LOTTA COME AMORE: LcA ottobre 2001

Le scuse di Durban

In questi primi giorni di settembre la calura estiva è stata rotta da una serie di temporali che hanno lasciato una eccezionale trasparenza nell'aria e una temperatura assai confortevole.
E' stato più facile per me decidermi a raccogliere e mettere insieme questo numero con materiali in gran parte già redatti alla fine di giugno. Era quella la scadenza che mi ero proposto per l'uscita del giornalino. Poi, tutto mi è come scivolato di mano fino alla partenza di un viaggio per la Bolivia, immediatamente dopo le giornate di Genova e del G8. Viaggio concluso alla fine di agosto dopo un continuo peregrinare su e giù tra le terre basse e l'altopiano andino, incontro a persone le più diverse, ad una storia che affonda le sue radici nel mito e nella leggenda e vive oggi come ieri il dramma della terra espropriata e violata.
Ci saranno comunque altre occasioni per comunicare ciò che spero sia seme di vita nella mia recente memoria.
Mentre scrivo, va avanti - nonostante l'abbandono polemico di USA e Israele - la Conferenza sul razzismo indetta dall'ONU a Durban in Sudafrica. L'Europa sembra accettare: "Chiederà scusa per aver praticato lo schiavismo e il colonialismo". Gli stati arabi fanno un sacrificio con riserva sul nuovo testo presentato dal Sudafrica che non condanna più espressamente Israele, ma riconosce l'Olocausto, l'anti-semitismo e, per la prima volta in un documento internazionale, l'Islamofobia.
"Non c'è molto da rallegrarsi", dice l'alto commissario per i diritti umani Mary Robinson perché il documento finale è stato imbottito di compromessi, ma se si arriva alla firma finale questa avrà una importanza straordinaria. Certo molti paesi africani volevano che il razzismo fosse definito "un crimine contro l'umanità" senza riserve né ripensamenti, ma una simile affermazione in modo categorico si sarebbe prestata a milioni di cause di riparazione contro governi occidentali. L'Europa non avrebbe ma accettato una simile versione. Il reverendo Jesse Jackson (leader del movimento per i diritti dei neri d'America) è intervenuto alla Conferenza sostenendo che "le riparazioni" per lo schiavismo da parte del governo dovranno diventare una priorità per i neri americani. L'America di Bush proprio per questo se n'è andata da Durban insieme ad Israele. Da un la voleva proteggere lo stato ebraico, ma dall'alt sottrarsi a qualsiasi affermazione sul razzismo come già aveva fatto nelle precedenti Conferenze del 1973 e del 1985. Ma in fondo, chiedere scusa senza sentirsi alcun obbligo di riparare in qualche modo i danni non è forse una modalità che ci suggerisce la prassi dei vertici della Chiesa come nel caso Galileo? Ritorneremo nel prossimo numero sul tema del razzismo reso ancora più caldo dalla tragedia che sembra non consumarsi mai tra ebrei e palestinesi nella sempre più insanguinata terra di Gesù.
Intanto in Italia il governo cerca sedi alternative a Roma e a Napoli rispettivamente per i vertici della Fao e della Nato. Proprio oggi, per la Fao spunta l' autocandidatura di S. Giovanni Rotondo. L'imponente struttura d'accoglienza dei pellegrini (quasi 6.000 posti letto negli 89 alberghi e 98 pensioni) potrebbe essere messa a disposizione del vertice. Il Sindaco di S. Giovanni dichiara infatti che in novembre (mese del vertice) le strutture recettive sono meno affollate in quanto i pellegrini si recano in massa nel Santuario di S. Maria delle Grazie dove sono custodite le spoglie mortali del beato Padre Pio. Una candidatura in concorrenza con le terme di Chianciano e Montecatini. Un altro miracolo?
Per quanto riguarda il vertice Nato a Napoli, Tonino Drago (tra i testimoni storici del movimento non violento in Italia) in una corrispondenza mi fa notare che l'incontro Nato avverrà proprio nei giorni delle "5 Giornate di Napoli" del 1943; cioè di quella che è stata l'unica grande vittoria popolare contro i nazisti. Non c'è episodio più significativo che distanzi in maniera più drastica quello che rappresenta una macchina bellica apparentemente superumana e invincibile dalla capacità popolare di ribaltare a proprio favore i rapporti di forza militari mediante una difesa con minimo armamento. Sono state le "5 Giornate di Napoli" come l'enorme atto nonviolento dei 600.000 soldati semplici e dei 20.000 su 28.000 ufficiali internati nei campi di concentramento in Germania, i quali si rifiutarono di collaborare con la Repubblica di Salò o con i nazisti, a legittimare tutta la Resistenza come grande rivolta morale, prima che guerra di classe o peggio guerra civile.
In questa luce - conclude Tonino - l'appello delle donne, apparso sul Manifesto, a rappresentare teatralmente l'opposizione alla Nato e all'ordine economico di cui essa è il gendarme sui popoli, costituisce una precisa indicazione tecnica per una strategia di lotta, che per fortuna questa volta non ha da ribellarsi varcando linee rosse, ma ha da esprimere con chiarezza un obiettivo politico alternativo preciso, che è dato da una difesa solo difensiva e anche non violenta (così come dice la Corte Costituzionale e la legge 230/98) e che è sostenuto già da almeno il mezzo milione di obiettori di coscienza che ci sono stati in Italia dal dopoguerra.
Sulla stessa linea, troverete nelle ultime pagine di questo numero una corrispondenza di Enrico Peyretti (anche lui testimone della nonviolenza). Una riflessione che intitola "La tragedia di Genova". Contiene notazioni che corrispondono alle impressioni che mi sono portato via nel viaggio e, comunque, rappresenta una riflessione articolata, utile per confronti e approfondimenti sugli obiettivi e le strategie di questi grandi appuntamenti. Riporto anche la cronaca e alcune riflessioni sull' incontro internazionale dei pretioperai che si è tenuto a Strasburgo per Pentecoste, ai primi di giugno. Giorni sereni e tutt'altro che rassegnati o stinti dal passare del tempo e dalle stanchezze dell'età che avanza.
La forza di chi sa d'aver seminato un seme buono nascosto nella storia degli umani che continua a resistere a chi spreme dalle esistenze "marginali" sudore e sangue.
Riporto poi l'ultimo scritto di Grazia Maggi per Lotta come Amore, prima della sua morte ormai quasi un anno fa. Scritto che termina con una invocazione che ne raccoglie tutto il sogno e la forza: "O Dio! O mio tutto! O vita!".
La posta di fratel Arturo Paoli fa seguito ad un incontro come sempre semplice ed intenso nella comune ricerca dei fili con cui intrecciare vita e fede. Nell'appartamento accogliente dei Colombini con Loriano che ha tenuto banco dalla sua sedia a rotelle raccontando antichi e sempre nuovi amori.
Ringrazio, infine, tutti coloro che in questi mesi hanno voluto dirmi parole di incoraggiamento e sostenermi in questa fatica lieve e gioiosa del giornalino. Vorrei tanto rispondere a tutti ... ma la mia pigrizia è invincibile! Un abbraccio a tutti quanti.

