Lotta come Amore riprende il suo cammino, dopo una sosta di alcuni mesi. Non c'è stata una ragione particolare all'origine di questo "silenzio". Sono tante e diverse le cose che impegnano la giornata e devo dire che fino a poco tempo fa avevo la sensazione di farcela solo lasciandomi andare e cercando di opporre la minore resistenza possibile all'inevitabile quotidiano. Lo scrivevo già nell'ultimo numero e la situazione non è molto cambiata se non per una ricerca più insistente per uscire da quello che descrivevo come "uno stato confusionale". Perdura tuttora, ma con minore disagio questa "crisi" che la morte di Beppe ha segnato. E questo credo sia dovuto all'aspetto positivo dell'essere in crisi: la rottura di equilibri consolidati con la loro apparente solidità e sicurezza, ma anche con il rischio crescente di ostruire la via al soffio della vita. E quindi insieme alla percezione di fragilità, nudità, insicurezza, si mescolano i flussi di nuove energie che passano attraverso le brecce aperte.
Quanto questo possa corrispondere a verità (non solo per me, ma per tutto un insieme di persone legate da amicizia e da comune sentire con questa piccola barchetta ancorata nel porto di Viareggio) lo potranno percepire nostri amici lettori che troveranno nella seconda parte di questo numero il filo delle letture e dei commenti al termine della fiaccolata in occasione del secondo anniversario della morte di Beppe.
Non è facile comunicare il calore di quella serata, la partecipazione numerosa e spontanea di tanta gente, lo scorrere lungo le strade della città di una scia luminosa, la semplicità del camminare con la serenità e la gioia di essere insieme. E poi l'affollarsi nella chiesa le cui mura non hanno avuto altro significato che quello di raccogliere un insieme di persone che Beppe, ancora una volta, ha raccolto e mescolato insieme mettendo a proprio agio gente così tanto diversa.
Nella chiesa dei Sette Santi in Darsena, la domenica precedente, durante la messa avevo raccontato una "parabola" come lui l'avrebbe definita.
Negli ultimi anni, anche per via di due zie molto anziane che sarebbero morte poco prima di lui, Beppe andava a S. Casciano, su paese natale e ritornando portava indietro a volte delle cassette con pianticelle raccolte lungo la strada. Fiori che gli ricordavano la sua campagna, fiori di campo che ornano i piccoli fossati di scolo, gli argini, le prode rialzate dove l'aratro non arriva a sconvolgere d'autunno il terreno.
E trapiantava queste pianticelle intorno alla chiesetta, lungo le aiuole che contengono una sabbia povera, adatta tutto al più alle piante resistenti all'asciuttore e al salmastro marino. Le riconosco ancora, fare capolino, protette da piante spinose che allontanano il calpestio disattento e irritato di chi è abituato a sentire sotto i piedi asfalto pulito e avverte la terra come sporco attentato alla propria eleganza. Pianticelle abbarbicate si direbbe a dispetto, ma forse capaci di vivere di null'altro che dell'aria, del sole, dell'acqua e del vento. Nella campagna di S. Casciano come nelle darsene di Viareggio.
Un giorno arrivò trionfante con tre pianticelle che si affrettò a trapiantare e ad annacquare subito al calcio di uno degli ulivi piantati da Sirio in quelle aiuole che lui chiamava "gli orti" di casa.
Mi annunciò la nascita (per trapianto!) di tre violacciocche! E schioccava la lingua, lui fiorentino e quindi dalla "ci" aspirata, di fronte a quelle due coppiole di "ci" che diventavano venti in bocca a lui, quasi per una rivincita. Un fiore che gli ricordava l'infanzia e l'esplosione della primavera.
Le tre violacciocche, trapiantate bene in fila (perché Beppe aveva un senso dell' ordine... millimetrico. Mi ricordo che..., ma questo lo serbo per un'altra volta!) superarono bene la fase del passaggio dalla terra alla rena. Fiorirono a primavera, in modo decoroso, ma non brillante. E con fiori tutti bianchi immacolati e io ridevo perché li aspettavo viola per via del nome.
Due piante però morirono. Successivamente intristirono e seccarono. L'ultima crebbe bene e si allargò ad ombrello e arrivò a lambire gli ultimi rami penduli dell'ulivo.
Beppe morì e in primavera, la violacciocca ebbe una fioritura fantastica, un grande cuscino di un bianco splendido che attirò l'attenzione di tante persone.
Data la dimensione della pianta, pensai di trapiantarla in autunno in un luogo che le consentisse di respirare meglio.
Ma, dopo l'abbondante e ricca fioritura la pianta entrò come in letargo e le prime piogge di settembre non la rianimarono, ma indurì, divenne lignea, irrimediabilmente secca. Mi dispiacque perderla.
La primavera successiva, quella dell'anno scorso, ebbi una grande gradita sorpresa. L'aiuola dove la violacciocca viveva, ma non solo, anche le altre due, e quel filo di terra, ai piedi del muretto di cinta del molo sul canale, perfino l'angolo sbrecciato usato per i bisogni, dove ci sarebbe da giurare che non può crescere niente: un fiorire di violacciocche!
Alcune sono già cresciute a buona misura e aspettano solo la primavera prossima per fiorire di bianco questo piccolo spazio di terra.
Questa "parabola" ho raccontato nella chiesa e mi pare un segno piccolo, ma ugualmente eloquente, di un tempo che si apre anche per me. La vita soffia e scuote da una memoria del tempo passato e spinge vigorosamente verso la continua scoperta della novità che nasce dai semi di ciò che è stato seminato.
Luigi
Leggendo da ragazzo "I Malavoglia" del Verga, piansi al racconto di 'Ntoni che ritorna in carcere. La sorella vorrebbe trattenerlo e lui restare, ma 'Ntoni sa che deve andare. Uscito di casa si ferma nel buio e attende che si chiuda la porta. Lo sbattere dell'uscio alle spalle segna la rottura definitiva dal suo passato, dalla sua radice...
Se visiterò San Pietro nell'anno giubilare, è probabile che non entri nella basilica dalla porta santa, per evitare code. Ma il "vuoto" creato da questa porta che si apre è importante. Ne parlo spesso con gli amici che chiedono le ragioni della mia pace.
