A dieci anni dalla morte di Sirio, questo nostro giornale si apre con un' altra notizia che mai avrei voluto scrivere.
Forse, tra chi riceve questi semplici fogli, c'è gente non ancora raggiunta dal triste e doloroso annuncio della morte di Beppe.
Una morte non annunciata, improvvisa, un vero e proprio colpo di fulmine.
Ci eravamo salutati come al solito quella mattina di lunedì 19 gennaio. lo uscivo una mezz'ora prima, Beppe era seduto al tavolo in cucina con il "suo" bicchiere di caffè e latte e stava leggendo un foglio. "Buona giornata! Ci vediamo più tardi".
Appena poco prima delle 9.00 una telefonata mi raggiunge al capannone: "Beppe è nel retrobottega. Si è sentito male. Mi ha chiesto di avvertirti di andare dai ragazzi che lo stanno aspettando e di non preoccuparti di lui. Comunque ho chiamato l'ambulanza".
Dopo un rapido passaggio dal laboratorio dell'Archeggiola, sono arrivato in tempo a vedere Beppe sdraiato sulla barella con gli occhi chiusi. Ho inseguito l'ambulanza fino all'Ospedale di Viareggio, alla porta del Pronto Soccorso e in rapida sequenza la barella fino alle porte inesorabilmente chiuse di Cardiologia.
Un'attesa di mezz'ora o forse più. Telefono a Maria Grazia. Un'altra barella vuota. "Portiamo Beppe a Pisa". Sbattono le porte. Contrordine: "Rimane qui". Un'infermiera mi fa entrare. Il primario mi dice delle parole, mi spiega. Capisco solo che l'infarto è stato devastante, la situazione critica. Complicazioni ne hanno impedito il trasporto a Pisa per l'intervento meccanico di rimozione dei coaguli. Ci raccogliamo in piccolo gruppo nella sala d'aspetto. Momenti di allentamento della tensione. Notizie più rassicuranti. Aiutato da Maria Grazia, tiro giù una lista: pigiama, fazzoletti, biancheria,... Vado in Darsena e, appena arrivato a casa, una telefonata. "Torna subito, lo portano a Pisa. Beppe ti vuole parlare".
Mi fanno entrare in reparto. Il primario mi dice:
"Vada, a questo punto può fare lei più di noi". Ma cosa avrei potuto fare?
Sono entrato nella piccola stanza e, mentre infermieri e medici si affannavano intorno a Beppe, gli ho preso la mano e siamo rimasti così, in una stretta forte e ferma per lunghissimi istanti. Poi la barella si è di nuovo messa in marcia. E noi dietro in macchina, ma rallentati, quasi a voler posporre il più possibile l'arrivo a Pisa. Beppe ha avuto un ultimo arresto cardiaco pochi metri prima dell'arrivo in Ospedale.
E' stato rianimato, ma non ce l'ha più fatta. Così ci ha detto il medico che ci ha accolto.
Era uno dei primi obiettori in servizio civile all'Arca e molto amico di Beppe. Lui, a concludere quell'uscire per sempre di Beppe dal porto verso il mare aperto, accompagnato da volti conosciuti e amici. Dal negoziante che lo ha soccorso, ai volontari in ambulanza, alle infermiere in reparto, Beppe ha incontrato volti di persone che lo hanno circondato di attenzioni e di affetti in quella terribile, durissima mattina. Segno e frutto non di casualità, ma di una presenza - la sua - sempre affettuosa e incoraggiante con chiunque, per chiunque.
Ne è stata testimonianza tangibile, il propagarsi rapido della notizia della sua morte, in città e non solo. L'accorrere commosso di tanta gente, prima a Pisa poi qui alla Chiesetta. E il funerale partecipato da una folla strabocchevole fino al palazzetto dello sport dove si erano svolte belle feste di giovani dei "Percorsi di Pace" e dove Beppe è stato ricordato a lungo, quasi a non volerlo lasciare più andare via.
Al calar della sera è stato trasportato a S.Casciano Val di Pesa, il suo paese natale, per essere sepolto insieme ai suoi genitori, morti quando Beppe - figlio unico - era ancora molto giovane. I cugini e gli altri parenti lo hanno accompagnato in quest'ultimo tratto di strada che lo ha ricongiunto alla sua terra, alle sue radici. Come Sirio.
Sono passati oltre due mesi da quel lunedì mattina, ma, per me, è ancora molto difficile accogliere quello che è avvenuto.
Non credo sia facile per nessuno, in circostanze simili, rimuovere dalla propria coscienza il peso terribile di non essersi reso conto, di non aver potuto, di non aver saputo cogliere i segni di un malessere così decisivo. E' tremendamente difficile anche per me sostenere il pensiero che avrei potuto fermarmi con Beppe quella mattina, avrei potuto fermarlo...
Tutto è avvenuto così velocemente.
La Chiesetta restringe ancora di più le sue mura, come a riscaldarmi e proteggermi contro la paura e la desolazione. Mi avvolge come un utero di pietra, scaldato dal sole primaverile di queste belle giornate.
Tocca a me ora a nascere.
Luigi
L'amicizia di Don Beppe era "il fuoco buono
quello che diventa luce, calore,
punto di reciproco scambio lungo i sentieri dell'esistenza".
Per me, carica di anni e di amarezze,
la Chiesetta del Porto era l'unico luogo
in cui si potesse continuare a sognare.
Cenavamo insieme, quando
potevamo realizzare lo straordinario evento.
Credo così cenasse Gesù coi suoi discepoli.
Beppe condiva di allegrezza il pane, il vino, il pesce.
Tornavamo a casa forti del suo coraggio,
sorretti da quanto ci era stato dato
"a gran cuore", e felici di tanto dono.
Perché, perché enigmatico Iddio, a noi l'hai tolto?
Tu ci hai strappato
un motivo per non arrenderci,
per portare avanti,
nel disfacimento generale,
"la lotta come amore".
Forse ha ragione il poeta
che così decifra l'enigma:
"Anche Dio è infelice".
PREGHIERA
Vedi, Signore,
in quale buio
ci lascia
la crudeltà della morte.
Fa' che con gli occhi dei mistici
per noi tutti
"La tenebra brilli
di splendida luce
nel seno della più densa oscurità".
Ho portato a don Luigi questa mia poesia poco dopo la morte di don Beppe. Avevamo pensato di mantenere la consuetudine di ritrovarci ogni tanto a cena insieme, sicuri che don Beppe sarebbe stato tra noi. Ne è giunto a conferma il proposito li dedicare a lui il prossimo numero del giornalino. Ognuno avrebbe scritto secondo il suo cuore, i suoi ricordi; la sua eredità.
Per mia parte il punto di partenza é stata la poesia: poesia come "canto" (così la intendeva Turoldo) ma il canto per la morte di Beppe si è rivelato un lamento, con un acuto grido lancinante: "Perché, perché / enigmatico Iddio, a noi l'hai tolto?". 2uando Maria Grazia mi aveva dato per telefono la notizia della sua morte, così improvvisa e imprevedibile, le avevo detto: - penso alla poesia 'La quercia caduta" -. Avevo infatti avvertito, di colpo, quanto "era pur grande" e il vuoto da lui lasciato apriva davanti a me un precipizio. Se non scrivevo una poesia, un canto di lamento, quel vuoto mi avrebbe risucchiata.
Con il poeta Turoldo ho dovuto gridare a Dio il mio "perché". Si tratta dello stesso interrogativo che egli aveva lanciato nei suoi "Canti ultimi":
E pure il tuo figlio
Il divino tuo figlio, il figlio
che ti incarna, l'amato
unico figlio uguale
a nessuno anche lui ha gridato
alto sul mondo:
"Perché?"
E concludevo il mio pianto con il titolo del libro famoso di Turoldo "Anche Dio é infelice" e pregavo, pregavo per uscirne.
Furono i testi di due mistici: Angela da Foligno e Dionigi l'Aeropagita ad illuminare quel buio che ci lascia la crudeltà della morte.
