altri e il bisogno di una continua ridefinizione della giustizia sociale. Fare, sì, ma insieme anche parlare, comunicare, discutere, progettare. E - perché no? - anèhe sognare l'utopia possibile di un mondo a misura davvero umana.
Ma, chiediamoci ancora: è questo il modello che sta venendo avanti?
A livello istituzionale e di governo vengono messaggi in tutt'altra direzione. Mesi orsono il ministro Sirchia ha severamente ammonito il mondo del volontariato: fate troppa politica!
E' di questi giorni il tentativo, poi abortito, del governo di promuovere imprese no profit direttamente dalle imprese profit: la Fiat, quindi per esempio, che distacca personale, mezzi, immobili e fondi alla costituenda Fiat no profit che si occuperà di servizi socio assistenziali ed educativi. In Versilia, amministrazioni comunali del centro-destra iniziano a costituire associazioni e cooperative espressioni dirette delle amministrazioni stesse.
Che c'è di male in questo? Potremmo dire che è tutto grasso che cola: aumenteranno i servizi per le persone bisognose, per le situazioni problematiche a rischio...
Ma a che cosa tende essenzialmente questo progetto? A svuotare i luoghi dove si fa politica; sulle cose, sui problemi concreti. Il tentativo è quello di ridurre i luoghi del pensiero critico, di quel pensiero che nasce e si rafforza nella azione concreta e che nel mondo associativo trova un terreno di confronto e discussione in cui cresce e si allarga lo spessore politico e democratico della società.
Ma anche nel mondo dell'opposizione, in quello di sinistra, a questo proposito c'è confusione. Nella rincorsa ad un modello di controllo delle risorse e di efficienza, abbiamo ridotto la politicità, la partecipazione critica. Di fronte ai problemi emergenti spesso, anche da sinistra si imbocca la scorciatoia dell' affidare a due/tre esperti la risposta istituzionale operativa, invece di favorire una comunicazione delle problematiche, una discussione allargata, una partecipazione critica. E' questo di certo un percorso più faticoso e difficile. Ma l'unico che possa assicurare una risposta radicata davvero nella cultura, nel territorio, nella gente. Purtroppo invece il dialogo tra amministrazioni pubbliche e mondo dell'associazionismo, del volontariato e della cooperazione sociale è spesso infittito solo di discussioni su gare, appalti, contributi, servizi erogati o da erogare, con la assenza a volte davvero vistosa di ogni confronto sui progetti e sul significato complessivo delle risposte ai problemi che via via si presentano E lo stesso mondo che rappresento è tutt'altro che immune da questa infezione di uno stile derivante dal pensiero di un'economia interisivamente globalizzata. La vita associativa sfugge difficilmente all'appiattimento organizzativo sul servizio. Gli organi collegiali di' fatto vengono espropriati dalle loro funzioni a fronte di figure che assomigliano di più a degli 'amministratori unici. Traspare un senso di fastidioquando si è chiamati a collaborare, ad uscire dai confini degli spazi che ci si è ritagliati. Difficoltà a dar conto del proprio agire, preferendo seppellire l'opinione pubblica sotto il cumulo delle azioni svolte: vedete quanto siamo bravi!
Se vogliamo davvero battere il terrorismo, questo terrorismo di oggi che uccide un uomo perché pensa con la propria testa, occorre riprendere in mano con forza e decisione il progetto di una politicità diffusa. Occorre invertire la tendenza in atto andando - non a svuotare -, ma a cercare di ricostituire nella loro funzione i luoghi dove più da vicino la politica si misura con i problemi del nostro vivere. Occorre invertire nella consapevolezza del mondo associativo quella sudditanza psicologica e non solo, di fronte al pensiero unico che recita solo parole inneggianti all'efficientismo e allo spirito di impresa. Occorre ridare valore alla comunicazione interna ed esterna, alla circolazione di pensieri differenti, al confronto generazionale, al gusto per il dibattito e la ricerca delle idee.
Occorre, se non invertire, almeno riequilibrare quello slogan che abbiamo fatto nostro contro la degenerazione della politica, ma che ora ci sta scoppiando in mano: "Non parole, ma fatti!". Ci rendiamo conto che ora ci mancano soprattutto le parole, perché le abbiamo ritenute superflue, abbiamo pensato che "facendo", tutto si sarebbe sistemato. E ci stiamo lentamente accorgendo - almeno, io lo spero ... -, che a poco a poco rischiamo di divenire prigionieri di noi stessi. Di fatti, di azioni che dovrebbero renderei la vita più serena, aperta e dignitosa e che invece ci inchiodano ad una sempre più esasperante solitudine. Abbiamo bisogno dei fatti, ma abbiamo anche un grande bisogno di trovare le parole per dirli, per raccontarli, per confrontarli tra di noi. Abbiamo bisogno di parole insieme ai fatti, e cioè di politica che nasce sulle cose fatte, da fare e che si stanno facendo. Abbiamo bisogno di democrazia partecipata, diretta, appassionata. Abbiamo bisogno di riconoscere i diritti individuali e collettivi per spenderli finalmente nei doveri che nascono dalla assunzione di autentiche responsabilità.
Abbiamo bisogno non di nuovo terrore, ma di coraggio rinnovato per poterei ritrovare ad essere cittadini di una terra che fiorisce libertà.
Luigi