So di appartenere ad una famiglia ricca. E non parlo di ricchezze materiali, ma di quelle dottrinali, accumulate dalla sapienza dei padri, dalla speculazione dei dottori, dalle suppliche dei santi. Ma io vivo con poco, e questo mi riempie di gioia. Vivo in due stanze senza immagini. Eppure questo vano, come quello della porta santa, non dà sul nulla. E vorrei che le porte dei vescovadi, seminari, monasteri, nunziature e sacre congregazioni, dove si decidono gli orientamenti della chiesa, si aprissero sul mondo vero, dove il tempo si fa storia.
A un rettore di un seminario teologico ho chiesto se non sarebbe opportuno, invece di inviare i chierici nel fine-settimana alle parrocchie per fare pastorale, orientarli verso le case di raccolta dei bambini di strada, verso i giovani malati di aids, verso famiglie che vivono nelle baracche. Le disposizioni di Roma pare che non lo permettano. Così i portoni continuano a difendere il privilegio. La porta santa potrebbe essere il simbolo dell'apertura sul mondo reale, dove il peccato umano non è più un'entità spirituale invisibile che si presume di cancellare con un segno di croce, ma un fenomeno drammatico, un vero segno di morte. Ho notato persone impallidire, quando nelle "favelas" hanno visto con i loro occhi i segni chiari dell'assenza di amore.
Quelli che decidono i metodi di formazione e clericalizzano i giovani, che saranno sempre incapaci di distinguere diritti da privilegi, dovrebbero riflettere se la formazione non sia molto prossima all'alienazione e alla distruzione di una vera identità.
Forse non ci chiediamo mai seriamente perché il Cristo risorto mostri le piaghe aperte. Vuol fare solo un riferimento ai modi con cui l 'hanno giustiziato o anche alle piaghe del suo corpo mistico che restano aperte e sanguinanti?
E' possibile conoscere Gesù senza mettere le nostre mani nel suo costato aperto?
La porta del giubileo che si apre mi ricorda, per contrapposizione, quella che si chiude alle spalle di 'Ntoni. Ho incontrato tanti fratelli e sorelle che hanno confessato di aver sentito sbattere alle loro spalle (e per sempre) una porta definita santa.
Nel giubileo la porta santa diventa come il luogo della decisione. Il papa la interpreta come il passaggio per raggiungere Cristo, la sua grazia. Ma una porta è anche il varco da cui si esce. So che dalla basilica nessuno potrà uscire per la porta santa. Però è necessario uscire nel mondo, senza abdicare alle proprie responsabilità.
Risuonano le parole di san Paolo: "Cristo patì fuori della porta della città [città santa, porta santa]. Usciamo, dunque, anche noi dall'accampamento e andiamo verso di Lui portando il suo obbrobrio" (Eb. 13, 12-13).
Se uno vuole incontrarsi col Cristo carico di vergogna, la cosa è facilissima: basta andare incontro agli esclusi, agli sbattuti fuori dalla porta.
Per i più la porta santa resterà a senso unico, e forse la grazia che riceveranno sarà il sorgere di antiche angosce, segno di non aver trovato il cammino verso il luogo dove oggi Gesù è crocifisso. Solo questo sfocia nella pace promessa.
Fratel Arturo
da "Missioni Consolata" gennaio 2000
Sotto Natale, in uno di quei "tempi morti" che le feste regalano ad un solitario come me, mi sono messo a rileggere alcuni giornali che avevo accumulato sulla panchetta di cucina. Tra gli articoli che ho ritagliato per leggerli poi con calma, uno di Guglielmo Ragozzino su "Il Manifesto" di venerdì 17 dicembre 1999, intitolato "Esseri umani sulla strada". L'articolo presenta un libro dal titolo "Un uomo chiamato Clochard. Quando l'escluso diventa l'eletto" (Edizioni Lavoro).
Gli autori sono Michel e Colette CollardGambiez.
"Michel e Colette sono due francescani e sono anche marito e moglie. Lui ha lasciato il convento per stare con i poveri, i reietti della società, i senza casa. Colette, per la sua vocazione a stare a contatto con chi soffre, ha scelto di fare l'infermiera piuttosto che il medico, ciò che le sarebbe riuscito per studi e condizioni familiari. I due si sono incontrati, hanno deciso di proseguire insieme, si sono sposati con un gran pranzo nei bassifondi, per il quale decine di poveri avranno rovistato nei cassonetti, per poi finire in una bevuta generale - tollerata dalla regola dei francescani da strada - e la consueta ricerca del rifugio dove passare la notte".
Mi ha colpito questa storia, nella sua semplicità. Cos' altro chiedere ad un giovane che entra in convento e si fa frate? E a una giovane capace di mettere a frutto tutta la sua intelligenza e il cuore nella professione di medico? Avrebbero potuto, entrambi, chiudersi nella propria vocazione. E, invece, questa loro vocazione iniziale non rappresenta un punto di arrivo, una risposta data una volta per tutte, cui essere fedeli fino alla morte. La fedeltà di una vita come quella di Michel e Colette, si esprime nella risposta di ogni giorno ad una chiamata sempre nuova. Certo, nel nostro modo usuale di parlare, ancora oggi si dice che Michel ha perduto la vocazione. E che Colette ha sacrificato la sua per amore dei poveri.
In questi nostri modi di dire la parola "vocazione" viene sancita l'appartenenza alla parte nobile della società e la conseguente liberazione dell' istanza spirituale dalla necessità materiale. L'approdo a una posizione sociale che tutti si augurano definitiva, scandita dagli scatti di carriera e dalle ricorrenze in cui rendere grazie a Dio per essere stati integrati in modo permanente nell'ordine costituito. Vocazione come "status"; tutt'altra cosa dalla vocazione come chiamata sempre viva nella storia personale e dell'umanità.
Perché in quest'ultimo significato, ciò che Michel e Colette non hanno perduto né sacrificato, è proprio la vocazione. E cioè la risposta sempre nuova a ciò che la vita giorno dopo giorno propone loro, invitandoli ad essere sempre più solidali con la parte debole dell'umanità. A questa fedeltà sostanziale sembra proprio che non abbiano rinunciato. Anzi, il loro incontro avviene proprio a seguito del percorso personale di ciascuno in ordine a questa fedeltà, l'unica per loro irrinunciabile.
Ormai sta nascendo il nuovo millennio. La faccenda non è da prendere troppo sul serio: in fin dei conti, l'anno 2001 dei cristiani è l'anno 1379 dei musulmani, il 5114 dei Maya e il 5762 degli ebrei.
