LOTTA COME AMORE: LcA febbraio 1999

Acqua, cielo e terra

Negli ultimi giorni del 1998, ho raccolto in questo numero di Lotta come Amore contributi di amici che fecondano questa terra di vita e di umanità in diverse parti del mondo.
Mi pare che siano significativi di una resistenza attiva che - anche nelle pieghe più amare di storie di popoli che sembrano destinati alla tragedia -, sa esprimere tanto amore appassionato per la fatica gioiosa di essere donne e uomini in questo nostro tempo.
E' forse questo che spinge un buon numero di lettori (di amici, prima di tutto, anche se il loro volto mi è spesso sconosciuto) a scrivere poche righe, ma significative o a lasciare caldi messaggi in segreteria telefonica. Invitando a continuare questa modesta fatica dello scrivere ed inviare quelli che Beppe chiamava "pensieri positivi". Orme di vita vissuta, orme a volte profonde per i pesi di cui si è caricati, ma sulle quali ciascuno può misurare e appoggiare il proprio passo senza sentirsi solo, ma confortato da un cammino comune. Almeno nelle aspirazioni, nei desideri, nei sogni...
L'anno appena trascorso ci ha visto coinvolti in alcuni eventi che hanno contribuito al vivo ricordo di don Sirio a dieci anni dalla sua morte. Il più significativo è stato la commemorazione fatta nel febbraio scorso dal Comune, in un Consiglio comunale aperto, ne cantiere dove Sirio aveva lavorato più a lungo Il SEC, che da alcuni anni vive vicende travagliate a seguito di ricorrenti tentativi della proprietà di trasferire la produzione per indirizzare le ampie concessioni demaniali ottenute a tal fine verso indirizzi turistici per loro ben più remunerativi.
Tra gli "oratori ufficiali" anche Martino Morganti, francescano, da una vita ormai a Livorno. Studioso da sempre. Operaio per lunghi anni, ora in pensione. Pubblichiamo il suo intervento, lucido e significativo. Lo facciamo ora con un calore tutto particolare e tanto, tanto affetto avendo saputo che Martino sta lottando contro un male che lo invade. E cl la sua interessante intuizione di una sopravvivenza di Sirio a seguito di un "trapianto" di pensieri, convinzioni, orientamenti, sollecitazioni, sia per Martino - I parte nostra - un fraterno fiducioso forte abbraccio ed augurio.
L'ultimo degli avvenimenti commemorativi è stata l'intitolazione a Sirio - sempre da parte d Comune -, dello slargo tra le due darsene antistante alla Chiesetta. In quell'occasione, a metà dello scorso novembre, Maria Grazia ha offerto una testimonianza del legame intenso tra Sirio e quel luogo a lui ora intitolato: "Eravamo nel febbraio del '63, periodo del carnevale. Io, ventenne, venivo per la prima volta a Viareggio, per conoscere don Sirio. Avevo letto il suo primo libro 'Una zolla di terra', lo avevo contattato e lui mi aveva invitato a venire a trovarlo.
Era venuto a prendermi alla stazione con la sua amata R4 verdebottiglia. Quando imboccammo la via Coppino, mi disse in maniera solenne: 'Qui entriamo in darsena'. Ed io occhiavo in giro... lo specchio della darsena Lucca, le sue piccole imbarcazioni, la Torre Matilde in lontananza e poi, più avanti, l'inizio della darsena Toscana affollata di cantieri e pescherecci. Arrivati all'altezza della garitta della Finanza, Sirio disse (mi pare ancora di udirlo con quel tono tutto suo, un po' orgoglioso, un po' baldanzoso): "Da qui si entra nel mio regno". E ci inoltrammo nel largo spazio che porta alla chiesetta, dove ora siamo raccolti.
Sì, è stato proprio il suo regno, il suo sigillo, il segno che ha posto in questo mondo: l'abitare qui fra acqua, cielo e terra... la chiesetta e la casa, il lavoro e lo Spirito, la pace e la lotta".
E' appena tramontato questo decimo anniversario della morte di Sirio e già siamo a ricordare il primo anniversario della morte di Beppe. Questo avvenimento ancora incredibile, difficile da accettare data la forza, la vivacità di Beppe che dovunque arrivava coloriva e scaldava l'aria e il cuore. Quella stupefacente magia di uno 'gnomo' buono e benefico dalla barba arricciata, il cappello rosso in testa e gli occhi sempre sorridenti. Mai immobile, prima di quel triste 19 gennaio 1998 quando la morte lo restituì alla sua altezza di uomo impastato dalla vita.
Lo ricordiamo nella messa parrocchiale della domenica per incontrarci poi il giorno anniversario e percorrere le vie della città con una fiaccolata per lui e con lui a cercare di continuare a sognare e cercare pace.
Quindi, nella grande chiesa di S.Andrea in città, Renzo Fanfani preteoperaio introdurrà una memoria viva di Beppe che sarà arricchita da interventi dei partecipanti. Per terminare poi con una cena conviviale aperta a tutti.
Una festa, nella commozione che mette insieme lacrime e sorrisi e ammorbidisce il cuore rendendolo permeabile allo spirito forte delle speranza e della voglia di vita.
In questo anno, per me sono cambiate tante cose. Sono contento di ritrovarmi ora con qualche energia e con una fiaschetta piena di serenità alla quale attingere di tanto in tanto. Mi rendo conto che la morte di Beppe con cui dividevo la casa e la vita da dieci anni a questa parte, mi ha portato allo scoperto. In tanti sensi. Succede che in una vita di coppia (la nostra, strana che potesse essere e sembrare era - tutto sommato - una vita a due, uno strano impasto di due singoli estremamente diversi tra loro) si creino, in modo quasi automatico, dei ruoli e quindi una mai contrattata, ma non per questo meno netta, divisione di compiti.
Così, ad esempio, io mi cullavo nel fatto che Beppe era l'uomo della relazione facile, capace di parlare con tutti, di intessere e sciogliere i nodi della vita pubblica, sia nella dimensione quotidiana del lavoro che nella vita di chiesa Ma non solo.
Mi sento ora come se avessi subito una operazione chirurgica con la conseguente asportazione di una parte molto importante d miei organi vitali e sensoriali.
Per me, tagliato con l'accetta e felice di nascondermi per anni dietro la figura inavvicinabile dell'uomo del ferro, nero di carbone e sempre con qualcosa di incandescente in mano, la mancanza di Beppe è come aver perso la voce per comunicare e le mani per stringerne altre.
So che è voce comune che chi perde uno dei sensi, riceve una compensazione negli altri sensi residui che cercano di supplire. Non so ancora cosa si svilupperà in me per compensare, in qualche misura, questo inatteso e grave handicap. Forse solo la consapevolezza di accoglierne l'inevitabile limite.