(Intervento a nome del "terzo settore" alla conclusione della fiaccolata versiliese contro il terrorismo, per la democrazia e i diritti)

Il ritorno a casa di don Sirio

Il 23 febbraio di quest'anno, a quattordici anni dalla sua morte, le ceneri di Don Sirio sono state trasportate alla Chiesetta del Porto per esservi tumulate.
Al progetto di riportarlo a casa abbiamo tenacemente lavorato da quando, in estate, una serie di coincidenze aveva fatto sorgere l'idea attorno alla quale abbiamo da subito coinvolto la città. Personalità della cultura, cittadini di ogni tendenza politica e il mondo delle istituzioni si sono mobilitati firmando in centinaia una petizione indirizzata alle autorità competenti per superare gli ostacoli burocratici legati alla possibilità di essere tumulati fuori dall'ambito del cimitero.
Alla fine, dopo mesi di impegno, quando si è sparsa in città la notizia che l'ultimo sabato di febbraio Don Sirio sarebbe tornato a casa sono arrivate adesioni e richiesta di partecipazione alla giornata.
Ma non ci aspettavamo la folla che ha voluto accompagnarlo nel suo ultimo viaggio, quando ci siamo ritrovati in centinaia perché nessuno voleva mancare. Vi era gente di età diversa, studenti e vecchi amici, persone di ogni ceto sociale e animate da differenti motivazioni: tutti insieme abbiamo fatto corona a questo evento apparso, nel suo svolgimento, come quello di un fiume che per quanto lungo e sinuoso sia il suo corso deve arrivare al mare.
Nella Chiesetta del Porto è cominciata la sua solitaria avventura e lì si è conclusa, confortata dall'abbraccio ideale della città.
Ci fa piacere offrire ai lettori la cronaca di una giornata che ha saputo coniugare familiarità ed ufficialità. La manifestazione ha avuto inizio in Comune, dove, in una sala di rappresentanza gremita, l'urna delle ceneri tenuta in mano da don Luigi è stata accolta dal sindaco a nome della città.
È seguito un mio breve intervento che tratteggiava l'iniziativa.
Si è poi formato un corteo aperto da una gru che in rappresentanza del mondo del lavoro ha voluto trasportare le ceneri del primo prete operaio italiano. Subito dopo seguivano le bandiere, i labari dei Comuni e delle associazioni e la gente. Superato il canale,
la popolazione della darsena ci ha accolti assiepata lungo la strada principale: il passaggio è stato salutato dal canto delle sirene dei cantieri navali e delle barche che in suo onore si erano pavesate a festa. All'arrivo alla Chiesetta il vescovo di Lucca Monsignor Bruno Tommasi ha benedetto le ceneri e Don Rolando ha letto una citazione di Aldo Capitini. Poi don Luigi ed io lo abbiamo ricordato:
Luigi dandogli il ben tornato nella sua zolla di terra posta - come ha ricordato - alla confluenza di tre elementi acqua terra e cielo che sottolineano la molteplicità della sua vita. "E' stato per me un privilegio vivergli accanto e vivere in questo luogo, ha concluso Luigi, e voglio testimoniare di fronte a voi e di fronte a Dio che mi impegno a raccogliere e continuare gli ideali per i quali ha vissuto e che mi hanno nutrito."
Io ho intrecciato le mie parole con alcune canzoni scritte da Don Sirio per il teatro popolare da lui composto ed eseguite dal coro che negli anni '70 lo seguì in giro per l'Italia.
L'evento è stato documentato da un video realizzato da alcuni giovani del Laboratorio Cinema di Viareggio; le Poste erano presenti con un annullo filatelico speciale dedicato alla giornata (chi volesse le cartoline ricordo può fame richiesta alla redazione).
Vi trascriviamo gli interventi per farvi assistere, seppure in differita, alla giornata, cominciando dal mio, pronunciato nella sala di rappresentanza del Comune.