La beata Angela "vede nella tenebra" e canta "l'amicizia inesprimibile di Dio". "Le soavi parole sussurrate, son poca cosa di fronte a ciò che nella tenebra appare". Dionigi così prega:
"Trinità sostanziale, che animi la sapienza cristiana, guidaci oltre ogni luce, oltre l'inconoscibile là dove i misteri primi si rivelano nella luminosa tenebra del silenzio. Nel silenzio vengono rilevati i segreti di questa tenebra che brilla di splendida luce nel seno della più densa oscurità".
Il disvelamento della luce che brilla nella tenebra di coloro che raggiungono la fusione con l'Essere Supremo mi ha chiarito e restituito don Beppe, la sua storia, soprattutto la sorgente da cui è poi fluita quella storia. E sono tornata a leggere le pagine altissime del suo Viaggio in Palestina "Nella terra di Gesù" che avevo pubblicato tanti anni fa nella mia ormai antica rivista "La Prora" che comincia appunto con questi versi:
In viaggio verso le Sorgenti
dove è nato il fiume eterno
della Gioia.
Dove la Tomba é Resurrezione,
e il dolore salvezza universale.
Durante questo viaggio don Beppe ha raggiunto la Grazia dei mistici ed ha capito l'essenziale:
"Devo pensare solamente a te, al tuo volto meraviglioso dove per sempre è acceso l'Amore
( ... ) Sì veramente ti ho visto o Amore unico dell'Universo. Ti ho dato tutto, Ti ho regalato la mia vita, perché Tu la getti nel vento, sulle strade del mondo".
"Bisogna che riusciamo a stabilire con Te un rapporto unico e assoluto dove la nostra esistenza trovi la sua esatta vocazione ( .. .) Dio deve diventare la nostra pienezza il nostro tutto affinché poi lo doniamo e lo sperimentiamo nella realtà della carne".
Ecco perché ho capito don Beppe rifacendomi all'esperienza dei mistici. Solo così si compie il Vangelo. E' una lezione unica per noi cristiani che pensiamo di licenziarlo dandoci da fare in organizzazioni assistenziali in partecipazioni più o meno distratte alla liturgia, ai convegni, alla preghiera meccanica e frettolosa.
Bisogna invece cominciare dall'adorazione del Padre "in Spirito e Verità", dalla cima del monte non "dal tempio o in Gerusalemme", regalando la nostra vita, "perché sia gettata nel mondo a far fiorire la Gioia, la Fraternità, la Giustizia nel Cuore dei poveri, degli oppressi dei vinti dal Male".
Così si è aperta la strada infinita di don Beppe e il dipanarsi di questa strada ha toccato chiunque lo abbia incontrato.
Di questo cammino ho ritrovato tracce meravigliose riaprendo i numeri preziosi di "Lotta come amore" che conservo con cura. Quando arrivava il "giornalino" (lo chiamiamo cosi perché vogliamo bene a queste pagine che costituiscono invece un importante Periodico) i primi articoli che leggevo erano i suoi e in fondo li ricordo tutti. Nel numero del dicembre '94, don Beppe racconta del suo soggiorno in Val D'Aosta con compagni a lui legati "dai preziosi fili dell'Amicizia". Io conosco la Casa che li ha ospitati (in cuor mio la chiamo "Casa Amica"). So che gli incontri di preghiera e di meditazione lì dentro ti aprono orizzonti straordinari e altissimi; don Beppe non riferisce le scoperte, i motivi di crescita che vi si attingono: sono state invece le acque, che cantano, divise in due rivi, attorno alla Casa, ad aver avuto per lui un richiamo particolare. Vi ha visto e sognato il Grande Fiume della Vita. "Ho pensato - egli scrive - che questo è davvero il grande Fiume Sacro simboleggiato da tutti i fiumi della Terra... entro le cui acque siamo continuamente immersi. Fiume sacro che scorre da millenni, scende precipitando da altezze da capogiro, rotola dentro gole profonde, si distende dolcemente nei prati. - Grande Fiume della Vita, musica e canto della Madre Terra (... ). Il Grande Fiume porta con sé i semi della nuova primavera, ma anche i segni della morte e della fine delle cose: le acque della Vita sono cariche di lacrime, di fatiche, di delusioni cocenti, di attese che non trovano compimento, di speranze che si infrangono tra le pietre dell'indifferenza o de strapotere del denaro e dei suoi tenaci servite padroni). La corrente, a volte, sembra travolgere tutto e tutti, senza possibilità di scampo. Per fortuna mi è stato concesso di risentire il canto dolce dell'acqua limpida e fresca... Il Grande Fiume ha significato per me un rinnovarsi de forze interiori, un nuovo coraggio, una volontà non demordere... a cercare orizzonti più disponibili alla luce, al riannodarsi dei fili, se pur sottilissimi di pace, di lotta intensa, radicata. ragioni dell'amore e del sangue... Perché ci sia data a tutti la possibilità di partecipare al canto della Vita".
In un altro articolo uscito nel numero di maggio del '93, "Pensieri di sabbia sul mare della vita" don Beppe deposita lo spaziare della mente lì sulla rena, tra i tanti detriti portati dall'acqua così come "una preziosa conchiglia venuta a posarsi da lontano".
Eppure quei pensieri, nell'abbraccio tra cielo, terra, contenevano la visione davvero straordinaria dell'Incarnazione di Cristo nella pienezza, nella Sua forza, nella Sua lotta, nella Sua durissima capacità di resistenza e nel Suo amore capace di croce.
Altro momento di chiarezza e autenticità di vita gli viene sostando davanti al centenario castagno di Camaldoli (Giugno '97). Aveva partecipato ad un Seminario di preti operai sui problemi dell'attualità economica. I relatori molto abilmente avevano analizzato parole oggi "storiche" come: capitale, profitto, finanza, economia, lavoro, occupazione, ricchezza, un insieme di problemi dove scompaiono, come sotto l'urto di una cascata dalla violenza inaudita, parole "antiche" come Giustizia, Amore, Fratellanza, Etica, Povertà, Mistica.
Chi è stato però il relatore più risolutivo e convincente? La vecchia pianta pluricentenaria che don Beppe incontra nella splendida foresta attorno al monastero, camminando nel silenzio a passo lento.
Il castagno offre al suo interno un grande spazio accogliente e una targhetta infissa sul tronco spiega: " Tutta la parte interna ha solo funzione meccanica di sostegno. La parte viva e funzionale è solo quella periferica del fusto".
Dopo giornate intense di discussione l'antica pianta ha dato la lezione fondamentale: Non temete - scrive don Beppe - lo svuotamento di tutto ciò che è superfluo, il "vuoto" solo ha capacità di accoglienza e sa ancora cantare un inno alla vita.
Tutta questa intensità spirituale, questo ascolto e accoglienza della Parola, questo abbandono, questo amore per Cristo Gesù, resterebbero un beato retaggio, una luce fredda, se il Mistero di Dio, don Beppe non lo avesse calato, introdotto, vissuto, nel mistero della condizione umana, facendo la scelta di essere prete operaio.
Per i più, i preti operai sono una diversità, una anomalia, non ben definibile. Chi sono questi uomini che realizzano la fedeltà a Dio nella condizione della "gente che lavora"? Cosa è questa esperienza di portare dentro il "sacro recinto" della comunità cristiana la voce della gente comune?
Don Beppe lo spiega ancora con il riferimento a una creatura, forse anch' essa anomala, della natura: il cuculo di Salsomaggiore:
Tra il 25 aprile e il l" maggio, a Salsomaggiore, presso i frati conventuali, i preti operai si radunano. Si fissano i punti chiave della loro storia, si cerca l'energia e il coraggio per andare avanti. Chi è che, per don Beppe, avverte la straordinarietà di questo "amore per le mani nude, questa condivisione stupenda colla fatica del piccolo, dell'ultimo"? E' il cuculo, con il suo canto che comincia alle prime brume dell' alba e poi si dispiega, ritmato e insistente, per tutto il giorno. Nel suo tam - tam appassionato, lui ha capito l'annuncio della gioia che potrebbe essere per tutti i popoli se fosse condivisa nei 'fatti' la vita del mondo degli operai, cioè di quanti la fatica quotidiana schiaccia e deprime, se la loro vita fosse abitata dall'amicizia di Dio e non schiacciata dalla maledizione dei potenti.