Luigi

La posta di fratel Arturo

Cari amici italiani, il 25 settembre sono tornato in sede dal mio soggiorno italiano. Svolgo nella memoria in un processo lento la successione rapida di luoghi, di esperienze, d'incontri: Maguzzano, la Sicilia, Champoluc, Spello, l'incontro così pieno di emozione con i fratelli di Europa in Belgio. E l'incontro di Trevi con amici con cui riallacciare dialoghi che la lontananza non ha interrotto; qui ritrovo l'ambiente per rielaborare idee, impressioni, ricordi. Penso che questo ritorno in Italia - anche con la sua buona percentuale di fatica -, mi offre delle esperienze che mi aiutano a seguire le cronache del regno.
Il tipo di vita che svolgo qui sta presentando dei ritocchi notevoli. La mia massima preoccupazione, l'amministrazione della casa di Boa Esperança, con tutte le iniziative di assistenza e di promozione, sono ormai affidate a brasiliani. La "casa amarela" conosciuta dal suo colore giallo, e AFA (Associaçao fraternàl e de aliança) sono in buone mani, e io posso dedicarmi all'attività che mi è più congeniale, nella pace del mio domicilio campestre.
Non sono del tutto separato da Boa Esperança, dalla favela e dall'impegno liturgico. Vi tomo secondo le necessità, ma sollevato di un peso assai importante per me, che sono capace di perdere il sonno per aver dimenticato di saldare un debito di cinque dollari. Ognuno ha la sua "ghianda" e io trovo sempre più la mia. La nostra pace interiore non è solamente il frutto della relazione con Dio; è anche la conseguenza di fare quello che siamo nati a fare.
Credo di seguire un'ispirazione che mi viene dall'AMICO e vorrei dire, se non fosse poco gentile, mi perseguita da vario tempo.
Come sapete da informazioni, l'America latina in questi tempi è esposta a un intensissimo proselitismo di diversi culti cristiani (chiamarle sette è peggiorativo, è appunto poco cristiano). Nel circondario limitato di Boa Esperança sono in funzione cinque cappelle contro una cattolica. Il processo di smantellamento del cattolicesimo è comune a tutto l'occidente cristiano, presentando diversi aspetti. Negli ambienti dove la cultura industriale e urbana è più radicata, è più frequente l'uscita verso pratiche di meditazione, o quelle che si riassumono sotto il titolo "new age". Qui in America latina sono più diffuse le pratiche pentecostali, più semplici e vicine al popolo. La chiesa cattolica pare non considerare queste diversità del fenomeno certamente preoccupante. Reagisce con un metodo unico, reputandolo valevole per tutto l'orbe cattolico. Il rigorismo dottrinale, una accentuazione dell'ortodossia, il che in pratica diventa una intensificazione della catechesi per tutte le età, e una scrupolosa vigilanza sugli scritti dei teologi, con le conseguenti condanne. L'aspetto affettivo della reazione, diretto a colpire l'immaginario religioso, sarebbe coperto da progetti fastosi, cerimoniali a imitazione degli shows che tanto piacciono ai giovani e ai non giovani, che entrano nel progetto-giubileo.
Non so se questa reazione è producente nel cosiddetto primo mondo. Non lo è sicuramente né qui in Brasile, né più in generale in America latina. L'intensificazione catechetica o catecumenale giunge qui come un progetto di spiritualità intransigente, separatista, culturalmente definita e fissata nella cultura del primo mondo.
Ho accentuato la separazione di quelli che dovrebbero essere i responsabili, dalla parte popolare più debole e indifesa. Qui dove si presentava l'urgenza massima di una religione di integrazione, è arrivata una religione di accentuata separazione. Era inevitabile che si aprisse la breccia pentecostale. Il popolo, orfano, abbandonato da quelli che hanno il potere politico e dai nuovi santi, liberati dalle responsabilità verso i fratelli, trova in questi culti sollievo alle sue sofferenze sempre più profonde e il conforto di sentire che qualcuno viene a trovarlo in nome di Dio.
Prendete il tempo di leggere il capitolo sette di Marco, dove si parla di un certo metodo Korbàn; applicatelo a questi neocattolici di cravatta. Questi sacralizzando le forme di amore che dovrebbero prestare ai fratelli poveri, si lavano splendidamente le mani della loro esistenza. Poi organizzano congressi per studiare il fenomeno protestante in America latina e la conclusione è l'istruzione carente.

Non diranno mai: manca l'amore. Eppure Gesù ha denunziato sotto le diverse forme di fariseismo una mancanza di amore.
Mi sono incontrato con due giovani brasiliani che vivono in comunità, seguendo una regola evangelica. In questi ultimi mesi abbiamo chiarito con la corrispondenza il progetto nato in un incontro, di formare un centro di spiritualità dove preparare i giovani alla "responsabilità" verso gli altri, e soprattutto verso i coetanei. Alla mia morte vorrei lasciare qualcuno capace di mettere dinamiche di amore nel suo popolo, come contribuzione al "venga il tuo regno" che non è vera preghiera se non è vero impegno. Voglio chiarire che è lontana, lontanissima da me l'idea di formare una congregazione religiosa contemplata in uno qualunque degli articoli del diritto canonico.
Il centro del mio pensiero è il popolo orfano. Vogliamo sentirci della chiesa cattolica, ma siamo rivolti verso il regno più che verso la chiesa. Gesù mandò i 72 discepoli "davanti a sé", lungi, oltre, verso. Molto spesso le congregazioni religiose partono e poi tornano, chiudono la porta e si mettono a sedere e allora si dedicano alla casa. E questa è l'origine degli elefanti bianchi disseminati in terra cristiana e anche fuori...
Qualcuno di voi esclamerà: "Alla sua età, pensare qualcosa di nuovo?". Rispondo con le parole di Paolo che Dio sceglie sempre le cose che non sono, cioè quelle che prudentemente non sarebbero scelte. Poi vi faccio notare che la mia intenzione non è di "metter su casa", anche se un tetto ci vuole, ma di andare verso gli altri. Gesù mi dice che la sua tattica è farsi accogliere. E' stato il tema che quest'anno ho cercato di martellare a Trevi.
Sul tema "casa" vi racconto una bella storia... Quattro amici livornesi, Rolando (diacono e capomastro?) e Carla (moglie), Italo (parroco) e Ottorino (falegname), conoscendo Boa Esperança o direttamente o per riferimento, hanno concepito il progetto di un corso per saldatori, raccogliendo offerte di parrocchiani generosi.
Nonostante numerosi scambi di telefonate, fax, e-mail, all'arrivo non hanno trovato né locale, né alunni per iniziare il corso. Ciò era dovuto a un cambio rivoluzionario e alla nuova presidenza di AFA che non era in condizione d assumere gli impegni di quella scaduta.
Il mio compito è stato quello di andare a riprendere i fili per ricomporre quello che era successo nel passato. E' stato opportuno anche per chiarire molte cose. In questo spazio è avvenuto uno di quei fatti che Rilke chiama storie del buon Dio.
Il progetto "centro di spiritualità" comprendeva la costruzione di una casa in ferro e legno nella favela, come parte pratica del corso. Una mattina all'ora della contemplazione, ho sentite la voce "sono arrivati i costruttori del centro di spiritualità". Ed eccoli lì a lavorare da diversi giorni a costruire il centro. Solo la pioggia e il diritto di Dio al settimo giorno, concede loro riposo. Confesso che non mi sento molto comodo, stando nella mia deliziosa solitudine, mentre mi arriva il rumore degli strumenti che indicano uomini al lavoro. Poi penso che "molte sono le mansioni nella casa del Padre". Importante è assumerle e portarle avanti con responsabilità. A chi non è abituato alle decisioni improvvise dello Spirito, capricciose come il vento stando all'immagine biblica, riesce difficile accoglierle e comprenderle. Ho riflettuto su questo cambio di programma e mi è parso straordinariamente opportuno pensando all'effetto che avrebbe prodotto questa organizzazione di lavoro con una tecnica inaccessibile per chi vive in una baracca. Spesso da lontano è difficile pensare a questi sfasamenti che hanno causato dei danni profondi ai paesi definiti "in via di sviluppo". Sto rileggendo per la terza volta "L' occidentalizzazione del mondo" di Serge Latouche, utilissimo per chi vuol documentarsi sul male che ha fatto l'occidente cristiano credendo di costruire il miglior mondo possibile.
Vi vedo davanti a me e vi abbraccio uno a uno.
Fratello Arturo Paoli
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Stamani ho innaffiato la rosa