"Un affettuoso benvenuto a tutti e in special modo all'anziano fratello di Don Sirio che è venuto da Loano insieme ai suoi familiari per essere con noi stamani.
Attorno al progetto di riportarlo a casa ci eravamo già mossi in agosto, ricordate? Un tam tam aveva diffuso l'idea e in tanti veniste a firmare una petizione popolare qui, nell'atrio del nostro Comune mentre altrettanto avveniva a Casoli e, generosamente, nel comune di Camaiore che cedeva Don Sirio sepolto dall '88 nel paese di Capezzano dove era nato.
Ci fu, in estate un grande darsi da fare perché sono molti gli obblighi burocratici da adempiere per potere portare i resti mortali di un defunto al di fuori del cimitero. E stato un cammino denso di difficoltà nel quale abbiamo avuto accanto gli uffici comunali preposti.
Il 17 gennaio 2002 a quattordici anni dalla morte è avvenuta l'esumazione; purtroppo nel cimitero di Capezzano il terreno argilloso non consente il drenaggio e al momento di scavare ci si accorse che la sua cassa era ricoperta da due spanne d'acqua.
Fu lì che decidemmo, di slancio, insieme alla famiglia di avviarlo alla cremazione: dopo tanta acqua tanto fuoco, che lo asciugasse, che lo alleggerisse dal lungo permanere nel grembo della terra avvolto da una sorta di liquido amniotico, le acque della sue seconda nascita. Ora abbiamo le sue bianche ceneri, la cremazione è avvenuta il 21 gennaio ed ha reso tutto più semplice in quanto alla burocrazia.
Tanto che mi sembra quasi che questa estate Don Sirio ci abbia messi alla prova per vedere se veramente lo volevamo, se per lui eravamo disposti, come nei miti e nelle favole, a superare i monti e le valli delle grandi prove.
In quest'ultimo mese, appena si è saputo che stavamo organizzando il suo ritorno a casa si è messa in moto una danza dei cuori: un richiamo gioioso da una persona a un'altra che ha coinvolto associazioni, privati, scuole, il nostro Comune, la Capitaneria del Porto, grafici e tipografie, consulenti musicali e l'intero mondo del lavoro... Ognuno arrivava con una proposta,
un'idea e mentre gli incarichi venivano divisi si moltiplicavano le adesioni. Intanto affrontavamo un problema: come trasportare la piccola urna delle sue ceneri senza usare il carro funebre così da salvare l'idea di fondo che era quella di un'accoglienza affettuosa e fraterna? Abbiamo pensato di impiegare un mezzo tipico del nostro mondo del lavoro e fra le varie possibilità (un trattore, un muletto ...) è emersa quasi subito la regina di questo tipo di macchine, una gru. E così, alta e svettante come una gazzella lo accoglierà nel suo grembo per portarlo a casa con leggerezza, addobbata con la bandiera della pace e fiorita di rami di ulivo. Dietro di lei i gonfaloni, le bandiere e tutti noi che - come dice l'innamorata del Cantico dei Cantici - lo abbiamo posto come un sigillo sul nostro cuore.
Che dalla Chiesetta lui ci guidi ancora e ci protegga ".