E' per questo che la mia Elegia è un canto così desolato. Dove troveremo più uno sguardo di luce, come il suo, che, scendendo dall'amore vertiginoso per l'Assoluto, porta la Buona Novella della Salvezza nel mondo dei piccoli, condividendone la fatica e le umiliazioni da parte dei 'grandi' e dei 'superbi' ? E in fondo, non siamo tutti dei 'piccoli' dei faticanti con le mani callose, se ci liberiamo dagli orpelli della cultura, dell'essere qualcuno, dell'avere?
Addio, don Beppe, ci mancherà la tua battuta pronta, la tua allegrezza, la tua capacità di afferrare le cose essenziali porgendocele con immagini semplici, ma pregnanti, quali quelle dell'antico Castagno, della Conchiglietta posata sulla sabbia tra i detriti, del Torrente che scroscia giù dalla montagna, del Pane buono che esce profumato dal forno di paese.
Addio, don Beppe, compagno e amico sui sentieri tortuosi e faticosi della nostra vita. Come dice il salmista, "è nella tua luce che continueremo a vedere la Luce".
Grazia Maggi
Una gran parte dei miei ricordi di Beppe è legata in maniera insopprimibile agli anni della giovinezza: come se la vita non fosse riuscita ad appannare qualcosa di vivido, fraterno ed originario che ci univa. Eppure dal tempo dei nostri vent' anni, i primi anni Sessanta, tant' acqua è passata sotto i ponti... si può dire che abbiamo attraversato la vita. All'inizio ci scambiavamo fitte lettere raccontandoci i nostri ideali; poi sono venuti gli anni trascorsi fianco a fianco sotto lo stesso tetto - quello dalle tegole rosse della Chiesetta del Porto che ci ha maternamente ospitati - e infine, quando le nostre strade si sono separate, è venuto il tempo dell'amicizia fraterna che ci spingeva a vederci con cadenza settimanale. Io, Luigi e Beppe abbiamo cenato insieme, alla Chiesetta del Porto per dieci anni, ogni mercoledì sera in memoria dei tempi andati, quando Don Sirio era ancora con noi, quasi spinti da un orologio biologico che batteva ancora il ritmo del buon tempo antico. In tutto questo Beppe è stato una specie di talismano anti invecchiamento.
Con una parte di me sento che dire Beppe è dire tuttora qualcosa di insopprimibilmente vivo, di sempre giovane, di vitale. Come se non avesse mai perso il mordente. Stancato sì, la barba era abbondantemente spruzzata di bianco... ma lo trovavate sempre tenace e sempre entusiasta.
Era un puer che traeva la sua forza da una sorgente interna che sembrava essere inesauribile. Come se avesse la convinzione profonda che esiste la possibilità reale, concreta di cambiare i rapporti fra le persone, gli eterni rapporti di forza - e dare inizio a un tempo diverso, di conciliazione. E tutto questo lo faceva con tratto leggero, con modi allegri e disinvolti.
Credo di averlo conosciuto verso il 1963, quando era ancora un giovane seminarista. A quei tempi abitavo e studiavo a Roma e mi recavo a Viareggio appena potevo per trovare Don Sirio. Beppe faceva altrettanto, ma da Firenze. Ricordo i suoi lunghi sottanoni da prete, i folti capelli neri e i vivaci occhi stellati. Allora si crucciava per il suo naso schiacciato, raccontandoci che gli si era rotto durante una scazzottata fatta quando era ragazzino. Chissà, forse nacque da quell'episodio la sua avversione per la violenza.. Eppure quel naso - unito a un taglio particolare degli occhi, un pò all'insù - lo caratterizzava, dandogli una strana aria da cinesino.
Eravamo ambedue intorno ai vent'anni, con una grande voglia di entrare nella vita, di dare corpo agli ideali che avevamo nel cuore. Avevamo conosciuto Don Sirio leggendo il suo primo libro "Una zolla di terra" e mettendoci in contatto con lui. Non potevamo immaginare che pochi anni più tardi avremmo lasciato tutto per venire a Viareggio a vivere nella piccola comunità di uomini e donne alla quale Don Sirio stava per dare vita.
Ma prima dell'avventura della comunità del Bicchio facemmo insieme, nel '64, un memorabile viaggio in Terra Santa. Era stata un'idea di Don Sirio: partimmo in cinque, Don Sirio, Elena e Silvia, Don Beppe e io. Tutti a bordo di una comoda e vecchia Renault 4 color verde scuro, stipata fino all'inverosimile perché si partì con tende e viveri. Che avventura fu la nostra... quanta poesia, quanta allegria, quanto affetto e soprattutto quanta apertura dell'anima e del cuore. Perché lì, in quella Terra dove forte si sentiva la presenza di Dio potemmo abbandonarci totalmente a Lui. Abbiamo ritrovato delle pagine del diario scritto allora da Beppe e ve le riproponiamo. Penso che vi rendano al meglio la possibilità di capire chi era Beppe intorno ai vent'anni.
Fra tutti i ricordi del Bicchio ve ne racconto una piccola serie, quella legata alle sue prime esperienze da pescatore. Arrivò da noi che aveva da poco compiuto i trent'anni, insieme ad un suo amico sacerdote che si chiamava Don Beppe anche lui e noi li soprannominammo scherzosamente i due Beppi. La comunità era in campagna ed accanto alla nostra casa vi era un'officina dove Don Sirio e don Rolando lavoravano il ferro battuto. Era un uso consolidato che i giovani che arrivavano (preti o laici che fossero) andassero a lavorare insieme ai due maestri forgiatori. Non ricordo come andò, ma per Beppe non fu così e lui trovò lavoro come pescatore in una dei pescherecci attraccati in darsena Toscana, proprio davanti alla Chiesetta del Porto.
E così divenne un singolare trait-d'union fra il mare e la nostra campagna.
Soffriva di mal di mare, pativa molto il freddo e quando tornava, vedendolo apparire alla porta di cucina capivo che quella stanza per lui era la sicurezza dell'approdo. Ricordo che si metteva accanto al fuoco un po' stordito e gli preparavo qualcosa di caldo. Poi c'era il rito di aiutarlo a levarsi i grandi stivaloni di gomma e mettere i piedi a mollo...
Qualche volta arrivava con i suoi amici pescatori ed allora cenavamo tutti insieme. Per loro venire in campagna era una novità - per Beppe, invece, la nostra casa era il naturale porto di arrivo. Ci raccontavano le sue prodezze in mare e lo prendevano in giro con aria complice perché era di cuore troppo tenero con i pesci e perché voleva sempre tornare a casa.
Da lì ci spostammo dopo un paio di anni verso la Chiesetta del Porto dove da allora Beppe ha sempre vissuto, salvo un periodo di dieci anni in cui scelse di fare il balio, come gli dicevo scherzando, prendendo in affidamento quattro fratellini (5/11 anni) ed accompagnandoli fino oltre l'adolescenza. Anche la sua dimensione paterna, che come modi e come qualità di attenzione era essenzialmente materna, - gli derivava dal suo lato di puer, capace di attingere in libertà alla parte femminile della sua personalità.