Luigi

La posta di fratel Arturo

Cari amici, vi scrivo da Spello dove sono approdato il primo luglio e dove spero trascorrere l'estate nel silenzio e nella preghiera. Non penso che il mio silenzio sia quello di un monaco certosino o trappista perché sono preparato a ricevere amici e amiche che ci visiteranno.
Spello è come sapete una casa di incontri, aperto a chi cerca di vivere una spiritualità impegnata nella ricerca del Regno di Dio cioè nella pace e nella giustizia.
Intanto una delle prime visite è stata quella di Miguel Miquicho, un argentino che venne da noi nel 1964 a Fortin Olmos. Con lui scrissi "Dialogo della liberazione" perché tutt'e due avevamo bisogno di una liberazione.
Lui diciottenne, mi apparve come ogni adolescente un condensatore di vita stretto dentro un sistema di bende che si devono svolgere pazientemente perché possa emergere la persona. Ho pensato spesso in altri incontri alle parole di Gesù davanti all'amico Lazzaro rianimato dal soffio della vita, ma stretto fra bende che gl'impediscono di muoversi: "scioglietelo e lasciatelo andare". Penso che quest'immagine potrebbe ispirare un metodo pedagogico libero da quella impazienza di trasmettere consigli e precetti da far trangugiare acriticamente al soggetto. In altre parole applicare quella che Paulo Freire - il grande pedagogo brasiliano scomparso - chiama pedagogia bancaria.
Io ero forse la persona più adatta per Miquicho perché provavo tutta l'impotenza, il disagio, la solitudine dello straniero perché sapendo più o meno sbrigarmela con la lingua, mi sentivo improvvisamente trasportato in una cultura sconosciuta che faceva sentire inutile e inutilizzabile la preparazione accumulata in un lungo e faticoso cammino. Anch'io come Miquicho ero lì avvolto da bende da cui dovevo sciogliermi. Certo potevo dare e dire molte idee, o verità come parevano a me, senza preoccuparmi della cultura del popolo che mi era affidato: mi si presentava chiara l'alternativa, o oppressore o liberatore.
E l'alternativa si presentava in questo giovane in cui misteriosamente colsi il dramma dell'America Latina continente dominato con la violenza delle armi, della rapina e da un "io" consapevole di una superiorità che lo faceva sicuro di aiutare l'altro attraverso un processo di integrazione che era piuttosto assimilazione. Miquicho veniva da un'esperienza religiosa fatta con i benedettini e scoprì in me piuttosto che il missionario, un maestro che poteva soddisfare un bisogno inconscio di sapere come esigenza di un intelletto vivace che non aveva trovato come né dove alimentarsi. Così divenne mio discepolo.
Ho esercitato diversi anni la docenza e posso affermare di non aver mai avuto un alunno più docile e più rivolto so di Miquicho. Docile nel senso etimologico della parola, cioè disposto a lasciarsi insegnare; il suo non comune appetito intellettuale, lo faceva straordinariamente aperto ad accogliere e ad assimilare le nozioni umanistico filosofiche che gli trasmettevo. Eravamo nel Chaco, in una foresta lontana 70 chilometri dalla strada asfaltata, lontana da biblioteche, da iniziative culturali, privi di telefono e di energia elettrica. Io ero il maestro che poteva ricorrere alla sua memoria e Michele il discepolo che poteva apprendere "da bocca a orecchio" e solo con quella straordinaria docilità poteva mettere le basi di quella cultura che maturerà negli anni in una persona intellettuale assai notevole. La sua rivolta non era simile a quella rivolta di studenti insofferenti non solo di una disciplina di comportamento, ma anche di una inevitabile disciplina di lavoro, senza la quale è impossibile crescere come persona.
La rivolta di Michele non era logica, rifiuto delle idee che gli giungevano attraverso il nostro dialogo, ma era il rifiuto del bianco oppressore che attraverso la sua superiorità intellettuale filosofica - teologica o di qualunque tecnica lavorativa o economica, mantiene in schiavitù la popolazione colonizzata. La sua rivolta non era logica, ma organica: mangiava il frutto e gettava la buccia. Questa relazione faceva dolcissimi, entusiasmanti i momenti di trasmissione del sapere e molto dolorosi quelli della rivolta contro la tirannia.
Quando Miguel passò da questo insegnamento da bocca a orecchio a un istituto organizzato retto da gesuiti e quindi secondo la loro tradizione, di ottima qualità, il responsabile si rivolse a me abbastanza sconcertato. Aveva intuito lo strano amalgama della personalità dell'alunno, la docilità e la rivolta. Infatti chiese un accompagnamento psicoanalitico.
Strano; ma importante: non il ritiro dalla scuola, ma un cambio o almeno una modificazione di personalità. Accettammo il consiglio e ci rivolgemmo a un giovane psicanalista di cui conservo un buon ricordo: Miquicho ha una notevolissima qualità intellettuale, che lo aiuterà ad elaborare quanto di passionale è in lui. Di fatto Miquicho ha trovato la sua strada nel teatro: vive attualmente a Parigi nella famiglia che ha formato, scrive opere teatrali che hanno un'ottima critica e altro. Oggi mi porta una quantità dei suoi scritti che mi fanno esclamare che il discepolo ha superato di gran lunga il maestro.
Ripensando con gioia a questo squarcio di vita, penso che avrei rifiutato il mio alunno rivoltoso, se non avessi sofferto come una ferita profonda, il mio smarrimento di trovarmi gettato in una cultura estranea in un ambiente poverissimo in tutte le sue dimensioni. Se avessi potuto avere intorno a me un piccolo pubblico come in Italia cui poter ammannire la mia preparazione mtellettuale; ma là nulla di tutto questo: tu sei unicamente l'oppressore e ti rifiuto. Io dovevo spogliarmi e non potevo: solo potevo lasciarmi spogliare. Ho scritto diverse volte che l'inculturazione, quella che anni fa Giovanni Paolo Il definiva come nuova evangelizzazione, è solo possibile con questo metodo. Sono gli oppressi da una cultura che possono liberare gli oppressori.
Il latino è stata la lingua di Roma strumento di oppressione. Quando gli oppressi si sono liberati e la liberazione è apparsa nelle lingue neo latine, è rimasta la ricchezza che Roma accoglieva da molteplici culture ed è sparita l'unità formale di una lingua strumento di oppressione. Qualche anno dopo il nostro incontro una scrittrice argentina Maria Rosa Oliver che divenne nostra amica, mi dava questa lieta notizia: Miquicho ti ha fatto latino-americano.
Ho pensato di trasmettere questo poema pedagogico che ho rivissuto con grande gioia nelle ore trascorse con Miquicho, uomo oggi importante, ma restato lietamente povero, perché chi lo legge ne possa derivare delle considerazioni. lo vorrei limitarmi a una che viene dall'attualità: l'occidente è certamente un paese colonizzato; la globalizzazione è un; forma di imperialismo moderno. C'è da deplorare giornali diocesani, correnti e movimenti cattolici che inneggiano acriticamente alla globalizzazione e condannano ogni opposizione, mettendo in evidenza solo vetrine rotte e macchine incendiate, e non quella benedetta rivolta che dovrebbe piegare la globalizzazione a un uso che non sia così micidiale come è finora. E questa opposizione mi pare tanto più insensata quando è affidata a giovani approfittando della loro incapacità a pensare, che è uno degli effetti più negativi della globalizzazione. Sarebbe interessante se tutti i difensori della globalizzazione avessero letto un articolo apparso su Repubblica del 3 luglio: "la globalizzazione è un bene. I governi imparino ad usarlo". L'autore è George Soros, al di sopra di ogni sospetto, perché l'articolo è il sunto di un suo intervento al Forum economico di Salisburgo, dunque dalla parte del capitale. "I contestatori della globalizzazione pongono dei problemi che non è bene eludere". Personalmente penso che la struttura globalizzata potrà servire in futuro a un progetto economico a partire dalla soddisfazione dei bisogni reàli di ciascuno, a partire dagli esclusi. Spesso però pastori ed educatori di giovani sono mossi da Interessi o privati o di gruppo o di categoria piuttosto che da vero amore per i giovani. E non è un processo alle intenzioni,ma solo un giudicare l'albero dai frutti. E questo ce lo ha Insegnato il Maestro.