Stamane ho innaffiato la rosa.
E' la notizia, la sola importante che, secondo Saint Exupery, i giardinieri amici, lontani nello spazio, vicini nella fedeltà feriale, sentivano il bisogno di comunicarsi.
Innaffiare la rosa. Fanno tutte cosi le persone povere, giuste. Giorno dopo giorno, obbediscono alle esigenze del vivere, non fanno violenza alle cose e alloro farsi, coltivano il coraggio della speranza.
Fare le cose a modo umano è il loro stile di affrontare il mestiere di vivere, di dare domani alla tradizione ereditata dagli anziani che hanno reso ospitali le dimore, le vie, i borghi in cui vivono le loro giornate.
Sono persone dell'appartenenza, hanno tutte lo stesso nome: umane. Nessuna di loro è onnipotente, nessuna impotente, nessuna isolata. Ognuna è saldamente solidale e, nei limiti delle sue possibilità, si fa carico, senza ingiurie e senza lamentele, della realtà che anche quando è propria, non cessa di appartenere a tutti. Ognuna tra tornanti aspri e tortuosi, dentro scenari inediti, superficialmente uguali e sempre nuovi, diversi, tesse la trama seria, onesta, armonica che associa l'oggi al domani.
Queste persone popolano le case dove la vita cresce e muore, non riempiono le pagine dei giornali, non figurano nelle rubriche televisive, i loro nomi sono memoria e profezia. Le si incontra pacificate e pacificanti quando si vive nella realtà e nell'ambiente con solidarietà amica, con condivisione spontanea.
Hanno un uguale rispetto delle cose sia quando lavorano per mare, sia quando coltivano i campi, sia quando puliscono casa. Sono ospitali e accoglienti, condividono ciò di cui vivono, non si negano al bisogno, avanzano nel cammino, non hanno paura di essere sole e non ostacolano l'avanzare di altri.
Sono persone che vivono con compostezza le condizioni le più strane, ammirano compiaciute la realtà lavorata bene, pagano il prezzo della libertà di cui fruiscono. Come barche a vela che avanzano nella direzione giusta, non fanno pesare il loro avanzare. Loro sollecitudine è lavorare con frutto e vivere contenti. Sanno poco di Dio ma sono la dimora Sua, non hanno bisogno di tante parole per dialogare con Lui cosi come non ne usano molte per dirsi che si amano, vivono l'amore non lo dicono. Il rapporto con gli altri, con l'Altro, non è un evento a se stante, non ha tempo e spazio distinti, ogni tempo è tempo e ogni luogo è luogo, per respirare, per vedere, per pensare, implorare, ringraziare. Non vivono per cercare Dio, appartengono a Lui nella vita che vivono. Dio è ignoto ma è Dio, l'ignoranza è in loro ma non è il tutto della realtà in cui sono, vivono, si muovono. Non credo che questa visione delle cose sia frutto di incapacità di guardare la realtà ad occhi aperti o di proiezione romantica. Penso invece che, riconoscere che le persone che vivono del proprio lavoro, che ne sono contente, esistono e sono seme e segno di speranza, è consentire alla verità secondo cui l'operare giusto rende bella, amica, la realtà e l'umanità che l'abita.
Sono tanti a pensare che questa dimensione di realtà sia in calo, a picco. Non so, in ogni caso non lo credo. So che le persone che vivono nella pace non sono isolate, sanno riconoscere, ammirare quelle che solidarizzano, penano per quelle che si fanno male per ingiustizia, vogliono che anche esse si arrendano alla verità della condizione umana.
Il futuro umano della storia non è frutto di calcoli, di soprusi, di sfruttamento; non è l'opera dei Golia che dileggiano gli inermi; nasce dalle persone povere che si fanno carico delle situazioni violentate dall'ingiustizia, pagano personalmente il costo per ripararle, per aggiustarle.
Come avviene che tante persone vivono in modo dissociato la propria condizione umana mentre altre più semplici per quanto può apparire sono più unificate? Penso che quando si vive una professione, si finisce con l'avere una personalità burocrate la quale si sente legittimata dal comportarsi in modo diverso quando è fuori del contesto del proprio servizio o quando è fuori del proprio ambiente.
La rettitudine che rende buone le persone non si sviluppa a lato di quello che fanno; inerisce alle opere che realizzano e che sono fatte bene, per l'onesto guadagno; si accompagna al lavoro compiuto bene, ai rapporti che si costruiscono, a quelli che si rigenerano anche se con fatica, alle relazioni che si cerca di disintossicare.
Coloro che anche se poche volte sono riusciti a sintonizzarsi con lo sguardo amico di queste persone ne riconoscono la rettitudine. Esse non hanno bisogno di segni e investigazioni straordinarie per riconoscere la sofferenza nel povero, nell' ammalato, nel prigioniero, nell'affamato e nel senza casa. Non temono di essere coinvolte da coloro che soffrono nella ferialità del vivere. Ogni mattina riprendono il cammino, e a volte passano ore da pendolari nei mezzi che le portano al lavoro. Le si incontra ovunque, negli Ospedali, sulle strade, accanto agli handicappati, nei luoghi i più disparati. Ovunque fanno lo stesso mestiere, rendono vivibile il quotidiano. Scrivo e penso a te mamma, pallida come la tua camicia, sempre sorridente. Ti incontro al mattino, quando accompagni tuo figlio, gravemente spastico, in carrozzella, alla università per fargli seguire le lezioni. Ti nutri della serenità che coltivi in lui, riveli ciò che rende materna ogni esistenza donata. Ci si sorride e ci si capisce.
Penso a te, padre. La sofferenza ti si legge su volto. Non riesci a darti ragione perché tuo figlio ti è stato sottratto dalla malattia. Mostri che sono veri i legami dell'amore, che sono forti, che è terribile, angosciante non saper rispondere ad un bambino che continua a dir 'papà, bua' . Per te la sua scomparsa di un figlio non è un liberazione, è la fonte di una sofferenza senza limite anche se non ti impedisce di continuare ad operare per rendere felice l'altra tua creatura e serena la casa.
Penso a te donna e uomo che le inventi tutte per rendere gioiosa la vita che cresce, la vita che è nata da te e quella che non sai da chi è nata.
Penso a te, a voi, a tutte le persone giuste e amiche, di qualsiasi età, condizione, colore, cultura, religione, che affrontate il lavoro quotidiano con spontaneità e competenza. Camminando con voi si fa l'apprendistato della semplicità feriale, si impara a fare bene il proprio mestiere, a non barare con il lavoro e con le responsabilità.
Grazie, donne e uomini che nutrite il coraggio di esistere, che fate anche di questo nostro un tempo di speranza.