E' stato solo nell' ora solenne della morte che ho visto l'altra faccia di Beppe. In quel momento sacro le parti nascoste vengono alla luce per avviarsi verso la Rivelazione, rivelando la nostra completezza. Lo guardavo stupita nella sala di Rianimazione al S. Chiara, dove un amico medico fece entrare me, Mirella e Luigi per permetterei di riabbracciarlo un'ultima volta. Mentre lo salutavo carezzandogli leggera il volto reso violaceo dalla prolungata ipossia, ne coglievo l'espressione concentrata, assorta, seria, prosciugata. Era diventato essenziale. Quanto non era stato vissuto consapevolmente nei suoi anni trascorsi con spirito lieve ed anima abbandonata lo aspettava al varco. Ha sperimentato tutto insieme il lato scuro e pesante della vita. Le sue ultime ore di battaglia senza tregua, gli arresti cardiaci che si erano susseguiti dopo l'infarto devastante che lo aveva colto, le convulse manovre di pronto soccorso subite, i brevi periodi di bonaccia fra un momento acuto ed un altro lo hanno reso come un pellegrino antico: essenziale e stanco era alfine arrivato alla meta. Solo allora il puer si è ricongiunto col senex e Beppe ci ha indicato di quanta fatica è colma la vita. E' stato il suo ultimo regalo: il dono della consapevolezza raggiunta.
Maria Grazia Galimberti
Torniamo a casa, dopo un mese di ricerca unica e totale di Dio, di Gesù, del Suo Mistero e del Suo infinito Amore per il mondo.
Siamo andati verso l'Oriente e ce ne torniamo col cuore carico di ricchezze e di tesori meravigliosi, mai sognati. Il miracolo si è veramente compiuto, perché Dio ha ottenuto tutto il posto che Gli conveniva: tutta la vita, tutto l'amore, per sempre.
Sono rimasto realmente conquistato, preso, trascinato via dal Suo Mistero ed ormai so bene che ogni passo sarà per Lui, per tutta l'umanità perché ci sia Lui sempre più dentro la vita e la storia degli uomini. Voglio solo che la mia vita Lui la costruisca interamente secondo i Suoi disegni. Come Lui la vuole, dove Lui ha pensato di farla fiorire e morire. Come il seme che si abbandona totalmente al destino che la mano del contadino e il vento dell'aria gli hanno assegnato. Desidero solo essere un seme di grano buono nel grande campo dell'esistenza, perché il mio esistere sia qualcosa che serve a saziare la fame di Verità, di Luce, di Gioia dei miei fratelli.
Da "La Terra di Gesù" in La Prora n. 2 anno 1964
I primi anni di Beppino Socci, prete
Stasera sono stato a portare la benedizione pasquale alle famiglie dei contadini della mia parrocchia di montagna. Sono le famiglie più lontane dalla chiesa parrocchiale, sparse fra i boschi di castagni e di querci. E sono anche le famiglie più povere di questa comunità cristiana fatta per la maggior parte di boscaioli, contadini e manovali. Lungo il sentiero tutto coperto di neve bianca e leggera, in mezzo al grande silenzio del bosco, mi sono arrampicato fino ad una casetta dove vive un uomo solo. I suoi sono andati via qualche mese fa; ma lui è voluto restare lassù, in mezzo ai suoi boschi, in quella casetta costruita con le sue mani, a finire i suoi giorni nella terra che la sua famiglia ha abitato quasi da 600 anni. Gaspero, è l'ultimo: dopo di lui, quella casetta e quei pochi campi in cui con tenace pazienza ha piantato le viti, seminato il grano e il foraggio, resteranno nella più completa solitudine.
Sono arrivato alla casetta di Gaspero tutto sudato e stanco: avevo camminato più di mezz'ora nella neve, ancora intatta, alta quasi 30 cm. Lui mi è venuto incontro sulla porta di casa: era meravigliato e stupito che io mi fossi spinto fino lassù su tutta quella neve. "Ormai - mi ha detto - credevo proprio che quest'anno sarei rimasto senza benedizione". Ma Gaspero la benedizione ce l'ha già da molto tempo; quella che Dio riserva ai suoi poveri. Perché Gaspero è un povero, uno di quei poveri a cui il Vangelo assicura il dono della Beatitudine.
Accanto a lui, vicino al camino acceso, bevendo insieme il buon vino delle sue viti, mi sono sentito felice. Sentivo che la prima Beatitudine, quella che assicura ai poveri il Regno dei cieli, era vera. Gaspero la porta dentro, in fondo all'anima, forse senza saperlo.
In "La Voce dei Poveri" - Viareggio - Marzo 1964
Li chiamavamo "i due Beppi"
Beppino e Beppe Pratesi insieme a Castiglioni, braccianti sulle terre di principi e marchesi.
La vita che stiamo facendo ogni giorno, perduti e nascosti fra i braccianti agricoli dell'azienda dove lavoriamo ci aiuta a scoprire con nuova chiarezza e forza certe realtà del Vangelo, finora rimaste soltanto al livello di "parole". Diventano piano piano carne e sangue della nostra vita. Concretezza quotidiana di un'esistenza umana che, in questo, somiglia alla normalità dell'esistenza della grande maggioranza degli uomini. "Se uno mi ama prenda la sua croce e mi segua": queste parole di Gesù, che ci raggiungono nel vivo del nostro doloroso e faticoso cammino di uomini come un invito ad andare avanti nella speranza, mi venivano in mente mentre salivo per le piagge dei campi carico di grossi fastelli di salci appena appena tagliati.
Ho pensato alla grande croce che ogni giorno gli uomini che lavorano devono portare sulle proprie spalle e - tante volte - anche sul cuore. A questa grande croce dei poveri, che essi portano con grande dignità, senza eccessivi lamenti, con impegno e serietà spesso davvero straordinari. La croce del pane guadagnato con la fatica di tante ore di lavoro; della casa, dei figli tirati avanti proprio per la fedeltà a questo peso di tutti i giorni. Ed è una fatica e un peso che essi portano non solo per sé, ma anche per coloro che hanno pensato bene di scrollarsi di dosso questa croce che è di tutti e hanno cercato qualcuno che la portasse anche per loro. E l'hanno subito trovato: "i poveri li avrete sempre con voi". Sono proprio loro, i poveri, che hanno curvato le spalle e hanno preso su di sé, come il Cristo, la croce quotidiana di chi ha preferito i palazzi lussuosi, le vesti sfarzosi, il pane non sudato.
E anche se non lo sanno, essi, sono sempre con Lui, col Cristo, sui Suoi stessi passi, sullo stesso sentiero, perché continuano il Suo stesso destino e, cori Lui, preparano e fanno la salvezza del mondo.
Siamo molto fe1ici che l'Amore di Dio ci abbia concesso la gioia di entrare a far parte di questo popolo: sentiamo che il nostro sacerdozio è stato arricchito, completato, inserito più profondamente nella "storia della salvezza" che di continuo si svolge sulla terra. Questa croce che finalmente abbiamo ritrovato anche come "preti di Gesù Cristo" ci fa scendere nell'intimo del destino umano, arricchisce e rafforza il nostro cristianesimo, la nostra consacrazione all'Amore e al Servizio.
Siamo contenti di aver ritrovato la "nostra" Croce: l'avevamo perduta di vista, ci avevano anche detto che non era conveniente e giusto portarla, volerla riprendere sulle proprie spalle. Ora che invece ci è stato possibile riabbracciarla, abbiamo avuto l'immensa gioia di fare una scoperta che ci ricolma il cuore di felicità: su quella croce abbiamo ritrovato anche Lui, il Signore Gesù, che ci attendeva.
Da "Popolo di Dio", idee e esperienze della Comunità Parrocchiale di S.Maria - Viareggio - anno 2, n° 4 - gennaio 1969
Beppe ''il pescatore": pesce e pane
Il mio lavoro è antico quanto l'uomo e quindi ha conservato - pur nella evoluzione storica dei mezzi tecnici - un suo carattere "primitivo" che gli deriva dal suo rapporto con le forze della natura: il vento, la pioggia, il giorno e la notte, la bonaccia e il "marettone".
Questo fatto lo rende duro e spesso incerto.