Fratel Arturo Paoli


l@ posta dei lettori

Caro Luigi,
ho letto lo scritto di Paola Lucchesi, apparso su Lotta come Amore a pag.5 del numero di dicembre 2000, e la sua parte finale mi ha dato lo spunto per fare alcune riflessioni sulle radici della violenza e su come cercare di divenire nonviolenti.
Paola giustamente evidenzia le sue preoccupazioni di fronte alla violenza dilagante con particolare riferimento alla situazione serba. Poi precisa che si è propensi a giudicare, a condannare, a rimuovere, ma non a comprendere veramente il fenomeno della violenza. E quindi si chiede:
"Come faremo a liberarci della violenza senza capire dove viene, senza andare alle radici di questi comportamenti sconvolgenti?". Alla fine propone di ragionare un po' insieme su questo problema. E io accetto il suo invito.
Voglio anzitutto dire che i violenti sono vittime della loro mancanza di conoscenza morale e della loro chiusura spirituale. Sono come avvolti in un guscio di superficialità e di male, di cui non si rendono conto. Desidero anche premettere che da parte delle persone disposte al bene si pone in genere l'accento sul male sociale e raramente su quello interiore dell'uomo.
Io penso che bisogna cominciare a convincersi che il vero male è all'interno dell'uomo e ognuno di noi deve essere impegnato a cercare di reciderne le radici. Se l'uomo diventa morale, di conseguenza anche la società diviene morale. E allora quali sono queste radici della violenza insite nell'uomo che dobbiamo sforzarci di non far crescere e germogliare? La fenomenologia della violenza nello spirito umano è complessa. Voglio, come primo approccio al problema, soltanto elencare alcuni 'demoni' interiori che creano quel "pozzo nero dell' anima umana", di cui parla Paola.
L'uomo d'oggi (ma anche quello del passato) è vittima del desiderio di avidità, che si manifesta soprattutto nel profitto economico e nella mania di potere. Si è poi tentati dalla vanità, cioè dalla gloria terrena. Si cerca di essere ricchi, gloriosi e potenti a tutti i costi, anche strumentalizzando e sfruttando gli altri. Si è poi schiavi del consumismo, della gola, della lussuria, dell'ira, che sconvolgono l'interiorità dell'uomo.
Per essere nonviolenti è necessario un forte autocontrollo della violenza che è dentro di noi tentando di spegnere le sue tendenze deleterie.
I suddetti 'demoni' devono essere ridimensionati o sconfitti durante quella che io chiamo la battaglia interiore. E ciò è possibile imparando a rinunciare ai beni superflui per non essere vittime della sete di avere, ad aprirsi all'umiltà che ci fa comprendere il valore e il rispetto dell'altro, a non rincorrere il potere che spesso è fonte di strumentalizzazione autoritaria. Necessita controllare anche il palato, il sesso e l'irascibilità per ritrovare la pace del corpo e dello spirito. L'uomo deve cioè educarsi a non infrangere la legge dell' amore e del bene sia in se stesso che nei rapporti con la realtà che lo circonda. Tenere a bada la violenza interiore significa entrare nell'area della pace, della nonviolenza, della dignità umana.
Lo so che è difficile trasformarsi e trasformare gli altri interiormente. Di fronte all'oscurantismo morale, alle violenze, allo sfruttamento sociale,alle guerre, al razzismo, all'inquinamento ambientale ecc. non si può soltanto attendere la trasformazione interiore dell'uomo, ma bisogna contemporaneamente trovare mediazioni sociali di salvezza.
Gandhi certamente si riferiva a ciò quando diceva che la lotta per la verità gli aveva fatto comprendere la "bellezza del compromesso". Ma lo stesso Mahatma affermava:
"L'autopurificazione mi sta cento volte più a cuore della cosiddetta attività politica".
Ognuno di noi quindi deve impegnarsi ad essere meno peccatore e a non demoralizzarsi se la trasformazione interiore è lenta. La grandezza morale dell'uomo è nel suo sforzo di perfezione. Solo così trionferà la verità e l'amore. Solo così si può essere veri figli di Dio.
Caro Luigi, penso di averti un po' aperto il mio cuore. Spero che queste mie brevi riflessioni possano essere utili anche a quanti le leggeranno.
Fraterni saluti