Il nuovo millennio nasce un primo dell'anno per opera e grazia di un capriccio dei senatori dell'impero romano, i quali, un bel giorno, decisero di rompere la tradizione che imponeva di celebrare l'anno nuovo all'inizio della primavera. Il conteggio degli anni dell'era cristiana proviene invece da un altro capriccio: un bel giorno, il papa di Roma risolse di porre una data alla nascita di Gesù, benché nessuno abbia mai saputo quando davvero nacque.
Il tempo si burla dei confini che noi inventiamo per credere che lui ci obbedisca: tuttavia, il mondo intero celebra e teme questa frontiera. Un invito al volo - Millennio che va, Millennio che viene - l'occasione è propizia agli oratori dalla retorica infiammata che disquisiscono sul destino dell'umanità e a quei messaggeri dell'ira di Dio che annunciano la fine del mondo e lo sfascio generale; intanto, il tempo continua, silenzioso, il suo cammino lungo le vie dell'eternità e del mistero.
In verità, non c'è nessuno che sappia resistere: in una data simile, per arbitraria che sia, chiunque sente la tentazione di domandarsi come sarà il tempo che sarà. Abbiamo una sola certezza: nel ventunesimo secolo, se ancora saremo qui, tutti noi saremo gente del passato millennio. E benché non possiamo indovinare il tempo che sarà, possiamo avere almeno il diritto di immaginare come desideriamo che sia.
Nel 1948 e nel 1976, le Nazioni Unite proclamarono le grandi liste dei diritti umani: tuttavia la stragrande maggioranza dell'umanità non ha altro che il diritto di vedere, udire e tacere.
Che direste se cominciassimo a praticare il mai proclamato diritto di sognare?
Che direste se delirassimo per un istante? Puntiamo lo sguardo oltre l'infamia, per indovinare un altro mondo possibile: l'aria sarà pulita da tutto il veleno che non venga dalla paure umane e dalle umane passioni; nelle strade, le automobili saranno schiacciate dai cani; la gente non sarà guidata dalla automobile, non sarà programmata dai calcolatori, né sarà comprata dal supermercato, né osservata dalla televisione; la televisione cesserà d'essere il membro più importante della famiglia e sarà trattato come una lavatrice o un ferro da stiro; la gente lavorerà per vivere, invece di vivere per lavorare; ai codici penali si aggiungerà il delitto di stupidità che commettono coloro che vivono per avere e guadagnare, invece di vivere unicamente per vivere, come il passero che canta senza saper di cantare e come il bimbo che gioca senza saper di giocare; in nessun paese verranno arrestati i ragazzi che rifiutano di compiere il servizio militare; gli economisti non paragoneranno il livello di vita a quello di consumo, né paragoneranno la qualità della vita alla quantità delle cose; i cuochi non crederanno che alle aragoste piaccia essere cucinate vive; gli storici non crederanno che ai paesi piaccia essere invasi; i politici non crederanno che ai poveri piaccia mangiare promesse; la solennità non sarà più una virtù, e nessuno prenderà sul serio chiunque non sia capace di prendersi in giro; la morte e il denaro perderanno i loro magici poteri, e né per fortuna né per sfortuna, la canaglia si trasformerà in virtuoso cavaliere; nessuno sarà considerato eroe o tonto perché fa quel che crede giusto invece di fare ciò che più gli conviene; il mondo non sarà più in guerra contro i poveri, ma contro la povertà, e l'industria militare sarà costretta a dichiararsi in fallimento; il cibo non sarà una mercanzia, né sarà la comunicazione un affare, perché cibo e comunicazione sono diritti umani; nessuno morirà di fame, perché nessuno morirà d'indigestione; i bambini di strada non saranno trattati come spazzatura, perché non ci saranno bambini di strada; i bambini ricchi non saranno trattati come fossero denaro, perché non ci saranno bambini ricchi; l'educazione non sarà il privilegio di chi può pagarla; la polizia non sarà la maledizione di chi non può comprarla; la giustizia e la libertà, gemelli siamesi condannati alla separazione, torneranno a congiungersi, ben aderenti, schiena contro schiena; una donna nera, sarà presidente del Brasile e un'altra donna nera, sarà presidente degli Stati Uniti d'America; una donna india governerà il Guatemala e un' altra il Perù; in Argentina, le pazze di Plaza de Mayo saranno un esempio di salute mentale, poiché rifiutarono di dimenticare nei tempi dell'amnesia obbligatoria; la Santa Chiesa correggerà gli errori delle tavole di Mosè, e il sesto comandamento ordinerà di festeggiare il corpo; la Chiesa stessa detterà un altro comandamento dimenticato da Dio: "Amerai la natura in ogni sua forma"; saranno riforestati i deserti del mondo e i deserti dell' anima; i disperati diverranno speranzosi e i perduti saranno incontrati, poiché costoro sono quelli che si disperarono per il tanto sperare e si persero per il tanto cercare; saremo compatrioti e contemporanei di tutti coloro che possiedono desiderio di giustizia e desiderio di bellezza, non importa dove siano nati o quando abbiano vissuto, giacché le frontiere del mondo e del tempo non conteranno più nulla; la perfezione continuerà ad essere il noioso privilegio degli dei; però, in questo mondo semplice e fottuto ogni notte sarà vissuta come se fosse l'ultima e ogni giorno come se fosse il primo.
Eduardo Galeano
Impadronirsi di una eredità. Negare la storia di generazioni; ogni storia d'uomo e donna; la possibilità della relazione: affermare il proprio diritto uccidendo quello degli altri, uccidendo l'altro da sé.
Padri che mangiano i propri figli fin nel ventre della madre. Che si credono protetti dal muro della vigna eretto a confine invalicabile della propria autosufficienza. Muro di una terra espropriata da ogni possibilità di amore, di vita, di fruttificazione.
Eventi quotidiani: gli "scarti", le bocche da sfamare, gli occupanti di una terra destinata a fruttare oro se liberata per infrastrutture al servizio della tecnologia piuttosto che alla convivenza, coloro che sotto la soglia minima di reddito non interessano neppure al più decentrato dei mercati, ecc. ecc. Rifiuti umani, 'desaparecidos' , rifugiati, deportati. Campi di raccolta destinati a divenire inceneritori di ogni residua dignità umana, sovraffollati all'inverosimile, spesso veri e propri carri bestiame dai quali si può sperare solo di fuggire. Una fiumana di umanità che scompare come inghiottita dalle insaziabili gole carsiche della sete di normalizzare, risolvere, passare oltre. Rimanere ben saldi nella certezza dello sviluppo, del progresso, della benedizione divina ai cavalli di razza.