Lavoro da circa un mese su un motopeschereccio (il "Libeccio") per la pesca mediterranea: è una grossa barca di 143 tonnellate di stazza, lunga 31 metri e larga 6, con la "coperta" tutta ingombra delle attrezzature necessarie al mestiere. C'è un grosso verricello, per la trazione del cavo d'acciaio della rete; ci sono le tre piccole imbarcazioni indispensabili per la pesca notturna (due "lampare" e una "stazza'') e, in fondo, sul piano di poppa, la grande rete (circa 700 m.) con tutti i suoi ornamenti di sugheri, piombi, corde e anelli di ferro.
Sotto coperta, come a dire nel "ventre" della barca, è sistemato il potente motore (600 HP) e una grande "ghiacciaia" adatta a conservare il pesce.
A prua, ci sono le cuccette dei marinai e una piccola sala che serve anche per i pasti (più frugali e austeri che in un convento) e sopra, in alto, a dominare l'orizzonte e la distesa del mare, la cabina di comando.
E' da lì che il capitano organizza e dirige la pesca di ogni notte: pesca chiamata del "pesce azzurro" o del "ciaciolo", perché è diretta ad un tipo di pesce particolarmente sensibile alla luminosità e che quindi bisogna prendere di notte (sono sardine, boghe, acciughe, sauri, sgombri...).
La battaglia inizia perciò appena fa buio: l'occhio luminoso dello scandaglio scruta il fondale, seguito dall'occhio attento del capo-pesca. Vengono calate in mare le due lampare, munite di un grosso generatore elettrico: le potenti lampade riflettono il loro chiarore sul pelo dell' acqua ed è la loro luce che costituisce l'esca per il pesce e lo attira piano piano nella trappola: il pesce, se "lavora bene", comincia a salire verso la superficie e a radunarsi nella zona dove sono ancorate le lampare.
L'attesa dura finché non c'è pesce sufficiente a giustificare la "cala" della rete: la barca gira intorno alla zona illuminata e segue, come una sentinella sempre all'erta, il movimento del "nemico". Può essere a mezzanotte, o poco prima dell'alba (tutto dipende dalla stagione, dal vento o dalla luna...) che si cala la rete: è un largo giro che viene tracciato all'intorno delle lampare, come a stringere in un cerchio di morte i piccoli esseri ingannati dalla luce.
Appena scesa completamente in mare, il grosso cavo d'acciaio che regge la rete comincia a fischiare intorno al verricello che lo riporta a bordo, costringendo la rete a chiudersi e a diventare come una grossa mano che lentamente stringe la sua preda, fino a rinserrarla nell'ultima "sacca" dalla quale verrà issata a bordo e messa a riposare - per breve tempo - nella ghiacciaia.
A operazione finita, c'è un quarto d'ora, venti minuti di riposo: si mangia qualcosa, si riprende fiato un momento, poi si scende "a basso".
E' il secondo tempo della battaglia: come ad una catena di montaggio, il pesce va velocemente incassettato (sono cassette di circa l0 kg.), naturalmente scegliendolo secondo la qualità.
Si lavora nell'umido, in piedi (se non c'è mare mosso è già una fortuna). Se il pesce è abbondante, si lavora fino all'arrivo in banchina e anche dopo.
L'orario di lavoro del pescatore oscilla sempre fra le 12 e le 16 ore ogni volta: quando non fa cattivo tempo e la pesca è buona, questo ritmo di lavoro può durare diversi giorni, senza interruzioni.
Mi diceva uno di loro: "Il pescatore deve mangiare quando non ha fame, dormire quando non ha sonno e lavorare quando non ne avrebbe voglia".
Se il mercato è buono, se il gioco commerciale non gira troppo male, tutta questa fatica è compensata da un guadagno che visto sul piano economico può far l'impressione di essere discreto.
Guardato sul piano dell'uomo, di quanto gli viene chiesto per portare a casa una buona "busta" (in media, 150.000 lire al mese, per questi sette o otto mesi della stagione), il pane del pescatore sa sempre d'amaro.
In "Lotta come Amore" - Viareggio - aprile 1971
La famiglia di Beppe
Ricordava e citava spesso i detti del suo zio Angiolino, uomo di vivace e limpida coscienza.
Sullo zio Luigi ha scritto questo articolo.
Poco tempo fa è morto un mio parente e così com'era giusto ho partecipato al suo funerale. Un uomo semplice, come tanti; un vecchio contadino, bloccato negli ultimi tempi su una carrozzina, che si è spento come una candela sopraffatto dal vento troppo forte della vecchiaia. Era un "ragazzo del '99" ed aveva quindi compiuto il suo cammino.
Una vita come la sua (84 anni) è una lunga pagina di storia che racchiude avvenimenti dei quali portiamo ancora i segni, le speranze, le amarezze e i sogni.
La sua prima esperienza fuori del piccolo spazio della sua terra, del suo podere di mezzadro di una grande fattoria di una famiglia principesca fu la "grande guerra".
Lui che la guerra non sapeva neppure cos'era (non aveva Ietto nemmeno un libro di storia) si trovò sbalzato sul fronte del Piave a soli 18 anni. E fece di tutto per venirsene via e ci riuscì col suo istinto contadino che lo richiamava ad un concetto di patria concepita come la casa, il campo, la stalla, gli amici, il paese dov'era nato e cresciuto. Dopo quella bufera di cui forse non capì né il significato né la portata se ne tornò a seminare, a mietere, a vendemmiare, a spremere olio, a tirare avanti la sua famiglia. Da lui, come da tanti altri "senza nome", ho imparato tante cose, fin da quando ero giovane seminarista e credo che tante intuizioni riguardo al Vangelo mi sono arrivate attraverso questo stile autentico di vivere e di lavorare. Penso che sia stato realmente uno che ha "posseduto la terra", perché di certo lui l'ha amata molto di più del principe Corsini di cui era mezzadro, che aveva 40 famiglie di contadini nella sua fattoria, ma per il quale la terra era solo un oggetto, un modo di far soldi, una maniera di continuare ad essere "il padrone". Penso anche che sia stato un "costruttore di pace", per istinto, a fiuto, certamente non per una scelta consapevole, lui che aveva dovuto imparare a dire "signorsì"a soli 18 anni e andarsene sul Piave a difendere i sacri confini della patria. La patria lui l'ha difesa con l'aratro, con i buoi che curava in modo straordinario, con il grano, il vino e l'olio prodotti ogni anno col sudore della fronte, compiendo la grande obbedienza al primo comandamento della Genesi (lui che non sapeva neppure esistesse un libro chiamato così). E senza saperlo è stato fedele anche all'impegno di rendere migliore la vita, la società più giusta, più fraterna. Perché credeva che bisognava cambiare le cose, che non era giusto che ci fosse un padrone che si prendeva la fatica e il sudore dei contadini semplicemente perché era il padrone.
E ha fatto le sue lotte, le sue scelte politiche semplici ma convinte, anche se questo significava rischiare con la propria coscienza e la propria fede.
A quest'uomo istintivamente evangelico la sua Chiesa, quella che lui ha conosciuto e con la quale è vissuto fianco a fianco, non ha mai detto che era nel giusto, che la strada da battere era quella del rifiuto della guerra, del possesso della terra, della lotta non violenta ma decisa al sopruso e allo sfruttamento. Così ha sempre pensato che fra la sua vita e la sua Chiesa non c'era armonia, anzi c'era del contrasto e della separazione. Per questo credo che avesse capito che c'era qualcosa di bello nella scelta di uno della sua famiglia di essere prete-operaio, che celebrava la messa con le mani callose, che conosceva la fatica del pezzo di pane guadagnato col proprio sudore, che aveva scelto di stare dalla parte di chi è oppresso e sfruttato dai servitori del "dio-quattrino".
Anche se diceva sempre, seguendo il suo istinto arguto e sapiente, che forse sarebbe stato meglio rimanere all'ombra di uno dei tanti dolci campanili delle colline toscane, senza tentare evasioni troppo allo scoperto. Ho voluto condividere con gli amici questa semplice storia di famiglia, perché per me ha il sapore del pane appena sfornato, di un bicchiere di vino buono, di una sorsata d'acqua fresca. E' storia di popolo, affaticato e oppresso da mille padroni (compresa la Chiesa) ma che ha portato avanti la sete di giustizia e di pace. E questo popolo ha il diritto di essere ascoltato.