Remo de Ciocchis

Maddalena di Spello

Quest'estate, in una situazione di crisi, quando tutto il male pareva essersi impadronito della mia povera testa (vuoto di volti amici quindi solitudine amara, salute appena sufficiente a reggere il logoramento dei miei ottanta anni, intorno solo istupidito mondo vacanziero) mi è stato donato il libro di Maddalena di Spello, "La via della povera vita" (ed. I Mistici, Mondadori, 1998).
Un' esperienza straordinaria.
Nella Nota introduttiva Marco Vannini traccia la storia di Maddalena che, egli scrive, per molti aspetti non è diversa da quella di tanta borghesia europea del nostro secolo. Si tratta infatti di una francese il cui cattolicesimo di nascita non regge l'impatto con la cultura contemporanea, dal positivismo imperante nei licei della Terza repubblica al marxismo del secondo dopoguerra. Gli anni universitari parigini scorrono improntati da scelte anticonformiste e antiborghesi che la lasciano in una grande amarezza. Da questa crisi di valori Maddalena riesce ad uscire grazie all'incontro casuale con persone neoconvertite che la guidano "sulla strada della preghiera" e dell'ascesi con letture che vanno da Leon Bloy a Teresa d'Avila e Giovanni della Croce.
Da Nizza il fascino della figura di San Francesco la porta ad Assisi, quindi alla vicina Spello, dove, "obbedendo ad una richiesta precisa del suo Gesù", decide di stabilirsi e prende in affitto una casa in Via della Povera Vita. Nasce così la Casa della Povera Gente che accoglie chiunque bussi a quella porta.
Maddalena nella Premessa ci descrive gli ospiti quali persone bisognose "di lavarsi, di mangiare, di dormire; per miseria, per malattia, per immigrazione e, ahimè, anche per calcolo (chiarisce ironicamente lei stessa)."
Questa è la famiglia che lei presenta: Claudia ed Ester le sue consorelle, suo marito Alessandro, sua figlia Madeleine, Albino, Gunter e Roberta l'ultima arrivata.
Una "strana comunità di laici" che inventano una esistenza nuova. E' di questa esistenza nuova che Maddalena è stata invitata a riferire.
Non si tratta di una meditazione (termine che subito "ti fa aggrottare le sopracciglia" osserva lei stessa) ma dell'invenzione di una vita nuova cui ci invita "con innocenza, senza diploma né raccomandazione, reclinando il capo come Giovanni alla cena del Signore". E dinnanzi al perpetuo scandalo (la parola, ella precisa, deriva da skàndalon, la pietra d'inciampo, quella che qualcuno mette sul cammino di un cieco ), dinnanzi cioè allo scandalo del male ella rifiuta un Dio imperturbabile e accosta al nostro cuore un Cristo che "alla sofferenza non dà spiegazioni razionali, si mette vicino a noi, dice anche Lui 'Perché'.
Il frutto della totale accettazione del dolore è la pace, ma non la pax, cessazione della guerra, ma la shalom, la pienezza. Di questo Maddalena riuscì a fare personale esperienza, a seguito di una durissima prova, quando il medico scolastico diagnosticò per sua figlia una paralisi progressiva. Accettare significa: "Rinuncio a capire e mi rimetto a Te". Difatti ella intitola questo capitoletto "La sofferenza, maestra, sorella e madre". Il capitolo successivo è dedicato al Mondo. Ella osserva: "Ciò che vedo, ciò che sento, ciò che gusto, ciò che tocco non è da respingere né da disprezzare come un' ombra. La bellezza sparsa dappertutto... parla al nostro cuore con il linguaggio di una rivelazione...
Le bellezze del paradiso saranno più grandi, va bene, e allora?
Nel frattempo sono
qui e oggi
Cristo ha vissuto qui:
Dio in mezzo a noi."
Questo aveva ben capito il nostro Francesco, lui che chiamava il sole, la luna e la morte sorelle e designava la terra con il soave nome di madre.
E ancora in "Abitare la terra" di nuovo insiste: "essere in vita sulla terra, sotto il cielo, essere nati è la prima meraviglia: Pensare e ripetere che la nostra dimora è nel cielo, mi è diventato insopportabile. Quasi mi suona come una bestemmia."
Di chiarimento in chiarimento, passo dopo passo (ognuno supportato da un' esperienza personale, vissuta senza compromesso) Maddalena arriva all'unum necessarium cioè al"essere veri". Non fare niente per fare bella figura o per obbedienza "Questo non è umiltà".
Pagine per me particolarmente salienti sono raccolte nel capitolo "Purificazione".
Qui veramente la sua chiarezza di giudizio (che nasce, come sempre, dall'esperienza personalmente vissuta, come sposa e come madre) tocca un tema su cui il catechismo ha creato confusione e disorientamento, cioè il rapporto con il proprio corpo, tema che sarà ulteriormente sviluppato nel capitolo "L'amore" .
" Il peccato della carne non è stato inventato da Dio. Non ha niente a che fare con l'amore ... L'amore abita in cielo, cioè allarga orizzonti e cuore; l'oscenità è come un abbaglio...".
Finalmente, ella osserva con il Concilio del 1965 la Chiesa ha contemplato "la possibilità per l'uomo e la donna di amarsi per la gioia e non solo per fare figli".
Gli ultimi capitoli sono illuminati dal ricordo di Padre Zapan, figura per lei fondamentale e sono rivelatori del suo cammino sempre più pressante col Cristo fino a consacrare al servizio al bisognoso tutta la sua vita. Facciamo nostre queste pagine fino a perderei in quel comandamento che comprende tutta la legge e i profeti:
"O Dio! O mio tutto! O vita!".

Grazia Maggi

Il convegno di Strasburgo fra cronaca e riflession

Strasburgo 24 giugno 2001
Incontro internazionale dei pretioperai
Sulla strada degli uomini e delle donne: vivere l'oggi, aprire l'avvenire