Ricordo la costruzione di muri a secco; i cumuli delle pietre, ognuna carezzata dallo sguardo prima, dalle mani poi, del "costruttore". Mani robuste, increspate da pieghe indurite della pelle consumata dall'uso; mani dalla presa dolce e sicura insieme. Mani segnate dalla cura: cura di sé, della pietra, del muro destinato a crescere con sapiente lentezza perché non si può essere avventati o approssimativi specie quando l'opera è impegnata al contenimento nel tempo di masse di terriccio friabile e slegato dal contatto sicuro con la roccia.
Gesù è sepolto nel mucchio delle pietre scartate dai "costruttori" di questo "secolo". L'espulsione dalla "città degli uomini" non è un evento di duemila anni fa. Essa continua sempre uguale a sé stessa, perché la storia di Dio non sa che ripetere un'unica Parola nella storia degli uomini segnata dalla babele delle parole. Fino a suscitare la fiducia che questa infinita condanna allo "scarto", più che dalla forza devastante della esclusione umana sia guidata dall'energia vivificante dell' Amore di Dio.
I seguaci di Gesù sono confusi da questo Amore. Spesso, nella storia umana, hanno creduto e credono di aver finalmente trovato la "pietra angolare" su cui impostare edifici capaci di resistere al tempo e imprigionare l'eternità. Mettere Gesù al centro della vita nasce come istanza di spiriti liberi, desiderosi di percorrere l'avventura della vita con forti motivazioni e ideali. E' necessario però fare attenzione. Gesù non sta mai al centro e le situazioni in cui la sua figura è centrale sono legate ad un "decentramento strutturale": dai primi vagiti in una grotta, tra un bue e un asinello, alla croce tra due ladroni. Il "re" fugge, si nasconde, obbliga al segreto i suoi amici. Si ritrova con loro ed entra mentre stavano "a porte chiuse": non vuole archi di trionfo, non ha soglie di millenni da varcare. E' lui "la porta" di una umanità senza casa, senza difesa, senza proprietà, senza diritto, senza terra.
Di quale edificio in costruzione è dunque pietra angolare il Cristo "scartato"? Di una chiesa impegnata a salvaguardare la propria visibilità sociale, "edificio" che rivendica la propria indipendenza territoriale, "città di Dio" costruita secondo i criteri della "città degli uomini"? I confini di questo "sacro" sembrano sempre più nudi di fronte agli occhi disincantati di chi, nella vita, si lascia coinvolgere da un autentico bisogno di "salvezza". Uomini e donne che si lasciano portar via da ogni esigenza di affermazione di centralità e si incontrano e si ritrovano nel "mucchio degli scartati" , nella fiducia che questo sia al centro dell' Amore di Dio, sembrano incarnare l'accoglienza della Parola e la fede che ne deriva. Immersi in quel nascondimento e in quel "segreto" che Gesù esprime nella sua povera avventura umana al di fuori di ogni importanza e, nello stesso tempo, così profondamente radicata nel cuore della vita del mondo.
19 gennaio 2000
chiesa di S. Andrea
Viareggio
Per il 19 gennaio anche quest'anno abbiamo voluto ricordare Beppe: era un atto di amore che ci sentivamo di offrirgli nel secondo anniversario della sua morte e insieme il bisogno di verificare se vi era ancora fra la gente il desiderio di raccogliersi nel suo nome. Solo dallo stare insieme potevamo capire in quale direzione muoverci, anche per il futuro.
La risposta è stata corale, spontanea, partecipata. Centinaia e centinaia di persone hanno percorso la via principale della darsena punteggiando la sera di luci; il Comune era presente con il gonfalone della città e con il sindaco, le associazioni con la presenza e le bandiere. Ci siamo ritrovati alla fine del percorso nell'ospitale chiesa di S. Andrea che ci ha accolto per il secondo anno. Lì abbiamo offerto a tutti la possibilità di ascoltare degli scritti di Beppe, alternati a dei canti e sottolineati da immagini proiettate.
Siamo convinti che dopo il periodo del dolore sia ora giunto il tempo della riflessione.
E' stato bello ritrovarci a lavorare insieme al gruppo che negli anni '70 ha portato in giro il teatro popolare scritto da Don Sirio, ne è venuto fuori un lavoro a più mani che ci ha visto impegnati insieme alla generazione più giovane. Anche questo è stato un piccolo dono che Beppe ci ha offerto.
Vi trascriviamo i testi per darvi la possibilità di assistere, seppure in differita..., alla nostra calda serata trascorsa insieme.
Maria Grazia Galimberti
Introduzione
Maria Grazia
Cari amici, un caldo ed affettuoso benvenuto a tutti voi: come vi ricorderete anche l'anno scorso ci siamo ritrovati in tanti, qui, nel nome di Don Beppe. Allora avevamo pensato di scandire il lungo pomeriggio dedicato a lui con una serie di gesti che erano altrettanti simboli della sua vita: la fiaccolata per le vie della città; la riunione in questa chiesa ospitale per scambiarci la memoria di un Beppe raccontata attraverso il filo del ricordo.
E infine, al termine della serata, lo spezzare insieme pane e companatico nella mensa dei poveri che è qui accanto. Quest'anno abbiamo scelto di iniziare con lo stesso gesto, la grande fiaccolata che ci ha condotti fin qui, ma proseguiremo in maniera
Non più un parlare di lui, ma tendere l'orecchio a quanto diceva. Pensiamo che sia giunto
il momento di metterci in ascolto delle sue parole: cominciare a ricordarle, a farcele risuonare cuore per lasciare che attecchiscano e mettano seme.
E' alle sue parole che è dedicata questa serata; sono tratte da articoli scritti da Beppe durante sua lunga collaborazione con 'Lotta come amore' , il giornalino che dalla fine degli anni '50 è la voce della Chiesetta del Porto.
Fu fondato da Don Sirio che allora compiva la sua esperienza operaia e trasfondeva in quelle brevi pagine il racconto delle ricerche e dei suoi ideali.