Arrivati alla Chiesetta, alla fine degli interventi, ho ricordato così Don Sirio:
"E' arrivato a casa, cari amici, è qui con noi! Come raccontarvi la gioia, come rimandare l'uno all'altro le emozioni... è qui.
Il suo corpo reso adesso così leggero dal fuoco, danza con il suo spirito nell'anima di tutti. E io voglio ricordarlo non solo con l'affetto del cuore, ma proponendolo a tutti voi come un modello a cui riferirsi. Perché sapete, mi domandavo durante il corteo, se lo abbiamo voluto, se lo abbiamo chiesto a gran voce, se lo abbiamo fatto venire qui e se lui ha consentito, dobbiamo in cambio dargli qualcosa, impegnarci ad accettare come fonte di ispirazione una persona che ha avuto in modo forte la tenacia delle convinzioni, la forza di portare avanti le sue idee.
Noi viviamo oggi in un 'epoca nella quale adagio adagio un grande patrimonio ideale (molto ampio, che apparteneva a tutti) è stato eroso, ci siamo un po' tutti accomodati, omologati, omogeneizzati.
Tanto più dobbiamo domandargli di aiutarci a volere fortemente alcune cose, anche se ci costano e significano la fatica di camminare tracciando una strada senza avere davanti nemmeno un sentiero battuto. Aiutarci a recuperare il gusto dell'avventura, dell'ignoto, dell'inventare il cammino. Qualcosa per cui valga la pena vivere lottando. Perché dico lottando? Perché una vita senza questa spinta, senza darci da fare, senza affrontare a piè fermo le difficoltà, una vita che non si tira indietro, non ha gusto, non ha sapore.
Sì, d'accordo, possiamo scavarci il nostro angolo tranquillo, fuori dalle onde, ma in fondo in fondo - e questa giornata lo dimostra - noi siamo contenti quando possiamo allargare il cuore e andare dietro a qualcosa di più grande e che ci prende. Certo, questa scelta bisogna pagarla, ma tanti di voi non si sono impegnati per questa giornata, non hanno rinunciato a una cosa o a un'altra, non hanno lavorato, non si sono dati da fare?
Lui è stato un lottatore. Ve lo ricordate? Così solido, così forte...
E ha dovuto lottare nella Chiesa, unicamente per essere povero fra i poveri. (I tempi sono cambiati ed ora abbiamo qui il nostro caro vescovo). Eppure, allora, negli anni '50, chiedeva semplicemente (come spiegavo giorni fa ai ragazzi di ragioneria e del professionale che mi hanno invitato a parlare di lui) di unirsi di fatto a una classe povera, sfruttata, emarginata: quella operaia. Compiere questo passo, dai privilegi del sacerdozio alla durezza del lavoro nei cantieri navali è stato un evento grandissimo, dal quale si intravede già la sua tempra di lottatore. Ha costituito un segno che tutti ancora ricordano: si dice di lui "il prete operaio" ... E dalla solidità di quel mondo, dalla solidarietà di quel mondo (dagli operai Don Sirio imparò a donare il sangue e dell'AVIS cittadino fu donatore, consigliere e poi presidente) da questa formazione lui ha imparato ad allargare il proprio orizzonte, buttando, come si dice, il cuore al di là degli ostacoli.
Sempre al di là, ampliando i suoi orizzonti. Sensibilissimo all'ingiustizia sociale, si temprò per essere capace di opporsi.

Coro "Proletario del mondo"
Proletario del mondo va bene morire ma da uomo che vive.
Morire ogni giorno e alla fine dei giorni creando la vita e vincendo la morte.
Tu solo Signore padrone del mondo: dall'opera forte delle tue dita fai nascere la vita.
Il tuo lavoro è valore di vita è storia di uomo di uomo che vive.

Certo, non fu benvisto dai benpensanti di allora, di qualsiasi sponda fossero, ma col tempo un numero sempre più grande di persone ha imparato ad apprezzarlo.
E quando lui negli anni '70 (quelli che io continuo a chiamare i magnifici anni '70) quando era facile comunicare, aggregarsi intorno ad idee, ampliò la consapevolezza dei problemi sul tappeto, divenne punto di riferimento per molti. Così nella lotta contro la scelta governativa del nucleare come fonte energetica: si formò allora vasta corrente di opposizione, anche perché non si trattava solo di una questione civile, il problema era collegato al nucleare militare, all'esistenza degli armamenti atomici in mano alle due superpotenze.
Lui non si arrendeva, non accettava che il mondo andasse allo sbaraglio senza prendere parte, posizione.