La cronaca
Da circa vent'anni le delegazioni dei gruppi dei pretioperai di diversi paesi si ritrovano per confrontarsi su tematiche del nostro tempo. Ogni anno con una sede diversa, a rotazione: Parigi, Torino, Barcellona, Lisbona, Lione, Bruxelles, Roma, Berlino, Madrid, Londra...
L'idea di un invito rivolto a tutti indistintamente è nata a Madrid nel 1999 . Era una scommessa: alcuni furono entusiasti, altri più tiepidi.
In quell'incontro si è formato un gruppo di lavoro composto da due-tre persone per ogni paese. Per l'Italia, oltre a me, Renzo Fanfani e Mario Pasquale.
Cinque incontri densi di preparazione, dal martedì al giovedì con sede a Parigi (tre volte), Londra e Strasburgo. E' stata una fatica immane per la scelta delle tematiche e per il reperimento della sede del convegno adatta a 500 persone, con tutto quello che ciò comportava (posti letto e ristorazione). Il gruppo di preti operai della Lorena, in particolare quello di Strasburgo, ha lavorato sodo e per questo va a loro un ringraziamento sincero. Sono stati bravissimi per il tutto, preparato nei minimi particolari con una efficienza, lo possiamo dire, "nordica".
Gli incontri preparatori sono stati impegnativi e faticosi, con una disciplina ferrea, con riunioni che si prolungavano fino a notte fonda: non c'era il tempo neanche per sgranchirsi le gambe. Ritmi pesanti soprattutto per italiani ed iberici. L'amico Ramiro della Catalogna chiamava gli altri del gruppo catto-stalinisti.
A parte questi retroscena è stata una bella avventura, con molte tematiche, forse troppe e spropositate per qualcuno.
Ma l'incontro non aveva la pretesa di sviscerare problemi ed argomenti per fame un documento finale. Era un confrontarsi su temi che sono il nostro pane quotidiano, nei quali, come preti operai ci troviamo immersi da anni: il lavoro, le nostre lotte, la globalizzazione, la presenza nei quartieri, l'emarginazione, Dio, la chiesa e il futuro di noi pretioperai.
Al gruppo italiano è toccato il tema dell'immigrazione. Un prete del centro di accoglienza per immigrati di Otranto (don G. Colavero) ci ha fatto pervenire un testo commovente con spunti di riflessione interessanti, letto in assemblea generale ed anche apprezzato. Altri Paesi non sono abituati a sbarchi di clandestini e la loro stampa ne parla pochissimo. Per questo è stata una sorpresa per tutti i nostri amici che hanno potuto vedere l'immigrazione da un'angolatura diversa. Il gruppo di Torino ha preparato alcune pagine sulla situazione torinese e l'impegno della chiesa locale, il gruppo di Bergamo ha affrontato il problema della casa in Italia per gli immigrati e le fasce marginali, mentre Roberto Fiorini aveva elaborato una riflessione sulla storia dei preti operai italiani. Purtroppo gli interventi non sono stati letti per i tempi ristretti, un quarto d'ora d'intervento per ogni gruppo nazionale.
A Mario Pasquale è toccata in sorte la preparazione della relazione di apertura del Convegno. Credo gli sia costata parecchio anche per le continue limature, cancellature e aggiunte da parte degli altri. Questo era comprensibile, date le diversità e difficoltà di tenere insieme idee che rispecchias-sero la conformazione e la ricerca dei diversi Paesi.
Il trovarsi a Strasburgo è stato un momento significativo per tutti, per la possibilità di incontrare volti diversi, segnati dalla fatica ed anche nel corpo, soprattutto i francesi che hanno alle spalle. qualche decennio di storia in più.
Non era raro incontrare vecchietti col bastone. In tutti c'era una grande voglia di "esserci": volti sereni e limpidi, segno di una vita vissuta intensamente e con passione. Lo stare insieme in quei giorni ci ha fatto scoprire modi diversi di essere preti operai, legati alle situazione e alle storie dei gruppi.
I francesi sentono molto il senso del ministero, vissuto in classe operaia, con il mandato ufficiale della chiesa.
La presenza di alcuni vescovi al convegno era la dimostrazione palese che la chiesa sostiene il loro movimento, su cui pesa ancora la batosta degli anni '50 con la condanna di Roma.
Gli altri gruppi, spagnoli, belgi e tedeschi sono molto più vari nelle loro composizioni, formati da preti celibi e sposati, religiosi e laici che si ritrovano insieme nei loro incontri.
Gli inglesi sono un gruppo misto In tutti i sensi, formato da cattolici (preti celibi) e da anglicani, con preti sposati e donne prete: tra l'altro quest'ultime molto decise e agguerrite. Ne abbiamo avuto l'assaggio nell'intervento di Margareth, parrochessa a Londra, che si è lamentata per alcuni gesti durante la celebrazione, discriminanti per le donne.
La loro presenza è senz'altro positiva perché ci costringe a pensare al ministero in maniera differente purificando il nostro linguaggio maschilista.
I catalani sono simili agli italiani. Oltre a questi gruppi, diciamo classici, la presenza dell'America Latina (Cile e Chapas) Egitto e Bangladesh. Purtroppo hanno avuto poco spazio, con interventi ridotti all'osso, come sempre succede per "gli ultimi arrivati", che dovrebbero avere la precedenza. La celebrazione della messa di Pentecoste è stata "spettacolare", com' è nella tradizione francese, presieduta dal vescovo di Strasburgo. L'omelia è toccata al prete operaio più giovane, come incoraggiamento al cammino appena intrapreso. La carenza di nuove leve è un dato comune a tutti i gruppi, con il conseguente invecchiamento del movimento.
Il pomeriggio di domenica è stato dedicato agli incontri dei gruppi nazionali e, dalle relazioni conclusive, è emersa la volontà da parte di tutti di continuare a lottare, anche se con nuove forme, con un'attenzione particolare ai giovani e ai nuovi movimenti di lotta che si affacciano sulla scena sociale e mondiale.
Dal versante del credente è importante cercare Dio in ambiti nuovi e con nuovi linguaggi. Su questo fronte sono stati posti alcuni interrogativi: "siamo noi responsabili del futuro di Dio? Per noi è difficile dire qualcosa su Dio ed abbiamo difficoltà a nominarlo perché nella Bibbia il suo nome e composto solo da consonanti ed è per questo impronunciabile. Abbiamo abbastanza esplorato la gratuità di Dio?"