Da quando, nel '71, Don Luigi, Don Beppe ed io ci unimmo a esso divenne la voce della Comunità del Porto; dall'88, dopo la morte di Don Sirio, è Don Luigi che lo tira avanti.
Fra i tanti temi trattati lungo il corso degli anni, ne abbiamo scelti due: l'opposizione alla guerra e la ricerca della pace.
Ai suoi testi faranno da contrappunto (e come avrebbe potuto non esserlo?) le parole di Don Sirio attraverso i canti del suo glorioso teatro popolare.
Il coro che ci propone questi canti vede intrecciarsi le voci degli antichi teatranti degli anni '70, chiamati a raccolta da Franco Anichini, con quelle di persone più giovani: voci e strumenti del coro dei Sette Santi Fondatori e voci e strumenti degli Scout.
Le letture che vi offriremo avranno la voce recitante di Rodolfo Martinelli e di Luciana Madrigali. Le immagini che vedete sono state curate da Bianca Maria Scirè.
In questo nostro viaggio della memoria partiremo da immagini e parole 'forti', come forti, concrete sono state le sue azioni. Portati per mano da Beppe visiteremo insieme il 'corpo dei poveri' affaticato dalla dura lotta per la vita perché è da lì, dal rispetto per questi corpi, dal non volere accettare noi, i fortunati, quanto è loro toccato in sorte che inizia a costruirsi la pace.
Saremo poi condotti a considerare il loro corpo preso come ostaggio nei tempi bui della guerra.
Queste sono realtà alle quali talvolta vorremmo sfuggire, volgendo lo sguardo altrove. Ma dobbiamo avere invece il coraggio di scostare i veli dell'illusione per svelare la realtà, sostenendone la vista. Soprattutto noi che non siamo più così giovani, abbiamo imparato che solo dopo avere attraversato con animo forte la durezza del deserto possiamo arrivare oltre: nel regno di spazi più lievi, quelli del sogno e dell'utopia che avranno l'accento della sincerità, la sicurezza di chi ha compiuto una scelta irrevocabile (e non saranno passeggiate fra le nuvole) solo perché prima abbiamo visitato il dolore del mondo.
I° Parte
"Impressioni estive"
da Lotta come Amore, ottobre '96
Voce maschile
Fra le cose che questa estate mi hanno" impressionato", penetrandomi nell'anima con intensità e forza, vi è stata la lettura di una riflessione molto seria fatta da un prete, p. Julio Lancellotti, che vive in Brasile in mezzo alle persone più martoriate dalla violenza e dalla ingiustizia sociale. Egli parla della scoperta di un documento fondamentale da imparare a leggere molto attentamente per costruire una storia di salvezza, di dignità, di vera umanità.
Un documento che non è di papiro né di altro materiale, ma che è fatto dal "corpo magro, sfinito, assassinato, violentato, prostituito, nero, il corpo della donna e dei bambini che chiedono elemosine". Julio lo chiama, con un linguaggio davvero significativo, "il documento storico degli esclusi".
Dice "il corpo degli esclusi è il loro documento storico e dobbiamo imparare a leggere la loro storia a partire da questa realtà perché è l'unico documento che essi possiedono. Dobbiamo imparare addirittura a costruire la storia partendo dal loro corpo: noi lo consideriamo un documento sacro perché vi sta scritta tutta la storia dell'esclusione, della miseria, della tortura. Il documento storico degli esclusi è il loro corpo".
Voce femminile
Questi frammenti di pensiero mi hanno fatto riflettere molto, penetrandomi nell'anima, risvegliando antiche sensazioni ed emozioni. Mi sono tornate alla mente certe mani screpolate dal vento, dalla terra, dai lavori quotidiani. Certi volti solcati in profondità e segnati per sempre dalla fatica, dall'acqua e dal sole; certi corpi di uomini, donne e bambini che sono davvero un libro aperto, fra le cui pagine non è difficile scoprire il segreto di una vita.
Chissà perché mi è venuto spontaneo collegare immediatamente i frammenti straordinari dei papiri ritrovati dei primissimi tempi cristiani con i frammenti di una storia umana che scorre sotto i nostri occhi quotidianamente. Basta fermarsi un momento e volere acquistare il dono della vista: allora, senza neppure il bisogno di una lente di ingrandimento, né la conoscenza di lingue antiche, a tutti viene data la possibilità di decifrare il percorso di un' intera esistenza e da lì partire per costruire cammini di speranza.
Perché, come ci dice Julio Lancellotti, dalla lettura attenta e appassionata di questo speciale "documento storico" può nascere la speranza come forza di liberazione. Così egli scrive:
"a Sao Paulo noi chiamiamo la nostra speranza, speranza testarda, speranza che sussiste senza ragione apparente... è una speranza che marcia anche se ci tagliano i piedi... una speranza che vive anche se è colpita al cuore!".
Coro
"O popolo morto rialza la testa..."
O popolo morto rialza la testa
riaccendi il tuo cuore
a fiamma d'amore.
La morte non chiude la storia
e il rosso di sangue
non è rosso di sera
ma è porpora in cielo
d'aurora più bella.
O popolo morto ...
Venite compagni, venite
lasciate cadere ciò che divide
che impotenti e nemici
tutti ci rende.
don Sirio,
"Una fede che lotta", 1973
II° Parte
"Povero popolo... "
da Lotta come Amore, aprile '94
Maria Grazia
Ora, con un articolo del '94 intitolato 'povero popolo' entriamo nel vivo del rifiuto della guerra, tema nel quale Beppe si è sempre impegnato moltissimo. Lui parla della guerra in Bosnia, che allora era da poco cominciata, ma noi non potremo non sovrapporvi i ricordi di quella del Kossovo che l'anno scorso si è tragicamente riversata sui Balcani, lacerando la coscienza occidentale perché anche i nostri Paesi, ahimè, vi hanno partecipato usando a loro discolpa l'assurdo pretesto che lo faceva a scopi umanitari.
Voce maschile
Mi è impossibile, prendendo la penna in mano per scrivere il mio articolo per il giornalino, non raccogliere pensieri ed immagini che in questi mesi (e da tanto tempo, purtroppo) hanno accompagnato in modo amaro il cammino quotidiano.