Coro "Ribellati o popolo"
Ribellati o popolo alla legge di guerra
Lavati il sangue che le mani ti macchia se vuoi che l'uomo
che ti è vicino o lontano un nemico non sia ma ti stringa la mano.
Ribellati o popolo se vuoi che Cristo ti senta fratello e il Padre del cielo ti consideri figlio.
Se vuoi che un mattino un sole nuovo splenda nel mondo, un'aurora di pace.

Don Sirio inventò uno strumento, quello del teatro popolare fatto con pochi mezzi, così, arrangiato, alla buona, che scrisse lui stesso, addirittura in versi! Era un mezzo per diffondere delle tematiche che gli erano care: quelle del primato della coscienza ( il titolo era: Il Cristiano dice No), quello delle ingiustizie sociali, incentrato sulla morte sul lavoro di un operaio (Una Fede che lotta) e infine, l'ultima, scritta a distanza di qualche anno su un tema che gli prese sempre più spazio nel cuore, diventando il tema portante degli ultimi anni della sua vita, quello della pace, alla quale dedicò l'ultima opera teatrale "Le Ombre di Hiroshima ".
Questo teatro, si faceva in una fabbrica occupata, in una chiesa (non qui a Viareggio), nelle scuole, nelle piazze, nei piccoli circuiti alternativi che allora erano molto vivi ... Si diffondevano le idee, veniva tanta gente ... chi canta qui stamani le canzoni scritte da Don Sirio è il piccolo gruppo degli antichi teatranti di allora. Io propongo ai tanti giovani qui presenti di prendere in mano questi testi e provare a farli rivivere.
Riprendo il filo della pace, un'utopia sempre più irrinunciabile, ogni giorno che passa. Non possiamo fare a meno di crederci, ma di crederci profondamente, di rivedere il messaggio di Don Sirio e di tanti altri, di tutti i nostri maestri della pace, di coloro che ci hanno indicato come fare, che ci spingono fuori dall'indifferenza generale, che ci aiutano a dire che non è accettabile non solo che un uomo sopraffaccia un altro, ma che una nazione, ufficialmente, si dia il diritto di sopraffare un altro paese. Che non è accettabile che delle giovani generazioni, tirate su normalmente, in famiglia, dall'oggi al domani (fra non molto per fortuna il servizio di leva obbligatorio sparirà) debbano trasformarsi in persone che uccidono per dovere, perché così bisogna fare.

Coro "O popolo, popolo"
O popolo, popolo dalla terra scardina via l'istinto maledetto che in tutti si annida.
o popolo, popolo respingi lontano chi di guerra e di sangue ha macchiato la mano.
o popolo, popolo, respingi i cannoni e come il sogno che Dio ha sognato
di spade e di lance fai attrezzi da grano.

Di fronte a tutto questo, se abbiamo portato Don Sirio qui, ponendolo, vi dicevo in Comune, come un sigillo sul nostro cuore dobbiamo dargli qualcosa in cambio, dobbiamo promettere di prenderlo come uno dei punti di riferimento della nostra vita. E lui ci proteggerà ... "