p. Dalmazio Mongillo

Gli insegnamenti del nonno Beppe

Martedì 1/12/1998
Salve a tutti: sono Luna, una delle "nipoti" di don Beppe; sono la figlia di Jenni.
Era tanto che volevo scrivere questa lettera, ma all'inizio era troppo duro provarci.
Lo è anche adesso, molto.
E' il primo Natale che passo senza Beppe, anzi senza il nonno. E' il primo Natale che passerò senza i suoi auguri; sarà difficile ancora di più di quanto è stato difficile passare un compleanno senza di lui. A volte penso che non c'è più, ma poi guardando mamma mi rendo conto che il nonno c'è ancora, vive nel mio cuore, vive nei miei ricordi.
Mi ricordo che circa 7 anni fa io iniziai la scuola. Per me era difficile imparare a leggere e lui quando arrivò a trovarmi, mi portò un libro e su quel libro mi insegnò a leggere. Poi però, dopo pochi giorni, dovette tornare a Viareggio, ma quando la maestra mi interrogò io presi il voto più bello. E quando lo dissi al nonno lui scoppiò dalla gioia.
Ma c'è una cosa che il nonno faceva e mi piaceva tanto: mi chiamava "ragazza saggia", perché ogni promessa che io facevo, la mantenevo. Persino quando gli promisi di svegliarlo alle 6.00 lo feci. Ma il problema era che il giorno prima lo avevo fatto impazzire, lo avevo portato in giro per tutto il paese, lo avevo fatto giocare a pallavolo, lo avevo implorato di spingermi sull' altalena per quasi 2 ore, quindi il mattino era stanco morto, ma si alzò e dopo essersi preparato mi fece giocare.
lo chiedo una sola cosa a tutti gli amici del nonno: non abbattetevi mai, anche quando le cose si faranno difficili, anche quando la vita con lo scopo di aiutare gli altri si farà troppo dura. Andate avanti con le vostre idee e non abbiate paura di dire che avete bisogno di aiuto.
Questi sono gli insegnamenti del nonno Beppe - per me -, del papà Beppe - per mamma e gli zii -, del prete Beppe - nei confronti di chi credeva in lui -, e di Beppe, rispetto ai suoi numerosi amici.
lo so che lo farete, ma ve lo chiedo lo stesso: tenete sempre con voi il nonno, perché se noi continueremo a credere in lui, il suo spirito non morirà mai, come non morirà mai il suo dolce sorriso e il suo buffo modo di fare.
Buona fortuna a tutti voi per il futuro e chissà, magari fra qualche anno, potrò esservi di aiuto.
Salutoni!

Luna Ciccone

Don Sirio e il primato della coscienza

Primato della coscienza ma in stretto e saldo rapporto con un uomo, una vita: don Sirio.
Il primato della coscienza affrontato in sé e per sé induce in tentazione: quella di elucubrazioni complesse e con approdi difficilmente concordi.
Ipotizzare il primato della coscienza in qualcuno è raccontare qualcuno. Certo un racconto particolarissimo perché presume di esplorare una persona fino al suo intimo più intimo, fino al seme di tutto quanto ha potuto esprimere, rendere visibile, comunicare.
Un'avventura a forte rischio.
Il rischio di un'esplorazione viziata da attrezzatura sbagliata o incompleta La mia amicizia con don Sirio è stata lunga ma con avare frequentazioni. E non credo di aver esaurito nemmeno la totalità dei suoi scritti.
E c'è anche il rischio di un'esplorazione invasiva. Cioè di leggere l'altro sovrapponendo se stessi o, comunque, piegando l'altro alla collocazione a noi più gradita. In questo ritengo di essere favorito. Mi sembra di ricordare (il liceo è lontanissimo!) che per una buona traduzione dei grandi poeti giova essere poeti modesti (Vincenzo Monti risultava esempio insistito). Non so se sia proprio così ma ne approfitto per convincermi che per la corretta lettura di un personaggio sia giusta una persona di contorno.
In ogni modo ecco i miei appunti di viaggio. Dello strano viaggio all'interno di don Sirio.
1. Sirio ha obbedito alla propria coscienza prima che a tutto e a tutti?
a) Non mi risulta che "coscienza appartenga al linguaggio privilegiato ed insistito di Sirio. Che sia - tanto per intenderci - tra le parole che Sirio gratifica generosamente della maiuscola iniziale, come Amore, Fede, Bontà, Verità, Libertà e altre ancora. Mi sembra però che di coscienza Sirio abbia offerto più di una traduzione. Qualche esempio: sentirmi "nella condizione giusta" dare "sincerità, autenticità alla mia vita"; "il filo della propria vita"; sogno della mia vita"; "chiarimento interiore" (da P. Crespi, Preti operai, Ed. Lavori Roma 1985, pp.31,32,35,49,50: citerò P.O). Più compiutamente in uno scritto del 1986: "E' la fedeltà di un raggio di sole che un giorno (è così lontano) mi ha investito c la sua luce, abbacinandomi violentemente. E non so... se poi questo raggio di luce... mi ha seguito con ostinata fedeltà nel mio avventurarmi dentro l'intrico del vita. oppure se è stato questo raggio di luce a muoversi incessantemente e a propormi (forse a costringermi) ad un cammino, imprevedibile per me, ma già tutto pensato e tracciato" (In Preti operai, gennaio 1988, p.86).
b) Aldilà delle parole parlano i fatti.
1943: Sirio diventa prete. Vi approda quasi condottovi da qualcosa che è in lui ma che è pii forte di lui: "E' stata una storia molto lunga quella della mia decisione di diventare sacerdote; per molti anni io ho resistito e contrastato questa vocazione... Ho incontrato dentro di me grossissime difficoltà che sono durate fino a pochi mesi prima dell'ordinazione sacerdotale" (P.O., p.35).
Resistenza inutile che riecheggia quella di certi profeti biblici e richiama l'affermazione di Gandhi "Il solo tiranno che accetto a questo mondo è la 'piccola ferma voce' interiore" (Il mio credo, il mio pensiero, Newton, Roma 1992) Nel 1956 Sirio lascia Bargecchia dove è stato parroco dal 1945 e scende a Viareggio. Improvvisamente ma non improvvisando: negli "anni in cui ero parroco... è maturata la mia preparazione interiore con tutto un cambiamento di cultura e di sensibilità personali" (P.O. p.31). Arriva a Viareggio in vespa, finisce in una pensione e confesserà che, allora, non sapeva "cosa fare e dove andare" ma di avere "una grandissima pace interiore e soprattutto molta sicurezza". "Importante - annota - è andare avanti, portare avanti il progetto che coinvolge il filo della propria vita" (P.O., p.35).
Un piccolo viaggio, Bargecchia - Viareggio, per un grande viaggio interiore. Sirio lo ha raccontato più volte.
"Mi trovavo profondamente a disagio, come fuori della mia strada, a fare il prete perfettamente in linea (o quasi) con il mondo ecclesiastico, dentro quegli schemi obbligati, quelle vie segnate e inconfondibili del Diritto canonico, della Pastorale stabilita. ...A un certo punto... è stato inevitabile, si è imposta la necessità... di smontare pezzo per pezzo, la mia costruzione ecclesiastica. Il prete si è andato dissolvendo, il prete ecclesiastico, e nel frattempo è andato costruendosi il prete-uomo o se si vuole, l'uomo prete. E' il tempo della decisione, chiara e netta, senza eroismo e bisogni di eccezionalità, di fare il prete-operaio" (Lotta come Amore, Dic. 1987, p.79: cito Lca) E Sirio diventa operaio. Da segnalare due momenti di grande peso.
Il primo: il superamento del muro della fabbrica occupata. Sirio stesso ne fa la metafora di un decisivo passaggio di confine: "Ho saltato il muro". E racconta associando ciò che è avvenuto nei fatti a ciò che gli accade dentro:
"E' venuta la domenica. Ho chiesto di andare a celebrare la Messa. Ma ancora un rifiuto. Allora ho messo gli arredi sacri in una valigia. Sono tornato sotto il muro con una scala. Sono salito e gli operai mi hanno aiutato a scendere di là. Avevo scavalcato una legge terribile, quella che separa così spaventosamente gli uomini.... Ho scavalcato questo abisso di divisione e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi" (Uno di loro, Gribaudi, Torino I 989, p.61: cito Udl.). "Stavo pensando se Dio era più dì là o dì qua dal muro" (ib. ,p.63).
Il secondo: Sirio riceve da parte delle autorità ecclesiastiche l'ordine di chiudere la sua esperienza di operaio appena tre anni dopo averla iniziata.
Sirio obbedisce. Però va ascoltato:
"L'alternativa è stata questa: o fare il prete o fare l'operaio. Fare l'operaio non era conciliabile con il fare il prete. Questo è successo agli inizi degli anni Sessanta e io sono stato posto davanti a un momento drammatico, uno dei momenti più drammatici della mia vita... E' stato molto duro" (P.O., p.45-46). "Non sono più uno di loro (degli operai) .... E questo è terribile. E questo la Chiesa non lo doveva volere... Ora tutto è finito. Per questo quella sera quando mi fu detto dell'abolizione dell'esperienza dei preti operai, mi si scavò nell'anima un vuoto spaventoso, come morire, e da allora mi sono sentito ferito, morto. La mia Chiesa mi ha distrutto. Proprio lei" (Udl., pp.171 e 179).
Sirio obbedisce. Però non desiste. Aggira: fare lo scaricatore del porto a giornata non è fare "l'operaio dentro la condizione operaia" e non lo è faticare battendo il ferro o praticando altri lavori artigianali o agricoli. Forse al di qua del muro credono che ottenere obbedienza significhi sempre piegare a disegni altrui ma Sirio rimane di là dal muro definitivamente e definitivamente rimane "uno di loro".
c) La vita di Sirio non si ferma a queste date ma queste date avranno a che fare con tutte le sue date successive.
Questi, per Sirio, sono anni generativi. O ri-generativi. Anni nei quali Sirio va - mi viene di azzardare - in "regressione": lascia il punto di arrivo per recuperare un punto precedente dal quale ripartire aggiustando la direzione e anche aggiustando se stesso. "Regressione" non soltanto psicologica.
Si trattava - già ascoltato - di "smontare pezzo per pezzo la mia costruzione ecclesiastica". "La chiesa - aggiungeva Sirio - è stato un collegio spietato per demolirmi e poi ricostruirmi in meccanismi prestabiliti" (Lca., febbraio 1986, p.l0). E ancora: "Ero uomo da piedistallo e poggiavo i piedi sull'umano e sul divino. Prete, sacerdote, ecclesiastico, chiesa... Così tanto che sotto tutte queste bardature civili, ecclesiastiche, spirituali, liturgiche ecc. spesso non avvertivo l'uomo semplice, libero, immediato, fatto dì carne e sangue, come tutti" (Lca., dicembre 1987, pp.6-7). "Regressione'', insomma, fino ad essere "uno di loro" come Sirio mette in evidenza nel titolo di un suo libro. Sirio anticipa ciò che, qualche anno dopo, diventerà programma diffuso tra gli ecclesiastici: lo strano programma di uomini che vogliono "farsi uomo" ( sarà anche il titolo di confessioni di un vescovo, mons. Bettazzi, Gribaudi 1977) e vogliono "farsi uomo" evidentemente perché finalmente consapevoli di aver perso o di essere stati spogliati di umanità. Sirio uno di loro. Non uno come loro. Sirio nel suo viaggio a ritroso recupera umanità ma recupera anche la sua umanità, la propria unicità nativa: più si spoglia di ciò che altri o altro lo avevano fatto essere e più riscopre ciò che doveva essere per personale ed irripetibile dotazione. Sirio si restituisce al proprio Dna. Si fa uomo ma uomo di nome Sirio, E' lui e non altri.
Questo io ho sempre avvertito in presa diretta, incontrandolo. Potevo accettarlo o rifiutarlo, sentirmi in sintonia o no con lui, ma mi era impossibile annullare la convinzione che Sirio non era uomo in serie o di serie, che Sirio era "pezzo unico" e, in quanto tale, comunque pregiato.
Ed ho sempre pensato che Sirio traesse proprio da questa sua originalità ed autenticità la ragione di una sua presenza importante. Originalità, appunto, come origine e non necessariamente come novità e stranezza anche se essere come da origine risulta quasi inevitabilmente nuovo e strano in contesti di umanità assuefatta a molte manipolazioni. Nessun "originale" è passato inosservato. Spessissimo è stato relegato (superfluo scomodare i nomi di Gesù di Nazareth e di Francesco d'Assisi?) tra i pazzi...
Autenticità cioè verità di ciò che uno è e lo è in solida e chiara saldatura tra pensieri, parole e comportamenti, senza sdoppiamenti e senza doppiezze. Autenticità, insomma, come uomo garantito, senza inganno, di cui ti puoi fidare.
Sirio uno di loro.
Ma uno di nome Sirio. Inconfondibile.