Da Lotta come Amore - marzo 1983
Beppe e la "sua" lotta di sempre: Smilitarizzare l'uomo!
(...iniziando a smilitarizzare la Chiesa compromessa con i cappellani militari in una struttura che è scuola di morte)
Con questo titolo assai significativo e provocante si è svolto ad Assisi dal 27 al 31 dicembre '83 un convegno giovanile sul tema della pace.
Sono state delle giornate di studio e di riflessione molto appassionata, di scambio di esperienze concrete e di progetti umili ma tenaci per giungere alla realizzazione in termini storici, quotidiani del grande sogno che Dio ci ha lasciato attraverso la parola del profeta Isaia: "Cambieranno le loro spade in falci, le loro lance in vomeri e non impareranno più a fare la guerra". Un popolo fatto di un migliaio di giovani venuti da ogni parte d'Italia a confrontare le proprie esperienze e a trovare insieme le ragioni culturali, religiose, materiali e spirituali per un cammino autentico di pace.
Fra i molti argomenti affrontati in questi giorni dedicati a studiare la via della pace ce n'era uno riguardante lo spinoso problema della "presenza della Chiesa tra i militari" con riferimento preciso alla "figura" del cappellano militare.
Il gruppo di studio al quale anch'io ho partecipato era guidato da un cappellano militare della scuola del genio della Cecchignola (Roma): la sua esposizione è stata estremamente lineare, per niente incrinata dal minimo dubbio, fondata sulla sicurezza della validità pastorale di questo modo di presenza della Chiesa dentro la struttura dell'esercito e della vita dei soldati nelle caserme. Praticamente tutto il suo ragionamento si riassumeva in questa chiarissima conclusione: "La Chiesa tra i militari si fa militare con i militari, entrando nella struttura e nell'ambiente, vivendo giorno per giorno in essi, per coglierne sino in fondo il significato. Solo in questo modo si pone in grado di portare un annuncio efficace, veramente calato nella realtà alla quale si rivolge".
I partecipanti a questo gruppo di studio non hanno assolutamente condiviso né l'impostazione né i contenuti dell'esposizione del cappellano militare ed hanno praticamente ribaltato e rimesso in discussione il modo e il senso della presenza della Chiesa nella realtà militare. La maturità e la serietà dei giovani che partecipavano alla discussione si è dimostrata veramente straordinaria, motivo di speranza per la crescita di una Chiesa nuova, diversa, veramente testimone del vangelo di Gesù Cristo.
Ricucendo i vari interventi è venuto fuori una specie di manifesto antimilitarista che esprime molto bene la sostanza del "vangelo di pace" annunciato e vissuto da Gesù e del quale tutta la Chiesa deve essere fedele testimone nella storia. Storicamente i cristiani sono andati ad ammazzare con coscienza tranquilla.
Ci sentiamo responsabili di non aver annunciato l'unica cosa che abbiamo il dovere di dire : "tu non uccidere!". L'Evangelo deve essere elemento di distruzione delle strutture ingiuste, affinché possa nascere qualcosa di nuovo. L'annuncio di Cristo è qualcosa di più che entrare nella struttura. Cosa diciamo ai soldati? "Dio è con noi" oppure "Non uccidere"?
Il messaggio cristiano è un messaggio di pace e di amore. La Chiesa deve combattere tutte le forme di violenza compresa quella militare. Il modo di agire della Chiesa deve essere il modo di Cristo, che è la semplicità e la povertà. Cristo ha scelto ed ha proposto di morire piuttosto che uccidere. Il cappellano militare stando nell'esercito, che è una struttura di violenza e di morte potenziale, rende la Chiesa complice di questa macchina che per difesa deve uccidere il nemico.
La Chiesa dovrebbe impegnarsi molto di più a sostenere l'obiezione di coscienza, le varie forme di servizio civile; e ritirare i preti dalla struttura militare, costruendo una cultura di difesa popolare non violenta, che è una difesa civile, alternativa a quella militare.
E' necessario recuperare come comunità ecclesiale il senso collettivo della responsabilità nei confronti della violenza strutturale espressa storicamente negli eserciti. Il "non uccidere" non è un semplice "consiglio evangelico", ma comandamento divino scritto su tavole di pietra e che impegna ogni credente.
Un interrogativo finale dei giovani: "perché voi sacerdoti non potete usare le armi (codice di diritto canonico) e noi semplici cristiani, sì? Perché io posso e devo uccidere (in guerra) e tu no?
Da Lotta come Amore - gennaio 1984
Un teatro per la pace: il grande sogno.
E' trascorso ormai un anno da quando ci siamo messi in giro a "predicare la pace" con lo spettacolo teatrale "Le ombre di Hiroshima" che don Sirio ha scritto e che insieme ad un piccolo gruppo di amici siamo riusciti a mettere in piedi. Amici molto diversi fra loro, ma tutti desiderosi di dare un po' del proprio tempo e delle proprie energie a questo grande sogno della pace. Perché proprio di sogno si tratta: di una visione della vita raccolta prima nel profondo del cuore, alle radici stesse dell' esistenza, e poi resa pubblica, gridata, raccontata a forza di gesti e di parole. Una visione che parte dall'esperienza tragica e terribile della prima bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e poi si allarga fino al nostro tempo così carico di pericoli concretizzati nell'enorme potenziale nucleare che i "grandi" hanno progressivamente accumulato sulle nostre teste, nascosto - quasi fosse un tesoro prezioso - nelle profondità della terra e del mare.
Un annuncio, questo del nostro teatro per la pace, che non vuoI far leva sulla paura, perché la paura è sempre e comunque una cattiva madre, anche se a volte può produrre qualche frutto positivo. Un annuncio invece che vorrebbe scavare dentro le coscienze, prendere il "cuore" dove ogni uomo e ogni donna potrebbero ritrovare il senso della vita e rendersi conto dell'assurdo che è nascosto nella logica purtroppo cresciuta e crescente dell'equilibrio del terrore, del riarmo ad ogni costo (magari fino all'olocausto di milioni e milioni di esseri umani).
A me è sembrato di andare in giro nei teatri, nelle chiese, in qualche piazza, a compiere un'opera che assomiglia tanto alla visione che pare S. Agostino abbia avuto a proposito di tutt'altra questione: un bambino che con una conchiglia cercava di svuotare il mare!
Forse anche noi col nostro girare qua e là in veste di modestissimi "attori" con le nostre attrezzature da saltimbanchi, assomigliamo a quel bambino della visione. Vorremmo tentare di svuotare il gran mare della violenza organizzata, l'oceano degli arsenali militari, degli eserciti sempre pronti alla lotta, delle centrali del potere politico ed economico che sono sempre dietro ogni militarismo, della sottile e ben attrezzata cultura della guerra che ogni popolo ha pagato a prezzo di fiumi di sangue. Forse quello che abbiamo fatto e che continuiamo testardamente a fare è solo un ingenuo e infantile tentativo di portar via da quest'oceano amaro della storia umana qualche goccia, con l'assurda speranza che si realizzi il grande avvenimento sognato da Isaia: "Forgeranno le loro spade in falci, le loro lance in aratri e nessuno imparerà più il mestiere della guerra".
Così il nostro sogno ingenuo e infantile si ricollega misteriosamente al sogno stesso di Dio. Quel sogno che storicamente si è fatto visibile nella vita di Gesù di Nazareth, del quale vorremmo essere umili, ma fedeli testimoni. Sulla linea della sua lotta, dei suoi sogni, delle sue speranze forse si può collocare anche questo nostro "girare per le città d'Israele" nel tentativo di provocare una presa di coscienza che conduca a delle risposte precise contro la logica della guerra e per una cultura e una vita di pace.