Maria Grazia Galimberti

Lettera aperta a Bush

Caro signor Presidente,
sono un ex -sergente dei marines che ha servito bene il suo paese ed è stato congedato con onore nel 1970. Non ho mai scritto una lettera del genere e spero che in qualche modo riuscirà ad arrivarle attraverso i filtri burocratici.
Come ogni altro americano, sono sconvolto dalla morte e dalla distruzione di cui siamo stati testimoni l'11 settembre. Abbiamo subito un attacco orribile e troppi di noi hanno sofferto e sono morti.
Rattristato e disgustato dalla carneficina, so che anche lei sta soffrendo con le vittime e le loro famiglie. Posso sentire la sua rabbia e la sua frustrazione come il suo desiderio di una rappresaglia attiva. Lo capisco bene. E' una reazione naturale e giustificabile a un tale odioso atto criminale.
Tuttavia vorrei consigliarle di procedere con cautela. Un errore da parte nostra potrebbe allargare facilmente la spirale della violenza.
Signor Presidente,
lei ha oggi una opportunità storica per dimostrare che gli Stati Uniti sono più che una potenza economica e militare da temere. Può mostrare al mondo che gli Stati Uniti sono anche un paese civilizzato nel quale si può aver fiducia perché segue la legge, guidato dalla saggezza e dalla compassione. Le chiedo di usare tutti i mezzi legali a sua disposizione per scoprire chi ha perpetrato questo crimine orribile e per assicurarli alla giustizia di fronte al tribunale appropriato. Che trovino davvero la giustizia che il mondo attende e di cui ha bisogno.
Ma la prego: non lasci che una sola vita innocente - americana, israeliana, palestinese, afghana o altra - vada perduta.
Troppo spesso le nostre armi hanno spezzato vite innocenti. L'eufemismo militare è "danni collaterali", ma in realtà si tratta di omicidio. Quale diritto possiamo rivendicare che ci consenta di spezzare altre vite innocenti? Non è anche questa una forma di terrorismo? Dobbiamo abbassarci al livello di quelli che hanno fatto l'attacco al World Trade Center o dobbiamo restare in piedi?
Lei ha scelto di descrivere questo come un atto di malvagità. Ho paura che l'uso di un tale linguaggio infiammerà solo la situazione e provocherà una mentalità da linciaggio. Ciò di cui abbiamo bisogno è compassione e mente fredda per raggiungere i nostri veri obiettivi: pace, prosperità e democrazia per tutti i popoli.
Ci guidi, signor Presidente, con dignità e saggezza. Non assecondi le parti primitive de nostro essere. Mostri al mondo che lei è un leader con la forza e il coraggio per cercare l. comprensione e il ripristino della giustizia, come ha fatto Nelson Mandela in Sudafrica. Piuttosto che caratterizzare l'attacco come un atto di malvagità, io lo vedo come un terribile ultimo atto da parte di persone che credevano di non avere altro modo per farsi sentire.
E' decisivo che noi non solo vediamo la loro volontà di usare una violenza atroce, ma che riconosciamo la disperazione che li ha spinti a sacrificare altri e se stessi.
Come ex-marine, so cosa significa essere disposti a sacrificare la propria vita per una causa in cui si crede veramente. Mentre vedo queste persone come deviate in modo orribile piene di odio e disperate, non credo che siano codarde o malvagie.
Se loro si considerano come Davide che combatte contro Golia per distruggere il suo modo di vivere, certamente non dobbiamo essere d'accordo. Ma dobbiamo capirli se speriamo di raggiungere una pace duratura e di evitare un mondo chiuso e privo dei diritti e delle libertà che ci stanno a cuore.
Alcuni mesi fa, abbiamo visto sulle riviste alcune fotografie di un bambino palestinese ripiegato fra le braccia del padre. Finito, innocente, in mezzo a un conflitto a fuoco, il bimbo è morto ferito dalle pallottole e il padre non si è potuto muovere per salvarlo. Essendo lei stesso un padre, può immaginare l'angoscia, mentre, inchiodato e impotente, sentiva la vita sfuggire dal figlio?
Queste immagini e sensazioni insopportabili spingono le persone ai gesti disperati di cui siamo stati testimoni 1'11 settembre a New York e a Washington.
Questo momento di crisi profonda è anche un momento di immensa opportunità.
La prego di spingere il nostro mondo lontano dalla violenza e dalla sofferenza e verso la pace, la libertà e il benessere per tutti.
Che le voci della disperazione vengano ascoltate. Che i responsabili compaiano davanti a un tribunale. Mostriamo loro che crediamo davvero in una giustizia per tutti. Non commettiamo l'errore che abbiamo fatto di recente a Durban, ma piuttosto portiamo tutte le voci intorno al tavolo, anche se urlano e dicono cose che non vogliamo sentire. Siamo davvero una superpotenza, troppo abituata a parlare e che si aspetta che gli altri ascoltino. Mostriamo al mondo che siamo anche abbastanza forti da imparare ad ascoltare.
Prego perché lei non attacchi precipitosamente con la violenza.
Che Dio possa darle la saggezza di trovare l'opportunità per la pace che c'è in questa orribile tragedia.
Spero che gli storici guarderanno indietro e applaudiranno una grandezza di spirito e un modo di ragionare a mente fredda che ha portato il nostro mondo globalizzato più vicino alla giustizia e alla democrazia per tutti.
Greg Nees
[Greg Nees è un ex-sergente dei marines; questa lettera, scritta il 13 settembre, è apparsa come inserzione (pagata con le donazioni raccolte dall'organizzazione Veterans for Peace) sul "New York Times" di martedì 9 ottobre 2001]

Ballata per i bambini del mondo

C'era un tempo - pochissimi anni fa - in cui
i Bambini comparivano a tratti
nella cronaca dei grandi:
la bambina bruciata dal napalm americano,
che sostituiva-accompagnava
il bambino affacciato al filo spinato
di uno dei campi di concentramento,
berretto in testa, o nudo nella neve;
i morti delle carestie "epocali"
o i bambini severini.