2. Don Sirio e il primato della coscienza.
Probabilmente lo svolgimento del tema che non voleva e non si poteva pretendere completo, potrebbe fermarsi qui.
Mi concedo un qualche prolungamento. In duplice collocazione: una nel passato ed una nel presente.
Allora.
Allora Sirio "pezzo unico" sollevò reazioni diverse, quasi opposte. Direi: inevitabilmente.
Mi aiuto con un riferimento importante: il brano evangelico che racconta di Gesù nella sinagoga di Nazareth, sua città.
Mi ha sempre colpito l'atteggiamento dei presenti.
"La gente, stupita per le cose meravigliose che diceva, gli dava ragione" (Lc. 4,22).
Però si domandava: '''Non e il figlio del falegname? Sua madre è Maria; i suoi fratelli sono Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda; le sue sorelle abitano qui in mezzo a noi. Ma allora, come mai egli fa e dice tutte queste cose?'. E per questi ragionamenti non si fidavano di lui" (Mt. 13,55-57). Facile traduzione: potrebbe avere ragione ma non ha ragione perché dovrebbe essere come noi e invece è diverso da noi.
Uno strano comportamento che, sia pure in scala diversa, si ripete con cocciuta monotonia.
Sirio fece piuttosto presto a far conciliare stupore con fiducia negli operai incontrati. Ma gli operai non erano suoi "compaesani": l'uomo con la tonaca (e Sirio la tonaca la "ostentava" sia al cancello del cantiere come nei comizi e nei cortei operai!) era di un altro "paese" rispetto a loro uomini con la tuta. E in loro suscitava curiosità ma non rifiuto. Anzi crescente attenzione e considerazione.
Sirio la maggiore resistenza la trovò nella sua Nazareth, la chiesa o, più precisamente, la chiesa dei quadri gerarchico-clericali. E' qui che il "pezzo unico" imponeva un confronto con i "pezzi in serie" dello stesso "paese". Confronto che genera una crisi: o ci si lascia interrogare e magari modificare dal "diverso" o si cerca di ricondurre il "diverso" al modello vigente, o si cerca di togliere al "diverso" ogni legittimazione:se non sei conforme sei sbagliato.
Allora era il 1956 e immediati dintorni. Secoli fa.
Da quasi coetaneo di Sirio posso testimoniare che anche il poco allora era un'enormità. Il minimo di non allineamento in una chiesa completamente e rigidamente allineata era sempre un troppo. Specialmente in Italia.
E Sirio adottò la diversità meno sopportabile: quella di andare oltre il muro e proprio dove abitava il marxismo e, quindi, per presunta deduzione, l'ateismo. Comunque la diversità di Sirio non era settoriale ma complessiva come era complessivo il suo recupero umanità e della propria umanità. E meriterebbe approfondire.
Mi limito a dire che Sirio propone alla chiesa meno aristocrazia e minori chiusure ideologiche, e maggiori coinvolgimenti nel sostegno della dignità dei calpestati e nella denuncia delle malefatte dei prepotenti e degli sfruttatori. Tanto per intenderei: dalla liturgia ( "Mi veniva da contare tutte le volte che gli mettevano - al vescovo - e gli toglievano la mitria e che gli porgevano o gli riprendevano il pastorale" scrive dopo aver assistito alla messa rinnovata dal Vaticano II: Udl, p 102) all'antinucleare ( e non ho bisogno di richiamarne le vicende). Allora. Nel 1956 e dintorni. Ma non soltanto allora. Negli anni successivi si sono verificati grandi cambiamenti. Il Vaticano II ha lasciato il segno. Ma si ha l'impressione che Sirio rimanga comunque "diverso" e che i suoi disagi ecclesiastici non finiscano anche se si fanno più sfumati. Sirio continua a proclamare il sue amore per la chiesa con una foga e una insistenza probabilmente esagerate in un rapporto d'amore compreso e corrisposto. E vengono in mente esagerazioni simili in persone ( un nome per tutti: Primo Mazzolari) sistematicamente, appunto, in difficile collocazione ecclesiale.