Per il gruppo italiano (eravamo in 24) con grande sorpresa di tutti quel pomeriggio è stato un momento di confronto sereno. Si vede che con gli anni diventiamo più saggi e più attenti all'ascolto gli uni degli altri.
Si diceva:
- Non vogliamo essere delle foglie morte che vanno alla deriva.
- La nostra vita ci ha dato la possibilità di vedere e leggere i meccanismi perversi di questa società.
- Possiamo dire qualcosa su Dio, perché conosciamo il linguaggio degli uomini.
- E' il momento di prendere in mano il testo della Apocalisse, dove si parla della bestia e della lettera alle sette chiese.
- Il futuro di noi preti operai: donare ad altri la perla preziosa che noi abbiamo trovato ed aiutare altri a ritrovarla.
Alcune riflessioni
Non so come sia nata l'idea di scegliere Strasburgo per il nostro primo convegno veramente internazionale di preti operai, ma la sede non poteva essere migliore. E non solo per la storia recente del parlamento europeo: questa bella città di confine (contesa nei secoli fra Francia e Germania) ha un respiro ampio come il Reno che l'attraversa, una atmosfera luminosa di cultura e di capacità di convivenza che come per altre zone di frontiera le conferisce un'aria cosmopolita, il fascino delle diversità che si sono integrate ed hanno creato un nuovo stile di vita. Questa era l'atmosfera che si respirava quando sciamavamo in città lasciando le sale che ci ospitavano negli intervalli fra le relazioni e i lavori di gruppo, e anch'essa ha contribuito a rendere possibile il guardarci con reciproca attenzione gli uni gli altri.
Venivamo un po' da tutto il mondo, singoli e gruppi, uomini e donne, preti cattolici e protestanti, simpatizzanti ed amici; le realtà nazionali presenti al convegno erano numerose, assai diverse nella loro composizione dal nostro monocorde gruppo italiano. Questa non è una novità, ma - credo - mai fino in questo anno siamo stati in grado di percepire la ricchezza della compresenza delle differenti dimensioni del femminile e del maschile in una fluidità di rapporti ben oltre ogni riferimento di rapporto di coppia. Posso sbagliarmi, ma il clima sereno tra i partecipanti italiani all'incontro di Strasburgo - annotato da Mario nelle ultime righe della sua cronaca - nasce anche dalla intuizione che realmente le differenze tra di noi non consumano lo spessore dell'esperienza collettiva (di movimento, verrebbe da dire), ma l'esprimono in modo ben più vitale e libero. E questa intuizione è stata alimentata dal contatto positivo con i gruppi compositi. Chissà se questo squarcio di luce e calore sarà solo un episodio o preludio a una stagione nuova? Breve - dato il tempo che ormai ci è concesso - ma intensa, calda e avvolgente come un bell'autunno dai colori struggenti.
Ci vorrebbe proprio un bel colpo d'ala per sollevarci insieme e liberarci dai ruoli scavati dentro di noi dalla storia di ciascuno: le lotte, le ferite, il bisogno di lasciare un segno, di impnmere la nostra impronta e insieme quello di essere riconosciuti...
La presenza dei vescovi francesi al Convegno ha sottolineato le differenze esistenti con la nostra lunga storia di rapporti fra gerarchia e preti operai italiani: a differenza dei compagni francesi, non siamo mai stati riconosciuti dalla nostra conferenza episcopale e non vi sono vescovi che partecipano alle nostre assemblee se non a titolo strettamente personale. L'esperienza francese - in questo senso - è rimasta isolata in Europa: forse è stato decisivo il tempo in cui è nato il movimento, praticamente a ridosso della 2° Guerra Mondiale, prima che si ricostituisse un quadro di riferimento stabile degli assetti di potere nelle democrazie occidentali. Quando ancora si poteva pensare che fosse utile la presenza nel campo altro della classe operaia. Ma, una volta, convinta di avere in mano altre carte da giocare, la politica ecclesiastica ha chiuso ogni falla. In Italia in collusione avvitata con la Democrazia Cristiana, la Chiesa, garantendosi l'esclusiva della diffusione della propria rete "commerciale" (il giornale cattolico, la scuola cattolica, il partito cattolico...) ha lasciato fuori i preti operai e li ha accuratamente isolati. Dopo la caduta del muro e del sistema di riferimento dei partiti tradizionali in Italia, è stata ed è la figura del Papa a garantire il "prodotto religioso" pastorizzato e assumibile con le stesse caratteristiche dovunque, attraverso una rete di consensi abilmente giocata su una presenza mediatica dalle proporzioni eccezionali.
A questo punto della nostra storia sarebbe interessante porci delle domande più di portata esistenziale che storica. Chiederci quali mutazioni antropologiche ha portato in noi (e non solo in noi... l'incontro tra il mondo dello spirito di cui siamo portatori (non solo per una formazione ricevuta, ma per quello che noi stessi abbiamo accolto nella profondità del cuore, della mente e della coscienza) e il mondo della materia espresso dalla realtà del lavoro manuale, operaio. Don Sirio nell'ultimo articolo che ha scritto, diceva a questo proposito: "L'essere operaio ha voluto dir questo, prima di qualsiasi altra cosa: togliere via una qualificazione, quella di esser prete, eppure rimanere serenamente prete, uomo di Dio, fratello universale. Come lasciar cadere una maschera, un paludamento, una "divisa" e ritrovarmi, come solo, io, allo scoperto, con tutta la mia Fede e quella misteriosa carica di Amore fraterno, appassionato e inesauribile" (Lotta come Amore, n. 4 dicembre 1987, "Un'utopia per la Chiesa").
Forse questo percorso ci può ricondurre all'unità senza passare tramite il terrificante letto di Procuste della "riduzione all'unico modello". Non è possibile darne conto attraverso un procedimento di "potatura" teso ad isolarne le radici per poterlo comprendere e catalogare, ma è necessario imparare ad accogliersi "dentro" e a esprimere il proprio essere "parte". Passività e attività insieme, femminile e maschile, opposti che si incontrano e si riconoscono.
Ci sarà dato di vivere ed esprimere questa passione?
Cl sarà dato il coraggio e la fiducia nel continuare a togliere gli strati di pelle sottile alla ricerca del "cuore di carne" che ci fa vivere nonostante tutto?