...Con la nostra umile conchiglia fra le mani, noi continuiamo nel folle tentativo di svuotare il mare...
da Lotta come Amore - giugno 1984
"Voi dovreste andare da don Beppe che, da poco tempo, ha preso in affidamento quattro fratelli".
Ricordo queste parole di don Rolando, dal quale, trasferiti da Sesto Fiorentino a Viareggio, eravamo andati, con i nostri due figli adottivi, per cercare punti di riferimento nella nuova città.
Non perdemmo tempo, conoscemmo Beppe e i ragazzi e, inutile dirlo, diventammo subito amici. Aveva incontrato quei bambini all'Istituto De Sortis di Viareggio; si era innamorato subito, in special modo, di una di loro. Era una bambina di cinque anni con problemi di deambulazione. Lella (questo era il diminutivo di Stefania) aveva due sorelle, Gennj preadolescente e Paola di otto anni, e un fratello Nicola, gemello di Paola, tutti ospiti dell'Istituto. Beppe decise di prenderli con sé almeno fino a quando non si sarebbero risolti i problemi della famiglia d'origine.
Così iniziò la sua avventura di padre di famiglia che durò dieci anni, dalla fine del 1975 al 1985. Sì, il lavoro era tanto: fare la spesa, pensare al pranzo e alla cena, portare i figli a scuola, seguirli nei compiti... educarli, risolvere i piccoli (a volte anche un po' grandi... ) problemi quotidiani con Gennj; inoltre c'era il problema di cercare casa in affitto. Per fortuna, tramite amici, ha sempre trovato, ma nei mesi estivi doveva lasciare perché, come si sa, a Viareggio, le case servono per la stagione, per cui i traslochi furono veramente tanti... Fino a che nel settembre del 1980 finirono le peregrinazioni perché gli amici di sempre e molto generosi Eugenio e Grazia, gli affidarono l'appartamento nuovo sopra la loro casa al Comparini, un quartiere di Viareggio vicino al viale dei Tigli.
Quella di Beppe diventò la famiglia più aperta che io abbia mai conosciuto. Era impossibile non rimanere affascinati da quel gruppetto di bambini e dal loro padre, sia per il carattere di Beppe - tutti sappiamo com'era - sia per la dose di simpatia di Stefania: chi poteva sottrarsi ai suoi abbracci così particolarmente impetuosi e gioiosi ?!?
L'amicizia sconfinava da Viareggio e in particolare, ad Aosta, c'era un bel gruppo di famiglie da cui Beppe con i suoi ragazzi (molte volte anche con altri), si recava in vacanza. Con facilità aveva imparato il nome di tutte le piante, pianticelle ed erbe che crescono spontaneamente lassù. Sapeva a cosa servivano e quali mali potevano curare. Dopo le lunghe e faticose camminate gli piaceva, in prossimità dei ruscelli, togliersi gli scarponi e, con la felicità di un bambino, sguazzare dentro l'acqua gelata; era affascinato da quelle cime così imponenti che erano là da secoli e lì sarebbero rimaste nonostante lo scorrere del tempo e delle storie di ciascuno. Le sue considerazioni davano il senso dell'eterno.
Iniziarono poi gli "scambi culturali", come li chiamava lui, fra tutti gli amici: incontrarci, a turno, nelle rispettive case per cenare insieme e scambiarci, oltre ai piatti cucinati ciascuno alla sua maniera, momenti di gioia, dubbi reciproci, aspetti dell'educazione dei figli, oppure, perché no, godersi insieme un bello spettacolo in TV. Ci stava particolarmente a cuore il problema dei tanti ragazzi rimasti in Istituto che non avevano la possibilità di essere adottati, ma che potevano avere un'alternativa con l'affidamento familiare. In quegli anni questa nuova forma di aiuto alle famiglie in momentanea difficoltà, era poco conosciuta; fu proprio Beppe a proporla con grandissimo entusiasmo e competenza a tutte le persone sensibili a quelle tematiche, in modo che potessero, a loro volta, riproporre su scala più vasta il problema.
Quest'opera di sensibilizzazione, anche se non portò a risultati consistenti al momento, contribuì senza alcun dubbio a gettare un seme che sarebbe successivamente maturato.
Intanto gli anni passavano e i ragazzi erano cresciuti; uno alla volta tornarono in famiglia. Quando anche l'ultima, Stefania, tornò definitivamente con i genitori, Beppe tornò alla Chiesetta in Darsena con Sirio e Luigi.
Paola
"Non ho tempo per dire messa tutti i giorni: ho cose più importanti da fare", diceva qualche volta. Tra queste cose importanti non c'era sicuramente quella di pensare a se stesso.
Così don Beppe Socci è andato incontro alla morte senza aver tempo per preoccuparsene...
...Un infarto improvviso, devastante. Inutili i primi soccorsi all'ospedale di Viareggio, inutile la corsa disperata verso Pisa: è morto sull'ambulanza, lasciando i suoi occhi come speranza di luce per qualcuno, la sua vita come grande messaggio.
Ma anche un dolore lacerante, un senso di vuoto, quasi rabbia, che fa dire "non potremo tirare avanti senza di lui"; una disperazione che attanaglia chi gli è stato intorno, chi l'ha visto spendersi per gli altri, per gli ultimi, sempre senza distinzioni, senza chiedere patenti o redenzioni - tanto da sentirsi rimproverare qualche volta anche da chi gli stava vicino tanta disponibilità illimitata -, convinto che solo così poteva cercare di seguire il filo vero del messaggio evangelico.
Roberto Bernabò - Il Tirreno - 20 gennaio
E' morto don Beppe, prete operaio
E' morto don Beppe. Quattro parole e poi il silenzio, lo stordimento, la terra che frana sotto i piedi. Ieri è cominciata così una delle giornate più tristi di Viareggio, da ieri siamo più poveri. "Non riesco a riprendermi, era una persona così vitale". E' lo sfogo immediato dell'ex sindaco Andrea Palestini. "Era un uomo che nessuno proprio poteva collegare con l'idea della morte. Don Beppe era l'essenza della Darsena con le sue attività, gli operai, i pescatori, i sentimenti religiosi...". Sì, don Beppe era una figura di rottura con tutti i cliché. Prete operaio, animatore della cooperativa Crea, motore del laboratorio Arca dove tanti ragazzi disabili hanno imparato lavori artigianali... E quanti, in città, hanno fatto impagliare le sedie a quei ragazzi!
Beppe Nelli - La Nazione - 20 gennaio
"Ci chiedevamo: ma lui che ne pensa?"
Per molti anni, quando la darsena era veramente un quartiere operaio (oggi sono oltre 2.000 lavoratori in meno), non c'era fatto significativo che non vedesse la partecipazione attiva di Don Beppe. Noi stessi spesso ci chiedevamo: Beppe cosa ne pensa? Lui ci sarà? E di solito non mancava, come nella lunga quanto inutile battaglia per salvare la Fervet, nei momenti difficili per la Sec o i cantieri Benetti, nel quotidiano impegno a favore dei lavoratori. Spesso ci anticipava specie quando si trattava di problemi legati alla pace, al militarismo, all'obiezione di coscienza. Così come ha anticipato tutti, comprese le istituzioni, quando si è trattato di mettere in piedi qualcosa di veramente concreto per aiutare le persone in difficoltà.
Roberto Pucci - La Nazione - 21 gennaio
Beppe era questo!
Immediatezza, questa la prima cosa, la prima sensazione che ho provato conoscendo Beppe. Fu al Capannone, naturalmente, assieme ai ragazzi...
... A me che chiedevo quali fossero le attività "Non è a me che devi chiedere", diceva, "parla coi ragazzi, sono loro i veri protagonisti del Capannone". Beppe era questo. La sua anima, la sua mano, la sua direzione c'erano, ma riversati sugli altri.
Mai invadente, mai appariscente, anche se in primo piano. La sua era una presenza discreta, ma molto presente.