E la situazione, per Sirio rimarrà sostanzialmente invariata fino al termine. Stralcio da uno scritto del 1985, appena tre anni prima della sua morte. "Riconciliazione (con la chiesa) nel profondo della mia anima, è parola che mi suona terribilmente equivoca e quindi incomprensibile e inaccettabile.
...Riconciliazione presuppone una separazione, una divisione, un ritorno dopo essersi allontanati.
E quindi un rinnegare qualcosa, respingere, condannare ciò da cui è richiesto 'convertirsi'. Ma io non mi sono mai separato dalla Chiesa, non me ne sono mai allontanato. E cosa devo rinnegare, abbandonare, da cosa mi devo convertire?... Dopo trent'anni di vita operaia vissuta nella povertà, nella spartizione di ogni diritto e privilegio, in un perdermi dentro i cancelli di un cantiere, fra gli scaricatori di porto, nell'artigianato offerto e vissuto fra contadini e handicappati, nelle manifestazioni rivendicative delle lotte operaie, contro le centrali nucleari, contro il militarismo, per la pace, la fraternità, la nonviolenza... mi devo convertire, è il momento della riconciliazione. E a cosa mi devo convertire, con chi devo fare la riconciliazione? " (Rocca, 15 marzo 1985).
b) Allora. E oggi?
Che ne è di Sirio dieci anni dopo che è mancato, che ci manca? Insisto su Sirio pezzo unico, originale, autentico. E ne deduco:
Sirio pezzo da collezione. Ma di quale collezione?
Forse è ricercato dai collezionisti da archivio.
C'è sempre qualcuno che sceglie la soluzione più comoda per tutto ciò che risulta scomodo. E archiviare è conservare ma anche chiudere. Archiviare è mettere alle proprie spalle: "la pratica è archiviata".
Ma Sirio è archiviabile? Sirio è da mettere ad ingiallire negli scaffali del... c'era una volta?
Molto attivi i collezionisti delle glorie di famiglia.
Nel loro salotto buono c'è sempre spazio per una foto in più da esporre in bella vista. E sono bravi nel ritoccare i lineamenti del personaggio perché siano i lineamenti inconfondibili della casata.
Sono i collezionisti più abili. Lavorano sulla memoria che è fragile e pieghevole e loro sono forti ed attrezzati per trasformare in candidati alla gloria chi avevano candidato al rogo o all'emarginazione o alle diffide. Non so se qualcuno penserà di "canonizzare" Sirio. Nessuna sorpresa in tempi di canonizzazioni all'ingrosso e per gente che sembrava destinata all'inferno.
Ma "canone" cioè "secondo la regola", "secondo la norma" esalta o annulla il pezzo unico, originale, autentico?
In agguato e pericolosi anche i collezionisti di miti.
Mito non nel senso nobile che gli attribuisce l'antropologia.
Ma come malattia di chi cerca supplenza alla personale inconsistenza creandosi riferimenti gonfiati con il vento, magari a scapito di persone ricche di carne e sangue.
Per Sirio l'ipotesi ha ovvi limiti ma non è impossibile.
E Sirio mitizzato sarebbe Sirio finito proprio all'opposto di dove voleva arrivare. Invece che "uno di loro" si ritroverebbe ad essere "uno sopra di loro".
Personalmente rimango fermo al Sirio del primato della coscienza e coerentemente vedo per lui una sola collezione adeguata: quella dei trapianti.
So di dover chiarire: chi riceve il cuore di un morto assicura sopravvivenza al donatore proprio con il suo vivere. Ecco: al di là di sopravvivenze professate per fede c'è questa sopravvivenza per "trapianto" che non è soltanto di organi ma anche di pensieri, convinzioni, orientamenti, sollecitazioni. E ritengo che Sirio viva in moltissimi "trapiantati"; moltissimi che incontrandolo, leggendolo, sapendo della sua esperienza hanno preso qualcosa di lui e l'hanno messa al posto di qualcosa di sé. E vivono, pensano, agiscono con qualcosa di Sirio e Sirio è vivo con loro.
Sirio che è vivo - e sto chiudendo - soprattutto in chi si è lasciato contagiare dalla sua unicità e non abdica al diritto di essere se stesso, irriducibile ad ogni conformismo e appiattimento. Nemmeno troppo sbrigativamente in nome dell'obbedienza.
Da francescano ripudiato chiedo conforto a Francesco d'Assisi. Che offre saggezza anche in questa direzione. Nel capitolo XVI o della Regola non bollata (1221) Francesco, in qualche modo, desautora il superiore di fronte alla "ispirazione" del suddito: se il frate minore chiede di andare "tra gli infedeli" il suo ministro non può che autenticarne la "vocazione nella vocazione", assecondarne la chiamata personale anche se esce dai quadri della vocazione istituzionalizzata.
Piuttosto facile l'applicazione alla vicenda di Sirio. Il quale non intese contrapporre Viareggio a Bargecchia ma chiese soltanto di concedere alla vocazione canonica di Bargecchia la libertà di sfociare e inventarsi diversa nella vocazione - "ispirazione" di Viareggio.


Martino Morganti

Etiopia: diario di viaggio

Asella (Ethiopia) domenica 9 agosto 1998
ore 21.30
Sono qui, nella mia cameretta di 3 metri per 3 sotto un tetto di lamiera ondulata. Sono seduta sul letto, davanti alla parete giallastra.
Stasera è veramente difficile per me descrivere ciò che ho visto appena poco fa.
Anzi, vorrei non avere visto; vorrei non aver accompagnato padre Renato...
All'imbrunire, mentre io e Luigi eravamo appoggiati ad un muretto e stavamo guardando una partita di palla a volo tra giovani del vicinato, padre Renato, con una coperta sotto il braccio, ci chiama da lontano: "venite! Vado da una vedova con due bambine che abita qui sopra. Sta morendo, ha un tumore... le ho promesso che farò 'adottare a distanza' la sua seconda figlia, così potrà andare a scuola". Usciamo dalla Missione e il brevissimo crepuscolo tropicale lascia il posto alla notte. inerpichiamo su per una stradina tutta fango e ripida, dove è facile scivolare. La fioca luce di qualche rara lampada della pubblica illuminazione permette appena di vedere dove metto i piedi. Sono tutta tesa per non scivolare e per non cadere.
Dietro di noi un codazzo di bambini quasi tutti scalzi. Man mano che ci inoltriamo tra le case se ne aggiungono altri. Presto siamo preceduti, accompagnati e seguiti da una piccola folla che indovina il nostro percorso e ci scorta all'entrata di una casa.
Casa?!? No, non si può definire casa questo "tugurio".
La donna è distesa sul letto di legno grossolanamente tagliato. Intorno, per terra, uno strato di giornali: è il letto delle due figliolette. Sopra il letto uno spago con attaccati dei vestiti sdruciti.
Dalla parte opposta, accanto alla porta, un catino di ferro con delle braci. Qualche cesto di paglia intrecciata sembra funzionare da mobile. In una caratteristica cesta larga e dal coperchio a cono viene tenuta la "injera" (il tipico "pane" etiopico).
Oltre la porta l'unica apertura è costituita da una finestrella senza vetri. Due tavole incernierate possono chiudere quando fa troppo freddo.
I muri di "cicca" (argilla e paglia mescolate e seccate al sole) sono neri forse solo per la fuliggine. Ma piccole mani immerse in una tinta color caffellatte hanno creato una decorazione naif, insieme a figurine e ad un pezzo di giornale stampato in inglese.
In quell'unica stanza si stringono, oltre la malata e le figlie, due vicine di casa e altre bambine. Una di queste indica uno "sgabello' a me e a Luigi. Lui si siede; io faccio cenno che non posso. Sono come impietrita: i miei occhi girano intorno senza riuscire a darsi pace. Sulla mia testa ondeggia una lampadina appesa al filo. Sopra la lampada intravedo un soffitto ragnatele. Mi sento circondata da animaletti invisibili. Penso ai microbi che sto inalando...
Usciamo.