Mi sono entrati nell'anima i volti di uomini e donne, bambini e gente di ogni età, che ogni tanto - anche se per pochi attimi - sono apparsi davanti ai miei occhi nei flash dei telegiornali o nei servizi dalla Bosnia. E' questo "povero popolo" martoriato, affamato, distrutto, di ogni gruppo etnico, di ogni città o villaggio che mi è penetrato dentro, fin nel midollo dell'anima.
San riapparsi dentro di me volti e immagini che porto impressi da quando ero bambino e la guerra era lì davanti a me, sopra di me, parte del mio vivere quotidiano. Sento una impotenza assoluta di fronte a questo assurdo massacro e mi penetra nell'anima come spada affilata questo povero popolo lacerato e diviso, costretto a scavare tombe nei giardini, nei campi sportivi, nelle strade, che sento penetrare. Povero popolo (che è quello di tutte le guerre) rinchiuso ancora una volta nei campi di concentramento, violentato nelle donne, dilaniato nelle carni dei suoi poveri morti in ogni angolo di quella terra che doveva essere bella e ricca di alberi, fiumi e vita...
Questa umanità, con il suo terribile carico di dolore davanti al quale non c'è possibilità di rassegnazione, non mi abbandona mai.
Anzi, da questa tragedia che ha sconvolto come un uragano la storia di una convivenza, mi è ancora più fiorita dentro l'anima la necessità e il bisogno di ribellione. Credo che questa parola esprima bene ciò che ho sentito e sento chiaramente nella profondità del mio essere.
Voce femminile
Dobbiamo cercare individualmente ed insieme di dare significato e valore alla realtà di una ribellione che metta radici dentro il cuore e si diffonda il più possibile come valore, come modo di vita, stile di partecipazione, forza propositiva di cambiamento. Ribellione alla guerra, alla cultura della guerra, all'idea del nemico: ribellione all'idea di una patria intesa come pezzo di terra da difendere col sangue e con la morte propria ed altrui. Ribellione morale, religiosa, culturale, politica e sociale all'idea della necessità ed inevitabilità della guerra. Una ribellione che possa condurre fino al traguardo di dichiarare la guerra un crimine in se stessa, un crimine di lesa umanità.
E ancora, ribellione alle leggi della morte violenta sul lavoro, alle ragioni dello sfruttamento economico che non guarda in faccia l'esigenza di sicurezza e di vita di chi deve guadagnarsi il pane quotidiano e ribellione alle ragioni dello sfruttamento politico-militare che ha fatto e continua a fare dell' esercito e della fabbricazione delle armi un 'motivo essenziale' per la vita di un popolo.
Ribellione, rifiuto, lotta contro una cultura dell'amor patrio' che trova ampio spazio sia nella realtà laica che in gran parte del mondo cristiano: sembra che nessuno abbia vera e sincera pietà per il 'povero popolo'.
Coro
"Ribellati o popolo... "
Ribellati o popolo alla legge di guerra
Lavati il sangue
che le mani ti macchia
Se vuoi che l'uomo
Che ti è vicino o lontano
Un nemico non sia
Ma ti stringa la mano
Ribellati o popolo se vuoi che Cristo
Se vuoi che Cristo ti senta fratello
E il Padre del cielo Ti consideri figlio
Se vuoi che un mattino
Un sole nuovo
Splenda nel mondo
Un'aurora di pace
don Sirio,
"Una fede che lotta", 1973
III° Parte
"Povero popolo"
(segue)
Maria Grazia
Continuiamo la lettura dello stesso articolo: il discorso di Beppe riprende e si allarga ad interrogare il senso della coscienza cristiana
Voce maschile
C'è una cosa che mi ha molto impressionato nelle dichiarazioni fatte in questi mesi di guerra: più volte le autorità religiose, cattoliche, ortodosse e mussulmane, hanno insistito nel dire che la guerra che ha lacerato la Bosnia non era guerra di religione.
Ma il problema per me è un altro: il fatto religioso, la propria fede, il riferimento personale e collettivo a Dio che significato hanno avuto in questo terribile sconvolgimento.
Ho cercato di interrogarmi sinceramente e a cuore aperto. Credo che il problema sia tutto nella capacità di una scelta religiosa fatta con cuore puro e sincero, di portare ad una immediata, radicale, totale ribellione contro la guerra.
Non basta che il Papa invochi la pace. Non basta il suo invito a fermarsi. Non basta il suo grido, né la sua sincera angoscia. Occorre una ribellione popolare, un rifiuto coraggioso, una cultura coerente con le ragioni del dialogo, dell' accoglienza e dello scambio, della diversità come valore.
Voce femminile
Bisogna maledire la guerra con la parola, ma nello stesso tempo occorre smilitarizzare il tessuto sociale, la struttura dello Stato, la stessa realtà ecclesiastica che dopo tutto ciò che è accaduto nella storia ha ancora il coraggio di mantenere in piedi la realtà dell'ordinariato militare (vescovo militare, cappellani militari, diocesi militare) e continua ad essere presente in modo perfettamente integrato in quella macchina da guerra che è per sua natura l'esercito.
Bisogna cambiare rotta, operare un cambiamento che incida nel concreto del meccanismo della guerra. Bisogna riuscire con infinita tenacia e pazienza, senza arrendersi e senza stancarsi, a costruire un modo di sentire e di pensare che rifiuti il concetto di una 'morte gloriosa' sui campi di battaglia, di 'eroi di guerra', di 'sacrificio necessario' .
Lavorare in profondità in modo quotidiano e fedele, per la crescita di un sentire comune, popolare, allargato, che costruisca il rifiuto della guerra e lo faccia diventare un modo primario di essere.
Nel duro inverno di tutta la tragedia bosniaca qualche fiore di speranza è spuntato, anche se a durissimo prezzo. Tutto il movimento ampio e diversificato dei volontari della pace (anche viareggini) che hanno condiviso in molti modi le terribili sofferenze del 'povero popolo' di quella terra straziata, rappresenta un motivo di grandi possibilità di cambiamento.
E' stato inventato un modo per ribellarsi alla logica della guerra, un movimento di rifiuto e di coraggiosa opposizione: da questa testimonianza, da questa lotta può nascere una primavera di pace.
Coro
"Venite fratelli"
Venite fratelli
ci sono parole
da gridare nel mondo.
Gridiamole insieme
e le ascolti tutta la terra.
Sono le parole di Cristo
e sono forza per noi.