Mario Signorelli
Luigi Sonnenfeld


Dopo la tragedia di Genova

Dopo la tragedia di Genova, proviamo a riflettere. Di tragedia si è trattato, e di nessuna vittoria, anche se rimangono delle possibilità preziose, da curare e sviluppare. Tragedia, perché quando la violenza si scatena, tutti ne rimaniamo sporcati, degradati. La violenza. nasce dalla stupidità ignorante, dalla paura, ma anche da dosi di odio presenti nel corpo sociale, e sempre genera paura, ignoranza e odio. L'odio è il male maggiore che possa arrivare ad un popolo. Un male peggiore della morte, perché dalla morte può venire anche vita, ma la vita nell'odio è soltanto morte. La violenza di pochi offende e avvilisce tutti, e può contaminare molti. Questa violenza viene da uomini-pietra e pietrifica anche le vittime, se non hanno immense risorse umane. Il vero principale problema dei fatti di Genova è questo: le risorse umane profonde e solide.
Le altre considerazioni sono successive. Anzitutto, la parola va data alla verità del dolore. Da Alessandria, persone generose che hanno accolto e curato i rilasciati dal carcere, italiani e stranieri, in aperta campagna, senza sapere dove si trovassero, raccontano:
"Le botte le hanno prese tutte nella caserma di Bolzaneto: ragazzi e ragazze. Le costole rotte, le caviglie gonfie e doloranti, i lividi sul corpo, i colpi alla testa sono frutti del dopo arresto. In piedi per sedici diciotto ore con le mani legate dietro la schiena, faccia al muro costretti ad orinarsi nei pantaloni, gambe divaricate, colpi nei testicoli, se cedevano le gambe e ti chinavi botte e spruzzate di prodotti urticanti sul viso. Le ragazze nude costrette a far flessioni, insultate in modo ignobile dai poliziotti che dichiaravano di aver finalmente visto come è fatta una puttana comunista nuda, a chi ha avuto un conato di vomito è stato passato il viso sul pavimento per farglielo leccare. In quelle condizioni costretti a cantare "viva il duce" e canti inneggianti al fascismo, ben conosciuti da quei poliziotti; forzatamente venivano costretti a passare le loro mani su zaini ed altri oggetti (armi improprie) perché rimanessero le loro impronte. Questo era già successo quando sulle auto (spesso non riconoscibili) che li portavano alle caserme, con le mani legate dietro la schiena, la testa abbassata i ragazzi si sentivano passare fra le mani vari oggetti" .
Basti questa testimonianza, tra le centinaia disponibili (io ne ho ricevute più di quattrocento), a dire la vergogna d'Italia.
Che ci siano anche solo alcuni poliziotti fascisti, cioè dediti al culto della forza bruta, mentre hanno la forza soltanto per difendere il diritto, e che ministri della Repubblica li difendano pregiudizialmente, questa è la vergogna e la sconfitta d'Italia. Aveva ragione chi segnalava il pericolo civile delle forze oggi al governo. Era dal tempo del fascismo che non avvenivano energiche manifestazioni sotto le nostre ambasciate nel mondo, come sono avvenute ora, a vergogna d'Italia.
1 - Il movimento anti-globalizzazione non è contro l'unificazione del mondo umano.
Il movimento stesso è mondiale: internazionale, interculturale, intergenerazionale, altruista. È contro una mondializzazione iniqua, nella quale cresce la ricchezza e cresce l'ingiustizia. Bush e Berlusconi, quando dicono che chi è contro la globalizzazione è contro i poveri, sono impudenti spacciatori di notizie false.
Se guardiamo le cifre, le "provvidenze" prese dagli 8 ricchi per i popoli poveri sono briciole offensive e sprezzanti, polvere negli occhi.
2 - Il movimento non è soltanto negativo.
La sua ossatura valida è costituita da esperienze in atto, seppure germinali, di economia alternativa, solidale, che stanno maturando in espressioni teoriche e politiche.
3 - Lo spettacolo osceno della violenza strutturale nell'economia e nel governo del mondo, assunto abusivamente dai più forti contro le legittime istituzioni cosmopolitiche, quale è l'Onu esautorata, muove all'indignazione e alla collera anche correnti sprovvedute sul piano morale e culturale, e ineducate all'azione costruttiva politica.
Ad esse si aggiungono frazioni piccole ma accanite, della destra internazionale mortifera, di cultura puramente violenta, che si esprimono soltanto nella distruzione, non senza che il cinismo del potere le utilizzi, come è avvenuto chiaramente a Genova, al fine di criminalizzare tutta la protesta.
4 - Purtroppo, i tragici fatti di Genova dimostrano che aveva ragione chi chiedeva una netta separazione, proclamata e praticata, tra le forme di protesta decise o disponibili alla violenza, e le forme seriamente nonviolente. Pensiamo e scriviamo "nonviolenza" in parola unica per dirne la grande valenza positiva, non di pura e insufficiente astensione dal dare inizio alla violenza, come quando si pensa e si scrive l'espressione in due parole ("non violenza"), pura negazione relativa e transitoria.
La nonviolenza in quel significato positivo, attivo, costruttivo, è radicalmente alternativa anzitutto alla prima e maggiore violenza, quella strutturale dell' ingiustizia sistematica, poi anche alla violenza fisica, materiale, interiorizzata nella rabbia di chi protesta unicamente o principalmente in modo negativo e distruttivo. Chi fa così imita, riproduce e addirittura giustifica la maggiore violenza strutturale, regalando agli oppressori (e ai loro strumenti umani, le polizie) la possibilità di apparire oppressi agli occhi dell'opinione pubblica più condizionata, ma anche giustamente offesa per azioni distruttive a danno non certo dei potenti, ma di terzi incolpevoli. Questo risultato è stato, di fatto o volontariamente, lo scopo di quelle componenti deteriori dell'agitazione, nemiche del movimento per la giustizia, che a Genova sono state le "tute nere".
I governi, specialmente quello italiano ospitante, che oggi, anche nelle democrazie, sono governati dai potentati economici incontrollati, hanno fatto proprio, o hanno addirittura predisposto, questo risultato infame.
5 - La richiesta di netta separazione tra violenti e nonviolenti, avanzata nel movimento stesso da molti mesi, era stata malintesa da buona parte del movimento composito, come se fosse una discriminazione tra buoni e cattivi, una divisione tra alleati con lo stesso obiettivo. Ci sono i testi scritti di quel dibattito in posta elettronica. Sta qui la grave debolezza o ambiguità del Genoa Social Forum, dove put tanto generoso impegno è stato profuso.
La distinzione era assolutamente pratica, non moralistica: non era tra buoni e cattivi, ma tra effettivi alleati della violenza strutturale (i manifestanti violenti, che facevano "dichiarazioni di guerra", rimangiate l'indomani, senza alcuna credibilità) e veri avversari alternativi alla violenza strutturale (i manifestanti positivamente nonviolenti). L'alternativa chiara andava difesa come primo obiettivo, e l'alternativa era la nonviolenza pura. E' stata una grave ingenuità (generosa, ma sbagliata) credere di potere condurre un'azione comune senza questa chiarezza.
6 - Il rifiuto di operare quella distinzione essenziale per la lotta giusta ha dato luogo all'ambiguità della posizione mediana e mediatrice tra gli estremi, violento l'uno, non violento l'altro. Questa ambiguità deve ora essere oggetto di seria meditazione e di un lungo lavoro di ricostruzione. Questa ambiguità ha disorientato e buttato allo sbaraglio tanti generosi manifestanti, specialmente i più giovani, col possibile effetto di scoraggiare e dilapidare il loro fresco impegno, offeso dalla violenza dilagata, o di lasciarli corrompere dal virus della stessa violenza. Molto ambigua era la posizione delle "tute bianche", che volevano l'affrontamento fisico, l'invasione della "zona rossa", il blocco dei lavori dei G8, e dicevano di volerlo fare senza violenza, pur sapendo di provocare una reazione violenta, dalla quale si sarebbero "difese". Questa azione veniva chiamata "disobbedienza civile", ignorando che l'autentica disobbedienza civile, e non la semplice provocazione, richiede alcune ardue qualità: la grande forza di sopportare tutte le conseguenze (come Socrate, Tommaso Moro, Gandhi, Franz Jagerstatter); il coraggio di dimostrare con l' "arma umana della sofferenza" (Gandhi) di essere liberi anche dalla violenza di risposta; la capacità di smascherare in tal modo l'ingiustizia della legge ingiusta e la violenza che la difende. Ma questa forza, coraggio e capacità non si improvvisano e non c'erano nella maggioranza dei manifestanti, pur i meglio intenzionati, pur preparati come mai prima in nessun'altra manifestazione così grande.
Ci sono stati in casi preziosi per sperare, come quello riferito dall'Ansa nel dispaccio che riportiamo qui sotto, e chissà in quanti altri rimasti ignoti. Tra quei quindici c'erano alcuni nostri amici ed un redattore de il foglio. Solo l'Unità ha riferito l'episodio con la massima evidenza.