Invece di tornare indietro per i viottoli ripidi, imbocchiamo la strada principale. Padre Renato ci racconta che quindici giorni fa, in una casa poco lontano, nel giro di una settimana sono morti i genitori senza una causa accertata. Rimangono 5 figli piccoli: dei parenti che abitano vicino si sono presi cura di loro.
Poi una donna ci chiama sul ciglio della strada. Padre Renato ci traduce l'amarico: vuole che andiamo a casa sua.
No, non ne ho proprio voglia! Sento salirmi dentro il desiderio impellente di rifugiarmi tra le mura della Missione, di chiudere gli occhi, di non vedere, di non sapere...
Ma non posso scappare da sola. Questa casa - se si può dire - è peggio dell' altra.
Qui non c'è nemmeno la debole luce di una lampadina. Una bambina ci fa strada illuminando il viottolo sudicio tenendo in mano una bottiglia con uno stoppaccio acceso e immerso nel petrolio.
Si intravede una baracchetta più piccola della camera dove sono alloggiata. Ci stanno in cinque. L'hanno divisa in due con del canniccio. Da una parte, su delle tavole, ci dormono. Dall'altra ci cucinano e ci mangiano. I "muri" sono tappezzati di fogli di giornale.
Usciamo!
Mi assale un senso di nausea, disgusto, insopportazione per i bambini che mi si accalcano intorno frugandomi tutta per cercare le caramelle ("candy, Laura, caramella!"), insopportazione per quelle strade che non sono strade, ma rivoli di fango e di merda in cui sprofondi fino alle caviglie.
Insopportazione per quelle case che non sono case, che non assomigliano per niente a qualsiasi cosa che le possa avvicinare a ciò che si definisce casa... !
Disgusto, per una vita che non so come si possa chiamare vita. Disgusto, disperazione, rabbia, non so bene definirla questa sensazione: mi stringe lo stomaco come se uno mi tirasse un pugno. Mi viene da tossire, sputare, vomitare.
Mi sembra di soffocare...
Mentre cammino a passo svelto verso la Missione percorrendo la strada in discesa, davanti a me, stagliato contro il cielo incredibilmente stellato, padre Renato balzella tenendo per mano due bambini molto piccoli. Tutta la strada è occupata da una fila di bambini che si tengono per mano. Padre Renato spicca la corsa circondato da un nugolo di bambini.
Fa tenerezza vederli... E' una scena magica, quasi di sogno.
A cena non mi va di mangiare. Spremo un po' di limone in un bicchiere d'acqua calda. Chiedo a padre Renato se non gli prende mai la disperazione, se non lo assale mai un senso di assoluta impotenza.
Mi risponde, ma sembra che lo dica prima di tutto a se stesso: "più che disperarsi è meglio fare, dare una mano e gioire di quel poco". E' meglio che avvilirsi e non fare niente. Qualcuno si è aiutato, qualcosa si è fatto.
Prima di andare a letto faccio una rapida ispezione alle pareti e con lo zoccolo inchiodo una zanzara... Ma ormai mi importa poco...
Qui, in Africa, c'è da pensare a troppe cose: l'acqua che non bisogna bere, le posate e i piatti che vanno asciugati e riasciugati...
E poi la carne poco cotta, le verdure crude, i microbi che inali passando per le strade tra pecore, mucche, asini, fango e merda.
Ah! L'Italia bianca, con la pancia piena dei tre pasti al giorno, le case di mattoni e di cemento, le strade asfaltate e illuminate a giorno!!! Eppure, la gente qui è vero che cammina scalza in mezzo alla fanghiglia sudicia, è vero che dorme in baracche fatiscenti, è vero che mangia si e no una volta al giorno... ma dove la trova la forza di ridere e ridere e ridere... ???

Laura Gori

Vamos caminando...

"Il più bello dei mari
è quello che ancora non abbiamo navigato.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello che dovrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto."
(N. Nikmet, poeta turco)

"Un dia de estos tenemos que ver que ha llegado la victoria,
El pueblo en la calle haciendo la historia.
Los niiios sopriendo en toda la nacion. "
(Ze' Vicente, cantante brasiliano)
Puno (Perù), settembre '98
Fratelli e famigliari carissimi,
Amici che ci seguiamo da lontano e da vicino. Quanti ci sentiamo uniti nel cammino di solidarietà e di affetto:
E' dal profondo Sud che avviene questo nuovo incontro. Uno dei tanti incontri regalati dal tempo e dallo spazio. Da questo Sud del mondo così ricco di vita, di razze, di culture, di religiosità, di tradizioni, di colori, di altezze... un saluto cordiale a tutti!
Da poco è iniziato l'anno cosmico andino. La notte che precede il primo agosto, aspettando il nuovo anno, il rito propiziatorio prevede il "pago" alla Pachamama: si "ch'alla" (si asperge) la Terra con vino; il profumo intenso e diffuso dell'incenso va "saimeando" la casa e il luogo di lavoro; l'ingresso della casa e le persone in testa portano i segni colorati della "mistura" - prevalentemente gialla, come segno di fortuna, di buona sorte e di benedizione.
Tempi colorati e, al tempo stesso, tempi non facili anche per noi. A volte contraddittori, pesanti, aggressivi, violenti. Nonostante tutto, la speranza ci conduce caparbiamente in avanti. Ed il cammino dei poveri, intanto, - quello che ci circonda e che almeno in parte vorremmo assumere anche noi - è un cammino in salita, polveroso, assolato, dissestato, pieno di promesse incompiute. La terra della puna è diventata gialla, asciutta, riarsa dalle gelate notturne. La gente è stanca di mangiare miseri. Pecore, llamas e mucche brucano quel poco di foraggio che trovano qua e là, per sopravvivere.
In questi mesi la Madre Terra, aspettando le prime piogge, va lentamente risvegliandosi dal torpore dei mesi freddi, secchi, degli 8/10 gradi sotto zero. La Mamma si prepara ad indossare il vestito della maternità, della fertilità, del calore, della vita.
La Terra della speranza!