Sono la nostra violenza
E' luce accesa nel buio
E' annuncio che scuote la terra.
Venite fratelli...
Venite fratelli gridiamo
ciò che Cristo ha gridato
Benedite ciò che lui
ha benedetto
Maledite ciò che lui
ha maledetto
L'amore benedite
E l'odio maledite.
don Sirio,
"Una fede che lotta", 1973
IV° Parte
"La vita è sogno"
da Lotta come Amore, agosto '94
Maria Grazia
Passiamo ora a un ricordo lieve che ci traghetterà dalla pace come lotta, alla pace come utopia possibile. Sì, possibile, perché credere in questa utopia è l'unica possibilità che abbiamo di capovolgere l'andamento della storia. Se vi crediamo possiamo farcela, trasformando le nostre spade e le nostre lance in falci ed aratri capaci di sfamare i popoli e riportare equità nella grande ingiustizia della distribuzione impari delle risorse della terra.
In questo articolo, dell' agosto '96, Beppe ricorda un libro "La vita è sogno" di Calderon de la Barca, letto in gioventù, il cui titolo gli riaffiora alla mente insistentemente mentre legge un altro libro le cui immagini e le cui parole lo conquistano.
Si tratta del "Libro della pace" di B. Benson, arricchito dai disegni dell'autore. Il canto che seguirà non è più tratto dal teatro di don Sirio, viene cantato spesso nella chiesa dei Sette Santi Fondatori e Don Beppe lo amava molto.
Voce maschile
Il sogno è fratello gemello dell'utopia: insieme possono alimentare dentro al cuore la speranza mai del tutto sconfitta che le relazioni umane - e quindi la Vita - non siano costruite da rapporti di forza del più forte sul più debole, ma da rapporti costruiti sull'amore reciproco, sul riconoscimento del grande valore della differenza fra tutte le creature che popolano la Terra. Per cui essere diversi per razza, lingua, cultura potrebbe significare arricchimento vicendevole, completamento reciproco, gioia di contemplare la variopinta sovrabbondanza della creazione.
Il "Libro della Pace" del fisico e filosofo Bernard Benson mi ha aiutato a non abbandonare il sogno nascosto da tanto tempo nella mia anima. Vi si racconta che "il ragazzino del libro della Pace, crescendo, ha intrapreso un compito nuovo, ancora più difficile del primo... perché, come regalo di compleanno ai bambini per l'anno 2000, si appresta in un solo colpo a liberare dalle armi il mondo intero."
Il sogno e l'utopia di Benson, affidati alle accorate e fragili proposte del figlio della sua mente e del suo cuore, possono essere spazzate via da un semplice sorriso che valuta le cose realisticamente. Oppure acquistare l'energia positiva dirompente della fiamma ossidrica che con la sua luce concentrata riesce a perforare alti strati di dura lamiera.
Per chi crede nella necessità di liberarsi dal mostro della guerra, occorre credere all'utopia
dell'impossibile di Benson che dimostra in maniera scientifica e poetica che l'impossibile può diventare possibile se si possiede un cuore limpido e generoso.
Il suo ragazzino è nello stesso tempo immagine di ciascuno di noi e di tutti noi insieme: è importante dargli pieno credito e cercare di mettersi in cammino verso la direzione indicata.
Voce femminile
Questo libro è come una grande parabola laica e moderna di tutto l'antico messaggio dei profeti di Israele "non impareranno più il mestiere della guerra" e di ciò che Gesù ha racchiuso nelle famose parole senza inganni e senza equivoci "amate i vostri nemici".
Questi antichi messaggi che provengono dal cuore stesso di Dio, attraversano con la forza del sogno la notte della storia umana abitata dalla cruda e spietata realtà della guerra e ne propongono il coraggioso e deciso ripudio.
Anche il messaggio di coloro che quasi 50 anni fa stipularono il nostro patto costituzionale stabilisce nell'articolo 11 che "l'Italia ripudia la guerra... ": parole che racchiudono il sogno e l'utopia di uomini e donne segnati a fuoco dall'esperienza di una guerra terribile e lacerante. La via da percorrere ha certamente bisogno di questi due straordinari compagni di viaggio, il sogno e l'utopia, che ci indicano l'urgenza del disarmo totale come meta storica raggiungibile.
Certamente bisogna disarmare per primi la mente e il cuore, ma perché ciò sia credibile e visibile occorre costruire una vera "forza disarmata di pace" formata da uomini e donne che non facciano più affidamento sulla potenza distruttiva delle armi. Un esercito di pace pronto a calarsi dentro il dramma della fame, delle malattie, del bisogno di istruzione, di cibo, di condizioni di vita disumanizzanti. Sogno indubbiamente formidabile "Certamente non era facile - conclude il piccolo protagonista - le cose importanti raramente sono facili, ma era POSSIBILE".
La parabola laica di Bernard Benson, dedicatosi a seminare forti semi di pace, interpella la coscienza degli uomini e delle donne che vogliono tradurre in realtà storica il suo stimolante "progetto 2000" per calarlo dentro gli spazi della cultura, della politica, dell'economia ed anche della visione religiosa cristiana tuttora ancorata fortemente a quell'assurdo ed antievangelico connubio fra croce e spada che dura da circa 16 secoli. Forse è proprio il tempo di cambiare la strada, tutti insieme!
Coro
"Seminare la pace"
Senti il cuore della tua città
batte nella notte intorno a te,
sembra una canzone muta che
cerca un'alba di serenità.
Semina la pace e tu vedrai
che la tua speranza rivivrà;
spine tra le mani piangerai,
ma un mondo nuovo nascerà.
Sì, nascerà
il mondo della pace;
di guerra
non si parlerà mai più.
La pace è un dono
che la vita ci darà,
un sogno che
si avvererà.
Conclusione
Maria Grazia
Cari amici, cosa dire ancora che non ci distragga dal valore delle parole di Beppe che abbiamo appena ascoltato... le sue parole che ci sono care e ci hanno tante volte illuminato il cammino e scaldato il cuore perché erano vita.