Entravano violentemente,
come ladri di tranquillità,
e poi non se ne andavano,
lasciando come i ladri tracce di ricordo,
da citare, da raccontare, magari da portare dentro:
avevano la severità,
ma insieme una dolcezza silenziosa,
quasi a tirare la manica, a disturbare troppo:
sguardi - volti - corpi che parlavano di morte,
ma come il bambino severino, mai dimenticando
di avere come vocazione e ruolo irrinunciabile:
quello di annunciare la vita
che prima o poi finirà per esplodere.

Da qualche anno i loro passi di cotone
sono diventati molto rumorosi,
come un'eco di fondo
che accompagna, precede, segue, circonda i passi
per quanto assordanti degli adulti.
Hanno incominciato,
con i loro cortei di milioni e milioni,
con l'invasione dei libri
(o si sono lasciati intrappolare?)
(o li hanno imprigionati con violenza?);
senza nomi, travestiti di numeri, senza colori,
abbigliati di fame,
senza speranza di vita, trasformati in percentuali,
senza latte, senza acqua potabile, senza fogne,
abitanti di tabelle e figure da discutere:
nelle grandi agenzie finanziarie
e politiche internazionali
anno dopo anno, rapporto sopra rapporto.
(o forse li abbiamo nelle nostre mani,
ora nessuno può dirci ormai che non siamo pieni
di coscienza e di responsabilità,
e che non li prendiamo sul serio).

Uno di questi bambini con vocazione di mimo ha
anche provato un giorno la vecchia strategia
dei suoi fratelli del Vietnam e Auschwitz:
in un punto sperduto del Sudan ha recitato la morte totale:
uno scheletro vestito di pelle,
solo, vegliato per l'ultimo respiro da un avvoltoio,
entrambi fotografati e premiati per la più bella
fedele attuale fotografia del 1993.

Non è invece arrivata nessuna fotografia
del corteo silenzioso dei bambini di Bhopal:
se ne sono andati nel vento lento
di quella notte di dicembre
avvolti in nuvole di gas con colori mai visti,
continuando i loro sogni di giochi
sono andati a raggiungere gli amici di Goiania
che si erano così innamorati
di quelle scorie radioattive luminose
che avevano di colpo creato isole splendenti
nelle montagne di rifiuti da mettersele dentro
nel corpo e nelle ossa fino a morirne.

Chi sa che cosa si saranno detti - se mai
da qualche parte in qualche sogno si sono
incontrati - con le bambine tailandesi
che fabbricavano bambole,
chiuse nella clausura della fabbrica
come le loro compagne
in quella delle case a ore per turisti,
bruciare senza echi di grida o affidate
alle cure discrete e sicure dell'HIV.

Chi sa se sono uguali i cortei di bambini
che vengono dal silenzio contemplativo dell' Asia
e quelli che giungono con memorie di canti,
di sole, di danza, di colori, di fantasia dal Brasile
dal Perù, dal Guatemala, da ... ?
Chi sa a che ritmo marceranno i bambini dell'Iraq
e quelli della Bosnia
con ancora nelle orecchie e nel cuore
lo spavento e lo stupore dei bombardamenti
e degli spari, e quelli della Somalia e del Ruanda
morti all'antica, di fame, di spada, di pugnale,
perché non c'erano risorse sufficienti
per una morte più moderna.