1. Urgenza di Utopia
Lo sguardo si rivolge, spontaneamente, intorno e lontano. Attardarci a contemplare il passato? Con il senso della storia occorre sempre più prendere coscienza della "novità" dell'oggi. Un numero crescente di persone, nel Sud e nel Nord del Mondo, ritengono non corretto il cammino intrapreso. Non è più possibile abitare un mondo che edifica una economia inumana. Lo sfogo degli egoismi corrode i fondamenti dell'etica. Diventa imprescindibile una reazione collettiva.
Ci sono più di 60 milioni di poveri negli Stati Uniti, il paese più ricco del mondo. Ci sono più di 50 milioni di poveri dentro l'Unione Europea, prima potenza commerciale. Negli USA l' 1 % della popolazione possiede il 30% della ricchezza del paese. Su scala planetaria, l. fortuna delle 358 persone più ricche (miliardarie in dollari) è superiore alle entrate annue del 45% degli abitanti più poveri, cioè di 2600 milioni di persone...
Oggi si fa sempre più urgente l' esigenza di un contro-progetto globale che possa opporsi al modello dominante. Nel 1848 furono Marx ed Engels con la comparsa del Manifesto; nel 1968 (a Parigi, Berlino, Roma, Praga, Messico) furono le rivolte studentesche che contagiarono tutti i settori sociali. Oggi ci si ritrova nella esigenza non tanto di adattarci al sistema corrente, quanto di ricercare una forma di azione unitaria e il desiderio di introdurre una leva di umanità di sognatori che pensino e di pensatori che sognino per ricercare non un progetto definito e codificato, ma un nuovo modo di vedere e analizzare la società. "Rischia i tuoi passi per strade che nessuno ha mai percorso, metti a rischio la tua testa in pensieri che nessuno mai ha pensato" - si poteva leggere sulle pareti del Teatro Odeon, nella Parigi del maggio 1968.
Si può modificare l'architettura politica, sociale e culturale che ha costruito il neoliberismo? E' proprio vero che siamo condannati a rimanere chiusi nel perimetro attuale dell' orrore economico e senza possibilità di reagire? Esistono altri cammini inesplorati perché l'umanità trovi il senso del bene comune?

2. 12 luglio 1998: sangue e violenza nel cammino!
Hanno osato far morire l'utopia: quella delle relazioni nuove!
Il 12 luglio scorso, l'Equipe Pastorale della Parrocchia di Lampa, ci siamo trovati in mezzo alla strada, nella lotta tra la vita e la morte, riversi a soccorrere l'amico ing. Valerio, per otto anni compagno di lavoro e impegno pastorale in questa zona andina della Diocesi di Puno (Perù). Bocca a terra, respirando la polvere della strada sterrata, immerso in una pozza di sangue e invocando un qualche samaritano d'emergenza.
Gli hanno sparato in petto, faccia a faccia, i sicari del faraone: coloro che ininterrottamente hanno vomitato veleno. I "recontracattolici" (...ma per niente cristiani!) dicono che "la iglesia es enemica del pueblo, ...hace politica", "la iglesia es una basura... ", "en la paroquia se da clase de terrorismo", "en Lampa no hace falta sacerdote"...
Volevano sparargli a morte, volevano eliminare il debole, volevano l'arroganza, la prepotenza, la corruzione e l'immoralità padrone incontrastate della piazza!
Non ce l'hanno fatta a prevalere coloro che sono abituati a manipolare politica, economia e religione solo in termini di potere: la prima e l'ultima parola l'ha in mano la Vita!

3. Con lo zaino in spalla,verso il futuro. Sono arrivato a Lampa (Puno), a fine novembre 1980 - sconosciuto a tutti - dopo i primi cinque anni in Perù, condivisi con la gente dell'arenile di Villa El Salvador, nella periferia sud della città di Lima.
In Lampa, a quasi 4000 metri di altezza, sono ormai meravigliosamente cresciuti l'eucalipto, i pini, la quefiwa, i capulì, i fiori, le rose. La casa non è più anonima: è la casa accogliente, ospitale, conosciuta, amica. "Nostra", "aperta"! Ci ha insegnato ad essere "casa"!
Curiosando nello zaino si ritrova un po' di tutto:
...il sapore del "pane di Lampa": come diventare "pane"?
...la chiesa di Lampa: chiamati ad essere tempio di Dio!
..."hermano" tra la gente (né padre, né reverendo, né don!): come diventare fratelli, come farci fratelli?
...bambini e poveri in abbondanza: condividere è una sfida!
...la fede di un popolo: la fede senza amore alla vita è una fede morta!
...benedizioni a non finire!: essere benedizione di Dio tra noi!
...il cielo, l'azzurro, i monti, le feste, il silenzio...
Ci segue da "vicino" la presenza della Hna, Beny: amica di ieri e per sempre! Intanto Vi chiedo una cosa: pregate perché ami!
"Il grano di frumento non porta frutto se non muore" (Gv. 12,24).
Un abbraccio e a presto!

Giovanni Gnaldi
Apartado 321
Juliaca (Puno) - PERU'

Giovanni Gnaldi

Il debito della morte

Nascere indebitati, vivere indebitati, morire indebitati è il destino di tutti i poveri del terzo mondo, il destino fatale della nostra America Latina. Questo indebitamento equivale ad essere privati della vita. Il debito è la morte interna. In America Latina il debito si duplica ogni dieci anni; ad oggi raggiunge la cifra di 700.000 milioni di dollari.
Ci stiamo abituando a questa guerra totale che è la più distruttiva e mortifera tra le guerre della storia umana, la massima espressione della dominazione internazionale; è l'olocausto di interi continenti, di tutto il terzo mondo, non solo del nostro popolo. Guerra, dominazione, crimine, mentre dal sistema tutto ciò viene cinicamente giustificato dal diritto internazionale: "In quanto si tratta di un debito, e il debito - dicono - è un dovere e un diritto; i debiti si pagano."
Contestare il debito esterno - pretendono di insegnarci - rappresenta una ingenuità politica, fuga dalla storia, irresponsabilità economica. Così continuiamo a pagare, non il debito ma appena gli interessi relativi, il lucro di una grande usura. Noi poveri siamo gli esportatori di capitali per il mondo occidentale ricco.
I nostri politici, le convenzioni internazionali, la cultura della sconfitta a cui ci hanno abituati, fanno del debito estero la vera Carta Costituzionale dei nostri popoli umiliati. A causa del debito estero non possiamo attuare una riforma agraria, non siamo in grado di preparare programmi di salute, di educazione, di lavoro di comunicazione, di previdenza sociale, di vivere la nostra vita. Rappresentiamo il "patio" del FMI, del BM..
Tuttavia, nel nostro continente, in tutto il terzo mondo, nei settori solidali del mondo occidentale, nei movimenti popolari e nella parte impegnata della chiesa, con piena responsabilità, con impegno etico, e per la più elementare esigenza evangelica, dichiariamo congiuntamente che il debito estero è immorale: non si può pagare, non si deve pagare.
Di più, il nostro senso comune ed una statistica onesta ci confermano che abbiamo già pagato questo debito. Sappiano quindi che il debito non è stato contratto dai nostri popoli ma dalle nostre dittature, dalle nostre oligarchie, dai nostri politici corrotti.
Se qualche tipo di solidarietà può ancora salvare il nostro continente (e tutto il terzo mondo) dal collasso economico e sociale a cui siamo condannati dai meccanismi del sistema economico globale, quella sarà costituita dalla volontà integrale e in ultima istanza sarà la dignità umana dei popoli latinoamericani che imporrà di non pagare il debito estere
Sarà sempre più ingenuo, più cinico, più suicida, pagare per sentirei morire, per vedere la nostra gente annichilita dalle fame, dalle malattie, dalla violenza della disperazione, dalla emarginazione totale.
La memoria del Patriarca Proano e il suo amore per i poveri della terra e questa vigilia del giubileo cristiano che stiamo celebrando ci chiamano ad una crescente, improrogabile attività di solidarietà contro la richiesta di pagare sia il debito estero che i debiti sociali interni nei confronti dei quali i nostri popoli risultano creditori.
Contro il debito estero opponiamo la dignità continentale interna.
Contro il culto del dio della morte la fedeltà al Dio della vita, e ai suoi figli e figlie, tutti noi, fratelli e sorelle.
Pedro Casaldaliga
Riobamba, 30 agosto 1998



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