Sì, perché credo che di questo siamo tutti ben consapevoli, il loro valore sta proprio in questo: dietro di esse c'era un cuore che si spendeva veramente, un corpo che non si risparmiava, una realtà calda e forte. Era questo che ci conquistava, per questo potevamo affidarci a lui,
sentirlo compagno di cammino, fratello maggiore che ci precede. ... Questo uomo semplice che non ha ceduto, non si è modernizzato, non si è convertito all'immagine patinata del successo, che è rimasto con i piedi per terra, attento a chi era intorno ed accanto a lui. Tutti suoi figli, tutti suoi fratelli purché umili, purché autentici. E sull'autenticità vorrei soffermarmi un momento perché penso che sia qualcosa simile a un marchio doc che lo ha contraddistinto. Beppe aveva una straordinaria capacità di mettersi in sintonia con la scintilla di autenticità che abita in tutti noi e da lì, da quell'incontro, costruiva la relazione. Credo che sia questo il motivo per cui la frase tipica che sentiamo pronunciare così spesso quando si parla di lui, è: "con lui avevo un rapporto speciale".
Un'altra caratteristica da ricordare è il suo senso dell'umorismo, unito a tanta schiettezza fiorentina, tanto fiorire di battute che rendevano più lieve la vita.
L'anno scorso, per il suo primo anniversario, cercavo con Luigi delle parole per raccontarlo (avevamo in mente di fare un cartellone) Erano venute fuori queste immagini che ci sembrava potessero ben rappresentare la sua vita e che mi fa piacere riproporvi:
- essere un pane per lasciarsi mangiare e sparire nella vita;
- una fontana sulla pubblica piazza, mai stanca di zampillare;
- un fragile filo di paglia che trova la sua robustezza nel lasciarsi unire a tanti fili fratelli;
- del buon letame, umile vivo e fumante dal quale nasce la vita nuova
(...ricordate le parole di D'André "dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fior?")
Abbiamo scelto questa immagine di un contadino dipinto nell'atto di spargere il seme perché ci ha ricordato Don Beppe. Quanto ne ha sparso... a piene mani e generosamente, ovunque andasse, ma soprattutto - e ne siamo orgogliosi e ne sentiamo la responsabilità - qui a Viareggio dove ha vissuto a lungo. Ci sono ormai dei semi buoni di Beppe che vivono con noi, impastati dentro la realtà, pronti a dare frutti. Basta solo riconoscerli, ascoltarli, fare loro posto. Attecchiranno... quando e dove appartiene al mistero della Vita. Vorrei chiedervi di fare un patto questa sera fra di noi, ma anche ciascuno dentro di sé: ovunque vediamo qualcosa che ci sembra un suo seme promettiamo di custodirlo, di aiutarlo, di non voltarci in là con indifferenza, di zappettare il terreno intorno e tenerlo pulito, aiutandolo a mettere radici e crescere.
Vorrei nominarvi alcuni dei suoi semi buoni per aiutarci a riconoscerli e poterceli scambiare:
- l'attenzione ai piccoli;
- il gusto della vita;
- il gusto delle cose semplici,
- il piacere della manualità,
- il senso dell'allegra semplicità della vita,
- il non farsi distrarre dalle sirene del mondo,
- lo stare qui ed ora (un altro dei suoi marchi doc)
- il fare giustizia ( ... ciò che farete ai più piccoli sarà fatto a me) qui ed ora, (giustizia non come sogno ma come realtà)
- l'ostinazione del bene,
- la testardaggine a tutta prova,
- la lotta contro i mulini a vento (quanto bisogno abbiamo di chi sogna a nome di tutti),
- la rivoluzione quotidiana.
Ecco, siamo giunti alla fine, fra poco il coro canterà "We shall overcome" una bellissima canzone che conosciamo un po' tutti e perciò cantiamola insieme! Poi a poco a poco ci saluteremo e sciogliendoci ci avvieremo verso casa.
Ma stasera andremo via, io credo, con una certezza nel cuore: intorno a noi esistono i semi buoni di don Beppe, sono pronti a nascere (ricordate il nostro patto?) aspettano solo la nostra disponibilità materna e patema per vivere. E allora, come ha detto tante volte don Beppe: buona navigazione a tutti!
Coro
"We shall overcome"
We shall overcome,
we shall overcome,
we shall overcome, some day
Oh deep in my heart, I do believe
we shall overcome, some day
We are marchin' on,
we are marchin' on,
we are marchin' on, today
Oh deep in my heart, I do believe
we shall overcome, some day
Black and white together,
black and white together,
some day
Oh deep in my heart, I do believe
we shall overcome, some day
We are not afraid,
we are not afraid,
we are not afraid, today
Oh deep in my heart, I do believe
we shall overcome, some day
We'll walk hand in hand,
we'll walk hand in hand,
we'll walk hand in hand, some day
Oh deep in my heart, I do believe
we shall overcome, some day
We shall live in peace,
we shall live in peace,
we shall live in peace, some day
Oh deep in my heart, I do believe
we shall overcome, some day
E allora, come ha detto tante volte don Beppe:
buona navigazione a tutti!
Dio vuole che noi cantiamo Alleluja e lo cantiamo nella verità del cuore, senza stonature in colui che canta.
Cantiamo Alleluja, fratelli, con la voce e con la vita, con la bocca e con il cuore. Questo è l'Alleluja gradito al Signore.
O felici Alleluja del cielo!
Qui cantiamo Alleluja, ma lo cantiamo nell'affanno e nel travaglio, lassù lo canteremo nella pace.
Qui lo cantiamo nella tentazione e nei pericoli, nella lotta e nell' angoscia, lassù lo canteremo nella sicurezza e nella comunione vera.
O felici Alleluja del cielo, dove non ci sarà più né angoscia né discordia, dove non ci sarà più nessun nemico, dove non perirà più alcun amico. Lassù canteremo Alleluja ed anche quaggiù cantiamo Alleiuja.
Ma qui lo cantiamo nella preoccupazione, lassù nella pace sicura.
Qui come morituri, lassù vivi per sempre.
Qui nella speranza, lassù nel possesso raggiunto.
Qui l'Alleluja della strada, lassù l'Alleluja della patria
Cantiamo dunque fratelli, cantiamo Alleluja: non per indurre al riposo, ma per alleviare la fatica. Canta come cantano i viandanti: canta e cammina! Non per cullare l'inerzia, ma per sostenere lo sforzo. Canta e cammina!
Cantando avanza: avanza nel bene, avanza nella fede retta, avanza nella vita pura.
Senza smarrirti, senza indietreggiare, senza fermarti:
Canta e cammina!
S. Agostino
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455