...Voleva essere il tramite, non il personaggio di spicco, segnalava sempre qualcosa di buono che si stava facendo insieme, anche se era lui l'anima propulsiva. Immediato, diretto, con quella capacità tutta toscana di venire subito al punto, con semplicità, senza fronzoli, efficace. Beppe era questo.
Angela Rosi - Luna Nuova - febbraio '98
"L'amore conosce la sua profondità solo al momento del distacco" (Gibran)
Avevo conosciuto Beppe da non molti anni, ma l'intesa con lui era stata immediata. Ci accumunava il servizio ai fratelli in difficoltà. Inoltre per me era anche un prezioso punto di riferimento per superare le difficoltà legate ai problemi dei profughi albanesi. La sua esperienza fatta in occasione dell'intervento in Albania con il M.I.R. è stata determinante per risolvere alcune situazioni.
Nella bottega dove lavorava si praticava un artigianato dal sapore antico e con tempi di lavoro a misura d'uomo. In essa ha trovato accoglienza ogni tipo di emarginazione: dai disabili ai disadattati agli immigrati. Ma era soprattutto un luogo di scambio di esperienze e valori: mentre le mani intrecciavano i fili di paglia, il cuore si arricchiva di amicizia e si alleggeriva delle angosce.
Franco Brogi - Caritas di Firenze - febbraio 1998
Ho visto passare il popolo di don Beppe.
Un lungo corteo accompagnava don Beppe per l'ultimo saluto al palazzetto dello sport in Darsena. Tra quei volti riconoscevo i compagni, i fratelli direbbe Beppe, con cui ho condiviso per alcuni anni l'esperienza del teatro di Don Sirio, delle battaglie nonviolente contro, alla ricerca di un punto fermo per rilanciare quel "far guerra alla guerra, per poter iniziare a costruire la pace"...
Scorrevano davanti ai miei occhi i volti dei pescatori, i giovani, tantissimi giovani mescolati agli anziani, gli handicappati, gli ultimi, le autorità, i volontari, le donne a formare quei gruppi di umanità diversa che oggi è sempre più difficile incontrare, così "intrecciata" e varia.
Ho visto passare il popolo di don Beppe. Tante persone, ognuna delle quali ne portava dentro una parte, un saluto, un sorriso.
Intorno alla sua bara, ai preti operai ed ai più stretti compagni di strada, da quel popolo commosso, traspariva il lavoro tenace e caparbio di un uomo mite che si è fatto "trasparente" alla Parola cui è stato fedele ed innamorato fino in fondo.
Un lavoro buono, per il quale, certo, ne è valsa la vita, caro Beppe.
Guglielmo Sonnenfeld - Luna Nuova - febbraio 1998
Ciao Beppe, maestro di sorrisi.
...Quei sorrisi che lui ha insegnato a tutti perché "non costano nulla e sono quanto di più rivoluzionario c'è".
Piangere don Beppe che non c'è più sarebbe la cosa più naturale. Ma c'è la sua lezione, viva, feconda, che ti dice di far vincere la speranza. Così, scosse dall'onda della commozione, oltre tremila persone passano dalle lacrime al sorriso mentre una vibrazione attraversa tutti, in un palazzetto dello sport diventato il luogo per ritrovarsi insieme e dire "Ciao Beppe". All'ultimo momento infatti il programma è stato cambiato. Nella chiesa dei Sette Santi Fondatori in via Trento non sarebbero potute entrare che poche decine di persone mentre era tutto un quartiere, tutta una città che voleva salutare il suo prete operaio; il prete del sorriso e della mitezza, ma anche il prete schierato, il prete della non violenza, che sapeva unire l'altezza della riflessione all'agire quotidiano umile.
Tante motivazioni, tante ragioni per esserci. Un lungo serpentone così si è mosso alle 14.30 dalla chiesetta del porto, mentre sulle barche dei pescatori sventolavano le bandiere nere, i consigli di fabbrica srotolavano i loro striscioni e sulle porte di tutti i negozi brillava un "Grazie Beppe ... indifferenti mai", firmato dai ragazzi della Crea...
Un saluto davvero inusuale... Così per più di un'ora, subito dopo le letture, al microfono vanno in tanti per offrire uno spicchio della loro esperienza, per passare agli altri una testimonianza.
Ecco i vecchi amici preti operai che ricordano di aver imparato da Beppe "la capacità di fare le cose serie con ironia", ecco chi, indicando quella folla che riempie il palasport si chiede "Ma chi lo diceva che per il prete non era il caso di andare a lavorare in fabbrica?", e qualcun altro che ripercorre il cammino di Beppe con don Sirio Politi, stella di questa comunità, faro di quest'esperienza di preti operai.
Poi tante testimonianze comuni per ricordare che Beppe era un rivoluzionario non violento; la suora che ringrazia Dio per averci dato Beppe con il suo amore per i piccoli; il parrocchiano che invita gli altri a proseguire nel segno del suo insegnamento; il prete che ne trae una lezione per tutti i sacerdoti della Versilia... E' un fiume in piena che travolge tutto.
Ciao Beppe.
Il Tirreno - 22 gennaio 1998
Sono approdato su questo pezzetto di terra, dove Sirio aveva messo radici dal 1956, riparando una casetta mezza diroccata dalla quale era nata la chiesetta dei pescatori ed alcune stanze di abitazione. Sirio mi ospitò con grandissima amicizia e mi accolse in casa sua offrendomi la cameretta vicino alla porta d'ingresso: allora non potevo immaginare che sarebbe diventata (dal 1970 in poi) la "mia" camera. Ero venuto, in quel settembre del '62, con il rettore del seminario di Firenze, Mons. Gino Bonanni, che volle accompagnarmi per vedere di persona questo prete-operaio di cui gli avevo parlato, dopo la scoperta che avevo fatto dell' esistenza di don Sirio attraverso il libretto che, per caso, mi era capitato fra le mani, dal titolo molto significativo "Una zolla di terra". Fu quel piccolo libro, racconto appassionato di un percorso interiore, che dette carne e sangue ai desideri e alle attese che mi portavo dietro da alcuni anni. Mi parve, leggendolo con intensa commozione, di aver trovato quello che cercavo. Lavorai per un mese con gli scaricatori del porto, ricevendo da loro il mio "battesimo" di lavoratore! Fu una scoperta semplice e, nello stesso tempo, di enorme intensità. Volevo rimanere lì, in quel angolo di terra, affacciato sul canale, circondato allora dai pescherecci, dalle reti, dagli attrezzi di lavoro. C'era, allora, una "musica" molto speciale che ora, con le trasformazioni sopravvenute, mi manca e della quale avverto la nostalgia: il gridare intenso dei battitori d'asta, per il mercato del pesce; il "canto" potente dei motori diesel che sembravano penetrare fin dentro la casetta, l'intreccio delle voci dei pescatori che in varie "lingue" (siciliani, viareggini, marchigiani) dialogavano quasi in continuazione. Su tutto si stendeva, al momento del mercato, lo stridio dei gabbiani pronti a tuffarsi al minimo bagliore delle squame di un pesce gettato in acqua. Questo piccolo angolo di mondo, che Sirio ha amato intensamente, trasformandolo da terra abbandonata (il "cantaccio" lo chiamavano i darsenotti) in giardino accogliente e bello, è diventato per me un luogo molto speciale. Da allora, da quel settembre del '62, l'acqua del canale ha portato via molte cose con quel suo scorrere quasi impercettibile verso il mare. Anche Sirio se n'è andato verso spiagge di cui non ci è dato conoscere gli orizzonti, se non nell' abbandono fiducioso al Padre, che conosce i segreti della vita e della morte. Anche nella mia piccola vita sono cambiate tante cose... Tuttavia questa "zolla di terra" rimane il luogo privilegiato della mia esistenza, uno spazio semplice nel quale mi "riconosco", come la casa dove siamo nati, il luogo del primo amore, il punto in cui il fiume, finalmente uscito alla luce del sole, ha iniziato a scorrere verso il mare. E di questo sono immensamente felice e riconoscente...
Beppe Socci
Luigi Sonnenfeld
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