(ANSA) - GENOVA, 20 LUG - "Devo ringraziare quei quindici che si sono messi in ginocchio e ci hanno salvato". A parlare è un poliziotto. Esprime gratitudine nei confronti di un gruppo di pacifisti che, all'arrivo del corteo degli anarchici (si tratta delle tute nere), si sono inginocchiati in fondo a Via Palestro, davanti allo schieramento dei poliziotti, invitando il gruppo a fermarsi.
Si era appena conclusa la manifestazione pacifica e colorata degli ambientalisti e della Rete Lilliput partita da Piazza Manin.
Il corteo si era sciolto, dopo le azioni simboliche davanti alla grata di protezione alla zona rossa di Via Assarotti, e una parte dei manifestanti si era riversata su Piazza Marsala per un sit-in. "Toglietevi il casco" ripetevano i giovani all'indirizzo dei poliziotti in assetto antisommossa. Gianluca, 21 anni, ha raccolto l'invito e subito dopo tutti gli altri lo hanno seguito. A quel punto una ragazza entusiasta si è alzata ed è andata ad abbracciare il poliziotto. "Noi ci siamo tolti il casco - dice un altro poliziotto - e loro ci hanno dimostrato solidarietà. Gli anarchici, di fronte a loro hanno desistito".
7 - Tuttavia, nonostante quelle carenze e ambiguità, la preparazione e lo svolgimento delle giornate di Genova, compresi i momenti di convegno, hanno promosso una riflessione, sebbene ancora incompiuta, sull' alternativa tra violenza e nonviolenza, essenziale e preliminare alla ricerca della giustizia coi mezzi della giustizia, gli unici mezzi che possono avvicinare a quel fine. Questa riflessione, imposta ulteriormente dai fatti, che hanno rivelato tanto il fascino nero della violenza sbrigativa, quanto i suoi effetti degradanti, va ora continuata e approfondita, affinché gli errori e i dolori di Genova non siano arrivati invano. Bisogna aprire un dialogo serio e paziente, meditato e senza pregiudizi, tra le componenti del movimento qualificate in senso nonviolento, e tutte le altre, fino a quelle più esposte al mito disumano della violenza. Assai difficile, o impossibile, sarà tentare il dialogo coi gruppi violenti per tradizione ideologica nazifascista. Ma con le singole persone disorientate, il dialogo e l'esempio incoraggiante sono sempre possibili. L'umanità è la sostanza ricuperabile di ogni persona. Ma le idee non sono tutte rispettabili: il culto della violenza non è rispettabile.
8 - La forza pubblica, in troppi dei suoi agenti, non ha saputo e probabilmente troppi segni lo indicano - non ha voluto separare violenti, non-violenti, e nonviolenti, ma ha colpito in modo pesante e indiscriminato, sia che fosse diretta o coperta politicamente in tal senso, sia perché ineducata e abbandonata nell'incapacità inammissibile di distinguere la protesta legittima da quella illegittima, la propria azione legittima da quella illegittima, l'uso della forza giusta e minima dalla violenza. L'effetto, visto in tv da tutti, dell' uso violento e brutale, persino omicida, della forza pubblica, che è giustificata soltanto dalla difesa dei diritti, è di una immensa gravità civile. Lo stato nemico dei cittadini che dissentono è il peggiore degli stati.
La democrazia non è il calcolo dei voti nell'urna: questo è soltanto uno strumento indispensabile ma formale. La democrazia consiste nella difesa e realizzazione dei diritti umani, tra i quali c'è la manifestazione del dissenso senza violenza. I colpiti dalla polizia e dai carabinieri a Genova non erano violenti, se non forse pochissimi. I grandi violenti non sono stati colpiti, ma lasciati liberi di distruggere, se non portati sul posto a questo scopo, come molti hanno visto. Quando Berlusconi ha accusato di violenza tutti i manifestanti senza distinzione, si è dimostrato, anche sul piano dei più elementari valori civili, oltre che nell'etica economica, quell'affarista "inadatto a governare" un paese civile. La destra della maggioranza chi con la durezza di Fini, ha voluto difendere contro l'evidenza tutto l'operato della forza pubblica, ha manifestato la sua idea di stato, profondamente antidemocratica, inaccettabile. Le forze politiche del centro-sinistra sono state deboli, esitanti, incapaci di capire tutto valore del movimento per la giustizia, tentando poi di aggregarsi, ma da lungo tempo notoriamente senza lucidità di giudizi: sulla violenza neoliberista. Rifondazione è stata presente. Ma tutto il sistema dei partiti non è culturalmente adeguato al fenomeno in corso: o non lo capisce, o cerca di utilizzarlo Specialmente sulla necessaria opzione nonviolenta assoluta, perché la politica sia umana, tutta la classe politica, da destra a sinistra, è pressoché analfabeta. Il lavoro da fare è immenso.
9 - L'esito cruento e deformato delle manifestazioni genovesi dà ragione, purtroppo, a chi, prevedendo lo e temendolo, aveva organizzato in molte città maggiori e minori (Torino, Bologna, Reggio Emilia, Ferrara, Cuneo, Pinerolo, ed altre che ora mi sfuggono) manifestazioni all'insegna di "Non solo a Genova" e di "Parliamo a tutti, non solo ai G8". Tali manifestazioni si sono svolte non solo senza fare né patire violenza, ma producendo argomenti e segni di denuncia e di critica propositiva attraverso l'immagine e il gesto totalmente non-aggressivo, strutturalmente nonviolento, quale è il cammino in fila indiana, portando cartelli sul corpo, non su aste, e distribuendo volantini esplicativi. Questo tipo di manifestazione, camminando sui marciapiedi, rispettando i semafori, non disturbando i passanti, instaura una comunicazione mite e razionale con molti cittadini, che manca ad ogni corteo di massa. A Torino vi hanno partecipato, sabato 21 luglio, da 300 a 500 persone, confluite da tre diverse file indiane, ciascuna di almeno cento persone (non è difficile contarsi così in fila), partite dalla semi-periferia, a qualche chilometro dal centro, percorrendo le vie più popolate. (Ma, l'indomani, Repubblica ha parlato di un centinaio di presenti, e La Stampa di cortei "mini", di quaranta persone ciascuno! ...diventate però 300 in piazza Castello). Ciò che conta è che diversi passanti hanno osservato: "Non come a Genova!".
E sbagliavano, perché di Genova avevano saputo solo il brutto, e non la realtà della grandissima maggioranza serena e propositiva. L'informazione corrente giustamente ha fatto eco alla tragedia, ma, nella sua cronica sordità a ciò che più importa, ingiustamente ha trascurato il segnale della forza mite di chi porta le ragioni della giustizia. Questo tipo di informazione ha ingannato molti italiani più sprovveduti, facendo credere che a Genova si siano affrontate due violenze pari, oppure addirittura che i dimostranti abbiano meritato i colpi ricevuti.
10 - Infine, il giudizio sulle violenze, tutte in pratica contro lo sviluppo di un movimento per la giustizia mondiale, non deve dimenticare che la violenza più radicata e più grave è l'ingiustizia strutturale. Anche la protesta più scomposta e violenta, e quindi stupida e complice, è generata da quella violenza più vasta e profonda, più invisibile e rispettata, più giustificata e accettata, più mascherata e falsificatrice, più attrezzata e spregiudicata nel difendersi. La vera azione per la giustizia comincia e continua soltanto con i mezzi della giustizia, quindi nella ricerca rigorosa, personale e collettiva, della forza nonviolenta, che è la "forza vera" (satyagraha), la forza umana, creativa, coraggiosa, liberante. Tutta la politica, quella delle istituzioni, e quella dei movimenti oltre le istituzioni, deve emanciparsi dal mito superstizioso e dannato della violenza risolutiva, e imparare la politica della nonviolenza, l'unica adeguata ad una convivenza umana.
(1 agosto 2001)

Enrico Peyretti

11 settembre L'ingiustizia non fa mai giustizia

Proprio chi, come noi, in nome dei diritti umani, della giustizia e della nonviolenza positiva, ha condannato in questi anni la politica mondiale degli Stati Uniti, oggi condanna totalmente e senza alcuna riserva le enormi stragi terroristiche contro le città e il popolo statunitense, al quale esprimiamo la nostra calda umana solidarietà.
La violenza diretta che, col pretesto di attaccare un dominio politico ed economico, compie stragi di esseri umani, è criminale, è priva di ogni possibile giustificabilità, non è alternativa ma omogenea e funzionale alla violenza strutturale del dominio.
Il terrorismo omicida e disperato può essere indebolito e vinto praticando una politica che tolga le cause da cui esso trae motivo o pretesto per simili ingiustissimi atti, e sviluppando la cultura di pace, di nonviolenza, di eguaglianza di diritti e di giustizia economica tra i popoli.
Luigi Sonnenfeld

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