Forse avevano tutti la stessa infinita stanchezza:
o forse tutti la stessa inconfessata speranza
di scoprire che è stato solo un bruttissimo sogno
di quelli che tolgono il respiro e fanno piangere
fino a non avere più lacrime e voce.
Speriamo non vengano troppo precocemente
delusi dai loro fratelli appena più grandi:
scafati, violenti, armati, organizzati, ladri,
derubati, assassini e ammazzati, trafficanti e trafficati,
padroni e schiavi delle periferie di Los Angeles,
Ciudad de Mexico, San Paolo, Rio,
Lagos, Bogotà, Managua, New York...

Ai bambini che compongono questi cortei
che vengono da tutti gli angoli della terra
forse non importa molto parlare:
il vocabolario che hanno imparato è
così uguale - così limitato - così ripetitivo:
ed il racconto del gioco di cui sono morti
sembra diverso solo all'inizio.

Forse - ma non osano sperarlo - sarebbero
disposti a trasformarsi tutti in mimo,
come il loro amico solitario del Sudan,
se ci fosse la speranza che nei loro cortei
incominciassero a mescolarsi bambini
che raccontano il gioco della vita.

L'avevamo dimenticato
questo mestiere antico dei bambini.
Il 28 dicembre è stato sempre feriale,
lontano altro diverso, rispetto al 25:
il bambino era in salvo;
per i bambini c'erano le vesti rosse della festa,
il ringraziamento della santità.

Con la loro morte, pian piano
i bambini hanno invaso non solo i libri ma la vita.
I cortei non sono solo in cammino:
ci aspettano ad ogni angolo dei nostri centri storici,
occupano la piazza del paese,
incontriamo gli sguardi ai bordi delle autostrade.
Non è vero che sono anonimi:
hanno tutti un volto che conosciamo;
occhi che ci portiamo dentro,
voci che riconosceremmo tra mille,
storie che fanno impallidire le grandi preoccupazioni
che impegnano i nostri giorni.
Vorremmo tanto anche noi che fosse un sogno
per il quale fosse pensabile un risveglio.
Fino ad allora non abbiamo più bisogno di figli:
perché nei mimi silenziosi o urlanti di morte
dei cortei di bambini
possa mescolarsi il mimo della speranza:
è perfino inimmaginabile I'eccesso di tenerezze
di carezze, di voglia di rassicurazioni,
di amore, di cui c'è bisogno, e per quanto tempo
e per quanti bambini.
Gianni Tognoni
Segretario generale del tribunale dei popoli

Note
Severini: così vengono chiamati in Brasile quanti emigrano dal poverissimo Nordest verso i miraggi della capitale.
Bhopal: capitale del Madhya Pradesh (India). Nella notte del 2-3 dicembre 1984 la fuoriuscita di un gas dalla fabbrica di fertilizzanti della multinazionale americana Union Carbide provoca l'esposizione "ufficiale" di 521.262 persone, 6.000 delle quali muoiono subito e diverse migliaia subiscono gravi menomazioni permanenti.
Bambine tailandesi: nella fabbrica di bambole Kader, multinazionale cino-tailandese a Bangkok il l O Maggio 1993 per un improvviso incendio muoiono 189 persone e 500 rimangono ferite, molte erano bambine/operaie.
Goiania: in una discarica di questa città del Brasile, alcuni raccoglitori di rifiuti vedono un tubo di cesio proveniente dall'Ospedale disattivato della città. I cristalli di cesio, molto luminosi, attirano bambini e adulti che li raccolgono e li portano nelle favelas provocando morte e menomazioni. E' la catastrofe nucleare più grave dopo Cernobyl.
28 dicembre: la liturgia cattolica ricorda il massacro dei bambini fatto da re Erode. Il calendario riporta: Festa dei Santi Innocenti

Auguri!

Oggi è risorto per noi un salvatore che è Cristo Signore

Ogni lacrima asciugata è Pasqua
Ogni gioia condivisa è Pasqua
Ogni amicizia offerta è Pasqua
Ogni conflitto risolto è Pasqua
Ogni gesto di tenerezza è Pasqua
Ogni incontro ed ogni aiuto è Pasqua
Ogni nuovo posto di lavoro è Pasqua
Ogni luce di speranza per gli ultimi è Pasqua
Ogni annuncio di lode e di pace è Pasqua
Che nessuno si limiti a celebrare la Pasqua
Che ognuno sia veramente Pasqua.
Che nessuno si limiti
a celebrare la Pasqua.
Che ognuno sia veramente Pasqua.

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